CICCARELLO di Francesco di Bentevenga
Nato da Francesco di Bentevenga nella città di Sulmona, dove esercitò l'attività di orafo e dove il bisavolo Pietro di Girardo da Raiano era immigrato intorno alla metà del Duecento, ebbe il nome di Ciccarello per essere distinto dal fratello maggiore a cui era stato imposto il nome del padre. La precisa data di nascita di C. è sconosciuta, ma può comunque attendibilmente collocarsi negli ultimi anni del XIII sec. o nei primissimi del successivo. Avvalorano tale supposizione la morte dei padre, documentata già nel 1303, e l'ultima menzione archivistica che lo riguarda direttamente di poco posteriore al 1370. Le prime notizie risalgono al 1333. Nel ventennio che segue, vari documenti attestano i consistenti investimenti immobiliari dell'orafo, in palese coincidenza col periodo della più intensa operosità, ma non forniscono elementi sufficienti per delineare una biografia più dettagliata o per meglio definirne la personalità. Morì sicuramente prima del 1376; nel catasto sulmonese di quell'anno, infatti, non figura il suo nome ma quello del figlio "Masius Ciccarelli", suo unico erede, al quale è intestato l'intero patrimonio.
Non sono accertati trascorsi artistici tra gli ascendenti, dediti, a quanto sembra dedursi da qualche indizio, al commercio della lana. La sua attività di orafo è provata esclusivamente dalla scritta "Hoc opus fecit. Ciccar̄lus Frācisci", apposta su una fascetta smaltata inserita alla base del fusto di un calice d'argento dorato, conservato nel Tesoro della cattedrale di S. Panfilo in Sulmona. Nelle carte d'archivio, infatti, la professione non è mai specificata, particolare che, comunque, non desta sorpresa poiché nei documenti locali dell'epoca la qualifica di aurifex compare solo occasionalmente. In contrapposizione alla relativa dovizia delle oreficerie sulmonesi ancora conservate nelle chiese e nei musei, meraviglia, difatti, la penuria di contratti, di rogiti notarili o di ogni altra documentazione che, in genere, accompagna le attività artigianali e commerciali, tanto da poter ipotizzare la totale dispersione di uno specifico archivio destinato a suo tempo a raccogliere gli atti della corporazione. Tale scarsa consistenza documentaria rende più arduo anche il problema della formazione artistica di Ciccarello. È stato supposto un periodo di apprendistato o di perfezionamento in Firenze; non è da escludere, però, che maturasse le prime esperienze nelle botteghe locali, già nel primo Trecento non prive di tradizioni e di ampi sbocchi commerciali in Abruzzo e nelle regioni finitime. Per la favorevole posizione geografica, che, in quel tempo la poneva lungo la via di intensi traffici mercantili, Sulmona era aperta ai vivaci influssi. culturali che vi convergevano dalla Napoli angioina e dagli, altri centri più progrediti della penisola.
Tale circostanza giustifica appieno l'impronta tipicamente toscana del calice della cattedrale di Sulmona, unica opera autografa conservata di Ciccarello. A somiglianza degli esemplari senesi e fiorentini, la coppa dorata si inserisce in una sotto coppa a nicchiette trilobate con angeli musicanti, alla cui bellezza nulla toglie la caduta degli smalti, e imposta sul prisma esagonale del fusto poggiante sulla base a pianta poligonale mistilinea, ornata da motivi vegetali a cesello e da sei medaglioni con busti di santi a smalto. Ancora smalti traslucidi con figure di santi nelle targhette cuoriformi del nodo e di leggiadri volatili lungo il fusto, anche se qua e là deturpati da scrostature, arricchiscono con smagliante policromia l'elegante struttura dell'arredo. Una patena con al centro una deliziosa Annunciazione accompagna il calice, in un insieme d'eccezione, tra le più belle realizzazioni del Trecento artistico abruzzese. In passato, nel tentativo di dare credito alla tradizione locale, che vuole questo calice e relativa patena doni di Cosimo de' Meliorati, il sulmonese asceso al soglio pontificio nel 1404 col nome di Innocenzo VII, ne fu abbassata la datazione di alcuni decenni o, per sfatare tale credenza e provare il contrario, lo si ritenne addirittura di epoca posteriore alla morte del papa (1406). L'iscrizione dedicatoria al santo venerato nella maggiore chiesa sulmonese, incisa sul, nastro bulinato sotto l'orlo della coppa, non sembra avvalorare la tesi degli storici locali, ma indica piuttosto che l'opera fosse stata espressamente eseguita per la cattedrale. D'altro canto gli elementi stilistici e il marchio dei tipo in uso nel pieno Trecento apposto sulle lamine d'argento, nonché i dati biografici dell'artista e del pontefice (nato nel 1336 e nel 1370 ancora semplice rettore) ne consentono una ben diversa collocazione cronologica che, in ogni caso, non potrebbe essere attardata troppo oltre il 1370. Anzi, questo calice, da cui non traspaiono segni di scadimento qualitativo imputabili all'età avanzata, per l'accuratezza dell'esecuzione si qualifica piuttosto come lavoro, della piena maturità artistica, per cui può essere ragionevolmente anticipato intorno alla metà dei secolo. Da tale più consona definizione temporale dell'opera emerge una ben diversa personalità che più autorevolmente si inserisce nel contesto dell'oreficeria medievale italiana.
