Ciclismo
Le origini della bicicletta sono avvolte nella leggenda che narra di come il conte de Sivrac nel 1790, in piena Rivoluzione francese, avrebbe inventato il 'celerifero'. In realtà quel conte non è mai esistito e il celerifero era una diligenza a cavalli importata in Francia dall'Inghilterra nel 1817 da un certo Henri de Sievrac.
La fantasiosa ricostruzione è opera di Louis Baudry de Saunier, autore nel 1890 di una Histoire générale de la vélocipédie. Il principio delle due ruote, invece, viene inventato dal barone Karl Drais von Sauerbronn (1785-1851), rampollo di un'antica e nobile famiglia del granducato del Baden. Uomo fantasioso, aveva già progettato una macchina da scrivere a tasti, chiamata Schnellschreibklavier ("pianoforte per scrivere rapido"), ma anche un tritacarne, un estintore, un riflettore a luce solare e perfino un sottomarino con periscopio.
Drais inseguiva l'idea di costruire qualcosa che permettesse di viaggiare veloce senza l'aiuto dei cavalli. Perciò realizzò due macchine. Nel dicembre 1813 a Karlsruhe mostrò la prima, a quattro ruote, che chiamò Fahrmaschine ("macchina per viaggiare"), allo zar Alessandro I in viaggio per il Congresso di Vienna. Nonostante l'entusiasmo dello zar, che gli regalò un anello con diamanti, quell'invenzione non ebbe successo. La seconda, chiamata Laufmaschine ("macchina per correre"), aveva due ruote di legno con otto raggi, avanzava con la spinta dei piedi sul terreno ed era dotata di un manubrio mobile che consentiva di dirigerla: era l'antenato della bicicletta.
Con essa il 12 luglio 1817 Drais va da Mannheim a Schwetzingen e ritorna: 28 chilometri. Poche settimane dopo si spinge da Karlsruhe a Kehl, 78 chilometri. Il 12 gennaio 1818 il granduca del Baden Carl gli concede il brevetto d'invenzione; e così fa anche la Francia il 17 febbraio. Poi è la volta della Prussia e della Baviera e nel 1819 del Belgio e degli Stati Uniti. Ma la domanda viene bocciata a Francoforte, capitale della Confederazione degli Stati tedeschi, e a Vienna. Nel 1818 la Laufmaschine nel suo brevetto francese viene già chiamata vélocipède o, dal nome del barone, draisienne. Il 5 aprile ne viene data dimostrazione nel Jardin du Luxembourg a Parigi. Le Journal de Paris annuncia le prime corse di velocipedi o draisiennes su un percorso di trecento tese, pari a 585 m. Lo spettacolo è a pagamento: i biglietti costano un franco e mezzo per gli uomini, un franco per le donne, mezzo per i bambini. Vengono incassati 3600 franchi, e sono presenti 3000 spettatori. L'esperimento incuriosisce senza però entusiasmare. La stampa è critica, e tuttavia l'uso della draisienne si diffonde. A Milano il 3 settembre 1818 l'Imperial-regia direzione generale di polizia emette un bando che vieta l'uso dei velocipedi durante la notte: sul selciato il rumore è infernale. Quella grida, a firma G.N. Frigerio, precisa: "È proibito di girare nottetempo sui velocipedi per le contrade e per le piazze interne delle città. È però tollerato il corso dei medesimi sui bastioni e sulle piazze lontane dall'abitato".
Il 22 dicembre il velocipede ottiene il brevetto anche in Inghilterra, dove viene chiamato hobby horse ("cavallo da divertimento"). Qui hanno luogo interessanti sviluppi nella cura estetica del mezzo. Denis Johnson introduce l'acciaio ‒ solo ruote e asse restano di legno ‒ e i primi veicoli per donne, producendone circa quattrocento.
Gli scozzesi Kirkpatrick Macmillan e Gavin Dalzell pensano a come far sollevare i piedi dal suolo. Nella macchina del primo sono le mani, attraverso una manovella, a garantire la propulsione: The Glasgow Courier, sotto il titolo The velocipede, racconta il viaggio di Macmillan, 110 km da Dumfries a Glasgow, del 6-7 giugno 1842, durante il quale riceve una multa di 5 scellini, la prima della storia del ciclismo, per aver turbato la circolazione e investito un bambino. Dalzell è l'inventore del velocipede a leve. Manca però ancora una parte essenziale: il pedale.
Nel marzo 1861 un cappellaio parigino, Auguste- Arsène Brunel, porta a riparare la sua draisienne nell'officina del bretone Pierre Michaux. Uno dei suoi sei figli, Ernest, 19 anni, la prova. Al rientro, la sera, discute con il padre: è troppo faticoso, ci vorrebbero deux petits repose-pieds ("due piccoli riposa-piedi"). Pierre propone prima due poggiapiedi fissati alla forcella, poi pensa di inserire un asse nel centro della ruota anteriore, che si possa far girare come nella mola, tramite due leve contrapposte in esso calettate. Ernest, bravo meccanico, realizza l'idea del padre: adatta al mozzo due aste metalliche di una ventina di centimetri e inserisce in un foro alle estremità di ciascuna un pezzo di ferro. Nasce così il pedale. Ernest è il primo a pedalare. Prova la draisienne modificata sugli Champs Élysées. In discesa le cose vanno bene; in salita è costretto a mettere più volte il piede a terra, ma, alla fine, l'esperimento riesce. Pierre, inventore del pedale, è un fabbro, nato a Bar-le-Duc in Lorena, nel dipartimento della Mosa, nel 1813. Alacre e volonteroso, ha però un punto debole: non ha una spiccata attitudine per gli affari e così per due volte fallisce. Si trasferisce a Commercy, poi all'inizio del 1855 a Parigi dove trova lavoro come fabbro riparando carrozze. È allora che scopre il velocipede.
Dopo aver inventato il pedale, Pierre inizia a costruire velocipedi in legno di faggio massiccio con due ruote da 90 cm a otto raggi, un grosso mozzo e cerchioni larghi e spessi. Le prime michaudines pesano 40 kg. I Michaux sono i primi ad avviarne una produzione in serie. Vendono 2 michaudines nel 1861, 142 l'anno seguente, 400 nel 1865 al prezzo di 500 franchi d'oro. Presto molte altre officine iniziano a produrre velocipedi. Naturalmente Michaux non fa fortuna: il 29 marzo 1870 il giudice dichiara il fallimento della sua società. Per i Michaux è la rovina. Pierre, ridotto a vivere di carità, si spegne in miseria il 9 gennaio 1883.
Purtroppo il primo brevetto non è suo, ma viene concesso negli Stati Uniti, il 20 novembre 1866, a Pierre Lallement e al suo socio James Carroll. Lallement è un lorenese che aveva lavorato a Parigi prima di emigrare ad Ansonia nel Connecticut.
Nel frattempo l'evoluzione del mezzo meccanico è continua. In Europa, per alleggerirne il peso, Eugène Meyer utilizza tubi del gas per il telaio ‒ prima del 1870 si usava il ferro pieno ‒ e raggi sottili di fil di ferro. Clément Ader introduce la gomma piena sulle ruote e il puntapiede. Quando, nel 1870, scoppia la guerra franco-prussiana, la leadership della ricerca passa alla Gran Bretagna, dove il velocipede assume il nome di boneshaker ("scuotiossa").
I creativi dell'epoca si affaticano per il velocipede. A Coventry, nel 1871, James Starley costruisce il grand-bi, che chiama Ariel: ha una grande ruota davanti, 1,22 m di diametro, e una piccola dietro di soli 35 cm. I cerchioni, ricavati da una serie di guaine per spade abbandonate dai francesi in rotta, sono muniti di gomme piene. Per lanciare l'Ariel, Starley, insieme a William Hillman, in un giorno va da Londra a Coventry (155 km). Il successo è incredibile. Il grand-bi è elegante e costoso (il suo prezzo equivale a quello di un'utilitaria di oggi) e diventa subito di moda tra i nobili e gli snob. La sua ruota anteriore, solidale ai pedali, porta uno sviluppo di 3,83 m per pedalata.
Gli amanti della velocità devono solo aumentare il diametro della ruota che così, a poco a poco, assume proporzioni enormi. Victor Renard, un artigiano parigino, costruisce un velocipede da 65 kg con una ruota anteriore di 3 m di diametro, dal passo di 9,42 m per pedalata: al telaio deve però fissare sei gradini per arrivare alla sella. Il guidatore diventa un equilibrista in pericolo. Ma la fantasia è inarrestabile. Così, per ridurre i rischi di ribaltamento, ecco il triciclo con una piccola ruota anteriore e due grandi posteriori.
Per quanto riguarda la prima bicicletta, al Conservatoire des arts et métiers di Parigi è esposto un modello di Meyer e Guilmet, con trazione posteriore e catena. Secondo alcuni sarebbe del 1868. La prima domanda di brevetto, però, appartiene a Henry John Lawson, di Coventry, che la presenta il 30 marzo 1880.
In Inghilterra, in verità, Otto e Wallis avevano già brevettato e prodotto il velocipede Kangaroo, che presenta una grande novità. A ciascuno dei due lati della ruota anteriore è applicata una trasmissione a catena per una coppia di ruote dentate: queste hanno un numero di denti l'una il doppio dell'altra; nella più grande sono inseriti i pedali, la più piccola è fissata all'asse della ruota cui trasmette il movimento. Così la distanza percorsa con una pedalata è due volte la circonferenza della ruota anteriore. Questo consente di ridurre la dimensione della ruota anteriore. Quando, nel 1884, il corridore professionista George Smith vince una corsa di 100 miglia da Twyford a Normann Cross alla media di 22,400 km/h, il successo del Kangaroo è assicurato.
L'evoluzione è incessante. John Kemp Starley, nipote dell'inventore del grand-bi, il 28 gennaio 1885 allo Stanley Show presenta The Rover ("Il Vagabondo"), la prima bicicletta di successo, con due ruote uguali e la trasmissione a catena. Una grande novità, che la prima corsa vittoriosa di Smith basta a imporre.
Non fu Lawson a inventare il nome. Il termine bicyclette (da cui l'italiano bicicletta) compare in Francia intorno al 1880 come diminutivo di bicycle; in Inghilterra si adotta successivamente il nome bicycle adattato nella pronuncia.
Il pneumatico venne di lontano. Già Robert William Thomson, del Middlesex, il 10 dicembre 1845 e poi Clément Ader, di Muret nell'Alta Garonna, il 24 novembre 1868 avevano depositato brevetti relativi a pneumatici, utili l'uno per 'vetture e altri corpi rotolanti', l'altro espressamente per i velocipedi. Ma la storia attribuisce l'invenzione dei pneumatici a John Boyd Dunlop, veterinario scozzese residente a Belfast, che deposita il brevetto il 23 luglio 1888.
Nel 1891 i fratelli Édouard e André Michelin di Clermont-Ferrand inventano il pneumatico smontabile, con il copertone separato dalla camera d'aria. Convincono Charles Terront a montare i pneumatici sulla sua Humber nella Parigi-Brest-Parigi di 1185 km. La vittoria di Terront con oltre 7 ore di vantaggio, alla media di 16 km/h, lancia i pneumatici Michelin. In quell'occasione Terront ha pedalato per tre notti e tre giorni con una bici del peso di 21,5 kg, munita di un solo freno, e ha anche forato cinque volte. I due fratelli Michelin, l'anno dopo, istituiscono la corsa da Parigi a Clermont-Ferrand con forature obbligatorie. Sulla strada vengono disposte file serrate di chiodi. Vince Henri Farman, che in seguito sarebbe divenuto un pioniere dell'aviazione.
Si affermano intanto le prove di lunga durata. Pagis e De Laumaillé, nel 1875, vanno da Parigi a Vienna (1254 km) in 12 giorni battendo il record del servizio di posta a cavallo (15 giorni). L'impresa desta sensazione.
Il vincitore della prima Sei giorni a Londra, nel 1878, copre 1800 km. La Parigi-Brest-Parigi, il 6 settembre 1891, è lunga 1185 km, e si snoda su strade di campagna. La vince Terront, che due anni dopo pedala su una bicicletta Rudge da San Pietroburgo a Parigi, 3000 km in 14 giorni. Nel 1894 va da Roma a Parigi in 6 giorni. Velocipede e biciclo furoreggiano. In alcuni maneggi i bicicli sostituiscono i cavalli. Lo scrittore Charles Dickens prende lezioni di velocipede, pedalano Alexandre Dumas e il giovane Claude Debussy. La bella Otero e Sarah Bernhardt montano sui bicicli.
In Italia il barone Alessandro de Sariette il 15 gennaio 1870 fonda la prima società italiana, il Veloce Club Fiorentino. I primi campioni sono i conti Giuseppe e Fausto Valsecchi-Bagatti di Milano: vincono la Milano-Novara (46 km, nel 1871), la Milano-Piacenza (65 km, nel 1873) e la Milano-Cremona (60 km, nel 1873). Il conte udinese Carlo Braida batte i primati e nel 1890 vince a Treviso il titolo italiano seminando gli avversari.
In Francia l'imperatore Napoleone III diventa cliente dei Michaux: suo figlio, che si allena con accanimento lungo la spiaggia di Trouville, viene soprannominato Vélocipède IV. Re Leopoldo II va a passeggio in triciclo a Bruxelles. Lo zar Nicola pedala in bicicletta già nel 1894. In seguito anche l'imperatore Pu-Yi pedala a Pechino nella Città Probita. La bici acquista subito il favore regale. Edoardo Bianchi viene convocato alla Villa Reale di Monza per avviare la regina Margherita alla nuova arte nei viali del parco. Bianchi, nato il 17 luglio 1865, cresciuto nell'orfanotrofio dei Martinitt, aveva aperto la prima bottega a Milano nel 1885. Era stato il primo in Italia ad applicare la gomma a camera d'aria alla bicicletta e nel 1890 aveva aperto un nuovo stabilimento per la produzione a catena.
È in quel periodo che viene chiamato a palazzo. Bianchi si presenta con un modello che ha un copricatena in cristallo. Il problema più grande è che non si può toccare l'augusto corpo della regina. Bianchi con una cintura collegata a tiranti riesce a mantenere in equilibrio la sovrana senza che venga toccata. Dopo la regina, anche le altre dame salgono in bicicletta: le duchesse di Genova e d'Aosta, la regina di Napoli, la principessa del Portogallo.
Il velocipede a pedali compare in Italia nel 1867. Il primo di cui si ha notizia è un Michaux, acquistato da un birraio di Alessandria, Carlo Michiel, che poi diventerà vicepresidente dell'UVI (Unione velocipedistica italiana). Nel 1868 circolano già i primi velocipedi di fabbricazione italiana. Tra i costruttori si segnalano Santacroce a Firenze, il costruttore di carrozze Baroni e l'armaiolo Giovanni Greco e, poi, Bartolomeo Balbiani e Francesco Belloni a Milano, Garolla di Limena a Padova, Raimondo Vellani e Nisando Martinelli a Modena, il meccanico Ambrogio Bestetti a Monza, Challiol e Mestrellet a Torino, Serafino Vecchio a Novara, i fratelli Valetti a Verona, Gallizio a Firenze. Nel 1869 si svolgono già le prime gare. Nel 1884 il torinese Costantino Vianzone presenta il 'bicicletto', con telaio e ruote in legno. Presto prevarrà il sostantivo femminile bicicletta. Nel 1885 comincia la produzione delle biciclette Bianchi. Seguono Olympia (1893), Velo (1894), Maino e Dei (1896), Frera (1897), Lygie (1905).
In pochi anni la bici conquista l'Italia e il mondo. In realtà è figlia di molti padri. Ci sono impronte antiche di antenati della bicicletta. Pare che in Cina, quattromila anni fa, circolasse un veicolo con ruote di bambù chiamato il Dragone felice. Nel tempio di Luxor è stato scoperto un graffito con un uomo seduto su una sbarra sospesa tra due ruote. Anche nella biblioteca dell'Università di Heidelberg c'è un documento del 14° secolo, il Sachsenspiegel, con una miniatura che mostra un uomo a cavallo di una sbarra tra due ruote. E, nel 1966, si scopre che già Leonardo da Vinci aveva ideato la bicicletta. Lo prova un disegno trovato durante i lavori di restauro del Codice Atlantico: il professor Augusto Marinoni, incaricato di trascrivere il Codice, attribuì il disegno, che mostra una bici di legno munita di due ruote uguali, manubrio, sella, pedali e catena, a uno scolaro di Leonardo che avrebbe, piuttosto rozzamente, copiato un disegno perduto del maestro.
La bici, dunque, viene da lontano. E, una volta nata, partorisce straordinarie creature. Sul finire dell'Ottocento corridori e meccanici di biciclette sviluppano la loro creatività. Henry Ford, i cinque fratelli Opel, John Kemp Starley danno vita rispettivamente alla Ford, alla Opel, alla Rover. Un pedalatore di piazza d'Armi a Milano, emigrato in Alsazia, inventa la Bugatti. Albert Champion, vincitore della Roubaix nel 1899, diventa leader della famosa industria di candele per automobili. George M. Hendee, primo campione statunitense di biciclo nel 1882, produce la Indian, la prima moto d'America. Ma sono i fratelli Wilbur e Orville Wright a compiere il prodigio. Fanno i meccanici a Dayton nell'Ohio. Nel 1896 immettono sul mercato una bici raffinata, la Van Cleve. Poi cercano di farla volare e alla fine ci riescono. Il 17 dicembre 1903 il loro aeroplano, il primo della storia, decolla.
Pioniere del volo è anche Clément Ader. Nel 1889 realizza una strana macchina, con ali di pipistrello e spinta da un motore a scoppio, che chiama Eole. Con questa macchina si alza da terra il 9 ottobre del 1890 percorrendo una cinquantina di metri. Come Henri Farman, che fonda l'omonima industria aeronautica. Il primo elicottero, che il francese Paul Cornu fa decollare nel novembre 1907, ha un motore che aziona una cinghia per far ruotare due ruote di bicicletta munite di pale. Automobile, aeroplano, elicottero sono in un certo senso figli della bicicletta.
Il 31 maggio 1868 al Parc de St.-Cloud di Parigi si disputa la prima gara di velocità con dieci concorrenti e un percorso di 1200 m. La vince il britannico James Moore, 19 anni, in 3′50″ alla media di 18,783 km/h. Il 1° novembre ha luogo la prima gara femminile.
Moore, il 7 novembre 1869, partecipa alla Parigi-Rouen (123 km), la prima vera corsa di fondo della storia, promossa dal giornale Le Vélocipède illustré. Sono ammesse tutte le macchine mosse dalla forza umana, con piedi o mani (monocicli, bicicli, tricicli, quadricicli, policicli), purché con un solo uomo a bordo. Sono vietati il cambio della ruota e il traino tra concorrenti, come pure il farsi accompagnare da cani. L'iscrizione è gratuita. I premi: 1000 franchi al primo arrivato, un velocipede al secondo, una medaglia d'oro al terzo, una di vermeil al quarto, una d'argento al quinto, una di bronzo a chi arriva entro le ventiquattro ore.
Nei giorni precedenti la corsa, sul giornale organizzatore un medico aveva dato consigli ai concorrenti: in gara era bene alimentarsi ogni 20-25 chilometri con pasti nutrienti, come una bistecca e due bicchieri di vino; era meglio mangiare seduti, riposare un quarto d'ora e, prima di riprendere a pedalare, camminare per qualche minuto.
La partenza è prevista alle 7 del mattino all'Étoile. Alle 7.25 c'è una falsa partenza, causata dai cicloturisti del Véloce Club di Parigi arrivati per una gita che, impazienti di aspettare, si avviano verso la Porte Maillot. Alcuni concorrenti, al vederli partire, li seguono. In fretta e furia viene data la partenza ufficiale alle 7.30. Gli organizzatori, certi della loro buonafede, considerano valide entrambe le partenze.
Moore parte con il secondo gruppo. Davanti a lui va in testa un ragazzo di Parigi di 17 anni, Henri Pascaud, inseguito a lungo dall'inglese Johnson che lo raggiunge a metà gara. Ma dopo 80 km Moore li sorpassa e fugge da solo. Al controllo di Vaudreuil, 98 km, ha 10 minuti su André Castéra e 25 su M. Bobillier. C'è fango sulla strada. Sul pavé le scosse si fanno sentire. Le salite sono percorse a piedi. In discesa i piedi si appoggiano a supporti legati alla forcella, mentre i pedali ruotano vorticosamente.
Moore arriva alle 18.10: vince, coprendo i 123 km di percorso in 10h40′ alla media di 11,531 km/h. Castéra e Bobillier giungono insieme, staccati di un quarto d'ora, e chiedono di essere classificati a pari merito; Pascaud è quarto a un'ora e un quarto; Johnson è settimo a 3h40′. Trentatré concorrenti finiscono la gara. Una donna inglese arriva ventinovesima.
La passione per le corse dilaga. Il 17 febbraio 1869 si era già disputata sul percorso Londra-Brighton (93 km) una sfida fra tre gentiluomini, seguiti in carrozza dall'inviato del Times. L'11 aprile si gareggia a Gand, in Belgio; il 26 luglio a Münster, in Germania; il 15 agosto a Brun, in Austria; il 30 settembre a Purmerend, in Olanda. Quell'anno si corre anche in Svizzera e in Irlanda.
In Italia la prima gara ufficiale si svolge a Padova, in Prato della Valle, il 25 luglio 1869. La vince Antonio Pozzo di Padova su Antonio Ronda di Vicenza, Pietro e Domenico Zanetti di Padova.
La prima gara su strada italiana è la Firenze-Pistoia (33 km), organizzata il 2 febbraio 1870 dal Veloce Club Fiorentino appena fondato. Il percorso va da Poggio a Caiano a Pistoia. Premio per il vincitore una medaglia d'oro e una rivoltella. Trecento cavalleggeri del reggimento Duca d'Aosta curano il servizio d'ordine. I velocipedisti sono preceduti e seguiti da carrozze a cavalli.
Alla partenza si presentano 23 concorrenti. Va subito in testa Rynner Van Heste, uno statunitense di 17 anni che non verrà più raggiunto. Il suo tempo è di 2h12′, la media è di 15 km/h. Usa un biciclo Michaux: la ruota anteriore ha un diametro di 85 cm, la più piccola del campo. A ogni pedalata avanza di 2,67 m. Van Heste precede il francese Charles Augusto di 3 minuti, di 4 de Sariette, di 14 il pisano Edoardo Ancillotti, quinto arriva il belga Gustavo Langlade.
Nel marzo del 1870 viene fondato il Veloce Club Milano e la città lombarda diventa sede di numerose corse. L'8 gennaio 1871 si corre il Giro dei Bastioni, 11 km in tutto, vinto in 37 minuti da Giuseppe Pasta, con 30 secondi di vantaggio su Giuseppe Bagatti Valsecchi, 2′03″ su Fausto Bagatti Valsecchi, 3 minuti su Giovanni Belloni. Il 23 dicembre si corre la Milano-Novara (46 km), che viene vinta da Giuseppe Bagatti Valsecchi in 3h01′, con 4 minuti di vantaggio sul fratello Fausto. Ecco nel 1873 la Milano-Piacenza (65 km), vinta dal solito Giuseppe Bagatti Valsecchi in 3h44′ davanti al fratello Fausto, il quale il 18 dicembre s'impone invece nella Milano-Cremona (60 km).
Presto, dopo Firenze e Milano, anche Brescia e Torino organizzano prove su strada. I club dei velocipedisti nascono ovunque per promuovere le corse. Nel 1875 si costituiscono il Veloce Club Torino e il Veloce Club Bresciano. L'anno dopo è la volta della Sezione velocipedisti della Società ginnastica Cristoforo Colombo di Genova e del Veloce Club Alessandria. Nel 1882 vengono fondati altri tre club, il Circolo velocipedisti Milano, il Veloce Club Torinese e il Veloce Club Roma.
Il Veloce Club Torinese, fondato da Giovanni Agnelli e dal conte Roberto Biscaretti di Rufia, promuove la costruzione della prima pista e la creazione del primo giornale specializzato, la Rivista velocipedistica, il primo campionato italiano e anche il varo dell'Unione velocipedistica italiana.
La prima classica, la Milano-Torino (140 km), nasce il 25 maggio 1876. Otto i partecipanti, vince uno studente d'ingegneria, Paolo Magretti, alla media di 13,3 km/h. Secondo, staccato di 1h13′03″, è Carlo Ricci Garibaldi.
Presto diventa necessaria un'organizzazione seria delle corse. In Gran Bretagna nasce nel 1878 la Bicycle Union, negli Stati Uniti nel 1880 la League of American Wheelmen, nel 1881 l'Union vélocipédique de France. L'UVI viene costituita a Torino il 26 agosto 1884 e la sua prima sede è a Milano.
