Cicli e percorsi di vita
L'idea di 'ciclo' implica una sequenza di eventi che scandiscono l'inizio, lo sviluppo e la conclusione di un processo con caratteristiche di unitarietà interna e di rinnovabilità.
La vita dell'uomo, dalla nascita allo sviluppo, alla morte, ha indotto spesso a uno studio segmentato per fasi lungo il ciclo o corso delle età. La biomedicina l'ha articolato attraverso genetica, auxologia e gerontologia; la psicologia sociale ha individuato le fasi di sviluppo dall'infanzia alla senilità, con le relative soglie critiche (v. ad esempio Erikson, 1968); la demografia ha determinato le probabilità di eliminazione per morte nelle diverse età a partire dalla nascita secondo vari aspetti differenziali, descrivendo inoltre quantitativamente il ciclo riproduttivo e i modi in cui si succedono le generazioni dei figli a quelle dei padri (v. Lotka, 1936).
In generale, dunque, lo studio del 'ciclo di vita' cerca di mettere in evidenza come si manifestano e come cambiano, nel tempo e nello spazio, gli eventi caratteristici che scandiscono la vita individuale dell'uomo nelle sue principali fasi di maturazione e di decadenza, e che legano tra loro le biografie individuali attraverso il processo coniugale-riproduttivo, considerando aggregati sociali più o meno vasti. Una presunzione implicita in questo tipo di studio è che vi sia una sorta di ripetizione ciclica degli eventi caratteristici nella biografia di tutti gli individui, tale da configurare una data popolazione come un insieme di generazioni contigue che si susseguono collocandosi a stadi diversi del ciclo vitale.
Sotto il profilo demografico e sociale - qui adottato - e con particolare riguardo allo studio dei paesi economicamente sviluppati, si può certamente dire che l'approccio del 'ciclo di vita' ha mostrato grande fecondità di analisi e mantiene vivi elementi di assoluta modernità e pertinenza metodologiche; esso tuttavia corre il rischio di semplificare in modo indebito la percezione del reale. Soprattutto ove si insista su una presunta 'universale ciclicità' delle fasi della vita: nei fatti si possono individuare itinerari assai differenti, con sequenze modificate e 'irregolari', seguiti da sottogruppi diversi di popolazione, tanto da suggerire la sostituzione della dizione 'cicli di vita', piuttosto rigida e aprioristica, con quella più elastica e neutra 'percorsi di vita'.
Per evidenziare meglio i pregi e i limiti dell'approccio dei cicli e percorsi di vita, conviene anzitutto far luce più analiticamente sui pro e i contro che esso presenta. Richiamiamo anzitutto gli aspetti di maggiore aderenza al reale e di modernità metodologica.
A. Un'attenzione longitudinale ai comportamenti, atta a cogliere gli eventi consecutivi che definiscono il percorso vitale dei soggetti osservati. Al contrario, analisi mediante variabili che aggregano trasversalmente i dati individuali, con riferimento a un istante o periodo di osservazione, possono nascondere sequenze particolari di comportamenti tipiche di gruppi socialmente rilevanti. Le nuove possibilità informatiche di mantenere i riferimenti individuali nell'analisi moltiplicano le possibilità esplorative anche delle scienze osservazionali (non sperimentali), attraverso nuove tecniche di rilevazione longitudinali (retrospettive e prospettive), e spingono a costruire nuovi modelli di analisi multidimensionale delle informazioni.
B. Un'attenzione agli eventi nella loro sequenza temporale e, ove utile e possibile, nella sequenza delle decisioni che essi implicano. Benché l'analisi delle cause dei comportamenti umani sia estremamente complessa e aperta a induzioni parziali e confutabili, l'introduzione del tempo cronologico e biografico ne è condizione irrinunciabile. Ogni passo successivo va visto come condizionato dai precedenti, se non si vuole rimanere bloccati in finzioni stazionarie e trascurare le condizioni di eterogeneità del reale. Sarebbe oggi impensabile, ad esempio, studiare la fecondità senza tener presente che la disponibilità ad avere un altro figlio dipende fortemente dai figli già nati e sopravviventi.
C. Legami intergenerazionali. La rinnovabilità insita nel paradigma del 'ciclo' si rivela particolarmente importante e problematica nello studio dei cicli di vita. La concatenazione delle biografie dei padri e dei figli segue vie complesse, specie, come vedremo, dal punto di vista dei 'patti economici e sociali' che le sorreggono e le modificano; ma va certamente studiata, specie in epoche di cambiamento, non potendo ritenersi autosufficienti e isolate traiettorie di vita individuali singolarmente considerate.
D'altro lato occorre ammettere che altri aspetti, non meno importanti da un punto di vista scientifico, possono risultare sottovalutati, se non distorti, da una concezione ciclica; una identificazione di tali aspetti potrebbe aiutare a superare questo rischio.