A C. si attribuisce anche un pastorale dello stesso Tesoro - altro creduto dono di Innocenzo VII - che in alcuni motivi iconografici e decorativi ricorda da vicino il calice. Comunque, se non proprio a C., questo prezioso cimelio, che racchiude nel riccio una raffinata Annunciazione a tutto tondo, può essere giustamente riferito a quella ristretta cerchia di orafi che svolsero la loro attività nell'ambito della sua bottega.
Tra gli altri merita di essere ricordato il figlio Masio, del quale si hanno notizie a partire dal 1351. Le fonti archivistiche tratteggiano aspetti diversi della sua esistenza - chiusasi nel 1394 - ma, al solito, fanno solo sporadici accenni alla attività artistica. Firmò la croce d'argento della parrocchiale di Montedinove (Ascoli Piceno), opera non eccelsa ma ugualmente significativa per la storia, dell'oreficeria abruzzese, poiché documenta i primi riusciti tentativi per superare col plasticismo delle figure e con innovazioni iconografiche i tradizionali modelli bizantino-romanici a cui è informata tutta la produzione sulmonese precedente. Notizie di un'altra croce, commissionata dal vescovo di Capua Stefano Sanità, ci sono state trarnandate da F. Ughelli (Italia sacra, VI, Roma 1659, pp. 427 s.), e di un'altra ancora, lasciata incompiuta ai frati domenicani di. Sulmona, è rimasta memoria nel suo testamento. Lavorò probabilmente anche per la zecca locale, e sua dovrebbe essere la sigla apposta sul bolognino dì Carlo di Durazzo battuto a Sulmona nell'uffinio ventennio del secolo, in passato attribuito a "Masellus Cynelli", ma a torto, poiché di questo poco noto orafo sulmonese è documentata la morte intorno al 1370.
Bibl.: P. Piccirilli, Monumenti architett. sulmonesi descritti ed illustrati (dal XIV al XVI sec.), Lanciano 1888, pp. 100-104; Id., Iltesoro della cattedrale di Sulmona, in Riv. abruzzese di scienz e, lettere ed arti, V(1890), pp. 418-23; L. Gmelin, L'oreficeria medioevale negli Abruzzi, Teramo 1891, pp. 40, 46, 49-51; A. Melani, L'arte nell'industria, Milano 1907-10, I, pp. 438 s.; Invent. degli oggetti d'arte d'Italia, M. Gabbrielli, Provincia di Aquila, Roma 1934, pp. 206 s.; E. Mattiocco, C. e Masio de' Bentevenga orafi sulmonenesi, Sulmona 1968 (con bibl. e riferim. archi vistici); Id., L'oreficeria medievale abruzzese: la scuola di Sulmona, in Abruzzo, VI (1968), 2-3, pp. 397-400; D. V. Fucinese, Oreficeria abruzzese nelle Marche. Un'opera di Masio di Ciccarello orafo sulmonese del '300, in Dimensioni, XII(1968). 1-2, pp. 65-70; V. Pace, Per la storia dell'oreficeria abruzzese, in Boll. d'arte, LVII (1972), pp. 81, 86; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, VI, p. 569.