Si continuano a organizzare le gare: nel 1894 la prima Gran fondo, nel 1897 la Coppa del re ‒ patrocinata da Umberto I ‒, nel 1902 la Milano-Modena e la Milano-Mantova, nel 1905 il Giro di Lombardia, nel 1907 la Milano-Sanremo.
I primi Campionati del Mondo di velocità e mezzofondo si corrono a Chicago nel 1893. A New York migliaia di tifosi restano fuori dal Madison Square Garden, un anello di 160,09 m, durante le prime Sei giorni di fine secolo. Dovunque sorgono velodromi. A Parigi, nel 1893, Henri Desgrange stabilisce il primo record dell'ora, coprendo 35,325 km.
La pista domina fino agli inizi del Novecento. Memorabili duelli si svolgono alle Cascine di Firenze, sulla pista smontabile in legno dell'Arena o al Trotter di Milano, a piazza di Siena a Roma, alla Montagnola di Bologna, al velodromo Umberto I di Torino. Si affermano straordinari velocisti statunitensi come Arthur Augustus Zimmerman e il nero Major Taylor.
La bici però conquista anche la strada. In Italia il primo titolo nazionale di resistenza si disputa il 12 settembre 1885 sul percorso Milano-Cremona-Milano (160 km) e viene vinto da Giuseppe Loretz, alla media di 18,888 km/h, secondo Adolfo Mazza e terzo Cesare Larroque. Il quarto, Giulio Ronchi, finisce a 11′12″, quinto è Carlo Magno Asti a 59′45″.
L'anno dopo la prova del titolo italiano su strada si disputa sul percorso Busalla-Serravalle Scrivia-Tortona-Voghera-Casteggio-Santa Giuletta e ritorno (120 km) e il favorito Loretz viene sconfitto: si impone il genovese Geo Davidson, che lo stacca di 30 secondi. Davidson diventerà in seguito presidente federale.
Poi, per tre anni di fila, vince Gilbert Marley, soprannominato Castigo di Dio. Nel 1886 la gara si disputa sul percorso Milano-Binasco-Pavia-Belgioioso-Corteolona-Casalpusterlengo-Lodi-Melegnano-Rogoredo. L'anno dopo in Piemonte sul tracciato Carmagnola- Cavallermaggiore-Savigliano-Saluzzo-Carignano. Nel 1888 si gareggia intorno a Pavia. Con Marley finisce l'era dei bicicli.
Nel 1890, infatti, il conte Braida vince a Treviso su bicicletta dotata di catena e gomme piene a 26,658 km/h di media sui 120 km del percorso. L'anno dopo, il pavese Ambrogio Robecchi vince a 27,185 km/h, una media più alta, ma ha già i pneumatici. Il 23 maggio 1891, alle 5 del mattino, 28 corridori si presentano al via della Bordeaux-Parigi (572 km): vince l'inglese Mills alla media di 21,518 km/h, con un'ora e 16 minuti di vantaggio sul secondo. Il 6 settembre di quell'anno al Bois de Boulogne sono 206 i concorrenti della Parigi-Brest-Parigi (1185 km): il vincitore Charles Terront, a 17,631 km/h, è l'unico ad adottare i pneumatici smontabili.
La corsa viene concepita come sfida titanica. Anche su pista prendono piede le gare di 24 ore, come Le Bol d'or, oppure di 48 o addirittura 72 ore e le Sei giorni senza interruzione in cui i corridori percorrono più di 3000 km senza scendere dalla bicicletta. E davanti a sforzi sovrumani, prende piede il doping: caffeina, estratto di noce di kola, stricnina, arsenico.
La bicicletta varca i confini nazionali, collega regioni, stati diversi. Ecco la Vienna-Berlino (1893), la Parigi-Bruxelles e la Milano-Monaco (1894).
Le corse conquistano un posto fisso nel calendario. Il 19 aprile 1896, domenica di Pasqua, ecco la prima Parigi-Roubaix (per questo sarà sempre chiamata La Pascale). In quella prima edizione, tra i forfait dell'ultim'ora, c'è quello di Desgrange, che, sette anni dopo, sarà il fondatore del Tour de France. Partono 45 professionisti e 6 dilettanti. In prima fila i favoriti, Charles Meyer, Josef Fischer, l'italiano Maurice Garin, Paul Guignard, Arthur Linton. Il gallese Arthur Linton passa per primo nella foresta di St.-Germain. Presto il tedesco Fischer lo raggiunge. Ad Amiens Garin ha sui due battistrada 5 minuti di ritardo, Meyer 23. Poi un cane fa cadere Linton e Fischer fugge via. Sulla Côte de Doullens ha 11 minuti su Garin, 18 su Linton, 25 su Meyer. Fischer evita di misura un cavallo imbizzarrito, fa lo slalom tra una mandria di mucche, entra nel velodromo di Roubaix, effettua i sei giri obbligatori e vince tra gli applausi. Dopo 13 minuti arrivano Meyer e Garin, che è ferito per una brutta caduta. Diciassettesimo termina un nero parigino, Vendredi. Fischer ha impiegato 9h17′ correndo a una media di 31 km/h.
In Italia il pavese Eugenio Sauli vince la Gran fondo del 1894, da Milano a Torino, arrivando solo in corso D'Azeglio dopo 26 ore di corsa. È un pistard, uno specialista della velocità. Sotto il sole rovente, stacca tutti a Villafranca.
I bicicli sono strumenti d'acrobazia. Pretendono una platea e la pista è un ambiente ideale. Il 25 marzo 1876, sulla pista dell'Università di Cambridge, F.L. Doods, con un biciclo a ruote piene del peso di 25 kg, copre 25,508 km in un'ora. La prima Sei giorni si disputa a Londra nel 1878: la vince F. Smythe che copre 1800 km con la sua bici di ferro. L'anno dopo, negli Stati Uniti, ecco le Sei giorni di Boston e Chicago, vinte dal francese Terront sul suo grand-bi.
Su pista i bicicli resistono per un po' alla comparsa delle prime biciclette, meno vistose, più banali. Ma, in seguito, l'apparizione dei pneumatici ne decreta la fine. I campionati di bicicli sono soppressi nel 1893.
L'11 maggio di quell'anno un francese, Desgrange, sulla pista parigina di Buffalo, copre 35,325 km in un'ora: è il primo record dell'ora senza allenatori. Desgrange ha usato una bici fornita di pneumatici. Prima di lui, però, erano stati riconosciuti venti record dell'ora 'liberi': con bicicli, biciclette, tricicli, con allenatori forniti di biciclette oppure tandem. Il record dell'ora 'libero' presto supererà i 100 km: Guignard, nella scia di una moto con schermo aerodinamico, nel 1909 raggiungerà i 101,623 km.
Nei primi anni Novanta dovunque proliferano i velodromi, dove si disputano corse di resistenza e prove di velocità che richiamano folle enormi per vedere assi come Zimmerman, Taylor, il suo rivale Edmond Jacquelin, il danese Thornwald Ellegard (sei titoli mondiali nel periodo 1901-1911) e il grande Frank Kramer. Campioni della belle époque, re scintillanti, destinati spesso a una fine misera: Taylor, a 54 anni, si spegne in miseria in un ospedale di Chicago; Jacquelin, ridotto a clochard, muore di fame e freddo su una banchina lungo la Senna nel 1928.
È la pista a lanciare il grande ciclismo. In Francia, già prima della guerra franco-prussiana (scoppiata nel luglio 1870), si disputano decine e decine di corse di velocità in recinti chiusi. Il primo Campionato del Mondo ufficiale su pista si corre a Chicago dal 7 al 12 ottobre 1893 in occasione dell'Esposizione internazionale, con 28 anni di anticipo sul primo mondiale su strada.
A dire il vero già da vent'anni, in vari paesi, si disputavano prove chiamate pomposamente campionati del mondo, ma solo dopo l'istituzione della International Cyclist Association, nel 1892, i titoli di campione del mondo diventano credibili. Non c'è l'Italia tra gli otto paesi fondatori di quella prima Federazione internazionale: Stati Uniti, Canada, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Inghilterra e Olanda. In realtà l'Unione velocipedistica italiana aveva inviato a Londra il suo rappresentante, Giuseppe Bonetto di Torino, ma non gli aveva dato delega scritta, né aveva mandato in tempo la prescritta adesione.
Due le specialità nel primo Campionato del Mondo: velocità e mezzofondo, riservate ai dilettanti. Tre le gare in programma: miglio, mezzofondo sui 10 km senza allenatori, mezzofondo sui 100 km con allenatori che mantengono il concorrente nella scia. Lo statunitense Zimmerman, detto Zimmy, vince le prime due, il sudafricano Laurens Meintjes la terza.
Zimmy, 24 anni, è un corridore straordinario, il primo a correre i 200 m in 12 secondi. È un re dei velodromi: nel 1894 entusiasma gli appassionati italiani alle Cascine e all'Arena. Corre d'agilità, con un rapporto da 5,33 m e una frequenza altissima di 180 pedalate al minuto.
I britannici, promotori della International Cyclist Association, hanno già dichiarato guerra al professionismo nel 1891. Gli organizzatori dei velodromi, così, non potendo dare premi in denaro, propongono i doni più vari, dai diamanti alla pariglia di cavalli bianchi e Zimmy deve stipare nella stiva della nave che lo riporta in patria centinaia di trofei.
La distinzione tra dilettanti e professionisti è ambigua e la situazione presto degenera. Nel 1894 un gruppo di organizzatori ingaggia i corridori migliori nel Buffalo Cycling Club e allestisce gare con premi in denaro. Il contratto di Zimmerman, per una sola tournée in Europa, prevede 25.000 franchi allo sbarco, 30% degli incassi in ogni riunione, premio di 1250 franchi per ogni gara anche in caso di sconfitta, minimo 16 settimane di permanenza, corse non superiori a 10 miglia, garanzia di 25.000 franchi depositati presso la Banca di Francia. Somme enormi.
Zimmy, ormai professionista, non gareggia ai Mondiali di Anversa del 1894, così August Lehr, primo campione del mondo tedesco, vince nella velocità e l'olandese Jaap Eden, campione del mondo di pattinaggio su ghiaccio, si impone nel mezzofondo senza allenatori. Il titolo di mezzofondo con allenatori, invece, va al norvegese Wilhelm Henie; sua figlia Sonia sarà la più famosa pattinatrice della storia.
Il circuito professionista, però, riscuote un maggiore successo e allora la Federazione internazionale nel 1895 ai Mondiali di Colonia ammette anche i professionisti. Le prove diventano quattro: velocità e mezzofondo sui 100 km con allenatori, due per dilettanti e due per professionisti. Questo consente di vedere in azione Jimmy Michael, che domina la gara di mezzofondo sui 100 km, polverizzando tutti i primati.
Il primo Campionato italiano di velocipedismo si disputa a Torino il 24 agosto 1884, in occasione dell'Esposizione generale italiana, su una pista in terra battuta allestita in piazza d'Armi. La finale dei 5000 m è vinta dal milanese Loretz in 10′26,5″, d'un soffio sul vogherese Mazza, mentre il genovese Emanuele Tortarolo finisce terzo. Loretz è all'avanguardia, è l'unico a usare un biciclo Balbiani Safety con ruota anteriore moltiplicata di 115 cm di diametro, mentre gli altri usano bicicli classici, più pesanti, con ruota anteriore da 135-147 cm. L'anno seguente il Campionato viene vinto da Tarlarini che, sportivamente, rinuncia al titolo, perché una caduta ha coinvolto i suoi più forti avversari: Davidson, Loretz e Mazza.
I primi assi della velocità sono Antonio Robecchi, Giuseppe Pasta, Gian Ferdinando Tommaselli, Pietro Bixio, Luigi Pontecchi, Federico Momo. Gli italiani però compaiono sulla scena mondiale solo nel 1898 a Vienna, dove il milanese Pietro Aghemio entra nella finale della velocità dilettanti. Finisce quarto, preceduto anche da Ludwig Opel, ultimo di cinque fratelli ciclisti che nel 1899 daranno vita alla Opel-Automobil.
A Vienna il momento è tragico. Proprio alla vigilia delle gare, il 10 settembre a Ginevra l'imperatrice d'Austria Elisabetta è stata pugnalata a morte dall'anarchico italiano Luigi Luccheni. La riunione è turbata da incidenti e sommosse con centinaia di arresti.
Ai Campionati del Mondo di Montreal del 1899 nella velocità c'è il trionfo di Taylor. Lì, nel mezzofondo, compaiono le prime macchine allenatrici a motore. Questo porta a un aumento progressivo della velocità e dei pericoli: le corse dietro motori conoscono un successo clamoroso, ma il prezzo dello spettacolo è troppo alto. Perdono la vita gli statunitensi Harry Elkes (Boston, 1903) e George Leander (Parigi, 1903), i francesi Charles Brecy (Parigi, 1904) e Gustave Ganay (Parigi, 1926), via via fino al tedesco Thaddeus Robl (Stettino, 1910) e al francese Louis Darragon (Parigi, 1918), campioni del mondo.
La prima vittoria italiana ai mondiali è merito di Tommaselli, di Salò, che nel 1900 a Parigi, insieme all'olandese Meyers, vince la gara dei tandem professionisti. L'anno prima si era imposto nel Grand Prix di Parigi; poi, nella Bianchi, diventerà pilota nelle prime gare automobilistiche e, quindi, direttore sportivo di Lucien Petit-Breton, Giovanni Gerbi, Carlo Galetti, Gaetano Belloni, Costante Girardengo.
Il velodromo di Porta Salaria a Roma, nel 1902, è sede del primo Campionato del Mondo disputato in Italia. Vittorio Emanuele III assiste alle gare e premia il grande Ellegaard con un cronometro d'oro con lo stemma reale in brillanti.
Due nomi famosi scendono in gara per l'Italia a Londra nei Mondiali del 1904: Gerbi e Giuseppe Nuvolari. Gerbi, 19 anni, cade rovinosamente nel mezzofondo professionisti. Nel mezzofondo dilettanti Nuvolari, 33 anni, finisce quarto. Ha iniziato a pedalare seguendo l'esempio del fratello maggiore Arturo, campione italiano bicicletti junior. Ha già vinto due titoli italiani tra i professionisti, ma è stato riqualificato dilettante. Suo nipote Tazio, figlio di Arturo, diventerà il pilota automobilistico italiano più famoso della storia.
La pista è avara per gli italiani che, solo a Ginevra nel 1906, conquistano la vittoria con Francesco Verri nella velocità dilettanti. È l'anno magico del mantovano, che vince tre ori ai Giochi Olimpici intercalari di Atene.
Quanto al record dell'ora, il primato di Desgrange era stato già polverizzato. Il 31 ottobre 1894 il francese Jules Dubois, sulla stessa pista di Buffalo, aveva percorso 38,220 km. Il 30 luglio 1897, al velodromo di Vincennes, il belga Oscar Van den Eynde era arrivato a 39,240 km. Poi, il 9 luglio 1898, lo statunitense William Hamilton, a Denver (Colorado), aveva coperto 40,781 km. Poiché Denver è a 1610 m sul livello del mare, si tratta del primo record in quota.
Nel novembre 1902 Géo Lefèvre, 25 anni, suggerisce a Desgrange, direttore della rivista L'Auto-Vélo, di creare una Sei giorni su strada e persuade il tesoriere Victor Goddet; il progetto parte.
Il primo Tour si svolge dal 1° al 19 luglio 1903; presenta 6 tappe per complessivi 2428 km. Tocca Lione, Marsiglia, Tolosa, Bordeaux, Nantes, Parigi, con arrivo al Parc des Princes. Per il vincitore un premio di 3000 franchi. La corsa è senza allenatori (corridori incaricati di battere il passo), soigneurs ("massaggiatori") e suiveurs ("sostenitori al seguito", per rifornimenti o assistenza meccanica). L'assenza degli allenatori è una grande novità: dal 1891 le gare più importanti erano con allenatori. Mercoledì 1° luglio, alle 15.00, alla periferia di Parigi, 60 ciclisti si schierano alla partenza, tra di loro due italiani: Rodolfo Muller ed Emilio Torisani. Il percorso della prima tappa è di 467 km. Il regolamento del Tour divide i corridori in due gruppi: uno fa tutto il percorso, l'altro gareggia nelle singole tappe, così anche chi si ritira può tornare in gara per la vittoria di tappa. Per evitare collusioni e alleanze, a partire dalla terza tappa, Desgrange ordina la partenza separata dei due gruppi, con intervallo di un'ora.
La prova è seguita dalla Revue sportive. Lefèvre segue il Tour in treno e bicicletta. Poiché il percorso è vicino alla linea ferroviaria, Lefèvre scende a una stazione, in bicicletta si porta sul percorso, effettua un controllo a sorpresa, segue pedalando i corridori per qualche chilometro e li intervista, riprende il treno e si precipita al traguardo. E lì prende l'ordine d'arrivo, telefona classifiche e servizi.
Garin, il vincitore della prima tappa, percorre 467 km alla media stupefacente di 26,300 km/h, staccando il secondo, Émile Pagie, in vista del traguardo. Tra i due solo 55″, il terzo, Léon Georget, giunge dopo 35 minuti.
Il livornese Muller finisce undicesimo con 5 ore di ritardo, Fischer arriva diciannovesimo staccato di 6h23′. Se Garin impiega 17h45′13″ e passa una notte sui pedali, l'ultimo, Eugène Brange, pedala per due notti e giunge con un ritardo di 21 ore.
Garin si impone in tre tappe su sei, ma deve faticare e soffrire. Alla fine è primo nella classifica generale con 2h59′21″ di vantaggio su Lucien Pothier; Muller finisce quarto a 4h39′30″ dal vincitore.
I francesi lo chiamano Lensois ("cittadino di Lens"), ma Garin ha sangue italiano. È nato il 3 marzo 1871 ad Arvier (frazione Chez-les-Garin), nella Valle d'Aosta, quarto dei nove figli di Clément-Maurice e della piemontese Maria Teresa Osello. A 13 anni emigra in Francia, in Savoia; nel 1886 è a Reims; poi si sposta in Belgio a Fontaine-Lévêque e Charleroi, e nel 1889 è a Maubeuge. Diventato maggiorenne ‒ secondo una versione che resistette per oltre un secolo ‒ ottiene la cittadinanza francese. Nel 1895 si trasferisce a Roubaix e lì, con i fratelli François e César, apre un negozio di biciclette. Tra i suoi fratelli, anche César e Ambroise, minori di lui di quattro e otto anni, sono eccellenti corridori. I tre si piazzano 8 volte sul podio nelle prime nove edizioni della Roubaix dal 1896 al 1904: due volte primi, due volte secondi e quattro volte terzi.
La sua passione per il ciclismo nasce a Maubeuge, cittadina francese vicino alla frontiera con il Belgio. Lì, a 18 anni, Maurice acquista una bici con le gomme piene e comincia a gareggiare: è così spericolato che gli viene dato il soprannome di Le Fou. Maurice è di corporatura piccola: solo 163 cm per 62 kg. Nel 1893 acquista una bicicletta nuova, più moderna, con i pneumatici. Vince subito la Namur-Dinant-Givet e ritorno, una corsa classica belga lungo la Mosa. Quel successo gli procurò una sfida lanciatagli dal belga Hymans: 800 km di percorso, 1000 franchi la posta. Garin la vince. Le sfide tra campioni, a quel tempo, costituiscono la via più rapida per la notorietà e procurano nuovi ingaggi.
Nel 1894 Maurice vince la 24 ore di Liegi su pista mostrando eccezionali qualità di resistenza. Il 2-3 febbraio 1895, contro campioni famosi come i fratelli Linton, si aggiudica la 24 ore di Parigi, disputata nel capannone delle Arti liberali agli Champs de Mars con temperatura sotto lo zero. Accanto alla pista sono accesi bracieri per riscaldare i corridori congelati, incapaci di proseguire. Garin, in quelle condizioni, percorre 701 km. Per i giornali diventa Le Petit ramoneur ("Il Piccolo spazzacamino"). Scende in gara anche nella prima edizione della Parigi-Roubaix, disputata il 19 aprile 1896, e sale sul podio. Si impone, poi, per due volte di fila, nel 1897 e nel 1898. Garin è orgoglioso, ostinato e detesta la sconfitta. Il 15 agosto 1901 si schiera al via della seconda Parigi-Brest-Parigi (1185 km). A Brest, a metà percorso, ha già due ore di distacco da Lucien Lesna, il favorito, ma non demorde. Nel ritorno rimonta, arrivando, di notte, a Mayenne, a ridosso del rivale: lo salta e va a vincere. Impiega 52h11′ contro 71h22′ del vincitore di dieci anni prima, Terront, alla media di 22,995 km/h contro 16,814 km/h. Il 26 luglio 1902 vince anche la Bordeaux-Parigi, con 1h10′ di vantaggio su Lesna.
Nel 1904, a 33 anni, la carriera di Garin si chiude. A Lens apre un'autorimessa che le bombe degli Alleati centrano in pieno nel 1944 distruggendola. A 73 anni, ricomincia da zero e la ricostruisce.
Orio Vergani, sul Corriere d'informazione, gli regala l'epitaffio con il titolo "Saluto a Garin, primo soldato della Grande Armée della bicicletta". Ma dagli archivi del municipio di Chalons-sur-Marne, nel dicembre 2004, esce la prova che Garin fu naturalizzato francese solo il 21 dicembre 1901. Era italiano, quindi, quanto vinse le due Roubaix e la Parigi-Brest-Parigi e, di conseguenza, è il primo campione del ciclismo italiano.
Il successo del primo Tour è enorme. Così il percorso della seconda edizione è identico: stesse sei tappe. Per la prima volta tra i partenti ci sono due corridori che vengono dall'Italia: l'astigiano Gerbi e il pavese Giovanni Rossignoli. Sono due assi, ma non lasciano il segno nella competizione. Il 2 luglio Rossignoli non finisce la prima tappa, Parigi-Lione (467 km), mentre il 9 luglio nella seconda, Lione-Marsiglia (374 km), Gerbi, picchiato dalla folla, è costretto al ritiro. In questo Tour succede di tutto: aggressioni ai corridori, manifestazioni, semina di chiodi, spari, irregolarità di ogni tipo. A Parigi vince di nuovo Garin.
Ma quattro mesi dopo, il 30 novembre, l'Union vélocipédique de France squalifica parecchi corridori tra cui i primi quattro: Garin, sospeso per due anni, Lucien Pothier, squalificato a vita, César Garin e Hippolyte Aucouturier. La vittoria viene assegnata al quinto classificato, Henri Cornet.
Infatti, nella prima tappa un'automobile ha cercato a più riprese, per sei chilometri, di far cadere nel fossato Garin e Pothier; inoltre Pierre Chevalier ha compiuto parte del percorso in automobile. Nella seconda, sul Col de la République, Antoine Faure aveva accelerato seguito da Pothier, i due avevano sfiorato un centinaio di persone armate di bastoni e pietre, che, dopo il loro passaggio, avevano fermato la corsa gridando: "À bas Garin! Vive Faure! Tuez-les!". Garin era stato colpito, Gerbi era finito sotto una gragnuola di colpi ed era stato costretto al ritiro. Le vetture del seguito dovettero aprirsi un varco a colpi di pistola.
Più avanti nuovi problemi. Dopo che Ferdinand Payan d'Alès venne espulso per uso di allenatori, al controllo di Nîmes, guidati da Payan, 150 scalmanati assalirono i corridori, costretti a difendersi con i pugni; vennero sparati colpi di revolver dalle vetture del seguito, sulla strada furono sparsi cocci di bottiglia e chiodi. Tra le altre irregolarità, alleanze tra corridori, scia e traino da parte di alcune vetture, uso di allenatori e di scorciatoie, rifornimenti illeciti, assistenza al di fuori dei controlli. Alla fine 29 corridori subiscono sanzioni. Spariscono dalla classifica 12 dei 27 arrivati a Parigi: tra loro 8 dei primi 13.
Non è l'unico scandalo. Nella Bordeaux-Parigi di qualche settimana prima erano stati squalificati i primi quattro, Léon Georget, Petit-Breton, César Garin, Muller, e la vittoria era toccata a Fernand Augereau, quinto al traguardo con 4 ore e mezza di distacco dal primo, Georget. Nel verdetto di squalifica si parla di chiodi, avvelenamenti, traino da motori.
Alla fine di quel Tour, Desgrange, amareggiato, annuncia la sua rinuncia all'organizzzione della corsa, ma due mesi dopo ci ripensa: la bicicletta lo ha stregato.
Il Tour cambia formula nel 1905. La classifica è a punti, non più a tempi, e si comincia a correre in montagna: Ballon d'Alsace, Côte de Laffrey, Col Bayard.