I. Benché non sia una caratteristica vincolante dell'approccio ciclico, tuttavia vi è la tendenza a esprimere, attraverso esso, le regole 'necessarie' o 'permanenti' di sviluppo sequenziale degli eventi vitali. Sotto questo profilo i risultati descrittivi migliori si ottengono mettendo in evidenza come dominanti le vicende biologiche individuali, collocate in un contesto ambientale e socioeconomico relativamente stabile. Viceversa in epoche di trasformazione accentuata (forte riduzione della mortalità, pur senza riuscire ancora a sconfiggere la degenerazione senile dell'organismo; contrazione delle nascite in un contesto di crisi dei ruoli coniugali, parentali, filiali; squilibri nei trasferimenti intergenerazionali) ciò che in qualche modo 'si ripete' entro l'intervallo nascita-morte può essere più apparente che reale. Le medesime fasi (da quella infantile a quella produttiva e riproduttiva, a quella senile) non cambiano solo durata e frequenza entro una popolazione, ma anche significato. L'esposizione delle biografie individuali alle vicende storiche determina interazioni fondamentali; si tratta dunque di tenerne conto integrando l'attenzione longitudinale con quella trasversale o di periodo (effetti legati al tempo storico). Ad esempio, R. Easterlin (v., 1973) sostiene una 'teoria ciclica' secondo cui generazioni più numerose, allevate in condizioni di benessere relativamente contenuto e destinate a vivere con redditi relativi più bassi (in connessione proprio con la numerosità demografica), metterebbero al mondo meno figli; questi si troverebbero a godere, per opposte ragioni, di redditi relativi più elevati e sarebbero più prolifici. Tale teoria implica meccanismi 'necessari' di tipo demografico (effetti di generazione), indipendenti da fattori socioeconomici che, viceversa, possono agire nel tempo, modificando le spinte demografiche. Per restare all'esempio, lo sviluppo economico può consentire redditi relativi crescenti anche al crescere delle generazioni e tuttavia favorire un decremento delle nascite (rese più onerose, specie per le donne, in termini di costi-opportunità) attraverso una sollecitazione a preferire attività lavorative anziché riproduttive: sono evidenti, in tali casi, interazioni tra inerzie generazionali e fattori evolutivi socioeconomici. Un aggancio ai processi longitudinali dei tempi in cui gli eventi si verificano può rivelarsi illuminante.
II. Le sequenze di eventi attesi entro il ciclo di vita si complicano e talora sono di difficile rilevabilità. Percorsi eterogenei rispetto alla norma si impongono più o meno rapidamente e più o meno diffusamente. Il ruolo dell'istruzione e dell'occupazione della donna, ad esempio, appare assai importante; la secolare caduta delle nascite ha visto consolidarsi negli ultimi vent'anni nuovi comportamenti di inibizione della fecondità, con interventi farmacologici e chirurgici per la prevenzione o l'eliminazione del concepimento; i matrimoni 'legali' sono in parte anticipati o sostituiti da 'matrimoni consensuali' (convivenze o coabitazioni); le rotture dei matrimoni, un tempo frutto solo della mortalità, sono oggi in gran parte dovute a separazioni e divorzi: nei paesi con alta percentuale di divorzi (ad esempio Stati Uniti, Gran Bretagna, Paesi Scandinavi, Unione Sovietica, Ungheria, Cecoslovacchia, con più di 30 e fino a 48 divorzi per 100 matrimoni negli anni ottanta), tale fenomeno, coinvolgendo anche i figli, genera una molteplicità di forme familiari diverse dal nucleo tradizionale (coppia con figli). Senza proseguire in esemplificazioni, appare chiaro che in molti paesi non vi è un solo modello di ciclo di vita assolutamente dominante: l'esistenza di più tipi di cicli di vita, con significati diversi per eventi simili (ad esempio per coabitazione e matrimonio) e con intrecci variamente complessi, induce molti a parlare di 'percorsi di vita' piuttosto che di cicli, con maggiore neutralità. A complicare la stessa costruzione concettuale e la rilevabilità dei cicli di vita, può aggiungersi l'inatteso verificarsi di feedbacks tra eventi e comportamenti. Ad esempio il rinvio della nascita del primogenito, come corollario del protrarsi dell'istruzione e dell'ingresso nel mercato del lavoro, può diventare per la donna un fattore strategico di cambiamento del comportamento riproduttivo successivo. Ancora, le condizioni di vita nelle fasi più giovani possono deteriorarsi economicamente, con conseguenze diverse, in virtù di fattori concorrenti: il divorzio dei genitori, i trasferimenti sociali a favore degli anziani e a svantaggio del comparto scolastico, la ridotta domanda di lavoro a vantaggio dei contingenti più anziani d'età (v. Davis e altri, 1986).