La montagna spaventa. La bici pesa ancora 15 kg, non c'è il cambio, né la ruota libera, ma il pignone fisso. Ai piedi del Ballon d'Alsace i corridori di testa prendono bici con rapporti che sviluppano 4,50 m per pedalata. Lì l'11 luglio 1905 si incorona il primo re della montagna: René Pottier, dominatore del Ballon d'Alsace, una scalata di 12 km. Anche in questo Tour sono stati disseminati chiodi sul percorso: l'inchiesta appurerà che ne erano stati comprati 125 kg. Il vincitore, Louis Trousselier, la sera della vittoria, in una cabina del velodromo di Buffalo, si gioca a carte i 25.000 franchi di premio e li perde tutti.
Garin è uscito di scena. Squalificato a 33 anni, nega di aver commesso irregolarità nel Tour 1904 e si rifiuta di correre finché non gli saranno presentate scuse ufficiali. E questo non avverrà mai.
L'anno dopo, nel 1906, Pottier, 27 anni, vince 5 tappe, conquista il Tour e la gloria. Arriva con il quartetto di testa a Lille nella prima tappa, vince la seconda per distacco a Nancy. Poi, l'8 luglio 1906, nella terza tappa, Nancy-Digione (416 km), trova il Ballon d'Alsace. Passa da solo sulla cima, fugge per altri 210 km e arriva a Digione con oltre tre quarti d'ora di vantaggio sul secondo. Questo l'ordine d'arrivo: primo Pottier, secondo Georges Passerieu a 47′52″, terzo Marcel Cadolle a 47′56″, quarto Petit-Breton a 48′29″, quinto Émile Georget a 1h18′19″. Poi Pottier arriva solo a Grenoble e a Nizza: quattro vittorie consecutive per distacco. A quel punto, avendo ormai un vantaggio di punti netto, lascia spazio agli altri, salvo vincere l'ultimo traguardo a Parigi.
Pottier in montagna è un campione straordinario, irresistibile, ma è forte anche in piano e su pista. È un uomo introverso, ipersensibile, misterioso, che non conosce il sorriso. Il 25 gennaio 1907 viene trovato senza vita, appeso al gancio dove era solito attaccare la bicicletta. È il primo dei grandi drammi della bici.
Alla fine dell'Ottocento, in Italia, l'organizzazione delle corse è ancora estemporanea. All'estero, invece, le classiche si sono già consolidate: dal 1891, ogni anno, si disputa la Bordeaux-Parigi, dal 1894 la Liegi-Bastogne-Liegi, dal 1896 la Parigi-Roubaix e la Parigi-Tours.
Sono i giornali a promuovere le corse. Sulla fine dell'Ottocento fioriscono dovunque fogli sportivi. Dopo La Rivista velocipedistica a Torino di Fenoglio e Vanigli che costituisce l'ossatura dell'Unione velocipedistica italiana, ecco, nel 1890, Il Ciclo e Il Ciclista a Milano e La Tripletta, su carta verde, a Torino. Il Ciclo cambia il proprio nome e diventa La Bicicletta nel 1894, poi nel 1898 nasce Il Corriere dello sport, che scomparirà nel 1903. Anche Il Ciclista e La Tripletta abbandonano la scena, si fondono e danno luogo il 3 aprile 1896, a Milano, a La Gazzetta dello sport che all'inizio esce due volte alla settimana. Quest'ultima, nel 1902, organizza la Gran fondo (600 km), nel 1905 il Giro di Lombardia, nel 1907 la Milano-Sanremo, nel 1909 il Giro d'Italia.
La Gran fondo appartiene alla storia del ciclismo italiano. Disputata solo 9 volte (la prima nel 1894 era stata vinta da Eugenio Sauli), si svolge per tre anni consecutivi nel periodo 1902-1904. Viene vinta per due volte da Enrico Brusoni, un bergamasco nato ad Arezzo, che su pista era un campione della velocità, ma è la Gran fondo del 1903 a entrare nella leggenda: dominata a lungo da Gerbi, 18 anni, viene vinta da Rossignoli con 5 ore di vantaggio.
Il Giro di Lombardia debutta il 12 novembre 1905 su un percorso di 230 km: Milano-Rogoredo-Lodi-Crema-Bergamo-Lecco-Como-Varese-Legnano-Milano. I partenti sono 55, tutti italiani. Al via Gerbi prende subito la testa, ha studiato il percorso, conosce persino le rotaie del tram. All'ingresso di Lodi si porta al centro della strada mentre gli altri insistono dentro i binari, finché allo scambio si verifica una caduta generale. Gerbi ne approfitta per lanciare la sua offensiva. Stacca subito Parini e fugge da solo. Incrementa il vantaggio: 4 minuti a Crema, 18 a Bergamo, 22 a Lecco, 27 a Como, 36 a Varese su Rossignoli e Luigi Ganna, gli unici che cercano di reagire. Dopo quasi 200 chilometri di fuga solitaria, Gerbi vince con 40 minuti di vantaggio su Rossignoli e Ganna, con 52 su Carlo Galetti.
Gerbi è nato ad Asti il 4 giugno 1885. Figlio di un oste, comincia a lavorare a 12 anni, fa lo scalpellino, il sarto, il garzone di salumeria, l'oste, il contadino, il conciapelli, il muratore, ma capisce subito che il suo regno è la strada. Prepotente, testardo, furbo al limite della perfidia, audace ai confini della temerarietà, Gerbi si esalta in bicicletta. Giovanissimo è già un campione. Vince la Coppa del re e la Milano-Alessandria a 17 anni. Passa professionista a 18, partecipa al Tour a 19. Dovunque vada diventa protagonista. Studia il percorso in maniera maniacale, cerca i punti dove poter sferrare l'attacco. Dopo aver travolto tutti nel primo Giro di Lombardia, diserta la seconda edizione dell'11 novembre 1906, con 53 partenti e percorso ridotto a 197 km: Milano-Treviglio-Bergamo-Lecco-Como-Varese-Gallarate-Legnano-Milano.
Ricompare nel terzo Giro di Lombardia. È soprannominato il Diavolo rosso dal colore della maglia che indossa in gara. Il 3 novembre 1907 trova alla partenza tre grandi campioni francesi: Petit-Breton, Gustave Garrigou, Émile Georget, che lo conoscono e lo temono. Gerbi viene da una stagione impressionante: ha vinto per distacco la Corsa Nazionale, la Milano-Firenze, la Roma-Napoli-Roma, il Giro delle Antiche Province e la Coppa Savona.
Alla partenza sono in 100. Il percorso (210 km) è cambiato ancora: non si arriva a Milano ma a Sesto San Giovanni. Gerbi forza subito dopo pochi chilometri e fugge via imprendibile. Vince con quasi 40 minuti di vantaggio su Garrigou. Dopo l'arrivo, però, viene squalificato e la vittoria finisce a Garrigou. Diversi sono i capi d'accusa raccolti contro di lui dalla giuria: al passaggio a livello di Busto Arsizio i suoi tifosi hanno impedito al suo compagno di fuga Georget di passare; ha pagato allenatori per essere tirato quando era in fuga; gli stradini di Monza erano pronti, dopo il suo passaggio, a buttare ghiaia sulla banchina, l'unico punto percorribile, per frenare gli inseguitori; aveva fatto mettere sulla strada rastrelliere con punte acuminate e seminare chiodi.
Vulnerabile in volata, Gerbi architetta stratagemmi per arrivare da solo al traguardo. Si serve spesso di un complice, che, travestito da carabiniere, devia il gruppo lanciato all'inseguimento in una strada sbagliata. Di notte ricorre a mezzi più semplici: "Curva a destra", urla in testa al gruppo mentre devia a sinistra, così gli altri finiscono su un'aia o in un letamaio. Viene squalificato per due anni dall'UVI, poi la pena viene ridotta a sei mesi a furor di popolo. Gerbi è il primo personaggio mediatico del ciclismo italiano. I cantastorie ne celebrano le gesta sulle piazze dei paesi.
La prima Milano-Sanremo parte dall'osteria della Conca Fallata lungo il Naviglio, alla periferia di Milano, il mattino del 14 aprile 1907. Tra i 33 partenti, oltre ai migliori italiani, ci sono campioni di gran nome come Trousselier, vincitore del Tour del 1905, e Petit-Breton, detentore del record dell'ora.
Petit-Breton è stato ingaggiato dalla Bianchi per la quale gareggia anche Gerbi, il quale è protagonista anche della prima Milano-Sanremo: Gerbi conosce ogni insidia del percorso, passa da solo sulla Colletta e sui Piani d'Invrea, ma a Savona, dopo 100 km di fuga, viene raggiunto dal francese Garrigou. Certo di essere battuto in volata, Gerbi favorisce il rientro di Petit-Breton. Patteggia con il compagno la divisione del premio-vittoria, poi, a 800 m dall'arrivo, fa cadere Garrigou. Vince, così, Petit-Breton che ha percorso i 288 km alla media di 26,206 km/h.
Garrigou, inferocito, taglia il traguardo con un minuto di ritardo. Gerbi, secondo, viene declassato al terzo posto. Ganna, quarto, e Galetti, quinto, giungono con 32 minuti di distacco. Pavesi è sesto a più di un'ora. Il campione d'Italia Giovanni Cuniolo è settimo a oltre un'ora e mezza. Il successo di Petit-Breton apre l'Italia agli assi stranieri e produce un salto di qualità nelle competizioni.
Il 5 aprile 1908, nella seconda Milano-Sanremo, mancano Gerbi, squalificato, e il campione d'Italia Cuniolo, in trasferta in Australia. Al via si presenta un belga, Cyrille Van Hauwaert. Viene da un paese ancora senza tradizione ciclistica. Era apparso nella Parigi-Roubaix dell'anno prima, non sapeva parlare nemmeno una parola di francese e non aveva nessun allenatore al seguito. Il suo nome venne subito storpiato in Vanhouwaert. Sconosciuto a tutti, era arrivato secondo a Roubaix, primo belga a salire sul podio, e due mesi dopo aveva vinto la Bordeaux-Parigi. Si aggiudica la Milano-Sanremo, dopo 100 km di fuga solitaria, con 3 minuti e mezzo di vantaggio su Ganna.
Due settimane dopo, il 19 aprile, si schiera al via della Parigi-Roubaix dove sono presenti anche gli italiani Ganna e Pavesi. La gara è caratterizzata da un formidabile attacco di François Faber, un gigante di 21 anni, che fugge solo per 65 km fino a Roubaix. Dietro di lui Van Hauwaert lancia la sua controffensiva, riesce a raggiungerlo a 150 m dall'ingresso del velodromo quando Faber, stremato, cade. Van Hauwaert piomba su di lui mentre si rialza, lo salta ed entra primo sul cemento della pista firmando così una doppietta unica e rara: Sanremo e Roubaix.
Van Hauwaert è nato a Moorslede, in Belgio. Affascinato fin da piccolo dalle biciclette, compra dei tubi Reynolds e dal fabbro del villaggio si fa costruire un telaio, ci mette due ruote e la bici è fatta. Si alza alle 3 del mattino per allenarsi sulla strada di Ostenda o di Ypres.
Quando debutta nel ciclismo internazionale per la Bruxelles-Roubaix è digiuno di corse. Eppure entra per primo nel velodromo ma, non sapendo da che parte andare, causa una caduta generale. Finisce nono, confuso e insultato. Accetta un ingaggio come allenatore di Pottier per la Parigi-Roubaix del 31 marzo 1907 ma Pottier si uccide. Grazie a lui il ciclismo belga, fino allora inesistente, decolla. Nel 1907 in Belgio ci sono soltanto 6 velodromi, nel 1912 saranno 44. In quel periodo i tesserati passano da 125 a 4500. Il Belgio regalerà alla bicicletta straordinari campioni.
Vincendo la Milano-Sanremo del 1907 Petit-Breton diventa una stella anche in Italia. È un passista straordinario.
Petit-Breton, in realtà, si chiama Lucien Mazan ed è figlio di un orologiaio di Plessé, nella Loira Inferiore, fanatico repubblicano. Battuto alle elezioni, il padre decide di lasciare la Francia, chiude il negozio e vende tutto. Nel 1890 salpa da St.-Nazaire verso l'America portando con sé il piccolo Lucien di 8 anni. Si stabilisce in un quartiere popolare di Buenos Aires dove Lucien cresce. Stimolato dai racconti sugli eroi francesi della bicicletta come Rivierre e Garin, Lucien con i primi risparmi si compra una bicicletta da corsa. Dopo un anno è già campione argentino.
Poiché il padre si oppone alla sua passione, Lucien adotta lo pseudonimo di Breton. Quando rientra in Francia, a 19 anni, lo cambia in Petit-Breton.
È un corridore elegante, eclettico, leale e forte. Su strada, oltre alla prima Milano-Sanremo, ha vinto la Parigi-Tours e la Parigi-Bruxelles, il Giro del Belgio nel 1908; su pista ha battuto il record dell'ora e vinto Le Bol d'or, coprendo 852 km in 24 ore. Nel Tour del 1907, dopo che Georget aveva vinto cinque delle prime otto tappe, nella nona passa al contrattacco tra Tolosa e Bayonne, una fuga di 200 km, e arriva da solo con 23 minuti di vantaggio. Petit-Breton ama l'attacco, è in grado di ripetere più accelerazioni successive stroncando gli avversari. Si impone davanti a Garrigou. L'anno dopo vince cinque tappe dominando il Tour. È il primo corridore a realizzare la doppietta. Anche i suoi fratelli, Paul, vincitore della Vuelta a Tarragona e campione di Francia dilettanti, e Anselme sono corridori. Sarà protagonista grande e sfortunato di quattro Giri d'Italia. Lo attende un destino tragico: il 20 dicembre 1917 perde la vita a Troyes dopo un grave incidente d'auto durante una missione sul fronte delle Ardenne a Vouziers nel corso della prima guerra mondiale.
L'8 novembre 1908, al via del Giro di Lombardia, si presenta un gigante di 21 anni, François Faber. Figlio di madre francese e padre lussemburghese, opta per il Granducato ma corre e vive in Francia. È soprannominato Le Géant de Colombes.
Faber è arrivato secondo nell'ultimo Tour, battuto solo da Petit-Breton, ma ha vinto quattro tappe. Alla partenza del Giro di Lombardia piove e la corsa si trasforma in una battaglia nel fango. A 38 km dal traguardo Faber di forza se ne va e arriva a Sesto San Giovanni con 14′57″ su Ganna, secondo, e 24′09″ su Gerbi, terzo. Questo Giro di Lombardia è la sua rampa di lancio. L'anno dopo vince la Parigi-Bruxelles, la Parigi-Tours, la Sedan-Bruxelles e il Tour de France. Il suo dominio è schiacciante: vince 5 tappe consecutive, poi lascia spazio ai compagni di squadra. È il primo straniero a vincere il Tour.
Anche nel Tour del 1910 impone la sua superiorità in avvio. Sembra avere la corsa in pugno, ma il 21 luglio, nella decima tappa, Luchon-Bayonne (326 km), si devono affrontare quattro colli: Peyresourde (1545 m), Aspin (1497 m), Tourmalet (2122 m) e Aubisque (1918 m). Per la prima volta il Tour va oltre i 2000 m. Lì Faber subisce l'assalto di Lapize, che, nella tappa successiva, rimonta e lo supera in classifica. Cerca il capovolgimento anche nell'ultima tappa, Caen-Parigi (262 km), ma una foratura lo ferma. Arriva quarto al Parc des Princes a 1′50″ da Ernesto Azzini che quel giorno, 31 luglio 1910, coglie la prima vittoria italiana al Tour.
Faber, l'uomo del fango, mette nel suo albo d'oro una vittoria e due secondi posti al Tour, con 19 vittorie di tappa, oltre a sei classiche: il Giro di Lombardia, due Parigi-Tours, la Bordeaux-Parigi, la Parigi-Bruxelles e, nel 1913, anche la Parigi-Roubaix, dove batte in volata il belga Charles Deruyter e il francese Charles Crupelandt.
Faber muore da eroe il 9 maggio 1915, a 28 anni, durante l'attacco di Garency. Solo e disarmato esce dalla trincea per portare in salvo un commilitone ferito ma viene colpito alla testa da un proiettile. Faber, come lussemburghese, avrebbe potuto evitare la guerra ma si era arruolato volontario nella Legione straniera.
All'inizio del secolo la bici conquista anche l'Italia. Le gare si moltiplicano e assumono una cadenza annuale: Giro del Piemonte (1906), Campionato italiano (1906), Giro dell'Emilia (1909), Giro del Veneto (1909), Giro di Romagna (1910), Giro dell'Umbria (1910), Giro di Campania (1911). Il ciclismo diventa il primo sport. Il 24 agosto 1908 Eugenio Costamagna, direttore de La Gazzetta dello sport, con i suoi collaboratori Armando Cougnet e Tullio Morgagni annuncia il Giro d'Italia: 3000 km di corsa, 25.000 lire di premio. Non c'è stata pianificazione. Il 5 agosto si era venuto a sapere che Il Corriere della sera, con la Bianchi, ditta costruttrice di biciclette, e con il Touring Club Italiano, vuole lanciare un Giro ciclistico d'Italia sulla falsariga di quello automobilistico già varato con successo dallo stesso giornale. I tre, allora, per battere la concorrenza, improvvisano il nuovo Giro, senza copertura finanziaria, fidando sulla buona stella e sulla passione della gente. Il modello è il Tour. Nelle sei edizioni già disputate hanno partecipato 11 corridori italiani.
Non è la prima corsa italiana a tappe. Nel 1907 e nel 1908 si era già disputato il Giro di Sicilia, dove per due volte si era imposto il milanese Galetti. Alla vigilia del Giro, il 4 aprile 1909, Ganna nella Milano-Sanremo s'impone con 3 minuti di vantaggio su Georget, 18 su Cuniolo e Van Hauwaert, 21 su Gerbi, 22 su Faber. Il Giro parte dal rondò di Loreto a Milano alle 2.53 di notte del 13 maggio 1909. Si schierano 127 corridori che dovranno affrontare 2448 km distribuiti in 8 tappe, che variano da 397 a 206 km. Ogni tappa è intervallata da uno o due giorni di riposo: così la corsa dura 18 giorni. Il Giro è a punti, non a tempi. Sei le squadre in lizza. Non c'è il cambio, né la ruota libera, ma il pignone fisso: bisogna pedalare anche in discesa. Le bici pesano tra i 14 e i 16 kg. I rapporti usati sviluppano 5 m per pedalata. C'è una classifica a parte per i 69 concorrenti che usano pneumatici smontabili.
Al via cinque stranieri: quattro francesi e il triestino Henry Heller, austriaco. Tra loro due vincitori del Tour: Trousselier, primo nel 1905, Petit-Breton, vittorioso nel 1907 e nel 1908, che è l'uomo da battere. Tra i tanti c'è anche Romolo Buni, 38 anni, che il 9 marzo 1894 al Trotter di Milano aveva sfidato in bicicletta Buffalo Bill a cavallo e, secondo copione, era stato battuto.
I corridori portano il numero sulla schiena, hanno bici con i parafanghi, il campanello e il fanalino, portano con loro la pinza, il cacciavite, il fil di ferro. I premi ammontano a 18.900 lire: 13.900 messi in palio dalla Gazzetta dello sport, 3000 dal Corriere della sera, 1000 da Vincenzo Lancia e 1000 dalla Federazione. Il premio per la vittoria di tappa è 300 lire, quello per il successo finale 4000.
La corsa è subito dramma. Dopo 1500 m, nel cuore della notte, c'è una caduta. Ganna riparte subito, Gerbi, invece, ha la bicicletta sfasciata, ma non si perde d'animo: in carrozza si reca da un meccanico della ditta Bianchi per farla riparare. Riparte dopo tre ore che è già giorno.
Un temporale accoglie i corridori a Bologna, così all'ippodromo Zappoli la volata di gruppo è falsata dalla folla che, sotto la pioggia, deborda nella pista. Vince il romano Dario Beni, 20 anni, ma la giuria riesce a identificare solo i primi 4 arrivati: un disastro con la classifica a punti. Quando l'ordine d'arrivo viene stilato, ci sono contestazioni e reclami.
Al via della seconda tappa Petit-Breton si presenta con il braccio al collo (si è lussato una spalla a causa di una caduta) e annuncia il suo ritiro. A Chieti, secondo traguardo, si impone il campione d'Italia Cuniolo, che aveva vinto tre titoli italiani di fila, e vengono scoperte le prime scorrettezze. Quattro corridori, Vincenzo Granata, Guglielmo Lodesani, Andrea Provinciali e Giuseppe Brambilla, sono squalificati per aver compiuto una parte del percorso in treno.
Nella terza tappa il Giro scopre le montagne: Roccaraso (1236 m), Rionero Sannitico (1052 m), Macerone (684 m). A Forni del Sannio c'è il primo errore di percorso della storia del Giro: a un bivio non segnalato, quattro degli otto battistrada prendono la strada sbagliata. Rossignoli vince la volata di Napoli e firma con il suo nome la prima tappa di montagna della storia del Giro.
Ganna vince a Roma e Firenze, mentre Gerbi e Trousselier si ritirano. La lotta si riduce a tre corridori: Ganna, Carlo Galetti e Rossignoli. Quest'ultimo si impone anche a Genova. Lì Ganna ha un solo punto di vantaggio su Galetti, ma vince per distacco a Torino.
Al via dell'ultima tappa, Torino-Milano, Ganna ha 3 punti di vantaggio su Galetti e 11 su Rossignoli; si sente sicuro, ma a Borgomanero, a 75 km dal traguardo, fora. Galetti lo attacca e fugge con quattro compagni; a Rho, 15 km dall'arrivo, ha 4 minuti di vantaggio ma viene fermato da un passaggio a livello chiuso. A Musocco Galetti viene raggiunto. L'ultima volata decide il Giro: vince Beni, secondo arriva Galetti, Ganna, terzo, si aggiudica il Giro per 2 punti su Galetti: 25 a 27. Terzo è Rossignoli, 40 punti, quarto Clemente Canepari, 60 punti, quinto Carlo Oriani, 71 punti. Ernesto Azzini è primo degli isolati. Se il Giro fosse stato a tempi, sarebbe stato vinto da Rossignoli con 24 minuti su Galetti e 50 su Ganna.
Ganna, 25 anni, viene da Induno Olona in provincia di Varese. Nel 1910 fonda una fabbrica di bici, la Ganna, e diventa un industriale di successo.
Il successo del primo Giro induce gli organizzatori ad allungare la corsa. La seconda edizione, nel 1910, è di 2987,4 km divisi in dieci tappe. L'interesse fa lievitare gli ingaggi. Ganna, Galetti, Eberardo Pavesi e Mario Bruschera dell'Atala strappano alla Continental, per montare le nuove gomme da 900 g, un premio-vittoria di 24.000 lire, oltre a 1000 lire per ogni vittoria di tappa. Cifre enormi per quel tempo.
Partono in 101. Per la prima volta i corridori indossano la divisa di squadra: ci sono i rossi della Legnano, i bianco-celesti della Bianchi, i grigio-blu dell'Atala e così via. I dilettanti, ammessi al primo Giro, non ci sono più. I professionisti sono divisi in due categorie: corridori d'équipe e individuali. La classifica è ancora a punti.
Il Giro si svolge dal 18 maggio al 5 giugno 1910. La sfida annunciata è Ganna contro Petit-Breton. Ganna fora due volte e, attaccato dai francesi, dopo 300 km di inseguimento solitario arriva a Udine ventunesimo con 24 minuti di distacco; Galetti in volata si piazza secondo dietro Azzini. Quest'ultimo è un corridore elegante e veloce; vincerà due mesi dopo l'ultima tappa del Tour, la Caen-Parigi, primo successo italiano al Tour dopo 92 tappe senza vittoria. Vengono squalificati sette corridori che hanno preso il treno a Conegliano.
Nella seconda tappa, Udine-Bologna, vince Jean-Baptiste Dortignacq, prima vittoria di uno straniero al Giro. Nella terza c'è la grande riscossa dell'Atala con Galetti, Ganna, Pavesi ai primi tre posti. La tappa (345,2 km) è stata corsa alla media record di 31,670 km/h.
Il 24 maggio si corre la tappa più temuta, la Teramo-Napoli, con quattro passi: Colle della Croce (1300 m), Roccaraso, Rionero Sannitico e Macerone. Le strade sono state flagellate dal maltempo e il loro stato preoccupa. Ma la vigilia è scossa da una notizia clamorosa: alcuni corridori dell'Atala sono stati avvelenati; Ganna sta peggio di tutti. Gatti, dirigente dell'Atala, accusa i francesi della Legnano. L'inchiesta degli organizzatori conclude che è tutta colpa di una scatola di pomodori avariati. La corsa, però, riparte piena di ferite, sospetti e rancori. Ganna si stacca subito sulla prima salita e si perde nelle retrovie. Petit-Breton attacca, ma rompe la catena; percorre a piedi i 14 km che lo separano dal controllo dell'Aquila, dove giunge con quasi 2 ore di distacco e, avvilito, si ritira.