III. Quest'ultima osservazione sulle complicazioni dei percorsi di vita e sulle direzioni dei fattori che li scandiscono richiama l'esigenza più generale di studiare i cicli o percorsi vitali entro il contesto di interferenze ambientali ed economico-sociali in cui si svolgono. La localizzazione geografica e coresidenziale (familiare), i differenziali di sesso e di status, elementi desumibili dalle biografie individuali, vanno integrati con informazioni 'esterne' appartenenti al contesto, nella consapevolezza che quest'ultimo non è riducibile alla somma delle caratteristiche dei soggetti che vivono in esso. L'introduzione di variabili contestuali 'indipendenti' da quelle individuali nei modelli descrittivi e applicativi comporta difficoltà metodologiche specifiche (cfr. Hermalin e Blalock, in Casterline, 1985).
Alla luce delle osservazioni metodologiche precedenti, le notazioni contenutistiche che seguono valgono come spunti aperti a necessari approfondimenti, in un quadro dinamico che coinvolge storia individuale e collettiva.
Uno schema semplificato degli eventi rilevanti nel corso della vita, in funzione del sesso, dell'età e del tempo storico (nonché della forma familiare-coresidenziale in cui avvengono), è rappresentato nella fig. 1.
In realtà tali eventi riguardano varie dimensioni della vita - sanitaria, educativa, professionale, coniugale, riproduttiva - che interagiscono con risultati diversi. Aspetti ugualmente rilevanti di localizzazione nello spazio sono indicati, nello schema, marginalmente (forme di coresidenza familiare al momento dell'evento) o sono ignorati (spostamenti migratori).
Tali dimensioni si sono evolute nel tempo - ci riferiamo approssimativamente all'arco di un secolo, da fine Ottocento a oggi - in modo da segnare profondamente i percorsi di vita.I fattori essenziali che hanno generato trasformazioni a catena nel periodo indicato, nei paesi sviluppati, sono riconducibili essenzialmente alla caduta della mortalità, alla contrazione della fecondità e alla 'rivoluzione industriale' del sistema economico (v. Chesnais, 1986).
Un bambino nato nel 1880 in Italia poteva attendersi di vivere in media 36 anni; un nato nel 1980 può attendersi di vivere più di 70 anni (raddoppio della durata media di vita in un secolo); l'età modale alla morte è invece aumentata nel secolo solo da 70 a 82 anni circa. In altre parole, non si è tanto allungata la longevità dell'uomo (misurata su chi vive più a lungo), quanto piuttosto si è verificato un aumento enorme delle persone che, anziché morire nei primi anni di vita o in giovane età, sopravvivono alle età adulte o senili. In pratica, alle medesime date di riferimento si avevano i seguenti dati, per 100 nati vivi: il 35% (1880) contro il 3% (1980) di morti entro il quinto compleanno; l'80% (1880) contro poco più del 20% (1980) di morti entro 65 anni; nel 1880 l'estinzione del 50% dei nati si aveva a 30 anni, nel 1980 a 75 anni. Si rifletta sull'effetto rivoluzionario di tale trasformazione: il numero di persone viventi nel passaggio al contesto di bassa mortalità tende a raddoppiare per questo solo effetto; un terzo dei figli che si era abituati a veder morire in tenera età sopravvivono, e dunque è necessario ridurre la fecondità per avere un eguale numero di figli; la durata della vita coniugale aumenta: una coppia sposatasi a 20-25 anni (rispettivamente per la donna e per l'uomo) risulta sopravvivente, dopo 30 anni, nel 33% dei casi in condizioni di alta mortalità, nell'86% dei casi in condizioni di bassa mortalità.
Un aspetto peculiare del calo della mortalità consiste nel fatto che essa risparmia, a tutte le età, più le donne che gli uomini (una speranza di vita alla nascita maggiore di oltre 7 anni), lasciandole peraltro più sole di fronte alla morte.
La transizione della fecondità inizia, di norma, dopo quella della mortalità. Nei paesi sviluppati si passa da 5-6 figli per donna agli attuali 1-2 (v. Festy, 1979; v. Coale e Cotts Watkins, 1986). Si notino anche qui gli effetti rivoluzionari di questa caduta: il numero medio di figli riprodotti è insufficiente a rimpiazzare i genitori a livello intergenerazionale; il comportamento riproduttivo dominante consiste nell'inibire la fecondità anziché nel realizzarla, e nonostante si effettui un distanziamento delle nascite, queste sono concentrate in un brevissimo spazio della vita coniugale (di solito a 30 anni, anziché a 40, la donna ha completato la riproduzione).
L'avvento dell'industrialismo, frutto dello sviluppo di una mentalità tecnico-scientifica ed efficientistica, ha implicato modifiche radicali nel sistema dell'istruzione, nelle occupazioni produttive, nelle forme di insediamento (urbanesimo), negli stili di vita.
L'intreccio fra le tre transizioni menzionate trasforma le età della vita.
1. Prima conseguenza di tali cambiamenti è la modificazione della struttura della popolazione per sesso ed età, o 'piramide delle età' (v. fig. 2). Alta natalità e alta mortalità producono un profilo triangolare della piramide: alla base ci sono più giovani che rapidamente sono decimati dalla morte, così il profilo si assottiglia verso il vertice delle età senili. L'aumento della sopravvivenza, al passare delle età, mantiene invece sempre più consistenti i contingenti, tanto da gonfiare la piramide verso una forma rettangolare; la riduzione delle nascite, viceversa, ne assottiglia la base. L'età media della popolazione cresce, la popolazione invecchia. Le persone in età produttiva e riproduttiva devono far fronte a un accresciuto carico di anziani e a diminuite leve di ingressi. Il baricentro del sistema tende a spostarsi verso le età più anziane sfavorendo le classi più giovani in termini di investimenti sociali, di opportunità occupazionali, di potere economico (v. Davis e altri, 1986).
2. Altrettanto clamorose sono le modifiche del ciclo di vita della donna. Nel regime tradizionale di alta mortalità e fecondità una donna aveva in media l'ultimo di 5-6 figli a 38-40 anni. A quest'età poteva attendersi di vivere ancora circa 20 anni, ma rimanendo vedova a 50 anni. In pratica, tutta la vita adulta della donna risultava impegnata nel processo di riproduzione ed educazione della prole.
Nel regime occidentale attuale di bassa fecondità e mortalità, una donna mette mediamente al mondo meno di 2 figli, cessando la riproduzione a 30 anni (dopo 7 anni di matrimonio). A quest'età la donna può sperare di vivere ancora una cinquantina d'anni. L'unione coniugale a 50 anni della donna è intatta in quasi 9 casi su 10, se non sono intervenuti separazione o divorzio. Si configurano dunque età nuove della vita, sia per la coppia che rimane sola dopo l'uscita dei figli dal nucleo sia, più in generale, per la donna che vede sottratti a compiti strettamente riproduttivi circa i 2/3 della vita matrimoniale (v. Livi Bacci, 1978). Tale mutamento alimenta il processo di emancipazione femminile, le crisi di stabilità dei matrimoni, la scissione dell'effetto procreativo dall'unione sessuale, l'importanza dei metodi inibitori del concepimento e dell'aborto indotto (con relativo cambiamento dell'immagine culturale dell'embrione).
3. Le relazioni tra generazioni, già evidenziate attraverso i cambiamenti nella struttura per età delle popolazioni, assumono una rappresentazione prossima all'esperienza concreta di ciascuno attraverso la simulazione dell'evoluzione dei gruppi di parenti (nonni, padri, figli, fratelli, cugini, zii e nipoti) al variare dell'età di un soggetto di riferimento (Ego). Il risultato di una simulazione probabilistica è riportato nella fig. 3. Applicando a 1.000 individui le leggi correnti del 1700 (pre-transizionali) e di fine 1900 (post-transizionali) sperimentate in Francia, si possono ottenere, tra l'altro, le strutture per età dei parenti viventi a età successive di Ego (v. Le Bras, 1982-1983, vol. I). La maggiore differenza fra le due situazioni è la seguente: in regime pre-transizionale la parentela è assai numerosa, dispersa per categorie di relazione e per classi d'età; l'alta fecondità, manifestandosi lungo tutto l'arco delle età riproduttive di Ego, alimenta diffusamente le età basse della scala (lo stesso avviene specie per fratelli e cugini di Ego, a loro volta dispersi fino alle età adulte); l'alta mortalità sfoltisce progressivamente ogni sottogruppo: in definitiva la parentela si trova distribuita con qualche regolarità in tutte le età dell'individuo (per Ego a 35 anni di età v. fig. 3). Al contrario, in regime post-transizionale, le esperienze riproduttive risultano concentrate rispetto all'età, generazione per generazione; i pochi nati risultanti, destinati a sopravvivere a lungo, si riproducono con cadenze poco variabili; gli anziani muoiono quasi tutti a età elevate. In definitiva la parentela di Ego si trova distribuita in forma trimodale: si configurano infatti ondate interrelate di nonni-padri-figli (e parenti di generazione parallela), cadenzate per intervalli generazionali. Nel vecchio regime sia la nascita che la morte, entro la parentela, sono esperienze ricorrenti lungo tutto l'arco delle età. Nell'attuale regime l'esperienza delle nascite è circoscritta al ristretto periodo riproduttivo proprio e dei coetanei, dei figli e, non di rado, dei figli di questa seconda generazione; l'esperienza della morte è circoscritta alla fase senile dei propri genitori (e parenti coetanei) e a quella, successiva, propria e dei coetanei. La ciclicità delle ricorrenze addensa eventi vitali in ristretti archi d'età, configurando secondo alcuni (v. Hagestad, 1986) nuovi carichi di responsabilità per le generazioni di mezzo nel sostenere sia i figli, in ritardo di emancipazione, sia i genitori, non più in grado di autogestirsi (cfr. Colvez e Robine, in INED, 1982-1983, vol. I).