Maurice Brocco sbaglia strada, si ricongiunge al percorso a Sulmona e prosegue, passa solo su tutti i quattro passi e a Isernia ha 32 minuti di distacco su Pierino Albini che però lo raggiunge in pianura e lo stacca.
Si chiede l'annullamento della tappa per due motivi: l'avvelenamento degli atleti dell'Atala e l'errore di percorso di Brocco. L'Atala, che ha Galetti saldamente in testa, si oppone e la Legnano, che ha quattro uomini tra i primi dieci (oltre a Petit-Breton), lascia in blocco la corsa. Così, rimasta senza opposizione, l'Atala vince tutte e sei le rimanenti tappe: Ganna arriva per tre volte primo e altrettante secondo.
Il leader Galetti nell'ultima tappa viene investito da un carro ma riparte: con la classifica a punti gli basta arrivare ultimo per vincere il Giro. Stringe i denti e rimonta. Si piazza quinto a Milano a oltre mezz'ora da Ganna, che è arrivato solo. L'Atala conquista i primi tre posti con Galetti, Pavesi e Ganna.
Galetti fa il tipografo: nel 1911 si metterà a stampare Sport. È un periodo florido per il giornalismo sportivo. Il 4 gennaio 1912 vede la luce a Torino il Guerin sportivo, primo giornale di critica sportiva, seguono nel 1913 lo Sport illustrato e la Domenica sportiva.
Il terzo Giro parte da Roma e presenta due grandi novità: va alla conquista del Sud, spingendosi fino a Bari, e sale oltre i 2000 m (al Sestriere, 2030 m).
Favoriti sono Ganna, Galetti, che è passato alla Bianchi, e Petit-Breton. Ma Ganna, dolorante al ginocchio, ben presto si ritira. Il Giro vive sulla sfida tra Galetti e Petit-Breton, il quale vince la tappa del Sestriere davanti al suo avversario che quel giorno prende la testa della classifica.
A Sulmona Petit-Breton sorpassa Galetti e a tre tappe dalla fine ha 37 punti contro i 40 del milanese. Nella Sulmona-Bari (363 km), la Bianchi scatena il suo assalto. Petit-Breton si trova solo contro cinque corridori della Bianchi: Dario Beni, Carlo Oriani, Pavesi, Rossignoli e Galetti. Arriva sesto a Bari, dove vince Galetti, che lo supera in classifica di due punti: 41 contro 43.
Poi, nella tappa successiva, Bari-Napoli, appena passata Potenza, si rompe il cambio sperimentale di Petit-Breton che si ritira. Galetti, così, vince il Giro davanti a Rossignoli e a Gerbi. Se la classifica fosse stata a tempi, Rossignoli avrebbe vinto anche questo Giro, con 34 minuti di vantaggio su Galetti.
La terza vittoria di Galetti, nel 1912, è una vittoria di squadra. Il regolamento, infatti, è cambiato, sostituendo alla vittoria individuale quella di squadra. Al via partono 14 squadre di quattro corridori ciascuna: bisogna arrivare almeno in tre per essere classificati. L'Atala balza in testa già dalla prima tappa, grazie alla vittoria di Giovanni Micheletto a Padova.
Micheletto, detto Nane, friulano di Sacile, è un corridore straordinario. Quando a Narni Ganna si ritira, il primo obiettivo dell'Atala è evitare che anche Micheletto abbandoni la corsa. Il 25 maggio 1912 nella Pescara-Roma, oltrepassata Terni, avviene un clamoroso errore di percorso. Domenico Allasia, che era in testa, a un bivio non segnalato invece di dirigersi a sud verso Passo Corese punta verso Magliano Sabina. Quando, molto più tardi, ci si accorge dell'errore, i corridori di testa si sono già fermati. Per raggiungere Roma sarebbe stato necessario percorrere 59 km in più. I corridori si rifiutano e raggiungono la capitale in treno e in automobile. La giuria annulla la tappa e dispone che se ne corra un'altra il 4 giugno sul percorso del Giro di Lombardia. Vince questa tappa supplementare Vincenzo Borgarello, davanti a Micheletto. L'Atala, forte di Galetti, Pavesi, Micheletto, si aggiudica il Giro. La formula a squadre viene subito abbandonata.
Micheletto è stupefacente. Vince il Giro a 23 anni. Tutta Sacile lo aspetta alla stazione, sindaco in testa, per festeggiarlo, ma Nane, renitente anche alla gloria, scende dall'altra parte del vagone e si eclissa tra i campi. Al Giro non parteciperà più.
Aveva già offerto un saggio della sua limpida classe due anni prima, il 6 novembre 1910, quando si era imposto al Giro di Lombardia al termine di una corsa bellissima.
Nel 1913, il 20 aprile, vince la classica Parigi-Menin con una volata folgorante polverizzando il record della corsa e, il 29 giugno, la prima tappa del Tour a Le Havre con una volata superlativa diventando leader della classifica. Non è il primo italiano leader del Tour: già Vincenzo Borgarello il 2 luglio 1912 al termine della seconda tappa, Dunkerque-Longwy, era balzato in testa alla classifica. Poi aveva vinto a Perpignan e a Le Havre, primo italiano a realizzare la doppietta. Così, a fine anno, nel referendum della Gazzetta dello sport, era stato votato come il corridore più famoso del momento.
Micheletto, però, è una meteora: smetterà di correre a 24 anni.
A differenza di Micheletto, Carlo Oriani sa soffrire. Al Giro del 1913 vuole lavare un'onta.
Quinto nella classifica finale del primo Giro, nel 1911 era partito per la guerra di Libia. Poi, in licenza, si era schierato al via del Giro del 1912. La prima tappa, Milano-Padova, prevedeva 398,8 km: troppi per uno, come lui, senza allenamento. Così Oriani da Vicenza aveva tagliato direttamente per Padova ed era stato squalificato per non aver firmato ai controlli di Bassano, Feltre e Treviso. Cinque mesi dopo, allenato a dovere, si era però preso una rivincita vincendo il Giro di Lombardia: la prima vittoria della sua carriera.
Nel Giro del 1913 Galetti viene fermato da un incidente meccanico. Oriani ne approfitta: con l'aiuto dei compagni di squadra, tra cui brilla il giovano Girardengo, piega Giuseppe Azzini. Vince il Giro a 37 punti, con 6 punti di vantaggio su Pavesi e 11 su Azzini. È il primo corridore a vincere il Giro senza essere mai passato primo al traguardo. Il Giro è la sua seconda vittoria. L'ultima della sua carriera.
Il gregario Costante Girardengo si rivela al grande pubblico il 16 maggio 1913 al Giro. Quel giorno vince la Bari-Campobasso, la prima di trenta vittorie di tappa.
Ha vent'anni: è nato il 18 marzo 1893 in una cascina a due chilometri da Novi Ligure. Il suo primo avversario fu il maratoneta Dorando Pietri, l'eroe di Londra 1908 che sulla piazza del Mercato di Novi sfidava i ciclisti. Chi accettava la sfida doveva compiere due giri in bici e lui uno a piedi. Girardengo accettò e vinse. Incassò due lire, il suo primo guadagno.
La crescita di Girardengo è impressionante. Nel 1911 vince 22 corse su 29 e in cinque arriva secondo. Nel 1912 diventa professionista, senza volerlo. Dopo il Giro del Veneto, sul giornale di Ovada, il Corriere Valle Stura, compare una pubblicità con il suo nome. Per l'UVI è sufficiente: non può essere considerato un dilettante. Viene iscritto tra i professionisti d'autorità, per punizione.
Il Giro del 1913 viene vinto da Oriani, grazie al contributo decisivo di Girardengo, suo gregario. Nelle settimane seguenti Girardengo vince la Seicento chilometri, la XX Settembre, il Campionato italiano.
Girardengo è un corridore nuovo, brillante, il primo campione moderno del ciclismo italiano. È forte su tutti i terreni, ha una volata bruciante.
Il ciclismo cambia pelle. Non appartiene più solo ai resistenti, ai grandi faticatori come Garin, Van Hauwaert, Faber, Ganna. La Svizzera scopre un talento, Oscar Egg, la Francia ha già trovato un nuovo campione, Lapize, che l'11 aprile 1909 nella Parigi-Roubaix aveva bruciato in volata al traguardo Trousselier e Jules Masselis. Lapize vince la Roubaix per tre anni consecutivi, fa lo stesso con la Parigi-Bruxelles e con il Campionato di Francia e si impone nella Parigi-Tours.
Quando Desgrange, nel 1910, inserisce i Pirenei nel percorso del Tour, Lapize vince con 18 minuti di distacco la prima tappa pirenaica, Perpignan-Luchon, e liquida Faber, leader della classifica, nelle tre ultime tappe. Vince il Tour con quattro successi parziali, tre nelle tappe di montagna. È un corridore di grande qualità.
La Milano-Sanremo del 1910 appartiene alla leggenda. Si gareggia il 3 aprile. Una settimana prima Lapize aveva vinto la sua seconda Parigi-Roubaix dopo un duello appassionante con Van Hauwaert.
Partono in 63 da porta Genova. Il ritmo è veloce, la corsa è subito dura. A Ovada nevica e ognuno è costretto a sfidare la tormenta, il gelo, la fatica. Lapize si ferma e si ritira; la strada è ricoperta da un palmo di neve e i corridori sono costretti a compiere dei tratti a piedi per scaldarsi.
I passaggi sul Turchino danno la misura della grandezza di quell'avventura: primo Van Hauwaert, secondo Christophe a 10 minuti, terzo Ernest Paul a 19, quarto Ganna a 22, quinto Pavesi a 28, sesto Albini a 36 minuti. Tutti i corridori sono costretti a scendere di bici e a cercare salvezza nei casolari. Anche Van Hauwaert si ritira. Al controllo di Voltri, Albini è in testa con 4 minuti su Ganna e 7 su Christophe; quest'ultimo, supera Ganna all'uscita dal paese, presto raggiunge e stacca Albini, che non oppone resistenza.
A Savona, 190 km, Christophe è solo al comando della corsa con un quarto d'ora su Ganna. Davanti a lui ci sono ancora 100 km. Christophe arriva solo a Sanremo con il più grande distacco della storia. Alle sue spalle si salvano solo tre corridori: Giovanni Cocchi, secondo a 1h00′, Giovanni Marchese a 1h17′00″, Sala a 2h06′00″. Raggiungono Sanremo anche Ganna e Lampaggi, ma vengono squalificati: il primo è stato visto a bordo di un'automobile, il secondo è salito sul treno già prima del Turchino, mentre Sante Goi giunge fuori tempo massimo. Christophe resterà per un mese in ospedale dopo la gara e impiegherà due anni a riprendersi in pieno.
Christophe ha 25 anni e il fisico minuto (163 cm per 60 kg). Sarà protagonista grandioso e sfortunato al Tour. Per due volte lo perderà per pura sfortuna. Nel 1913, secondo in classifica, nella Bayonne-Luchon, mentre da solo insegue Philippe Thys dopo aver staccato il leader del Tour Odile Defraye, romperà la forcella, farà oltre 10 km a piedi e perderà quattro ore. Nel 1919 subirà lo stesso incidente a Raismes, nella penultima tappa del Tour, Metz-Dunkerque, mentre è maglia gialla con 28 minuti di vantaggio sul belga Firmin Lambot: perderà due ore e mezza e chiuderà al terzo posto della classifica. Christophe vincerà la Parigi-Tours e due Bordeaux-Parigi, ma anche il Circuito di Brescia. Gareggerà per 25 anni e sarà ricordato per la leggendaria sfortuna.
Nell'edizione del 1914 del Giro d'Italia cambia la formula, con l'introduzione dell'orologio: la classifica viene stilata in base ai tempi. In programma solo otto tappe, delle quali cinque superano i 400 km di lunghezza, intervallate da un giorno di riposo.
È il Giro più selettivo della storia: partono in ottantuno, solo in otto arrivano a Milano. Vince Alfonso Calzolari con 1h57′26″ di vantaggio su Albini, il distacco più ampio della storia.
È una corsa a eliminazione già nella prima tappa Milano-Cuneo (420 km), con la salita della Serra e con il Sestriere: solo in trentasette arrivano al traguardo. Partenza a mezzanotte; oltre Sesto Calende i corridori trovano chiodi lungo la strada che causano un'ecatombe di gomme. Ad Arona si scatena il diluvio, lampi squarciano il buio, la grandine flagella i corridori nella notte. Le strade sono impossibili da percorrere, ma i corridori non si arrendono e proseguono con ostinazione nel fango prima e nel gelo poi.
Girardengo fa la selezione sulla Serra; poi c'è la pianura invasa dal fango. La fatica è micidiale e i ritiri non si contano. A Susa (256 km) abbandonano anche Galetti e Rossignoli, due guerrieri; si arrende anche Petit-Breton; Ganna forza in salita, ma sprofonda nel fango e ha un rapporto troppo duro. A Cesana Torinese cade la neve. Ganna è il primo a ripartire da quel controllo, presto raggiunto dal suo gregario Angelo Gremo, al quale ordina di andare avanti. Sul Sestriere, nel nevischio, Gremo passa primo, a piedi, spingendo la bicicletta per la sella: un'immagine che è l'emblema di quel Giro. Tutti quel giorno sono costretti a scendere di bicicletta; anche Ganna che scollina secondo con 10′40″ di distacco. In discesa cade e congelato e dolorante ripara in un'osteria deciso a ritirarsi. Nel locale entra anche Girardengo in cerca di un po' di calore: il vecchio campione e il nuovo. Ganna non vuole quel testimone della sua resa e riparte. Girardengo lo segue.
Dopo diciassette ore di lotta, Gremo vince a Cuneo con 14 minuti di vantaggio su Carlo Durando e Calzolari. Girardengo e Ganna, quarto e quinto, arrivano a 44 minuti.
La seconda tappa, Cuneo-Lucca, regala 340 km nel fango, la resa di molti e una rivelazione. Gremo va in crisi e invano il suo capitano Ganna lo aiuta, facendogli da gregario: i due restano indietro e a La Spezia, demoralizzati, si ritirano. Sul Passo del Bracco, invece, nello stupore generale, affiora in testa Calzolari. Vince a Lucca, dopo una fuga solitaria di 120 km con 24 minuti su Giuseppe Azzini e 35 su Girardengo.
Calzolari, nato a Vergato in provincia di Bologna, ha 27 anni. Prima di allora aveva vinto una sola corsa, il Giro dell'Emilia nel 1913, e il battuto Ezio Corlaita aveva sostenuto che quel giorno la giuria nel polverone aveva preso un abbaglio, scambiando il vincitore. Calzolari è un corridore piccolo, ma con una resistenza eccezionale che in questa corsa di durezza estrema trova il suo terreno ideale. Balza in testa alla classifica con oltre un'ora di vantaggio. In gara, dopo due tappe, restano solo ventisette corridori, un terzo dei partiti.
Il 28 maggio è in programma la Lucca-Roma (430 km), la più lunga tappa di tutta la storia del Giro. Si parte alle 0.20 e i corridori montano i fanali. Dopo 15 km, ad Altopascio, il gruppo trova chiuso il passaggio a livello, ma Lauro Bordin scavalca le sbarre e sparisce nella notte fuggendo, protetto dal buio, per i lungarni di Firenze, per Arezzo, Perugia, Foligno, Spoleto e Terni.
Bordin, 23 anni, è di Crispino sul Po, un paese a 10 km da Rovigo, e non è nuovo a queste fughe: due anni prima, al Giro, era fuggito per 170 km ed era arrivato solo a Genova con 19 minuti di vantaggio su Galetti. Riprova quel colpo memorabile.
Scavalca indenne il Passo della Somma: la sua è una cavalcata fantastica e la più lunga fuga della storia del Giro. Sfortunatamente per lui Girardengo fora, così alle sue spalle si scatena la bagarre. Sulla salita di Otricoli, dopo 350 km di fuga solitaria, due forature e quattordici ore di solitudine, Bordin viene raggiunto.
Il 25 ottobre di quell'anno Bordin batterà Giuseppe Azzini in volata, vincendo il Giro di Lombardia. In seguito diventerà fotografo e continuerà a seguire le corse. Quando avrà inizio l'era delle volate, saranno le sue foto a permettere di decifrare gli arrivi.
Sul traguardo di Roma Girardengo fulmina Durando firmando con il suo nome la più lunga tappa della storia. Poi il Giro sprofonda a sud e si scatena Giuseppe Azzini. Vince la Roma-Avellino con 35 minuti su Albini, mentre Girardengo in crisi perde tre ore. Poi, il 1° giugno, nell'Avellino-Bari, che vede il ritiro di Girardengo, infligge al leader della corsa Calzolari (secondo) 1h3′22″ di distacco, il vantaggio più largo della storia del Giro.
Giuseppe Azzini a 23 anni è un campione, il più forte di tre fratelli (Luigi, nato nel 1884; Ernesto, nato nel 1885 e Giuseppe, nato nel 1891). L'anno prima aveva vinto a Salerno e a Bari ed era stato leader del Giro a due tappe dalla fine. Se fosse stato sostenuto dalla squadra come Oriani, avrebbe vinto quel Giro invece di finire terzo.
A Bari, in classifica, Azzini incombe alle spalle di Calzolari, staccato di 6 secondi soltanto, e il 3 giugno ha a disposizione una tappa micidiale per il sorpasso: la Bari-L'Aquila (428 km), con molte salite. Lì, invece, si verifica un colpo di scena clamoroso. Azzini, mentre in corsa sta lottando per la vittoria, viene colto da febbri e, sfinito, non arriva al traguardo. Il mattino dopo viene trovato a Barisciano mentre dorme stremato in un pagliaio. Morirà a 34 anni di tubercolosi, come il fratello Ernesto: una sorte comune anche ad altri 'mangiatori di polvere' di quell'epoca.
Il pavese Luigi Lucotti vince quella tappa con 19 minuti su Durando e 34 su Calzolari. Dopo il ritiro di Azzini, Calzolari ha tre ore di vantaggio sul secondo della classifica, Canepari. Ma sul traguardo esplode un caso. Sulla salita delle Svolte, infatti, Calzolari è stato sorpreso mentre veniva trainato da una vettura insieme a Durando e Canepari. I tre negano, benché siano stati colti in flagrante, e la giuria li penalizza di due ore: un verdetto che lascia Calzolari leader della classifica con due ore su Albini, secondo. L'UVI, invece, a norma di regolamento, pretende la loro espulsione dalla corsa.
Il Giro finisce tra le polemiche con due vittorie di tappa di Albini. Calzolari vince, ma teme che la sua vittoria non sia convalidata, dal momento che per l'UVI il vincitore è Albini. Il braccio di ferro tra vertici federali e organizzatori si risolve in tribunale, molti mesi dopo la fine del Giro, a favore di Calzolari.
In un clima minacciato da imminenti eventi bellici, a Copenaghen il 31 luglio 1914 si aprono i Campionati del Mondo di ciclismo su pista. La scena internazionale è già compromessa: quel giorno la Germania invia l'ultimatum alla Russia. Il 28 l'Austria aveva già dichiarato guerra alla Serbia e il 30 la Russia aveva annunciato la mobilitazione generale. L'olandese Blekemolen fa appena in tempo a vincere il titolo nel mezzofondo dilettanti che la prima guerra mondiale deflagra. Lo starter sta per dare il via alla prima batteria della velocità, quando lo speaker irrompe con il megafono annunciando la dichiarazione di guerra della Germania alla Francia. La manifestazione viene sospesa e né il Giro né il Tour si disputano per quattro anni. Le classiche del Nord vengono interrotte, ma il Giro di Lombardia continua a disputarsi e la Sanremo viene sospesa solo per un anno.
La riduzione degli impegni induce alcuni a concentrarsi nell'attività su pista e nella caccia ai record. Così in Italia si assiste ai record dell'ora di Pavesi, Galeazzo Bolzoni e Girardengo che, il 17 agosto 1917 al velodromo Sempione, porta il primato e il record italiano a 41,032 km. Lo svizzero Egg, il 18 giugno 1914, aveva però già portato il record mondiale dell'ora a 44,247 km.
Egg è un talento di un eclettismo straordinario: durante la guerra sceglie l'Italia come palestra di allenamento e vince parecchie corse su strada, ma è un pistard favoloso. Nato a Schlatt (vicino a Zurigo) il 2 marzo 1890, dopo aver vissuto nel capoluogo svizzero fino a 17 anni, si trasferisce a Parigi per perfezionarsi come disegnatore. In Francia, leggendo degli exploits di Van Hauwaert, Faber e Petit-Breton, nasce la sua passione per la bicicletta. Il 22 agosto 1912 attacca il record dell'ora al velodromo di Buffalo a Parigi. Corre con la bicicletta normale (ruote in legno a 36 raggi e un rapporto di 24x7 che sviluppa 7,23 m per pedalata) ed è il primo atleta a superare la soglia dei 42 km, raggiungendo i 42,360 km. In seguito alla riconquista del record da parte di Marcel Berthet ‒ il detentore da lui spodestato ‒ Egg rescinde quattro contratti e quindici giorni dopo, il 21 agosto 1913, riprova di nuovo a Buffalo, rompendo il muro dei 43 km, con 43,525 km. Berthet, irriducibile, lo spodesta di nuovo e allora Egg, il 18 giugno 1914, sfonda anche la barriera dei 44 km, raggiungendo 44,247 km. Questo record resisterà per 19 anni.
Egg è un pistard completo; nella velocità vince due Grand Prix de Paris; nell'inseguimento è praticamente imbattibile: sconfigge tutti da Girardengo a Berthet, da Reg McNamara a Henri Pélissier. Subisce una sola sconfitta a Newark, negli Stati Uniti, a opera di McNamara che lo raggiunge dopo 8,46 km in un duello memorabile.
Con Verri, nel 1915, stabilisce il record di distanza percorsa in una Sei giorni, un primato che non sarà mai battuto (4511,636 km). Si aggiudica otto Sei giorni; vince Le Bol d'or, coprendo in ventiquattro ore 936,225 km, nuovo record, e detiene simultaneamente tutti i record su pista, dai 500 m all'ora.
Su strada Egg vince la Parigi-Tours, il campionato svizzero, la Milano-Torino, la Milano-Modena, la Milano-Como-Varese-Milano. È capace di imporsi in tappe al Giro e al Tour e, nel 1914, di sfiorare la vittoria nella Roubaix, dove finisce quarto, in volata, battuto da Crupelandt (Il Toro del Nord), Louis Luguet e Louis Mottiat.
Ancora ragazzino, Tano Belloni, figlio di un allevatore di cavalli da carrozza di Pizzighettone, assiste al rondò di Loreto al via del primo Giro, per veder gareggiare il fratello maggiore Amleto. Pochi anni dopo, nel 1914, diventa campione italiano dilettanti, vince la Coppa del re e il Piccolo giro di Lombardia. È irresistibile in volata. È in piena guerra che sboccia Belloni, un campione nuovo, impetuoso e sorridente. Diventa lo sfidante di Girardengo, di cui però è amico fraterno, tanto che lo ospita spesso a casa sua.
Fra le altre corse vince la Sanremo del 1917 e due Giri di Lombardia. Il 7 novembre 1915 è ancora dilettante quando prende il via al Giro di Lombardia. I partenti sono 117, nonostante la guerra, e tra loro ci sono professionisti di fama come Girardengo, Galetti, Pavesi, Calzolari, Gremo e Bordin. Invece sono i dilettanti a dominare la corsa. Fuggono in quattro: Romeo Poid, però, si attarda al rifornimento e Angelo Vay cade, così Belloni si trova solo in testa con Paride Ferrari che pilota al traguardo e batte allo sprint. La Gazzetta dello sport titola a tutta pagina: "Una grossa sorpresa al Giro di Lombardia".
Quella sorpresa trova presto conferma: il 15 aprile 1917 torna in calendario la Sanremo. I partenti sono 49; Belloni attacca sul Turchino e fa il vuoto; scollina con 4 minuti su Egg e 6′30″ su Girardengo. I due inseguitori, uomini dal passo formidabile, uniscono le forze ma non c'è nulla da fare: cede Egg e si ritira. Dopo 150 km di fuga solitaria, Belloni vince con quasi 12 minuti di vantaggio su Girardengo e 42 su Gremo. Un'impresa.
Dopo la Sanremo vince la Milano-Varese-Milano e, in coppia con Alfredo Sivocci, il Giro della Provincia di Milano. Nella stagione successiva, secondo dietro a Girardengo nella Sanremo, si aggiudica Giro del Pènice, Milano-Torino e Milano-Modena. Il 10 novembre 1918 festeggia la fine della guerra con una bella vittoria al Giro di Lombardia, battendo allo sprint Sivocci e Galetti.
Belloni è un passista eccellente ed è veloce allo sprint. Si afferma anche in Germania, dove diventa il numero uno negli anni 1926-27. Pistard di classe, vince le Sei giorni di New York e Chicago. Per due volte è secondo nella classifica finale al Giro d'Italia, alla Sanremo e al Giro di Lombardia e per dieci volte nelle tappe del Giro. Subisce parecchie volte la 'legge' di Girardengo prima e di Binda poi. Tuttavia il soprannome di Eterno secondo appare uno sproposito per un corridore che a fine carriera ha collezionato nel suo albo d'oro tre Giri di Lombardia, due Milano-Sanremo, un Giro d'Italia, dodici tappe del Giro, la XX Settembre, due campionati internazionali di Germania, la Milano-Torino, il Giro del Piemonte.
Durante la prima guerra mondiale perdono la vita tre vincitori del Tour e un vincitore del Giro. Faber muore il 9 maggio 1915, a Garency, colpito da una palla in testa, mentre esce dalla trincea per trarre in salvo un commilitone ferito. Lapize, pilota da caccia, cade il 14 luglio 1917 nel cielo di Verdun. Petit-Breton perde la vita in un incidente di strada durante una missione sul fronte delle Ardenne il 20 dicembre 1917. Il 3 dicembre 1917, a 29 anni, Oriani, costretto a tuffarsi in acqua dopo aver fatto saltare un ponte sul Tagliamento nei giorni di Caporetto, muore per pleuropolmonite.
Muoiono anche altri, come Émil Engel ed Edouard Wattelier (vincitore della Bordeaux-Parigi del 1902), uno dei Cadolle, uno dei Pélissier, uno degli Alavoine. Crupelandt (vincitore di due Roubaix) resta gravemente ferito, come il campione olimpico della prova su strada dei Giochi di Stoccolma, il sudafricano Rudolph Lewis.
Diversa, invece, è la sorte di Paul Deman, vincitore del primo Giro delle Fiandre nel 1912. In Belgio, dove lavora per gli Alleati, viene arrestato e condannato a morte. Liberato quando sta per salire sul patibolo, vince la Roubaix nel 1920 ‒ arrivando solo con 53 secondi su Christophe ‒ e la Parigi-Tours nel 1923.
Anche la bicicletta va in guerra. L'esercito italiano fu il primo a introdurre il velocipede già nel 1876 per le staffette incaricate di portare messaggi. La Francia nel 1886 adottò tre tipi di veicoli per manovre ciclo-militari: triciclo, grand-bi e bicicletta. L'introduzione della bicicletta pieghevole, alla fine del secolo, portò all'inserimento di reparti di soldati-ciclisti, come i bersaglieri nell'esercito italiano.
La Bianchi produce per il ministero della Guerra oltre 30.000 esemplari della Bersagliera, una bicicletta con telaio e forcella elastici, ruote da 60 cm a gomma piena Pirelli, struttura pieghevole con attacchi portaspallacci e parafango portamantella; può avere la ruota libera e il freno posteriore. Esistono tre versioni della Bersagliera: con portafucile, con portamitragliatrice e con cavalletto per mortai; è verniciata in grigioverde e pesa 16 kg. La bicicletta ricopre un ruolo importante a Caporetto, sul Piave e sul monte Grappa.
Dopo la fine della guerra la ripresa del ciclismo è sofferta: patisce l'industria, ma anche i mezzi d'informazione. Molti giornali sportivi, sospesi per la guerra, non riprendono più.
Dopo la conquista italiana di Trento e Trieste viene allestita, dal 21 al 25 aprile 1919, la Roma-Trento- Trieste, 960 km in tre tappe. Girardengo ‒ che nell'ottobre 1918 aveva contratto la 'spagnola' ‒ in questa corsa fa garrire la sua maglia tricolore. È l'eroe della rinascita. Vince tutte e tre le tappe. A Trento arriva solo, con 39′48″ su Belloni. In seguito s'impone anche nella Milano-Torino e nel Giro del Piemonte e si presenta al Giro d'Italia con cinque successi su cinque corse importanti.
Dopo quattro anni di guerra, con l'industria prostrata, ci sono solo quattro squadre al via del Giro: la Legnano con Giuseppe Azzini, la Bianchi con Belloni, la Peugeot con Santhià e la Stucchi con Girardengo. I partenti sono 63, con 4 stranieri: i belgi Marcel e Lucien Buysse, il francese Marcel Godivier e lo svizzero Egg, primatista dell'ora.
Gli isolati ‒ parecchi si presentano con la pesante bicicletta militare ‒ vengono chiamati 'diseredati' e trovano alloggio in conventi, caserme, scuole; un camion militare trasporta il loro bagaglio.
Sono previste dieci tappe, intervallate da un giorno di riposo, per 2984 km di percorso. I primi due arrivi sono a Trento e Trieste e Girardengo, in maglia tricolore, li onora di nuovo con due squillanti vittorie. A Trieste arriva solo con 3′30″ di vantaggio dopo una grande battaglia accesa da Marcel Buysse. Girardengo sembra invincibile (sette vittorie su sette gare), ma il temibile Egg lo brucia a Ferrara e conquista la prima vittoria svizzera al Giro.
Poi, quando il gruppo arriva sulle montagne, nella Pescara-Napoli, esplode la battaglia. La Bianchi attacca Girardengo, che risponde da campione: a Napoli arrivano in quattro, tre della Bianchi e Girardengo. Belloni ottiene la prima vittoria di tappa al Giro, ma Girardengo, che si ritiene ostacolato, aggredisce Marcel Buysse, venendo poi placato dall'amico Belloni.
Dopo questo episodio Girardengo vince le altre cinque tappe e quando a Genova arriva da solo con 6 minuti di vantaggio su Gremo, Emilio Colombo conia per lui un soprannome nuovo: il Campionissimo, che sostituisce il vecchio Omino di Novi. Girardengo vince il Giro con 51′56″ su Belloni, aggiudicandosi sette tappe su dieci. Marcel Buysse, terzo, è il primo straniero a salire sul podio. Solo quindici corridori arrivano a Milano a testimonianza del pessimo stato delle strade e delle difficoltà della situazione complessiva.
Il 2 novembre 1919 al Giro di Lombardia viene introdotta una salita nuova, il colle del Ghisallo. Girardengo scatta sul Brinzio sotto la neve e fa il vuoto; invano Belloni, Heiri Suter, Francis Pélissier, Marcel Buysse lo inseguono. Scollina sul Ghisallo con un quarto d'ora di vantaggio; poi si ferma per cambiarsi e rifocillarsi e riparte. Belloni lo avvicina e finisce secondo a 8 minuti, mentre lo svizzero Suter ‒ che quattro anni dopo avrebbe vinto la Roubaix e il Giro delle Fiandre ‒ è terzo a 23 minuti.
Il 4 novembre 1917 Philippe Thys, sergente dell'aeronautica in licenza, liquida sulla salita di Binago Girardengo e Belloni fermi per foratura, brucia in volata Henri Pélissier ed è il primo belga a vincere il Giro di Lombardia. L'Italia lo aveva già scoperto nel 1911, quando, da indipendente, si era imposto nella Parigi-Torino.
I belgi conquistano il ciclismo negli anni prima della guerra. Dopo Van Hauwaert, sbocciano Defraye (vincitore del Tour 1912), Marcel Buysse, Mottiat, Paul Deman e, appunto, Thys. Il 30 marzo 1913 Defraye era arrivato al traguardo della Sanremo insieme a Mottiat e lo aveva piegato in volata, ma Thys, nativo di Anderlecht, si dimostra migliore di tutti. Si prepara con raziocinio; in corsa è intelligente, prudente e attacca solo a colpo sicuro, lasciando il segno. Nel 1913 s'impone nel 'tappone' pirenaico Bayonne-Luchon con 18 minuti di vantaggio. Vince il Tour a 22 anni.
L'anno dopo fa il bis. Vince la prima tappa e resta leader della classifica dal primo all'ultimo giorno. È lucido anche nell'affrontare improvvise difficoltà, come quando, nella penultima tappa da Longwy a Dunkerque, fra le diverse possibilità preferisce essere penalizzato dalla giuria pur di cambiare una forcella rotta con una nuova acquistata in un negozio, andando contro il regolamento. Riparte con un quarto d'ora di ritardo, rimonta e raggiunge Faber e Henri Pélissier in testa. Penalizzato di mezz'ora, vince il Tour con 1′50″ su Pélissier.
Thys si ripresenta nel primo Tour del dopoguerra, ma, in disaccordo con i suoi dirigenti, si ritira nella prima tappa. Provocato dalla penna di Henri Desgrange, dopo aver annunciato la terza vittoria, torna al Tour del 1920 vincendolo con 57′21″ di vantaggio. In questo Tour sette belgi finiscono ai primi sette posti. Thys chiude la carriera come gregario di Ottavio Bottecchia al Tour.
Se Thys ha un'intelligenza fredda, Marcel Buysse è una forza della natura, indomabile, imprevedibile e dissennato. Undici membri della famiglia Buyze ‒ nome trasformato per errore in Buysse dai giornali in occasione dei primi exploits di Marcel e così rimasto per tutti ‒ sono corridori e due di loro diventano famosi: Marcel e Lucien.
Marcel, figlio di Ivo e di Sidonie Debussère, è nato a Wontegeren in Belgio l'11 settembre 1889. È il maggiore di nove fratelli; altri tre ‒ Lucien (1892), Cyriel (1896) e Jules (1901) ‒ diventano professionisti, seguendo il suo esempio. La forza di Marcel è formidabile, ma corre in modo irrazionale e il fato lo ferma nel Tour del 1913.
In questa corsa Marcel vince in volata a La Rochelle. Poi, nella settima tappa, stacca tutti sul Col de Port, arriva a Perpignan con 11′22″ su Deman, 12′10″ su Thys, 24′13″ su Petit-Breton, 35′59″ su Garrigou e prende la testa della classifica con 6′12″ su Thys. Nella nona tappa, però, andando a Nizza, cade nella discesa dell'Estérel e rompe la forcella. Raggiunge Mandelieu a piedi, effettua la riparazione, riparte e arriva al traguardo con 3h27′06″ di ritardo. È allora che dimostra la sua forza: domina la tappa del Galibier arrivando solo a Ginevra; travolge gli avversari sul Ballon d'Alsace e arriva solo anche a Belfort. Ai piedi di questa salita storica si ferma a girare la ruota e viene superato da tutti gli avversari; poi li rimonta a uno a uno, piomba su Petit-Breton, uomo di testa, e lo salta letteralmente, dando una prova di superiorità memorabile. Vince ancora a Dunkerque e arriva solo a Parigi. Riesce a salire sul podio come terzo dietro a Thys e Garrigou, staccato dal vincitore di 3h30′55″. Ha vinto sei tappe su quindici.
Dopo la guerra gareggia per la Bianchi nel Giro del 1919 ed è il primo straniero a salire sul podio; più volte mette in difficoltà Girardengo. Anche su pista è una furia: nel 1922, alla Sei giorni di New York, l'organizzatore Chapman gli offre un premio per ravvivare la gara e Marcel scatena una folle bagarre che sconvolge la corsa, tanto che Chapman deve offrigli un altro premio perché la smetta.
Lucien è meno forte del fratello, ma è dotato di maggior senso tattico. Con la Bianchi è protagonista del Giro del 1921, dove conquista il quarto posto, pur lavorando per Belloni impegnato nella sfida con Girardengo. Gareggia al fianco di Bottecchia e Henri Pélissier nel Tour del 1923 e vince la tappa di Tolone con 16′16″ sul suo capitano in maglia gialla. Sale sul podio nei due Tour vittoriosi di Bottecchia: terzo nel 1924 e secondo nel 1925.
Decide di disputare il Tour del 1926 (il più lungo della storia, 5745 km) nonostante alla vigilia abbia perduto il maggiore dei suoi quattro figli. Parte, insieme al fratello Jules, come gregario di Bottecchia nell'Automoto. Già nella prima tappa i due Buysse si rivelano protagonisti: Jules arriva solo a Mulhouse ‒ con 13 minuti di vantaggio sui primi inseguitori, con 23 sul fratello Lucien e con 34 su Bottecchia, sedicesimo al traguardo ‒ e veste la maglia gialla.
La decima tappa, Bayonne-Luchon (326 km), comprende i Pirenei e il pubblico italiano attende la risposta di Bottecchia. La partenza è a mezzanotte: all'alba, sotto la pioggia, i corridori incontrano i primi colli. Bottecchia rifluisce in coda al gruppo. Il tempo peggiora, la strada è in condizioni spaventose e Lucien Buysse è subito davanti: scollina secondo dietro a Homar Huysse sull'Aubisque; è tra i primi sul Tourmalet, mentre Bottecchia, sfinito, si ritira. Davanti, Buysse spicca il volo sull'Aspin e vince a Luchon con 25′48″ su Bartolomeo Aimo, un grande scalatore piemontese. Balza in testa alla classifica con 36 minuti di vantaggio sul secondo.
Lucien vince in solitudine anche la tappa successiva, arrivando solo a Perpignan con 17′16″ sul fratello Jules. Esce dai Pirenei con oltre un'ora di vantaggio in classifica. Sulle Alpi deve solo difendersi da Aimo che gli porta un attacco profondo nella tappa dell'Izoard. Lucien Buysse, a 34 anni, vince il Tour con 1h22′25″ su Nicolas Frantz, che precede Aimo di un pugno di secondi.
A causa della lite tra l'Automoto e Desgrange, Lucien Buysse non partecipa ai due Tour successivi. Si presenta ancora nel 1929 e passa primo sull'Aubisque, ma è il canto del cigno. In quella stagione la sua carriera termina in modo drammatico sulla pista di Menin, dove si frattura il cranio.
L'8 giugno 1919, mentre al Giro Girardengo conosce il trionfo a Milano, Giovanni Brunero vince la Coppa del re tra i dilettanti. Il 29 diventa campione italiano. In luglio è primo nel Giro dell'Italia Meridionale, una corsa di dieci tappe, fatta per promuovere il ciclismo nel Sud. Il 28 luglio esordisce tra i professionisti nel Giro dell'Emilia ed è l'unico a resistere a Girardengo sulla salita della Masera.
Brunero è nato a San Maurizio Canavese il 4 ottobre 1895. Ha un carattere schivo, ma è uno scalatore forte e un corridore completo, a cui manca solo la volata. Al via nel Giro del 1920 ci sono solo otto tappe e il minimo dei partenti: quarantanove. Imperversa il maltempo. Una caduta di Girardengo sul monte Ceneri, nella prima tappa, provoca un attacco a fondo della Bianchi, che va a segno. Girardengo arriva con un grave ritardo e, sfiduciato, si ritira nella seconda tappa.
Trionfa allora la Bianchi con Belloni (tre vittorie) e Jean Alavoine, primo straniero a realizzare la doppietta al Giro. Belloni a Trieste regala la vittoria per distacco, arrivando solo con 2′04″ su Ugo Agostoni. Alavoine è originario di Roubaix, un luogo storico per il ciclismo; è soprannominato Le Gars Jean, ma ha già 32 anni. Ha vinto undici tappe al Tour e ne avrebbe vinte altre sei.
Nell'ultima tappa, al Trotter di Milano, la folla esultante per la vittoria di Belloni invade la pista e impedisce l'ultima volata, così la giuria classifica nove corridori ex aequo al primo posto.
La Bianchi ha tre uomini sul podio: vince Belloni, con 32′24″ su Gremo e 1h01′14″ su Alavoine, che è il primo francese a salire sul podio del Giro, mentre era già stato per due volte su quello del Tour. Belloni esulta (non è più l'Eterno secondo), ma Girardengo prepara la sua risposta e al Giro di Lombardia lo rimanda al secondo posto.
Poi, nel 1921, Girardengo torna all'assalto del Giro e vince le prime quattro tappe. Nella quinta tappa, Chieti-Napoli, a causa di una collisione cade sulla salita di Rocca Pia presso Pettorano, scatenando l'attacco della Bianchi. Girardengo insegue, rimonta e sembra poter riuscire ad agganciarsi; poi, a poco a poco, la sua azione perde forza fino a spegnersi. A Castiglione scende di bicicletta e con un sasso traccia nella polvere una croce che significa la fine del suo Giro.
La strada sembra spianata per Belloni e invano Brunero cerca l'assolo. Belloni, marcato da Aimo, rientra a fatica e vince a Napoli; poi, nella successiva tappa Napoli-Roma, a piazza di Siena, mentre nello sprint è lanciato verso la vittoria, cade a causa di un organizzatore apparso improvvisamente sulla pista per cacciare un intruso. Nonostante la vittoria sfumata è sempre in testa alla classifica con 1′09″ su Brunero.
Nella Roma-Livorno, però, quando fora a 14 km dal traguardo, Brunero ‒ guidato da Pavesi, direttore sportivo della Legnano ‒ lo attacca con Aimo e Sivocci e fa il vuoto. Brunero, scatenato, stacca anche i compagni, arrivando solo a Livorno con 2′01″ di vantaggio e prendendo la testa della classifica. Invano Belloni, per tre volte, cerca il capovolgimento; Brunero resiste e vince il Giro con 1′00″ su Belloni e 20′06″ su Aimo.
Prima del Giro, il 24 aprile, Brunero aveva offerto un saggio del suo potenziale al Giro del Piemonte, dove era scattato sulla salita di Barolo e, dopo una fuga di 100 km, era giunto al traguardo con 12′40″ di vantaggio sui primi inseguitori. È la prima stella dopo la guerra.
Girardengo si ripresenta al via del Giro 1922. Tutto si decide nella prima tappa (Milano-Padova), teatro di un piccolo incidente di corsa che diventa determinante. Brunero fora una gomma nella discesa del Ponale e, contravvenendo al regolamento, la sostituisce con la ruota di un compagno; poi, sul Pian delle Fugazze, attacca e fa il vuoto. Con un assolo formidabile arriva a Padova con 15′43″ di vantaggio, ma la giuria si accorge dell'irregolarità e applica il regolamento alla lettera, mettendo Brunero fuori corsa. Il direttivo dell'UVI, però, lo riammette con 25 minuti di penalizzazione e la Bianchi di Belloni e la Maino di Girardengo, per protesta, ritirano i loro corridori. Il Giro è decapitato e la Legnano non ha più opposizione, vincendo sette tappe su sette. Brunero si aggiudica così il secondo Giro con 12′29″ su Aimo e un'ora e mezza su Giuseppe Enrici.
Sono i corridori piemontesi, negli anni Venti, a dominare la scena, così come negli anni Trenta saranno i toscani. Girardengo il 5 novembre 1922 coglie la sua terza vittoria al Giro di Lombardia battendo in volata Giuseppe Azzini e Aimo e l'anno dopo torna all'assalto al Giro, dominandolo con una superiorità schiacciante. Pur vincendo con un piccolo margine, è primo in otto tappe su dieci. Batte in volata anche Pietro Linari, un velocista dal fisico prestante che susciterà l'ammirazione di Ernest Hemingway. Secondo, a 37 secondi, è Brunero che ha perso quei secondi cadendo a piazza di Siena, mentre duellava in volata con Girardengo. In seguito non è riuscito a rimontare contro un Girardengo in stato di grazia.
È un anno magico per Girardengo che colleziona Sanremo, Milano-Torino, Giro d'Italia, Giro del Veneto, Giro di Toscana, XX Settembre, Campionato italiano. Brunero, dal canto suo, il 27 ottobre 1923 regala una prestazione memorabile e una vittoria splendida al Giro di Lombardia. Fugge con Bottecchia sul Marchirolo, lo stacca sul Brinzio e arriva solo al velodromo Sempione di Milano con 18′37″ di vantaggio sul gruppo.
Quinto del Giro 1923 ‒ primo degli isolati ‒ è l'esordiente Bottecchia. Ottavo figlio di Francesco, un piccolo commerciante di granaglie, e di Elena Tonel, nasce il 1° agosto 1894 a San Martino di Colle Umberto, in provincia di Treviso. Ottavio cresce in campagna e, dopo aver frequentato la pluriclasse, è apprendista ciabattino e poi 'carioto', cioè conduttore di carri da trasporto. La caccia è la sua passione.
Il 5 novembre 1914 parte per la prima guerra mondiale, dimostrando subito coraggio: catturato per tre volte dagli austriaci, per tre volte riesce a fuggire e conquista una medaglia di bronzo nei giorni di Caporetto. Dopo quattro anni, il 15 aprile 1919 torna a casa, dove continua a fare il carioto, prima trasportando ai depositi militari i residuati di guerra, poi portando tronchi per la ricostruzione dei paesi devastati.
Bottecchia corre con la bicicletta già prima della guerra e continua al fronte, dove è protagonista di una sfida da Casarsa a Gemona con la bicicletta d'ordinanza, in schiena il corredo di guerra e la mitragliatrice. Continua a correre anche dopo la guerra. Nel 1920 vince il Giro del Piave, poi a Meolo la Coppa della vittoria. Quando in luglio si frattura la clavicola Il Giornale di Udine lo definisce già famoso. Nel novembre di quell'anno si sposa con Caterina Zambon di San Martino.
Solo nel 1921 Bottecchia passa professionista junior. Va a Osimo e vince la Coppa Gallo e nel Giro del Friuli lascia il secondo a 17 minuti. Quando nasce la figlia Elena Giovanna, a 27 anni medita di lasciare le corse, ma due anni dopo riprende a gareggiare dando una prova memorabile.
Compare al Giro il 23 maggio 1923, dopo essere passato, alla Sanremo, primo sul Turchino per cogliere il premio di 1000 lire, un bottino sontuoso. Al Giro gareggia come isolato. Punta al premio riservato al migliore degli isolati e lo vince. Finisce quinto a 45′49″ da Girardengo. A Bologna Bottecchia viene avvicinato da Aldo Borella che cerca, per conto dei fratelli Pélissier e dell'Automoto, un solido gregario per il Tour. Pochi giorni dopo parte per il Tour con Santhià (soprannominato Pinot), che parla francese.
L'esordio, il 24 giugno 1923, è stupefacente. Bottecchia è subito secondo a Le Havre, nella prima tappa. Il 26 vince la seconda tappa a Cherbourg ed è il primo italiano a indossare la maglia gialla. Difende la maglia gialla a Brest, la perde a Les Sables d'Olonne, la riconquista sui Pirenei nella sesta tappa (Bayonne-Luchon) e la porta intatta anche a Perpignan e Tolone. Il 9 luglio La Gazzetta dello sport lancia una sottoscrizione da una lira in suo favore, firmata per primo da Mussolini, seguito da Giolitti, Ciano, Diaz e Balbo. Il giorno dopo Bottecchia arriva in maglia gialla a Nizza, dove riceve gli applausi dei Binda e di centinaia di italiani.
Il 12 luglio 1923 c'è la Nizza-Briançon con l'Izoard, e quel giorno Bottecchia crolla in modo inusuale e clamoroso: passa sull'Izoard con 39 minuti di distacco ma arriva al traguardo a 41 minuti dal suo capitano Henri Pélissier, che lo spodesta; sta male e si sospetta un avvelenamento. Il belga Léon Scieur, 'avvelenato' sui Pirenei e costretto a restare otto giorni nell'ospedale di Lourdes, dichiara pubblicamente che Bottecchia è stato avvelenato come lui. La Francia esulta per la vittoria di Henri Pélissier ‒ e anche per Automoto questa è la soluzione migliore ‒, mentre Bottecchia tace e per sei tappe scorta il suo capitano fedelmente fino a Parigi. Finisce secondo.
Quando arriva a Milano, Bottecchia riceve un assegno di 61.725 lire, frutto della sottoscrizione, con il quale costruirà la sua casa a Pordenone. La sua prova al Tour accende in Italia un entusiasmo incredibile.
Henri Pélissier è un capitano esigente, impulsivo, collerico e prestigioso. Forte nel fisico, anche se è stato esentato dal partecipare alla prima guerra mondiale per faiblesse de constitution.
Nel 1911, a 22 anni, nella prima campagna d'Italia aveva vinto la Milano-Torino, la Corsa delle tre capitali Torino-Firenze-Roma e il Giro di Lombardia, battendo in volata Micheletto. L'anno dopo era tornato e aveva ottenuto un'accoppiata mai riuscita prima: Sanremo e Giro di Lombardia. Nella Sanremo aveva bruciato allo sprint quattro compagni di fuga, tra cui Corlaita. A Milano aveva addirittura rischiato il linciaggio perché, caduto Girardengo nella volata, i tifosi lo avevano ritenuto colpevole di alcune scorrettezze.
Nel suo palmarès ci sono anche il Tour, due Roubaix, Bordeaux-Parigi, Parigi-Bruxelles, Parigi-Tours, il terzo Giro di Lombardia (con l'arrivo solitario al parco di Monza), oltre al campionato di Francia. In occasione della sua prima vittoria alla Roubaix (20 aprile 1919), trovando un passaggio a livello chiuso, con la bicicletta in spalla era salito impavido sul treno di passaggio, davanti ai viaggiatori esterrefatti, per ridiscenderne dalla parte opposta. Nella Roubaix del 1921 aveva fatto la doppietta con il fratello Francis: primo e secondo.