Qualche notazione aggiuntiva può essere fatta con riguardo ai principali segmenti delle età della vita. Cominciamo con il riferimento alle età infantili-adolescenziali.I più consistenti miglioramenti di sopravvivenza si sono avuti nelle età infantili. Ad esempio in Italia la durata media della vita, in questo secolo, è migliorata per 1/3 in dipendenza della sola riduzione della mortalità nel primo anno di vita (v. Di Comite, 1974). La sopravvivenza, assicurata progressivamente a quasi tutti i figli, ha coinciso con il prolungamento della fase della loro educazione e istruzione, al fine di favorire un ingresso più adeguato nel mercato del lavoro in regime industriale e post-industriale. Il brusco passaggio da un'infanzia breve (fino a 7 anni circa) a una giovinezza 'attiva' e dipendente fino all'età del matrimonio, caratteristico delle epoche pre-transizionali e pre-industriali, è sostituito dall'emergere di un'adolescenza 'inattiva' per larghi strati di popolazione, dedicata all'istruzione e tuttavia con tratti di indipendenza rispetto alle figure dei genitori, benché in presenza di dipendenza economica (cfr. Roussel e Girard, in INED, 1982-1983, vol. I; cfr. Galland, in Saraceno, 1986).
Nei paesi in cui si diffondono le rotture dei matrimoni per separazione e divorzio (ciò riguarda quasi tutti i paesi economicamente sviluppati, con punte che arrivano, come s'è detto, a circa 50 rotture per 100 matrimoni) una crescente frazione di bambini e adolescenti sperimenta cambiamenti della forma familiare, vivendo anche con un solo genitore e conoscendo spesso coniugi e figli acquisiti a seguito di nuove nozze dei genitori divorziati (v. Hofferth, 1985).Tre fenomeni dominanti si intrecciano nel passaggio dall'infanzia all'età adulta: l'esperienza scolare, l'ingresso nel mondo del lavoro, l'unione coniugale.
Negli anni recenti si registra un aumento dei tassi di scolarizzazione oltre la scuola dell'obbligo. In Italia nel 1981 (v. fig. 4) 3 ragazzi su 5 erano studenti a 15 anni e ancora 1 su 4 a 19 anni. Un aspetto di grande rilievo riguarda la sparizione dell'antica scolarizzazione differenziale tra ragazzi e ragazze (a svantaggio delle seconde).
All'aumento della scolarizzazione corrisponde una diminuzione della frazione di maschi attivi in età precoce. Fino ai 25 anni diminuiscono i differenziali maschi-femmine per quanto riguarda l'attività professionale. Due punti importanti riguardano la frazione di giovani in cerca della prima occupazione e i disoccupati: in Italia nel 1981 circa il 10-20% dei 20-24-enni era ancora in cerca della prima occupazione, e circa il 5% dei maschi di 20-28 anni e delle femmine di 21-24 anni era costituito da disoccupati.
L'orientamento delle giovani donne verso attività lavorative anziché verso mansioni casalinghe, dopo la fase scolare, appare evidente anche dall'aumento della frazione di quante cercano la prima occupazione.
Benché, almeno tra il dopoguerra e i primi anni settanta, vi sia stato un ringiovanimento dei matrimoni (cfr. Sardon, in AIDELF, 1986; cfr. Santini, in ISTAT, 1986), senza dubbio l'aumento della scolarizzazione per i maschi, e soprattutto per le femmine, e alcune incertezze occupazionali hanno modificato il contesto del 'mercato matrimoniale', in aggiunta ad altri fattori culturali specifici, contribuendo a rallentare tale ringiovanimento.
In ogni caso, l'ingresso nell'occupazione precede di gran lunga l'età del matrimonio (di una decina d'anni per i maschi), presupponendo questo l'acquisizione di un'autonomia compatibile con la formazione di una famiglia neolocale. Qui si inserisce la nuova componente della maggiore partecipazione delle donne alle professioni, specie nelle età giovanili, come tratto della complessa emancipazione femminile. Dagli anni settanta si può documentare un altro aspetto interessante: il prolungamento della permanenza dei figli in famiglia, nei paesi occidentali, in coincidenza con la crisi economica iniziata nel 1973 e con il crollo della nuzialità legale. I punti di partenza sono molto diversi (uscite precoci dall'ambito familiare si registrano soprattutto nei paesi dell'Europa nord-occidentale e nell'America settentrionale), ma la posticipazione dell'uscita dalla famiglia appare comune. In particolare, sembra che il prolungamento della permanenza riguardi i giovani con genitori non separati a reddito elevato, soprattutto se si tratta di figli unici o con un fratello/sorella: la riduzione della prolificazione, in questo senso, potrebbe allungare la permanenza dei figli nella famiglia di origine (v. De Sandre, 1988).