Henri è il più vecchio di quattro fratelli ciclisti: gli altri sono Francis, Jean (caduto a 23 anni sul fronte delle Argonne) e Charles. È un campione veloce e scaltro, capace però anche di passare primo sul Galibier e sull'Izoard, sul Vars e sull'Aubisque.
Henri si piazza secondo al Tour del 1914, dove è protagonista di due grandi attacchi con Egg e di un grande assolo a Belfort. S'impone in tre delle ultime sei tappe. Staccato in classifica di 1′50″ da Thys, attacca anche nell'ultima tappa sulla Côte du Cœur-Volant, a 15 km dal traguardo, e viene ripreso alle porte del Parc des Princes, dove vince allo sprint.
Nel primo Tour del dopoguerra si presenta insieme al fratello Francis, che come lui affronta la vita come una perenne sfida. Francis cade addirittura nel trasferimento da Place de la Concorde al Pont d'Argenteuil, dove è fissata la partenza: prende il via con due ore di ritardo e finisce staccato di quattro ore. Tuttavia nelle due tappe successive i due Pélissier arrivano soli in testa a Cherbourg e Brest e si spartiscono le vittorie. Henri, leader della classifica, irride gli avversari ("Je suis un pur-sang et mes adversaires sont des chevaux de labour"), che, provocati, si coalizzano e gli impongono un inseguimento solitario di 300 km. Henri, come reazione al comportamento degli altri corridori, si ferma in un bar a 5 km dal traguardo e finisce decimo a 35′ dai primi. Scavalcato da Eugène Christophe in classifica, scivola secondo a 11′42″. Il Tour resta apertissimo, ma un alterco con il direttore sportivo offende i due fratelli che non ripartono.
Nel Tour del 1920 Henri vince la terza e la quarta tappa, ma, penalizzato di 2 minuti per aver gettato via una gomma, decide di non ripartire. Si ripresenta nel 1923 a 34 anni e mezzo, con Bottecchia, di cui è capitano.
Quanto a Charles, di 15 anni più giovane di Henri, sarebbe apparso nell'era delle squadre nazionali. Vincerà sedici tappe del Tour e le sue sfide con Raffaele Di Paco entreranno nella leggenda.
I tre Pélissier vincono ventotto tappe al Tour e vestono tutti la maglia gialla.
Gli italiani hanno a lungo patito al Tour. Quella dei pionieri è una storia di coraggio e di dolore. Il livornese Muller sfiora il podio già nel primo Tour del 1903, che il valdostano Garin vince con cittadinanza francese.
Nel 1904 Rossignoli e Gerbi sono costretti subito al ritiro e il Diavolo rosso, picchiato sul Col de la République, finisce in ospedale. Gerbi, tenace, riprova nel 1906, ma si ritira ancora nella seconda tappa. L'anno dopo, provano i 'tre moschettieri' dell'Atala: Ganna, Pavesi e Galetti. Ganna è terzo a Lione e a Grenoble, dove Galetti è quarto e Pavesi quinto. "Le razze latine sono meravigliose davvero", si stupisce Desgrange, incantato dai tre italiani; ma, nella tappa successiva, Ganna e Galetti sono costretti al ritiro, mentre Pavesi, rimasto solo, lotta fieramente e finisce sesto nel Tour vinto da Petit-Breton.
Nel 1908 gli italiani tornano in forze: Ganna, Galetti, Pavesi, Rossignoli, l'irriducibile Gerbi, il campione d'Italia Cuniolo, Luigi Chiodi e Canepari. Per oltre metà corsa Ganna minaccia la leadership di Petit-Breton; Gerbi è secondo a Nîmes, dove arriva con Petit-Breton che lo brucia allo sprint. Rossignoli finisce secondo a Bayonne, battuto sempre da Petit-Breton. Nella classifica finale Ganna si piazza al quinto posto.
Nel Tour del 1909 sono addirittura diciannove gli italiani in lizza, fra i quali Ganna, Galetti, Rossignoli e Canepari, i primi quattro classificati del primo Giro. Ma la spedizione si conclude con una sconfitta rovinosa: sembra esistere un tabù che vieta ai ciclisti italiani la vittoria.
La storia si ripete nel 1910: Ernesto Azzini viene bruciato dal formidabile Faber a Lione nella quarta tappa; il valoroso Albini, nel 'tappone' pirenaico, arriva solo con Lapize a Bayonne, ma viene battuto. Il 31 luglio 1910, nella quindicesima e ultima tappa, Caen-Parigi (la novantatreesima di quelle corse dagli italiani in tutte le edizioni) Ernesto Azzini rompe il tabù.
Il Tour, però, resta difficile: lo stile di corsa in Francia è diverso e i belgi presto vi si adattano divenendo protagonisti, ma anche qualche italiano brilla. Borgarello a Longwy il 2 luglio 1912 è il primo italiano che si piazza in testa alla classifica generale, anche se per un giorno soltanto. Poi si consola con due magnifiche vittorie, a Perpignan e Le Havre, primo italiano a realizzare la doppietta. Sempre a Le Havre, un anno dopo, con una volata prepotente su Marcel Buysse e Masselis, Micheletto vince la prima tappa e diventa leader del Tour. Tuttavia si tratta di bagliori effimeri. Fallisce, nel 1914, anche il tentativo del giovane Girardengo, costretto al ritiro alla sesta tappa per una caduta a Barèges, quando però era già tagliato fuori dalla lotta per la vittoria.
In quel periodo gli italiani non sono mai stati vicini al successo, anche se, a volte, sono stati capaci di exploits notevoli, come con Lucotti che nel Tour del 1919 vince due tappe consecutive (a Strasburgo e Metz) e per quattro volte si classifica al secondo posto. Falliscono anche corridori solidi e forti, come Belloni e Gremo, ritiratisi nella prima tappa del Tour 1920. Lucotti coglie un'altra vittoria di tappa a Tolone, per tre volte è secondo e alla fine si classifica quarto nel Tour del 1921.
Fin quando non si presenta Bottecchia (1923), in tutta la storia del Tour gli italiani hanno raccolto soltanto otto vittorie di tappe, sono stati in testa alla classifica per due giorni soltanto, con Borgarello e Micheletto, e non sono saliti mai sul podio in sedici edizioni della corsa. Bottecchia, invece, si piazza secondo a Parigi, dietro al suo capitano, e presto sconvolge la tradizione con due imprese gloriose.
Nel 1924 Bottecchia si ripresenta al Tour sempre agli ordini di Henri Pélissier. Il 22 giugno vince la prima tappa a Le Havre, imponendosi in uno sprint di venti uomini. Conquista la maglia gialla e non la perde più, anche perché non deve più cedere il passo al suo capitano: i Pélissier infatti, per protesta contro il regolamento, abbandonano il Tour a Coutances, a metà della terza tappa. Ritiratisi i Pélissier, Bottecchia strapazza tutti gli avversari sui Pirenei: passa primo su Tourmalet e Aubisque; vince sesta e settima tappa, a Luchon e Perpignan. Il 2 luglio 1924, nella Bayonne-Luchon, passa solo sull'Aubisque con 2 minuti e mezzo di vantaggio, per poi dilatare i distacchi: 11 minuti sul Tourmalet, 16 sull'Aspin, 18 minuti e mezzo sul Peyresourde. Arriva al traguardo con 18′58″ su Lucien Buysse, 33′27″ su Mottiat, 35′24″ su Frantz e 47′40″ su Brunero, settimo, confermando una superiorità assoluta.
In salita Bottecchia non si alza mai sui pedali, in quella posizione che i francesi chiamano en danseuse, rimanendo composto sulla sella con stile elegante. Divenuto leader con un consistente vantaggio sul lussemburghese Frantz, Bottecchia controlla la corsa. Si difende sulle Alpi, suscitando emozioni e simpatie anche nei francesi. Nel 'tappone' alpino para un attacco di Frantz e Brunero, il quale coglie una superba vittoria a Briançon e arriva solo con 51″ su Frantz, 8′30″ su Romain Bellenger, 9′55″ su Bottecchia. Frantz lo attacca ancora verso Metz, ma Bottecchia tiene bene e, il 20 luglio, vince anche l'ultima tappa a Parigi. Per questo successo i dirigenti di Automoto gli regalano un fucile che egli preferisce a una ricompensa di 1000 franchi.
Bottecchia vince il Tour, primo italiano a riuscirci, con 35′36″ di vantaggio su Frantz e con 1h32′13″ su Lucien Buysse. Pur conoscendo il successo e la gloria, non dimentica le sue origini, dando prova di grande generosità nei confronti di parenti e amici. Bottecchia, però, non si afferma sulle strade italiane e a fine carriera potrà contare solo tre vittorie ottenute in Italia: si aggiudica in coppia con Girardengo (per due volte) il Giro della Provincia di Milano, nel 1924 e 1925, e il Criterium Campano a San Giovanni a Teduccio nel 1925. Legato da contratto ad Automoto, il suo campo d'azione è soprattutto la Francia e il suo mese è luglio, quando si disputa il Tour.
Nel Tour 1925 Automoto conta fra i suoi corridori numerosi campioni oltre a Bottecchia: i fratelli Pélissier (nella quarta tappa, a 36 anni, Henri Pélissier avrebbe dato l'addio al Tour), Thys, Lucien e Jules Buysse. Nella prima tappa Bottecchia arriva solo a Le Havre, con 3 minuti su Francis Pélissier, 10 su Frantz (ottavo), 11 su Henri Pélissier (undicesimo), 15 su Lucien Buysse (quindicesimo), 22 su Thys. Perde la maglia gialla per 8 secondi nella terza tappa.
Bottecchia vince ancora a Bordeaux e Bayonne, dove riveste la maglia gialla, che prima perde e poi riconquista a Perpignan, per portarla intatta nelle dieci tappe conclusive. Va all'attacco con Lucien Buysse a Tolone e a Nizza, dove gli lascia la vittoria. Solo Aimo, grande protagonista sul Vars e sull'Izoard, lo stacca di 10 minuti nella tappa Nizza-Briançon. Proprio con Aimo e con altri tre compagni di fuga infligge il colpo di grazia a Frantz, staccato di 37′44″ nella tappa di Evian. Anche stavolta Bottecchia, in maglia gialla, s'impone a Parigi nell'ultima tappa e in classifica generale precede Lucien Buysse di 54′20″, Aimo di 56′37″ e Frantz di 1h11′24″. Alla fine di quell'anno, di ritorno da una tournée in Sud America, Bottecchia vorrebbe finalmente disputare una stagione italiana, ma Automoto riesce a convincerlo con le lusinghe a rinunciare al progetto.
Quando ritorna al Tour del 1926, il più lungo della storia (5745 km), Bottecchia trova un ambiente ostile. Quando fora nella prima tappa (Evian-Mulhouse), i suoi gregari Jules e Lucien Buysse lo abbandonano e Bottecchia perde subito 34 minuti. Dopo tre tappe è già staccato in classifica. Il boicottaggio da lui patito nasce dal fatto che egli non divide i premi con i suoi compagni, se non quando vi è costretto. Oltre a questo motivo, è evidente il suo calo fisico.
I tifosi italiani si aspettano la sua resurrezione sulle montagne, ma neanche sui Pirenei avviene la riscossa. Nella decima tappa Bayonne-Luchon (323 km), è il suo compagno di squadra Lucien Buysse a condurre la corsa. Mentre Buysse passa in testa sull'Aubisque, Bottecchia rifluisce indietro e, ormai vinto, si ritira sul Tourmalet. Buysse arriva al traguardo con 25 minuti di vantaggio su Aimo e vince il Tour dopo averlo dominato. Aimo è terzo. Il tramonto di Bottecchia è repentino. Dopo il ritiro al Tour, fallisce al Giro di Lombardia, per poi rinunciare alla Sanremo a causa di un incidente stradale. Nella Bordeaux-Parigi si ferma per un improvviso quanto misterioso malore.
Il 15 giugno 1927 Bottecchia muore a causa di una caduta dalla bicicletta presso Peonis. L'accaduto rimane avvolto dal mistero e più volte è stato ipotizzato che Bottecchia sia stato vittima di un'aggressione. Le vittorie di Bottecchia sono numerose: due Tour con nove tappe, due Giri della Provincia di Milano, la corsa di San Giovanni a Teduccio, la Sei ore di Buenos Aires, una tappa del Giro del Paese Basco.
Binda e la rivalità con Girardengo
Il 4 marzo 1923, attirato da un lauto ingaggio, Girardengo va in Francia per la corsa in salita sul Mont Chauve (15,8 km). Si tratta di una pura formalità, ma un giovane emigrante di vent'anni lo batte: si chiama Alfredo Binda. Il giorno dopo i giornali francesi scrivono che "le poussin a battu les aigles".
La famiglia di Binda è di Cittiglio, nel Varesotto. Alfredo nasce l'11 agosto 1902, decimo figlio di Maffeo, piccolo impresario edile. Nell'agosto 1919, per superare il momento particolarmente duro anche per una famiglia benestante come quella di Binda, Alfredo, insieme al fratello Primo, parte per Nizza dove farà lo stuccatore.
Il 4 settembre 1921, iniziato al ciclismo dal fratello, vince la sua prima gara a Pont Magnan, ma viene squalificato perché, ignaro delle formalità, non ha risposto al secondo appello. Una settimana dopo s'impone al Gran Criterium dell'Éclaireur. Vince spesso, rivaleggiando con Paul Broccardo, un corridore già affermato. Nel 1923 decide di fare il corridore a tempo pieno e lascia il lavoro di stuccatore. Gareggia per la Françoise Diamant a 500 franchi al mese, vincendo undici corse.
In Italia si presenta il 3 novembre 1924 per il Giro di Lombardia. Nel corso della stagione si era già imposto diciannove volte su ventidue gare, aveva migliorato il record della salita sul Mont Faron e in Francia aveva vinto la sua prima corsa a tappe, il Giro del Sud-Est. È un asso, ma nel suo esordio italiano si propone un obiettivo minimo: il premio di 500 lire riservato al primo corridore che passa sul Ghisallo. Su quella salita Binda stacca tutti e si prende le 500 lire; al traguardo finisce quarto. La corsa è vinta da Brunero con 7′04″ di vantaggio su Girardengo, Linari e Binda. In quella gara Pavesi lo nota subito e lo presenta a Emilio Bozzi, patron della Legnano, che gli offre 30.000 lire all'anno più 12 lire a chilometro per le gare importanti. Dopo aver soppesato l'offerta dei francesi, il 10 dicembre Binda firma per la Legnano. Un anno dopo che la Francia le ha strappato Bottecchia, l'Italia si riprende Binda, che è cresciuto ciclisticamente in Francia ma che già nel 1922 aveva la tessera di professionista junior dell'UVI.
Il 16 maggio 1925 Binda si presenta al via del Giro d'Italia nella Legnano con Brunero, mentre Girardengo, con Belloni, è nella Wolsit, sottomarca della Legnano. Girardengo entra al Giro da protagonista assoluto. Ha appena vinto la Sanremo e, il 28 settembre 1924, si è imposto nel Gran Premio Wolber (362 km), il vero campionato mondiale su strada dell'epoca. Quel giorno al via c'erano tutti i campioni ‒ Thys e Bottecchia, Henri e Francis Pélissier, Suter, Frantz e Christophe, Alavoine e Félix Sellier ‒ e Girardengo li aveva battuti con uno sprint magistrale, piegando Henri Pélissier e Sellier.
Al Giro è il favorito fra i 125 partecipanti. La gara si corre fino al 7 giugno, con dodici tappe sempre intervallate da un giorno di riposo, per 3520,5 km: una distanza che Binda non aveva mai nemmeno sfiorato. Binda si piazza terzo nella prima tappa Milano-Torino, battuto in volata dal suo compagno Linari e da Belloni. Nella seconda è bruciato solo da Girardengo ad Arenzano. Nella terza finisce secondo dietro a Pietro Bestetti, a Pisa. Nella quarta è ancora terzo, battuto da Girardengo e Belloni a Roma, ma sulla salita di Radicofani stacca tutti, senza insistere.
Binda è sempre vicinissimo alla vittoria che non riesce a cogliere, battuto da uomini molto veloci. Certamente è penalizzato dalla polvere alla quale non è abituato, dal momento che sulla Costa Azzurra parecchie strade sono già asfaltate. In ogni caso, dopo quattro tappe, è in testa alla classifica alla pari con Girardengo che, forte di due vittorie, accarezza l'idea del tris. Ma quando il 24 maggio, nella Roma-Napoli, questi fora a 40 km dal traguardo, Binda lo attacca e gli infligge 5′32″ di distacco. A Napoli Belloni vince la tappa davanti a Binda, che però diventa capoclassifica in solitudine. Quel giorno all'Arenaccia, mentre Belloni viene premiato, Binda suona la cornetta insieme alla banda, guadagnandosi l'appellativo di Trombettiere di Cittiglio.
Il 26 maggio a Bari, bruciando Girardengo e Belloni allo sprint, Binda vince la sua prima tappa al Giro. Poi si limita a controllare la corsa, concedendo a Girardengo altre quattro vittorie di tappa. Vince il Giro con 4′58″ su Girardengo e 7′22″ su Brunero, aggiudicandosi una sola tappa, contro le sei su dodici vinte da Girardengo. Il pubblico parteggia sempre per Girardengo, ma Bruno Roghi scrive che Binda "galleggiava sulla strada con l'armoniosa leggerezza dei suoi colpi di pedale, carezze al piano e morsi al monte".
Girardengo, però, non accetta il sorpasso e replica da par suo, infliggendo a Binda tre sconfitte di fila: Giro del Veneto, Giro dell'Emilia e XX Settembre. Binda risponde il 4 novembre al Giro di Lombardia. Sul Ghisallo rifila a Girardengo 5 minuti di distacco, ma non insiste e consente al suo grande rivale di rientrare, per poi scattare di nuovo sul Marchirolo. Solo Girardengo gli risponde e la gara si trasforma in un duello.
Binda e Girardengo scollinano insieme e fuggono, inseguiti invano da Aimo. Binda attacca il Brinzio in testa, con Girardengo a ruota. A Rancio, dove la strada s'impenna, Girardengo lotta con tutte le sue forze, ma Binda lo stacca e scollina con 3 minuti di ritardo. Davanti Binda insiste e arriva solo a Milano con 6′45″ su Girardengo, che poi viene squalificato per non aver firmato il foglio di controllo di Grantola.
La rivalità Binda-Girardengo esplode ed entusiasma le folle. Girardengo ha già 32 anni, ma non è domo. Infatti, apre la stagione successiva con una squillante vittoria in solitudine nella Sanremo: fugge da solo a 70 km dal traguardo e vince con 6′40″ su Nello Ciaccheri, primo degli inseguitori.
C'è grande attesa per la sfida Binda-Girardengo al Giro di quell'anno (1926), ma nella prima tappa (Milano-Torino) Binda rompe i freni e cade nella modesta discesa della Serra. Perde conoscenza e, quando si riprende, invano insegue gli avversari, arrivando a Torino con 35′40″ di ritardo dal vincitore Domenico Piemontesi. È subito fuori dalla lotta per la vittoria finale.
Quattro giorni dopo, Binda arriva da solo a Firenze con 4′30″ su Brunero. Girardengo risponde subito e vince a Roma bruciando Binda allo sprint e diventando capoclassifica. A Napoli conquista la sua trentesima vittoria al Giro. Binda, però, lo batte in volata a Foggia, dove Girardengo s'infortuna al ginocchio. Nella settima tappa (Foggia-Sulmona) Girardengo si ritira aprendo la strada a Brunero che vince il suo terzo Giro. Binda è secondo a 15′38″ e ha vinto sei tappe su dodici. La parabola di Brunero (31 anni) si compie l'anno successivo, quando ottiene l'ultima vittoria a Trieste, per poi concludersi nel 1929, quando decide di lasciare le corse. Morirà di tubercolosi a 39 anni.
La sfida Binda-Girardengo si gioca anche su un altro campo: il campionato italiano in otto prove. Al successo di Girardengo nella Sanremo Binda replica vincendo il Giro del Piemonte (2 maggio 1926) con 3′15″ su Brunero e 5′34″ su Girardengo, il quale risponde battendo Binda in volata nel Giro di Romagna (20 giugno) e nel Giro del Veneto (8 agosto). Poi però, il 10 settembre, travolto da Adriano Zanaga sulla pista di Firenze, si sloga il polso; Binda si aggiudica quattro prove consecutive e indossa per la prima volta la maglia tricolore.
Il 31 ottobre ottiene un bis strepitoso al Giro di Lombardia, dove Girardengo, infortunato al polso, fa lo starter. Contro Binda gareggiano Bottecchia, Linari, Piemontesi e Georges Ronsse. Bottecchia fa la selezione sul Ghisallo e con lui restano solo due uomini, Ermanno Vallazza e Binda che, prima di Guello, parte con uno scatto micidiale. Bottecchia annaspa, forza, cerca di reagire, si stacca. Binda scollina con oltre 2 minuti di vantaggio. Dopo una corsa epica in mezzo alla bufera, aumenta il suo vantaggio e s'impone di forza, dopo 158 km di fuga, con 29′40″ di vantaggio su Antonio Negrini e Vallazza e con 32′18″ su Bottecchia.
Al Giro d'Italia del 1927 Binda vince dodici tappe su quindici. Gli unici tre che lo battono sono Piemontesi, Arturo Bresciani e il suo compagno Brunero. Binda resta capoclassifica dal primo all'ultimo giorno. Il 21 luglio diventa campione del mondo sconfiggendo Girardengo. Quest'ultimo il 30 ottobre cerca la rivincita nel Giro di Lombardia, dove però è costretto al ritiro. Binda, in maglia iridata, è primo sul Ghisallo insieme ad Alfonso Piccin. Attacca sul Marchirolo e si isola a 70 km dal traguardo. In cima al Brinzio porta a 3 minuti il suo vantaggio e a Milano vince ancora in solitudine con 4′11″ su Piccin.
Nella sfida fra i due campioni Binda prevale, ma Girardengo, a 35 anni, lo sconfigge nella Sanremo. Il 29 giugno 1928 lo batte ancora nella Milano-Modena ‒ una cronometro di 186 km, valida per il campionato italiano ‒, dove arriva ad avere 6′23″ di vantaggio prima che Binda riesca a dimezzare il distacco, finendo a 3′16″. Al Campionato del Mondo di Budapest del 1928 la rivalità fra i due è tale che, annullandosi a vicenda, finiscono con il ritirarsi.
Con questo episodio si può considerare esaurita l'era di Girardengo, che da questo momento si concentra sulla pista. Tuttavia nel 1935, a 42 anni, ottiene la sua ultima vittoria su strada al velodromo Appio di Roma, vincendo la terza tappa (Arsoli-Roma) del Giro delle Quattro Province, prevalendo in volata su Angelo Varetto, Aldo Bini e un gruppo comprendente Cino Cinelli, Cesare Del Cancia e Giuseppe Martano.
Il palmarès di Girardengo comprende la vittoria in sei Sanremo e nove campionati italiani, due Giri d'Italia con trenta vittorie di tappa, tre Giri di Lombardia, cinque Roma-Napoli-Roma, il Gran Premio Wolber e la Gran fondo. Si è imposto anche per cinque volte nella Milano-Torino e nel Giro dell'Emilia, per quattro volte consecutive al Giro del Veneto, per tre volte al Giro del Piemonte e nella Milano-Modena, per due al Giro di Toscana e al Giro di Romagna. In carriera ha vinto 107 delle 256 corse su strada disputate. Su pista vanta 965 vittorie, tra cui quattro Sei giorni.
La serie più straordinaria di vittorie però Girardengo la infila nel Campionato italiano: nove titoli consecutivi, dal 1913 al 1925, con quattro anni di pausa per la guerra. Dopo di lui Binda avrebbe conseguito quattro vittorie consecutive e Guerra sarebbe arrivato a cinque, ma nessuno mai avrebbe uguagliato Girardengo.
Dopo il ritiro del 1913, Girardengo entra nella storia della Sanremo solo il 28 marzo 1915. Galetti e Lucotti sono in fuga sul Capo Berta con 3 minuti su di lui e su Gremo. Girardengo raggiunge i due fuggiaschi a San Lorenzo al Mare, li stacca e vince in solitudine con 3′18″ su Corlaita, ma viene squalificato per taglio di percorso a Porto Maurizio: Girardengo, invece di seguire la circonvallazione, è passato per il centro.
Nel 1917 torna all'assalto. Belloni attacca sul Turchino e Girardengo lo insegue a distanza in un testa a testa formidabile attraverso la riviera. Belloni vince e Girardengo arriva secondo a 11′48″, con oltre mezz'ora su Gremo, terzo. Solo al quarto tentativo, il 14 aprile 1918, Girardengo coglie la vittoria e lo fa partendo da solo a Rivalta Scrivia, a più di 200 km dal traguardo. Belloni lo insegue da solo, ma stavolta Girardengo vince, su strade impossibili, con 13 minuti sul rivale e 59 su Agostoni.