Il concetto di 'ciclo di vita della famiglia' (v. Glick, 1977) è stato elaborato negli anni quaranta per evidenziare la sequenza di eventi - matrimonio, nascita dei figli, uscita dei figli dal nucleo, vedovanza - ritenuta propria della stragrande maggioranza delle biografie individuali. In realtà, soprattutto dagli anni sessanta, i comportamenti cominciano a differenziarsi diffusamente: in particolare, la storia individuale delle unioni coniugali, anche successive a eventuali rotture, moltiplica gli itinerari non più marginali dei quali è necessario tener conto (v. Roussel, 1985).Lo schema classico è quello illustrato nella fig. 5, in cui si nota, al passare delle generazioni, il risultato delle variazioni già menzionate di mortalità e fecondità sul ciclo di vita della donna.
Ma per le generazioni più giovani i dati della fig. 5 possono risultare fuorvianti perché ignorano quanto accade a sottogruppi importanti di donne. C'è da rilevare, infatti, il diffondersi di forme di unione coniugale consensuale: si stima che intorno al 1982, le donne in coabitazione di 20-24 anni fossero l'8% in Francia, il 14% in Danimarca, il 19% in Norvegia, il 16% in Olanda, il 32% in Svezia (cfr. Roussel, in AIDELF, 1986), senza contare le unioni episodiche che in qualche modo influenzano la fase riproduttiva (inibendone il processo oppure no). In parte tali unioni precedono il matrimonio, per lo più rinviando anche eventuali nascite di figli, in parte lo sostituiscono (in Svezia un terzo dei figli sono naturali). Inoltre i matrimoni - ma anche le coabitazioni non legalizzate - possono rompersi per separazione e divorzio: si è già notata l'alta percentuale di divorzi nella maggior parte dei paesi sviluppati, da uno a due ogni quattro matrimoni (cfr. Sardon, in AIDELF, 1986), con una progressiva riduzione dei matrimoni successivi al divorzio (e presunto aumento delle coabitazioni). In Italia tutti questi fenomeni appaiono decisamente contenuti (v. De Sandre, 1980; cfr. Santini, in ISTAT, 1986).
Negli anni cinquanta sembrava che il divorzio, seguito di solito da nuove nozze, non alterasse la vita riproduttiva della donna. In realtà sia la coabitazione prenuziale o sostitutiva del primo o di successivi matrimoni, sia il divorzio condizionano molto la fecondità (v. Festy, 1985); tali fenomeni inoltre modificano la forma familiare in cui si trovano i figli e le loro condizioni di vita, riducendone spesso il benessere (v. Duncan, 1984). Pertanto anche le transizioni coniugali-riproduttive devono tener conto degli itinerari normali e di quelli perturbati. Il fatto che le coabitazioni non risultino dalle statistiche ufficiali può alterare in modo particolare il senso di molti dati (quelli sullo stato civile, la stima della frazione di coniugate, la stima della fecondità per ordine di nascita e della infecondità, la stima della fecondità naturale).
Tabulazioni appropriate sono usate per gli Stati Uniti (età al primo matrimonio, alla prima separazione, al primo divorzio - con ripetizione per due successivi matrimoni -, età alla nascita del primo e dell'ultimo figlio) sfruttando la bassa incidenza delle coabitazioni (v. Norton, 1983).
Tavole di durata delle fasi del ciclo coniugale-riproduttivo, separatamente per storie normali e perturbate, sono ricavate da quesiti censuari retrospettivi: da quelle elaborate per il Canada, relative al decennio 1971-1981 (v. Peron e altri, 1986), si desume sia l'allungamento della fase di stabilità - dovuto non tanto, com'è noto, all'aumento delle nascite quanto alla prolungata permanenza dei figli in famiglia, quando si tratti di famiglie con 1-2 figli -, sia l'allungamento della fase di contrazione (uscita dei figli dal nucleo), quando si tratti di famiglie con 4 o più figli.
La descrizione dei percorsi coniugali-riproduttivi suppone dunque una rilevazione accurata, nella biografia individuale, delle unioni e dei loro esiti, oltre che delle nascite. Le informazioni sulle unioni non 'legali' non appaiono nelle fonti ufficiali e necessitano di rilevazioni ad hoc.
Necessita di indagini ad hoc anche lo studio dei comportamenti che inducono o inibiscono la fecondità (v. Cleland e Hobcraft, 1985; v. UN, 1987). Nei paesi sviluppati, mentre si è allungato il periodo biologicamente utile per la riproduzione (dal menarca alla menopausa) e l'attività sessuale si è progressivamente estesa anche alla fase che precede un'unione più o meno stabile, sono divenute rare le nascite per donna: si è ampliato enormemente il ricorso a metodi di prevenzione del concepimento (in senso non malthusiano) e si è aperta la strada a un'intensa abortività indotta (anche per effetto di una svalorizzazione culturale della natura dell'embrione: v. Kellerhals e Pasini, 1967).
Il processo riproduttivo, in assenza di controllo dipendente dai figli già nati, iniziava di norma con il matrimonio e, se questo perdurava, vedeva i concepimenti intervallati essenzialmente per effetto di regole sociali eventualmente inibitrici dei rapporti sessuali, di fattori biologici individuali (sterilità, subfecondità, esito della gravidanza precedente) e dell'amenorrea post partum legata alla durata dell'allattamento.
Oggi il processo riproduttivo dipende di più da comportamenti direttamente intesi a inibirlo, mentre la durata ridotta dell'allattamento è praticamente ininfluente dal punto di vista del prolungamento dell'amenorrea.
La fig. 6 mostra, con qualche semplificazione, questo passaggio dall'alta alla bassa fecondità attraverso l'impatto delle variabili intermedie (così dette perché si collocano fra le decisioni di coppia e il risultato riproduttivo). La fecondità potenziale è essenzialmente ridotta, in regime di alta fecondità, per effetto dei costumi nuziali e della sterilità temporanea associata all'allattamento; in regime di bassa fecondità è ridotta più drasticamente dalla contraccezione nonché dall'aborto provocato.
Intorno ai 45-55 anni d'età della donna si avvia a conclusione l'uscita dei figli dal nucleo familiare. Se la coppia è ancora unita può cominciare una nuova lunga fase - praticamente inesistente nel regime di alta fecondità e mortalità - di 'vita a due' (empty nest). Naturalmente, per molti, il verificarsi di questa esperienza può corrispondere solo parzialmente a condizioni di maggiore autonomia e 'libertà': occorre tener conto infatti delle relazioni di parentela tra generazioni anche esterne ai confini della famiglia coresidenziale. Talora alla prolungata dipendenza dei figli può aggiungersi la decadenza fisica dei genitori (o dei nonni) con un cumulo di responsabilità filiali difficilmente divisibili, dato lo scarso o inesistente numero di fratelli.In ogni caso sono profondi i cambiamenti che si verificano nel passaggio alle età anziane e senili. Il 'pensionamento' comincia a diventare frequente per i maschi fin dai 55 anni, diventando diffusissimo tra i 60 e i 65 anni (2/3 dei maschi, nella situazione italiana della fig. 4).
Uno degli squilibri più impressionanti nella fase terminale del ciclo di vita è costituito dalla crescente quota di donne, dovuta ai differenziali di mortalità per sesso ed età. Come appare dalla fig. 7, per l'Italia nel 1981 i settantenni sono il 20% in meno delle coetanee, i settantacinquenni un terzo in meno, gli ottantenni quasi la metà.Importanti malattie degenerative sono contrastate con lenti successi, mentre viene prolungata la sopravvivenza di molti malati (anche in condizione di compromessa autonomia funzionale). D'altro lato i contingenti di persone sopravviventi a tarda età sono sempre più numerosi. La sovrapposizione di queste due tendenze genera l'aumento del numero assoluto di persone in 'non buona salute'. Così, ad esempio, l'aumento della quota stimata di sofferenti di cancro in età 30-74 anni (Italia, 1960-1983) è imputabile, oltre che all'aumentata incidenza della patologia e alla sopravvivenza dei malati, all'invecchiamento della popolazione (v. Egidi e altri, 1988). In Italia nel 1986 più della metà degli ultrasessantacinquenni dichiarava uno stato di salute non buono; il 6% dichiarava un'invalidità motoria; il 15% aveva avuto un ricovero ospedaliero di quasi 4 settimane in media nell'anno (Notiziario ISTAT, 17-1987). L'indagine ISTAT 1983 sulle famiglie segnalava 4 milioni di persone con invalidità, di cui i 2/3 oltre i 50 anni e 1/3 con qualche mancanza di autonomia. È noto che come cause dominanti di morte si impongono le malattie del sistema circolatorio e i tumori, ma più ampie informazioni sullo stato di salute e sull'autonomia individuale connessa appaiono cruciali per il tratto di vita terminale. Si sente la necessità di disporre, per i vari paesi, delle tavole non solo di mortalità per età, ma anche di sopravvivenza in funzione dello stato di salute, in particolare con o senza inabilità (v. Robine e Colvez, 1984 e 1986).
La maggioranza degli anziani (65 anni e oltre) in Italia, dal punto di vista familiare, vive con un'altra persona (43%) o da sola (20%): è tre volte più facile che sia la donna a vivere sola che l'uomo (27 contro 9 su 100). L'ampia frazione di vecchi (75 anni e oltre: 2,7 milioni in Italia nel 1981, pari al 5% della popolazione) presenta i problemi più acuti: l'istituzionalizzazione diventa un'alternativa che si va diffondendo.Accanto alle nuove risorse fornite dalle più numerose classi di età anziane, emergono così oneri nuovi per i sistemi familiare, socioeconomico, politico.
Il rapido sguardo a segmenti e intersezioni dei percorsi di vita nelle popolazioni sviluppate ha messo in evidenza cambiamenti sostanziali nelle regole della sostituzione quantitativa delle generazioni e, con ruoli sia di causa sia di effetto, negli 'stili' di vita individuali e coniugali-riproduttivi.