Nel 1919 Girardengo va in fuga con il suo compagno di squadra della Stucchi, Gremo. Sembra avviato al bis, ma fora sul Capo Berta e Gremo così lo precede di 2′15″ a Sanremo. Nel 1920 finisce terzo, battuto da Belloni e Henri Pélissier. Poi infila una serie di cinque successi su sette partecipazioni. Nel 1921 Girardengo fa la selezione con Brunero che batte in volata di una decina di metri, mentre l'anno dopo Brunero ha la meglio su di lui che cade in volata (finendo staccato di 22 secondi), ostacolato da una manovra che il suo avversario compie per evitare un uomo sulla sua traiettoria.
Nel 1923 Girardengo respinge gli attacchi di Bottecchia e vince in volata. L'anno seguente punta di nuovo sulla volata e viene trafitto da Linari e Belloni. Nel 1925 si ripete il duello tra Brunero e Girardengo, ma il novese non ha problemi nello sprint, mentre il primo degli inseguitori, Linari, arriva con un quarto d'ora di distacco. Girardengo cambia strategia nel 1926 e scatta di prepotenza sui Piani d'Invrea, seguito solo da Negrini e Ciaccheri. Poi, il primo fora e il secondo viene staccato prima di Loano. Girardengo arriva a Sanremo con 6′40″ su Ciaccheri, il primo degli inseguitori.
Il 25 marzo 1928 Girardengo gareggia contro Binda che indossa la maglia iridata. Durante l'inverno, insieme al rivale, aveva vinto la prima Sei giorni di Milano. La corsa, flagellata dalla pioggia, diventa un duello fra i due. Binda passa primo sul Turchino con 150 m su Girardengo che deve inseguire fino ad Arenzano per riprenderlo. Sulla Colletta è pronto a rispondere allo scatto di Binda che poi attacca di nuovo su Capo Berta. Girardengo si sfila e scollina insieme a Negrini con 200 m di distacco. Girardengo rientra con un inseguimento furioso a soli 3 km dal traguardo e prova subito a staccare il rivale che, pronto, risponde. La volata è a due e Girardengo la vince con due lunghezze di vantaggio.
Girardengo corre ancora per la vittoria a Sanremo a 40 anni compiuti. In questa corsa parte per sedici volte, per quattordici arriva al traguardo: per sette lo taglia primo (in una viene poi squalificato dalla giuria), per tre volte è secondo e per due terzo.
Al Giro del 1928 (quello del record di partenti: 298) Binda annichilisce la concorrenza. Solo l'irriducibile Piemontesi (cinque vittorie di tappa) osa attaccarlo. Binda vince sei tappe su dodici e a Pistoia assiste alla vittoria del fratello Albino. Dopo che a Roma, alla curva dell'Acquacetosa, un sasso lo colpisce in testa, Binda controlla e si risparmia. Compie solo un grande attacco nella tappa appenninica di Sulmona, dove arriva solo con 6′16″ di vantaggio su Giuseppe Pancera.
Nel Giro del 1929, dopo il successo di Belloni nella sua Napoli, Binda vince addirittura otto tappe di fila, ma il pubblico all'Arena di Milano lo accoglie con i fischi. Binda ha vinto gli ultimi tre Giri e su quarantuno tappe se ne è aggiudicate ventisei. Mai, nella storia del ciclismo, si è avuta una superiorità così manifesta. È a causa di Binda che Girardengo si ritira sulla pista e Belloni va a correre in Germania.
Per restituire interesse al Giro gli organizzatori decidono di non invitare Binda nel 1930, assegnandogli comunque il premio di 22.500 lire destinato al vincitore. L'alternativa è il Tour che vara la formula delle squadre nazionali: Binda è il capitano di quella italiana.
Nel Giro di quell'anno si afferma Learco Guerra, un muratore di San Nicolò Po (vicino a Mantova) coetaneo di Binda, ma che, al contrario di lui, non ha vinto ancora nulla. Guerra si rivela nell'ottava tappa (Napoli-Roma), il 28 maggio. L'arrivo è al velodromo Appio, dove è presente anche Binda che segue la corsa in auto per scegliere personalmente gli uomini per il prossimo Tour. Con una volata bruciante, di esplosiva potenza, Guerra precede Negrini e Di Paco. Cinque giorni dopo si ripete a Forlì, dove batte l'olimpionico Alfredo Dinale. Binda lo sceglie per il Tour.
La prima squadra italiana al Tour del 1930 è formata da Binda (capitano), Guerra, Belloni, Piemontesi, Leonida Frascarelli, Felice Gremo, Marco Giuntelli e Pancera. Oltre all'Italia, ci sono il Belgio (con Jef Demuysere e Jean Aerts), la Germania (con Adolf Schön e Oskar Thierbach), la Spagna (con Salvador Cardona e il piccolo scalatore Vicente Trueba) e la Francia (con André Leducq, Antonin Magne e Charles Pélissier): otto corridori per squadra per un totale di quaranta uomini. L'organizzazione del Tour è a carico del giornale L'Auto, che fornisce anche biciclette uguali per tutti. Oltre ai quaranta nazionali, ci sono i touristes-routiers, tra cui figurano anche corridori dal grande passato come Lucien Buysse. Il motivo del cambiamento di formula sta nel tentativo di sopprimere le rivalità commerciali che danneggiano la corsa e favorire la vittoria del migliore.
Il Tour prevede ventuno tappe e cinque giorni di riposo per 4818 km di percorso. La corsa assume subito l'aspetto di un duello franco-italiano e, in particolare, di una sfida tra Pélissier e Leducq da un lato e Binda e Guerra dall'altro. Pélissier (27 anni), ultimo dei quattro fratelli, è molto veloce e così elegante che alcuni lo chiamano Lord Brummel; Leducq (26 anni), soprannominato Dédé, campione del mondo dilettanti nel 1924, due anni prima ha vinto la Roubaix davanti a Ronsse.
Nella prima tappa Binda arriva a Caen con Pélissier che lo batte in volata. Il 3 luglio Guerra stacca tutti e vince la seconda tappa con 1′28″ su Binda. Nella terza tappa Pélissier precede Binda in un volatone di gruppo a Brest. Il 7 luglio a Bordeaux, al termine della sesta tappa, esplode la controversia fra le due squadre. Pélissier, a 120 m dal traguardo, prende per la maglia Binda e passa primo sotto il traguardo. Dopo la minaccia di Binda di abbandonare la corsa, la giuria retrocede Pélissier al terzo posto: la vittoria va ad Aerts e Binda è secondo.
Al via della settima tappa, Bordeaux-Hendaye (222 km), c'è grande tensione tra francesi e italiani, che hanno sempre Guerra in maglia gialla, ma hanno già perduto Belloni, costretto al ritiro. Dopo 40 km Binda è coinvolto in una caduta al centro del gruppo. Si infortuna e danneggia la bicicletta. La squadra francese ne approfitta per scatenare l'offensiva. Fuggono in otto: sei francesi, più Guerra e Demuysere. Binda si rialza a fatica, riprende, dolorante perde un'ora e 11 minuti e finisce fuori classifica. Vuole tornare a casa. Emilio Colombo, direttore della Gazzetta dello sport, lo convince a dare almeno un segno del suo valore. Binda, allora, d'orgoglio vince le due tappe successive: quella di Pau, battendo Pélissier, Demuysere e Leducq in un volatone di settantacinque corridori, e, soprattutto, il 'tappone' pirenaico Pau-Luchon, dove cerca di aiutare Guerra, in difficoltà sul Tourmalet. Arriva a Luchon con Pierre Magne e Leducq e li batte in volata. Guerra, sesto a 13′10″, perde la maglia gialla. Dopo un giorno di riposo il Tour riprende con la Luchon-Perpignan (322 km). Binda passa primo sul Portet d'Aspet, poi per la rottura della sella si ritira.
In questo Tour Guerra, terzo in classifica, resta solo con Pancera e Giuntelli. Vince a Cannes in volata la tredicesima tappa, poi si ripete a Grenoble nella quindicesima, arrivando solo con Benoît Faure e scalzando Antonin Magne dal secondo posto. Poi, nella sedicesima, va all'assalto della maglia gialla Leducq, solo contro i francesi coalizzati e si arrende dopo 100 km di splendida battaglia. L'Italia si esalta per questo corridore impulsivo e audace, prodigo e generoso. Dopo ventuno tappe, nella classifica finale, Guerra finisce secondo a 14′13″ da Leducq.
La Francia piazza quattro uomini tra i primi sei: Leducq primo, Antonin Magne terzo, Marcel Bidot quinto, Pierre Magne sesto. Pélissier, nono, vince otto tappe, tra cui le ultime quattro. Solo tre italiani finiscono la corsa: Guerra secondo, Pancera ventesimo, Giuntelli trentunesimo.
La scena del ciclismo italiano è dominata da Binda e Guerra, ma ci sono altri protagonisti: l'incendiario Piemontesi, lo spericolato Luigi Marchisio, l'elegante Di Paco, i duri Giuseppe Martano e Antonio Pesenti, lo scalatore Francesco Camusso.
Piemontesi, nato a Boca (presso Borgomanero) l'11 gennaio 1903, è il più grande attaccante della storia del Giro. Il 15 maggio 1926 si presenta con il compagno Egidio Picchiottino nella prima tappa Milano-Torino. Sono due esordienti della Alcyon contro campioni come Binda, Girardengo, Brunero, eppure trasformano la corsa in una battaglia con vittime illustri. Binda, che è caduto, esce dalla classifica, Girardengo e Brunero perdono quasi 14 minuti; ottantanove corridori sono costretti al ritiro. Nella tappa successiva (Torino-Genova), Piemontesi riprova sulla Scoffera e nemmeno Girardengo e Brunero coalizzati riescono a contenerlo. Piemontesi vince a Genova con 2′39″ di vantaggio su Girardengo e Brunero. Viene soprannominato il Ciclone di Boca, ma finisce per pagare la sua generosità. Quando nella quarta tappa fora per quattro volte, Binda, Brunero e Girardengo lo attaccano a fondo e Piemontesi si ritira.
I suoi arrembaggi sono temuti dagli avversari: così, nella prima tappa del Giro del 1927, quando Piemontesi fora per tre volte, la Legnano di Binda e Brunero lo attacca come misura preventiva e lo stacca. Quell'anno incomincia l'era delle volate: Piemontesi si mostra veloce e a Grosseto batte Binda. Nelle prime dieci tappe di quel Giro è l'unico a spezzare la serie di vittorie di Binda; poi, per la seconda volta, gli è fatale la salita dei Monti Cimini. Nella prima tappa del Giro del 1928 Piemontesi si scatena ancora e arriva a Trento solo con 13 secondi su Binda. Binda lo liquida nella quarta tappa, quando fora quattro gomme, ma, ancora una volta, Piemontesi è l'unico a mettere in pericolo l'egemonia dei Binda (sei tappe vinte da Alfredo, una dal fratello Albino) e per cinque volte è primo. Nel Giro del 1929 Piemontesi brucia Binda in volata una volta soltanto, per cinque volte è secondo e per altrettante terzo. Forte dell'esperienza passata si gestisce con intelligenza e nella classifica finale finisce secondo a 3′44″ dall'imbattibile Binda. Torna sul podio nel Giro del 1933, dove si piazza terzo, dietro a Binda e Demuysere. Aveva perso invece la grande occasione al Giro del 1930 (quando Binda era assente) vincendo solo una volta per distacco a Cosenza.
Il Ciclone di Boca tiene fede al suo soprannome anche all'estero. Il 25 agosto 1934, nel Giro della Svizzera, travolge tutti nella prima tappa Zurigo-Davos: lascia a 2 minuti il tedesco Ludwig Geyer (che avrebbe poi vinto il Giro), a 5 lo spagnolo Prior, a 7 Aerts.
Anche la sua ultima vittoria al Giro (1935) è all'insegna dell'arrembaggio. Piemontesi strappa la maglia rosa al suo compagno di squadra Vasco Bergamaschi con un assalto corsaro, poi crolla di nuovo cadendo nella quarta tappa (Rovigo-Cesenatico) e finisce sanguinante al traguardo, con quasi dieci minuti di distacco, e lì sviene. Piemontesi vince il Giro dell'Emilia e la Milano-Modena, il Giro di Sassonia e la Tre Valli Varesine. Il 15 ottobre 1933, nel Giro di Lombardia, fugge a 220 km dall'arrivo, poi sul Brinzio resiste stoicamente agli scatti di Luigi Barral e lo batte in volata.
Marchisio compare improvvisamente sulla scena nel Giro del 1930. È nato in Piemonte a Castelnuovo Don Bosco e corre nella Legnano che, per la rinuncia di Binda, ha un capitano nuovo, il giovane francese Jean Marechal. Il 20 maggio, nella discesa del colle San Rizzo, Marchisio vola a rotta di collo sopra la ghiaia, salta i tre avversari che lo precedono e vince a Messina con 9 secondi su Guerra. Un successo prepotente che lo porta in testa alla classifica e lo trasforma in capitano della sua squadra. Nonostante un infortunio a un occhio, Marchisio riparte da Reggio Calabria e, quando sulla rampa di Catanzaro scatta Di Paco, lo insegue, lo raggiunge e lo stacca di 7 secondi. Dopo queste due vittorie di tappa, che gli fruttano 4 minuti d'abbuono, nessuno riesce a scalzarlo più dalla vetta.
Marchisio, con l'occhio bendato, vacilla solo nella sesta tappa (Cosenza-Salerno), per una grande manovra d'attacco della Maino, ma riesce a resistere di misura, mostrando temperamento. Nella tredicesima tappa, quando risponde all'attacco di Luigi Giacobbe ad Asiago, la lotta è così ardente che diventa un corpo a corpo: nella foga della battaglia i due avversari si urtano e cadono nella salita. Marchisio resta leader per tredici tappe e vince il Giro a 21 anni. "È il nuovo Binda", dichiara il direttore della Gazzetta dello sport Emilio Colombo. Invece Marchisio fatica a farsi luce nelle classiche. Mostra ancora il suo talento al Giro del 1931, in cui riesce a inserirsi nel duello Binda-Guerra sfiorando un clamoroso successo. A Perugia, prova l'emozione di vestire la maglia rosa che poi perde, per riconquistarla a Genova. A tre tappe dalla fine si trova in testa alla classifica con 28 secondi di vantaggio su Giacobbe.
Il 27 maggio 1931, nella Genova-Cuneo, è vittima di un tifoso che lo spinge a terra mentre sale in maglia rosa sulla Bocchetta. Marchisio si rialza, insegue, si riaggancia; ma più tardi, a Priero (70 km dal traguardo), fora e per una serie di circostanze sfortunate arriva al traguardo con 4 minuti di distacco, perdendo la maglia rosa. Prova ancora sul Sestriere, ma, sofferente al piede, è staccato da Camusso. Marchisio finisce terzo in un Giro che avrebbe potuto vincere. Ottiene un ultimo successo internazionale nella Barcellona-Madrid. Una grave caduta nel Giro di Campania del 1934 mette fine alla sua carriera.
Dopo un'esistenza travagliata, Bartolomeo Aimo diventa protagonista del Giro nel 1921, quando ha già 32 anni. Nato ai Brassi di Carignano il 24 settembre 1889, è il sesto figlio di Giovanni, un pastore. Ha fatto l'emigrante in Sud America. È rientrato in Italia nel 1917 giusto in tempo per prendere parte alla rotta di Caporetto.
Quattro anni dopo si presenta al via del Giro nella Legnano. Contribuisce, come gregario, alla prima vittoria di Brunero al Giro del 1921. Sale sul podio, terzo dietro a Brunero e Belloni. Il 1° giugno 1922, a Napoli, vince per la prima volta al Giro. Nella quinta tappa (Pescara-Napoli) Aimo fugge con il suo capitano Brunero, che gli lascia la vittoria, dando agli altri un distacco di un quarto d'ora. Aimo si ripete a Torino, dove arriva primo davanti a Brunero. In quel Giro finisce secondo, mentre suo fratello Pietro (37 anni) è sesto.
È un grande scalatore, ma è bravo anche nelle discese. Così, nel Giro del 1923, passato all'Atala, nella seconda tappa (Torino-Genova) attacca nella discesa della Scoffera e arriva solo con 55 secondi su Linari. Diventa primo della classifica. Difende la leadership per altre tre tappe, poi viene spodestato a Chieti, ma finisce terzo dietro a Girardengo e Brunero. Dopo essere salito sul podio per tre volte, nel Giro del 1924 ha la grande occasione per vincerlo. Girardengo, Brunero e Bottecchia rinunciano e Aimo, puntualmente, domina la prima tappa (Milano-Genova), arrivando al Lido di Albaro con 10 minuti di vantaggio su Federico Gay. Nella seconda tappa si ritira Belloni, il suo avversario più forte, e Aimo sembra avere la strada spianata. Soffrendo però di attacchi di febbre malarica, ha cedimenti improvvisi così nella terza tappa (Firenze-Roma) va in crisi sulla salita dei Monti Cimini e, ancora quarto, si ritira.
Quell'anno Aimo, a quasi 35 anni, fa il suo esordio al Tour. Arriva con Thys a Nizza, nella nona tappa, ma viene battuto allo sprint. Sulle montagne, passa primo sul Télégraphe e sul Galibier. Finisce quarto nel Tour vinto da Bottecchia davanti a Frantz e Lucien Buysse. Nel 1925 riprova nelle file dell'Alcyon, dove primeggiano assi come Frantz (vincitore della Roubaix), Sellier, Mottiat, Émile Masson senior. Il 9 luglio, nella tredicesima tappa (Nizza-Briançon, 275 km), compie l'impresa passando primo e solo sul Vars e sull'Izoard e vincendo con 9′57″ di vantaggio sulla maglia gialla Bottecchia, con 13′37″ su Frantz e con 17′41″ su Lucien Buysse. Aimo sale sul podio del Tour terzo, dietro a Bottecchia e Lucien Buysse. Il 13 luglio 1926, a 37 anni, si ripete nella stessa Nizza-Briançon. Passa ancora in testa sul Vars e sull'Izoard e vince con 6′35″ su Sellier e 13′05″ su Bidot. Conquista l'unica vittoria italiana di quel Tour che vede la resa di Bottecchia sui Pirenei nella decima tappa. Alla fine Aimo sale di nuovo sul podio del Tour, terzo, dietro Lucien Buysse e Frantz. Nel Giro del 1928, a quasi 39 anni, finisce ancora terzo, dietro a Binda e Pancera.
Le sue imprese al Tour sono oscurate dalle vittorie di Bottecchia, eppure Aimo resta nella storia del Tour come il primo italiano a essere passato in testa sul Galibier (1924), sul Vars e sull'Izoard (1925). Si ritira dalle corse a 40 anni nel 1929.
Anche Giuseppe Enrici conosce l'emigrazione. È nato a Pittsburgh, negli Stati Uniti, nel 1896 e morirà a Nizza. Ma è di famiglia piemontese, come Aimo e Brunero. Gareggia con loro nella Legnano nel Giro del 1922 e dietro di loro sale sul podio. È meno brillante di Brunero, meno forte sulle montagne di Aimo, fermo come loro in volata, ma è resistente alla fatica e al dolore, capace di vincere il Giro del Sestriere e il Giro del Penice nel 1923.
Da ragazzo lavora come garzone da un falegname a Torino e, vivendo a Corio Canavese, percorre ogni giorno 76 km in bicicletta. A 28 anni coglie la grande occasione al Giro del 1924, dove la rinuncia degli assi e il ritiro di Belloni e Aimo gli spianano la strada. Ben consigliato da Pavesi, demolisce il leader della corsa Gay nelle due tappe appenniniche Foggia-L'Aquila e L'Aquila-Perugia.
Gay è un asso dell'aviazione, decorato con la medaglia d'argento al valore nella prima guerra mondiale. Coraggioso e resistente, nel 1925 vince la Zurigo-Berlino (1050 km in una sola tappa) e viene premiato dal maresciallo Paul Ludwig von Hindenburg in persona. Astuto oltre i limiti della correttezza, arriva a togliere la molletta del freno alla bicicletta di Girardengo pur di riuscire a batterlo.
Nel Giro del 1924 Gay vince quattro delle prime sei tappe, liquidando Belloni e Aimo. Al via della settima tappa (Foggia-L'Aquila) è in testa alla classifica con 16′17″ di vantaggio su Enrici e oltre un'ora sugli altri concorrenti. La sfida è impari, ma Enrici ha una possibilità: la salita. Dopo aver studiato la cartina altimetrica, ai piedi della salita del Macerone attacca Gay, che fora. In breve Enrici acquista 9 minuti di vantaggio e il distacco si dilata sulla salita delle Svolte. All'Aquila Enrici arriva solo mentre Gay, stremato, accusa 17′28″ di ritardo. Nella tappa successiva Enrici (primo in classifica con 1′08″) aumenta il vantaggio su Forca Canapine. Gay scollina con un ritardo irrimediabile e arriva a Perugia con oltre 38 minuti di distacco. Invano Gay tenta poi un assalto notturno nella Bologna-Fiume (415 km). Enrici gli resiste e a Milano s'impone con 58 minuti di vantaggio, nonostante un grave infortunio al piede.
In seguito Enrici fallisce l'assalto al Tour e, due anni dopo la vittoria e dopo due ritiri, non trova più l'ingaggio, così si schiera al Giro tra gli isolati. Finisce quinto nel Giro in cui gareggiano Brunero, Binda e Girardengo, primo tra gli isolati.
Il ciclismo ribalta il significato del termine 'fuga', generalmente associato a un atto di viltà, a una resa. Infatti in questo sport chi fugge appartiene a una élite, fa parte di coloro che possono aspirare alla vittoria. Nella storia del ciclismo le fughe di Coppi e Merckx appartengono alla leggenda, ma la 'fuga del secolo' è di Bepi Pancera.
Giuseppe Pancera, nato a San Giorgio in Salici (Verona) il 10 gennaio 1901, è un 'musso', un uomo di fatica, che emerge soltanto dove la strada si fa dura, dove lo sforzo è estremo. Il 20 settembre 1927 si allinea al via della Roma-Napoli-Roma, 532 km da correre tutti in una volta. Dopo 90 km, a Terracina, va in fuga riuscendo a conquistare un premio di traguardo. Decide di vincerne un altro e insiste; il vantaggio aumenta; Binda, Girardengo, Brunero, sorpresi da quell'attacco, non lo inseguono, aspettando inutilmente che crolli. Bepi Pancera, dopo 18 ore e 442 km di fuga, arriva primo a Roma con venti minuti di vantaggio.
È una vittoria rara, perché Pancera non è veloce e non vince quasi mai (si aggiudica soltanto due volte la Coppa Bernocchi), ma ha la resistenza dell'acciaio. Il 6 settembre 1931 si schiera nella Parigi-Brest-Parigi (1186 km). Dopo 52 ore di corsa ‒ due giorni e due notti ‒ arriva a Parigi insieme all'australiano Hubert Opperman e al belga Louyet. Finisce terzo in volata.
Durante questa corsa nasce la sua amicizia con Opperman. Questi, in Australia, diventerà ministro dei Trasporti e, poi, del Lavoro e dell'Immigrazione, sarà insignito del titolo di Sir, ma continuerà a scrivere al 'musso' veronese.
Pancera è un uomo da corsa a tappe; finisce secondo nel Giro del 1928, dietro all'invincibile Binda, e si piazza secondo anche al Tour del 1929, dietro al belga Maurice De Waele, un regolarista soprannominato il Metronomo, che gode dell'appoggio ‒ vietato dal regolamento ‒ di una squadra strapotente. Bepi, con Antonio ed Eliseo, forma una triade famosa di fratelli corridori.
Il 5 giugno 1930 appare sulla scena del Giro, nella tredicesima tappa che arriva ad Asiago, Antonio Pesenti. Non è un protagonista, è soltanto un corridore che assiste alla disputa per la vittoria tra Giacobbe e Marchisio. Ma su quella salita Pesenti parte in contrattacco e se ne va; arriva solo ad Asiago con due minuti e mezzo di vantaggio.
Ha 22 anni; è nato a Zogno in Val Brembana ed è un uomo di fondo, un duro. L'anno dopo si presenta al Tour nella squadra italiana che ha come leader Camusso e un brillante primattore in Di Paco. Pesenti è un figurante su quel teatro, ma entra in scena sui Pirenei nella nona tappa, Pau-Luchon. Nel giorno in cui Camusso crolla, soltanto Antonin Magne sopravanza Pesenti di 4 minuti al traguardo. Quest'ultimo, però, precede di 3 minuti Demuysere, il Leone delle Fiandre, e, mentre Magne veste la maglia gialla, diventa secondo in classifica con 9 minuti di distacco. Pesenti impensierisce Magne, in maglia gialla, nella quattordicesima tappa, staccandolo di 4 minuti a Nizza, dove tre italiani ‒ Eugenio Gestri, Pesenti e Gremo ‒ salgono sul podio. Alla fine del Tour si piazza terzo nella classifica generale, dietro Magne e Demuysere.