Tali cambiamenti non si esauriscono certo nei risultati osservabili attraverso indagini ad hoc e rilevazioni ufficiali istantanee e continue. Né le variabili che li generano si esauriscono nel possente processo che va sotto il nome di 'modernizzazione economica'. La ricerca causale procede con difficoltà e incertezze intrinseche (v. Coale e Cotts Watkins, 1986) e le ipotesi interpretative vengono usualmente contraddette da numerose eccezioni. Sembra tuttavia opportuno indicare alcune linee orientative delle indagini in corso.
I percorsi di vita cambiano perché mutano le norme culturali, influenzate da ogni variabile pertinente, che regolano il trasferimento di beni materiali e immateriali tra padri e figli di generazione in generazione (v. Caldwell, 1982; v. Ryder, 1984). La molla che genera il declino delle nascite si potrebbe far risalire, nell'Otto-Novecento, a un desiderio di investire nei figli per meglio inserirli nel processo di mobilità sociale ascendente. Questo comportamento, inteso a ridurre la 'quantità' dei figli per accrescerne la 'qualità' (cfr. Ariès, in Höhn e Mackensen, 1982), avrebbe trovato, tra il 1945 e il 1964, un momento di maggiore ottimismo - coerente con il clima postbellico di ricostruzione sociale, di vigorosa crescita economica e di accresciute risorse individuali -, tale da allentare il declino delle nascite e addirittura da invertirlo, sempre entro un quadro di valorizzazione della prole. Nei decenni successivi, invece, affiorerebbe un atteggiamento di devalorizzazione dei figli, percepiti dalle generazioni del dopoguerra in competizione con nuove opportunità offerte agli adulti: negli anni sessanta si sviluppano movimenti di 'emancipazione della donna'; si introducono nuove tecniche contraccettive (la pillola e la spirale intrauterina); si diffondono leggi che modificano il diritto di famiglia, facilitano il divorzio, introducono o allargano le ipotesi consentite per l'aborto indotto. Le indagini condotte sul 'valore dei figli' rafforzano l'impressione di un mutamento di identità, ruoli e aspettative dei protagonisti del processo riproduttivo. I trasferimenti netti dai figli (giovani) verso i padri appaiono a saldo negativo: in altre parole, emerge l'onere di avere figli.
A ciò si aggiunga il peso, nel gioco di equilibri tra generazioni, delle generazioni anziane. Esse detengono progressivamente maggiori quote di risorse economiche e di potere politico (v. Cheal, 1983). I redditi familiari oltre le età adulte (55-60 anni) declinano all'aumentare dell'età del capofamiglia, ma in complesso migliorano nel tempo più di quelli relativi a capifamiglia giovani (cfr. Rempp, in INED, 1982-1983, vol. I).
La possibilità di disporre di un surplus economico da parte della popolazione in età produttiva e riproduttiva è vincolata dall'esistenza degli anziani: la scelta più facile, volendo non peggiorare o migliorare le condizioni di vita individuali, è rappresentata da una riduzione del numero delle nascite ottenuta rinunciando ad avere figli (la variabile riproduttiva è direttamente manipolabile dalla popolazione in età riproduttiva). Bourcier de Carbon (v., 1988) parla di fatale 'implosione', di una sorta di deriva demografica verso l'invecchiamento e la contrazione delle nascite, che può tuttavia subire controspinte importanti di natura economica, come suggerisce J. Bourgeois Pichat.
Un rischio preoccupante è che nuovi comportamenti individuali e collettivi ignorino le interconnessioni tra generazioni e le loro ripercussioni, contribuendo nondimeno a modificare tali rapporti.
C'è chi suggerisce (cfr. Demeny, in Davis e altri, 1986), se si vogliono ricostituire patti intergenerazionali che non svalorizzino i figli, un recupero del potere dei genitori nella spesa collettiva per l'istruzione; una spinta verso la comunione dei beni familiari per proteggere la sicurezza economica della donna e le scelte procreative; un collegamento delle forme di sicurezza in età anziana con la fecondità pregressa, dato che sono i figli in condizione lavorativa a finanziare in larga parte il sistema di sicurezza stesso (una parte dei prelievi assicurativi potrebbe essere trasferita direttamente ai genitori pensionati); un rafforzamento del peso politico delle famiglie con figli giovani, eventualmente trasferendo ai genitori il diritto di voto dei figli minorenni. Al di là della praticabilità o meno di tali proposte, va sottolineata l'importanza cruciale delle regole di trasferimento tra generazioni sottese ai comportamenti rilevanti nel corso della vita.
Questa discussione pone in una luce nuova, e certo non superficiale, l'esigenza di analisi accurate dei diversi percorsi vitali entro le popolazioni, e dei differenziali per le condizioni socioeconomiche e la localizzazione nello spazio e nel tempo che caratterizzano tali percorsi. È dall'analisi di questi percorsi che emergono prassi e regole, diverse e mutevoli, dei trasferimenti di beni e cultura tra generazioni, e in definitiva le concrete vie che saldano il passato al futuro delle popolazioni e dell'umanità. (V. anche Adolescenza; Anziani; Età; Infanzia).
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