Nel 1932 si schiera al Giro con la Wolsit. È l'anno in cui il tedesco Hermann Buse porta a spasso per l'Italia, da Udine a Foggia, la maglia rosa. Il 24 maggio Binda inizia la sua grande offensiva, spalleggiato da Remo Bertoni e Pesenti; ma poi, vittima di un'intossicazione alimentare, si stacca, mentre Bertoni cade. Pesenti si trova solo a 52 km dal traguardo e parte all'attacco. A Foggia vince con 3′42″ su Di Paco, mentre gli altri sono sbaragliati: Binda finisce a 9 minuti, Guerra a 16, Buse a 33, Camusso a oltre un'ora. Pesenti indossa la maglia rosa e la difende per le altre sei tappe dagli attacchi di Demuysere. Vince il Giro con 11 minuti di vantaggio sul belga e viene soprannominato lo Scarpone di Zogno.
Nessuno, quindi, si stupisce quando un mese dopo, al Tour, s'impone nel 'tappone' pirenaico Pau-Luchon, battendo in volata Faure (il Sorcio) e Camusso (il Camoscio), e finisce quarto nella classifica generale dietro Leducq, Kurt Stoepel, Camusso. Analogamente, però, nessuno si stupisce quando, a 24 anni, la sua stella si eclissa. Ha lasciato un'impronta forte. Così suo figlio Guglielmo, che alle montagne preferirà la pista diventando campione italiano della velocità e salendo sul podio olimpico e mondiale, resterà sempre figlio dello Scarpone di Zogno.
Giuseppe Martano è di Savona ma vive a Giaveno, in provincia di Torino. Nel 1930, a vent'anni, di forza diventa campione del mondo dilettanti a Liegi: quel giorno fugge con Gestri, si trascina dietro per metà corsa, passivo a ruota, il tedesco Rudolf Risch, poi lo batte in volata. Due anni dopo, riqualificato dilettante dai gerarchi fascisti, sul circuito dei Castelli Romani regala il bis, superando in volata lo svizzero Paul Egli e il francese Paul Chocque. Martano è l'unico italiano che abbia vinto per due volte il titolo di campione del mondo dilettanti su strada.
Quando passa professionista sfiora la vittoria sensazionale al Tour nel 1933, benché figuri tra i touristes-routiers, ossia tra gli isolati. Si batte bene: duella con Trueba sui Pirenei, attacca Georges Speicher sul Tourmalet e diventa maglia gialla virtuale, ma il francese si salva. È a lungo secondo, superato da Guerra all'ultimo sprint. La classifica finale è vinta dal francese Speicher con 4 minuti su Guerra e 5 su Martano. Senza gli abbuoni, però, Martano avrebbe vinto.
L'anno dopo Martano torna al Tour da capitano. Lotta fieramente con Antonin Magne in maglia gialla; vince a Gap, precedendolo di 7 secondi; lo fa tremare a Cannes, arrivando solo con René Vietto (L'Enfant du pays), cui lascia la vittoria. È proprio Vietto a salvare per due volte la maglia gialla: la prima nella Perpignan-Ax-les-Thermes, quando Magne cade e rompe la ruota, Vietto è lesto a passargliela e Martano, pronto nell'attacco, gli guadagna solo 46 secondi; la seconda nella tappa successiva, che porta a Luchon, nella discesa del Portet d'Aspet, dove l'italiano Adriano Vignoli è in fuga solitaria e Magne rompe la catena. Vietto, che non lo vede più, si volta e risale la montagna in senso contrario alla corsa per dargli la sua bicicletta; Magne riparte verso il Col des Ares, sicuro della sconfitta. Martano non coglie questa favolosa occasione, convinto che la maglia gialla si sia fermata a cambiare rapporto e bloccato dall'avere Vignoli in testa alla corsa. Così Magne, in ritardo di 52 secondi, ai piedi del Col des Ares, aiutato da Roger Lapébie, dimezza il distacco in salita e poi rientra in discesa e si salva. Il giorno dopo, galvanizzato da quel salvataggio, Magne stacca l'italiano sul Peyresourde e vince il Tour. Martano si classifica secondo.
Martano vince il Giro del Piemonte, il Giro del Lazio, la Milano-Torino ma la grande vittoria gli si nega sempre. Al Giro del 1935, pur precedendo Giuseppe Olmo, Guerra, Maurice Archambaud, Binda, Demuysere, finisce secondo dietro a Bergamaschi, gregario di Guerra. Alla Parigi-Nizza del 1937 vince a Orange, ma arriva soltanto a Marsiglia, poi cade e si ritira.
Pietro Linari, Pietrino per gli amici di Rifredi (Firenze), è dotato di un fisico possente. Il 3 giugno 1922 si presenta al Giro con una folgorante volata a piazza di Siena: nessuno ha mai visto un velocista così esplosivo. Il 16 marzo 1924 brucia Belloni e Girardengo nella Sanremo. Linari ha un colpo di reni da pistard e detesta la strada, eppure sa vincere: s'impone nella Milano-Modena, nel Giro dell'Emilia, nel Giro di Francoforte e in quello del Württemberg.
A Firenze Linari frequenta Le Giubbe Rosse e Paszkowski, i caffè dei letterati, degli artisti. Aborre il freddo, il fango, la sofferenza che le gare su strada regalano sempre. Al Giro del 1925 vince subito con il suo sprint la prima tappa, bruciando Belloni e Binda a Torino. Tuttavia si ritira presto. Trova la sua dimensione nei velodromi. "Sulla pista non c'è polvere", spiega. Diventa campione italiano della velocità; stabilisce i record del mondo dei 500 m e del chilometro; è un protagonista delle Sei giorni. Lì lo scopre Ernest Hemingway, che lo immortala.
Raffaele Di Paco è molto veloce ed è un campione completo e prodigo. Pisano, nato a Fauglia, in provincia di Pisa, il 7 giugno 1908, esordisce al Giro con Guerra nel 1929: insieme a lui viene multato per aver spinto Negrini, provvedimento che per tutti e due sembra un disonore. L'anno dopo, infastidito da Luigi Cecilli in discesa, lo butta giù e, per questo, viene retrocesso nell'ordine d'arrivo, ma il 27 maggio 1930, al campo Ascarelli di Napoli, pilotato da Guerra, conquista la sua prima vittoria al Giro.
Nel 1931 si presenta al Tour e il 3 luglio a Vannes, nella quarta tappa, indossa la maglia gialla. Il giorno dopo, a Les Sables d'Olonne, il più giovane dei fratelli Pélissier, Charles (Charlot) vince e Di Paco è costretto a dividere con lui il simbolo del primato. Da quel giorno nasce una fiera rivalità. Charlot e Di Paco sono due velocisti e si contendono gli stessi traguardi. Il primo vince cinque tappe, Di Paco s'impone a Perpignan, Montpellier, Belfort, Metz, Charleville. Qui, oltre il traguardo, lo scontro degenera in pugilato. La sfida finisce cinque a cinque e la Francia si entusiasma per questo duello.
Di Paco è un guascone splendido. Dichiara: "Chi vuole arrivare secondo si metta alla mia ruota". Ma è un corridore completo. Al Giro del 1932 a Teramo lascia tutti a 4 minuti; quello stesso anno al Tour vince altre quattro tappe. È allergico alla sofferenza, un artista, una specie di Lord Brummel in bicicletta. Del resto Di Paco colleziona 26 vittorie di tappa: 15 al Giro e 11 al Tour. Va ad abitare a Parigi. Tornerà a Fauglia soltanto per morire.
Il Giro, nel 1931, introduce una grande novità: la maglia rosa. Binda e Guerra se la contendono nella prima tappa che arriva sulla Pista del Te a Mantova. La loro rivalità ha già raggiunto l'acme. Guerra si è classificato secondo nel Campionato del Mondo di Liegi, dietro a Binda, ma dopo quattro anni gli ha strappato la maglia tricolore. Si svolgono quattro prove di campionato nel 1930: la Coppa Caivano, il Giro di Toscana, la Predappio-Roma (voluta dal duce) e la cronometro di Vicenza. Guerra ne vince tre: soltanto nel Giro di Toscana viene battuto.
L'Italia si divide in due nuove fazioni: metà è per Guerra, l'altra metà per Binda. Guerra è il campione del popolo, grande e fragile; Binda, con la sua classe, è l'eroe della borghesia, che ne apprezza lo stile e l'intelligenza.
Binda è selettivo; preferisce avere in squadra corridori della sua regione: il fratello Albino, Luigi Macchi, Bertoni, Augusto Zanzi. Guerra è aperto a tutti; Girardengo è subito pronto a fargli da mentore, Cavanna da massaggiatore. Binda, però, in maglia iridata, brucia in volata Guerra, in maglia tricolore, nella Sanremo del 1931.
Il Giro dà a questa sfida una dimensione epica. Guerra, il 10 maggio 1931, non fallisce la prima volata davanti alla sua gente. Batte Binda e il veloce Michele Mara; indossa, primo della storia, la maglia rosa. Il giorno dopo regala il bis a Ravenna.
Guerra, però, è un prodigo, Binda no. Così, quando Guerra va in crisi, nella terza tappa, Binda lo stacca di 6 minuti, vince a Macerata e gli strappa la maglia rosa. Nella tappa successiva, a Pescara, la volata è emozionante: Binda e Guerra tagliano insieme il traguardo. Il photo finish regala il successo a Binda; il verdetto accende polemiche, infiamma la rivalità. Dopo 4 tappe i due grandi contendenti hanno due vittorie a testa.
A Roma Guerra è di nuovo primo, ma la vittoria viene assegnata a Ettore Meini, primo degli isolati, partiti un quarto d'ora dopo, però più veloci degli assi di 25 secondi. Quell'arrivo di Villa Glori, il 19 maggio 1931, è fatale a Binda: per una collisione con Mara cade e perde la maglia rosa; dolorante, è costretto al ritiro nella tappa successiva. Guerra si esalta: arriva solo a Perugia e Montecatini; riconquista la maglia rosa, poi però crolla.
Il 25 maggio, durante la Montecatini-Genova, Guerra va in crisi sulla salita della Foce; cade per sfinimento; Gestri, che sopraggiunge, lo investe; Guerra sviene. Soccorso e rianimato, continua, ma a La Spezia, in maglia rosa, si ritira.
Guerra ha un dono che Binda non ha: riesce a commuovere. L'Italia piange al suo ritiro. Quel Giro viene vinto da Camusso, uno scalatore di razza, ma tutti guardano già a un'altra sfida, il Campionato del Mondo che si disputa a cronometro, a Copenaghen: lì Guerra sconfigge nettamente Binda. Sembra un sorpasso definitivo; invece, il 25 ottobre, al Giro di Lombardia, Binda offre la sua magnifica risposta. Sul Ghisallo manda avanti Bertoni e Marchisio, due suoi uomini, poi attacca sul San Fermo, raggiunge i compagni e scatena una grande offensiva. Guerra, battuto, si ritira. Binda fugge per 100 km, proseguendo anche quando cedono Marchisio, sulla rampa di Viggiù, e Bertoni, a Porto Ceresio. Sorvola il Marchirolo e il Brinzio, allarga il distacco. Vince con 18′33″ di vantaggio su Mara.
Guerra ha la maglia di campione del mondo e, nella battaglia di fazioni, la sua prevale nel 1932. Il 17 aprile Guerra brucia Binda in volata all'Arenaccia nel Giro di Campania; poi, il 1° maggio, lo stacca di 3′50″ al Giro del Piemonte. Binda non è più invincibile: al Giro, infatti, non vince alcuna tappa.
È questo un Giro all'insegna della modernità e della memoria: da un lato, il 5 giugno, dall'Arena Nello Corradi dell'EIAR (Ente italiano per le audizioni radiofoniche) regala la prima radiocronaca diretta; dall'altro, al via si schierano famosi revenants: Gerbi, 47 anni, Belloni e Girardengo, 39. Quest'ultimo, immortale, sfiora subito la vittoria a Vicenza, bruciato allo sprint soltanto da Guerra.
Il colpo clamoroso, invece, lo mette a segno il tedesco Hermann Buse. Al termine di una fuga solitaria arriva a Udine con 11′07″ di vantaggio ed è il primo straniero a indossare la maglia rosa. Il Giro viene vinto dal bergamasco Pesenti, che attacca una sola volta nella Lanciano-Foggia, una tappa micidiale in cui Binda perde 8′58″ e Guerra, appiedato da cinque forature, 16′07″. Guerra si consola vincendo a Napoli, Roma e Milano. Desta sensazione il fatto che Binda non abbia vinto mai. La sua parabola sembra conclusa: "È finito", sentenzia Girardengo. Binda, in effetti, quando va in America per la Sei giorni è ormai un uomo d'affari; la corsa non lo entusiasma più. Tuttavia, il 31 agosto, sul circuito di Rocca di Papa, è in programma il Campionato del Mondo. Tutti attendono Guerra, ma è Binda a uscirne vincitore.
Sull'ultima salita Binda, che aveva mandato avanti il suo esploratore Bertoni, scatta e liquida ogni opposizione; arriva al traguardo seguito a pochi metri, con rispetto, dal fedele gregario. Il terzo, Frantz, è staccato di 4′52″; Guerra è quinto a 5′39″; Binda, per la terza volta, è campione del mondo.
L'anno dopo, 1933, Guerra s'impone nella Sanremo alla media record di 36,432 km/h. Binda gli risponde bruciandolo al Giro delle Due Province in una volata che suscita polemiche. Poi, a sei giorni dal Giro, Binda si presenta al Circuito di Belfiore, nella terra del rivale, ma si rifiuta di partire. La rivalità sale alle stelle.
È un Giro ricco di novità: c'è la prima cronometro e il primo Gran Premio della Montagna; il Tour seguirà subito l'esempio del Giro. Guerra vince la prima tappa a Torino e veste la maglia rosa; Binda replica arrivando solo a Genova e strappando la maglia a Guerra, staccato di 6′06″; Guerra, però, risorge subito e s'impone a Pisa e Grosseto.
La sfida appassionante si risolve in modo cruento a Villa Glori: nella volata furibonda, con Binda in testa, Guerra forza il passaggio all'interno, sfiora la siepe, tocca i galletti della ruota del rivale, cade rovinosamente, viene colpito in viso dal pedale di Piemontesi ed è costretto a farsi medicare in ospedale.
Binda vince il suo quinto Giro grazie agli abbuoni, con 12′34″ sul belga Demuysere. Il 22 maggio firma con il suo nome la prima cronometro del Giro, Bologna-Ferrara (62 km), volando, con un rapporto che sviluppa 6,60 m per pedalata, a 39,219 km/h; s'impone anche nel Gran Premio della Montagna: passa primo su tutti i colli e in salita sopravanza atleti del calibro di Vietto e Trueba; quest'ultimo, soprannominato la Pulce dei Pirenei, poche settimane dopo passerà primo su 11 colli del Tour.
Guerra cerca la rivincita al Tour. Gareggia fieramente vincendo cinque tappe, ma finisce ancora secondo, a 4′01″ dal francese Speicher, campione del mondo.
L'ultimo atto della sfida ha come teatro il Giro del 1934. Binda appare vulnerabile; Guerra vince a Genova e Livorno e conquista la maglia rosa nella cronometro Livorno-Pisa (45 km), dove Binda finisce a 2′10″. L'epilogo si ha alle porte di Roma; cade Bertoni e trascina con sé parecchi corridori; cade anche Binda, che viene investito da un poliziotto della Stradale, tamponato a sua volta da un'auto del seguito. Privo di conoscenza, viene portato in ospedale dove si riprende decidendo di continuare la gara. La giuria lo riammette anche se non ha completato il percorso, ma il giorno dopo Binda è costretto al ritiro. Guerra, invece, è sfolgorante e all'Arenaccia coglie la sua quinta vittoria consecutiva; poi vince la sfida che gli viene portata dal giovane Olmo, un talento purissimo. Colleziona dieci successi di tappa e, al sesto tentativo, vince il Giro con 51 secondi su Camusso.
Guerra va poi a Lipsia, il 18 agosto, alla conquista dell'iride. Ma lì un pistard belga di vent'anni, potente e scorretto, Karel Kaers, gli strappa per mezza ruota la vittoria. Il 21 ottobre, cercando la rivincita, Guerra conquista la vittoria nel Giro di Lombardia, dominando in volata all'Arena una dozzina di fuggitivi.
Il cambio fu inventato alla fine dell'Ottocento e già nel 1887 la rivista Monthly Gazette ne riporta la descrizione. Nel 1901 la ditta inglese Linley-Biggs lo mette sul mercato con il nome di Whippet. Il cambio, tuttavia, non s'impone subito; Henri Desgrange, fondatore del Tour, lo considera un oggetto per donne e vegliardi: sarà ammesso nella grande corsa a tappe francese soltanto nel 1937.
Due atleti francesi, Boizot e Joanny Panel, lo usano però già nel Tour del 1908. Il 24 maggio 1910 il cambio compare al Giro d'Italia: il francese Maurice Brocco lo utilizza nella Teramo-Napoli quando stacca tutti sui passi appenninici ‒ Colle della Croce, Roccaraso, Rionero Sannitico e Macerone ‒ arrivando ad avere mezz'ora di vantaggio prima di essere raggiunto sul piano dal compagno di squadra Albini. La novità passa sotto silenzio. Al Tour del 1910 anche Jean Alavoine lo adotta per affrontare i Pirenei e altre bici con il cambio vengono punzonate.
Al Giro del 1911 Petit-Breton desta sensazione con la sua Fiat a triplo cambio di velocità; ma nella penultima tappa, Bari-Napoli, quando è in lotta per la vittoria, quel cambio si rompe e Petit-Breton è costretto al ritiro. Quell'anno al Tour cinque corridori lo adottano: oltre a Petit-Breton, Henri Alavoine, Brocco, Cornet e Charles Pavese; gli altri devono girare la ruota per cambiare rapporto.
Il cambio sembra avere successo, ma la guerra lo colloca fra i reperti di magazzino. Negli anni Venti ricompare in modo sporadico. Al Giro di Lombardia del 1924, per esempio, sul Ghisallo Binda, all'esordio sulla scena italiana, se la deve vedere con Michele Robotti che, servendosi di un prototipo di cambio, riesce a impegnarlo fino a 300 metri dalla vetta e per poco non gli sottrae le 500 lire di premio di traguardo.
Al primo Campionato del Mondo su strada di Adenau, nel 1927, gli azzurri hanno portato il cambio; Girardengo e Belloni lo hanno già montato sulle loro bici, ma dopo la ricognizione del percorso rinunciano a usarlo. Binda vince con il rapporto 47x19 che sviluppa 5,27 m per pedalata, mentre la maggior parte degli stranieri ha optato per il 48x20 (5,10 m).
Il 25 ottobre 1931, nel Giro di Lombardia, il piccolo scalatore Barral non scende di bici per cambiare rapporto all'attacco del Ghisallo: monta un cambio ideato dai fratelli Nieddu a Torino. Il cambio Vittoria, di Amedeo e Tommaso Nieddu, si afferma al Giro del 1932. Con una ruota libera a tripla corona viene adottato anche da tutta la squadra azzurra ai Campionati del Mondo di Rocca di Papa: i trionfi di Binda, tra i professionisti, e di Martano, tra i dilettanti, contribuiscono a lanciarlo.
È un momento di grandi novità per i materiali. Con il cambio Vittoria bisogna spostare la catena a mano da un pignone all'altro, ma il 4 maggio 1933 Tullio Campagnolo brevetta il suo famoso cambio a bacchetta. Anche le novità della tecnologia risentono dei tempi: così i torinesi Nieddu, nel 1934, mettono in commercio il cambio Dux.
Henri Desgrange, come si è detto, si arrende al cambio (in francese dérailleur) soltanto nel 1937: in quel Tour tutti i corridori hanno biciclette gialle di marca L'Auto con un Super-Champion a tre velocità. Quando l'anno dopo Vietto si presenta con un Simplex, nasce un caso, risolto dalla caduta e dal conseguente ritiro del corridore.
Intanto la bici diventa più leggera. Il britannico Alfred Milward Reynolds già alla fine dell'Ottocento aveva iniziato a utilizzare per il telaio tubi a pareti sottili rafforzati alle estremità (double butted). Al Giro del 1928 compaiono le prime borracce di alluminio. Nel 1935 la Columbus introduce una lega di cromo-molibdeno, la Reynolds una lega manganese-molibdeno-acciaio: lo spessore dei tubi si riduce a 0,5 mm. L'evoluzione dei materiali continua fino ai giorni nostri, sfruttando la ricerca aerospaziale: leghe di alluminio superleggere, di titanio, acciai al boro, carbonio, magnesio. Compaiono i telai monoscocca, più rigidi per velocisti, più leggeri per scalatori, e le ruote a 36 raggi.
Cambia anche la geometria della bicicletta. Appaiono il telaio sloping e, per le cronometro, il manubrio a corna di bue e le ruote lenticolari, adottate da Moser nel 1984 per il record dell'ora (ma le ruote piene esistevano già nel 1891); scompaiono i puntapiedi.
La bicicletta si evolve e chi non si adegua subito ne paga le conseguenze. Il 12 giugno 1947, per esempio, Bartali ha problemi con il cambio in vista del traguardo della montagna del Falzarego e Coppi gli soffia il Giro d'Italia. Il motivo è semplice: mentre Coppi monta il nuovo Simplex-Campagnolo, Bartali è rimasto fedele al vecchio cambio Vittoria-Margherita del 1935, anche se già nel 1936 si era affermato il Campagnolo, che faceva a meno del tendicatena.
Oggi la bicicletta è un prodotto raffinato della scienza e della tecnologia. Il suo peso è diminuito da 25 a 7 kg: il telaio scende ormai al di sotto del chilo, la forcella raggiunge i 300 g, il manubrio 200, la sella 170. Campagnolo è passato, nel 2002, dal cambio a bacchetta al Record a 10 velocità, che mette a disposizione del corridore venti rapporti: due moltipliche davanti e dieci ruote dentate dietro. I raggi delle ruote sono scesi a 16-20.
Secondo le norme UCI la bicicletta non può essere più lunga di 185 cm né più larga di 50; la lunghezza della sella è compresa tra i 24 e i 27,5 cm; la punta della sella deve trovarsi almeno 5 cm dietro la verticale che passa per l'asse della pedaliera; la distanza tra l'asse della pedaliera e il suolo deve essere tra i 24 e i 30 cm; le distanze tra la verticale passante per l'asse della pedaliera e gli assi della ruota anteriore e di quella posteriore dovranno essere rispettivamente di 54-65 cm e di 35-50 cm; il diametro delle ruote deve essere compreso tra 55 e 70 cm; il peso non può essere inferiore a 6,8 kg. Per le corse su strada il telaio deve essere di tipo classico, cioè di forma triangolare.
Il padre Torello accendeva i lampioni a gas a Ponte a Ema (Firenze); la madre Giulia lavorava la rafia. Gino collabora con lei e le sorelle fino a 14 anni, poi va a lavorare da un meccanico ciclista, Oscar Casamonti, che lo mette in sella. Incomincia a gareggiare per L'Aquila di Ponte a Ema.
In gara è battagliero; ha una forza agonistica nuova. Gino Bartali appare subito irriducibile; le sue sfide con Bini, di Montemurlo di Prato, infiammano presto la Toscana. Il 24 maggio 1934, a Grosseto, Bartali cade in una volata tumultuosa proprio per seguire Bini ed è costretto al ricovero in ospedale in prognosi riservata per una commozione cerebrale e la frattura del naso. Di quella caduta gli resterà il naso storto con una cicatrice a stella.
Il 17 marzo 1935 Bartali è uno dei 202 partenti della Milano-Sanremo; esordisce insieme a Bini, il Lattaio. Porta la maglia della Frejus dei fratelli Ghelfi di Torino. Ha vent'anni, essendo nato il 18 luglio 1914. Sulla Riviera restano in quattro al comando: Guerra, Olmo, Bartali e Mario Cipriani. Bartali prova il colpo solitario; si avvantaggia su Capo Berta, ma poi nulla può contro due passisti formidabili come Guerra e Olmo; per noie al cambio rinuncia alla volata e finisce quarto.
Bartali si affaccia al Giro del 1935. È gregario di Martano: il suo stipendio è di 300 lire a tappa. Trova Binda e Guerra, insieme a tre francesi di gran nome: Leducq, vincitore di due Tour, Archambaud, specialista di tappe a cronometro, e Vietto, scalatore circondato dalla leggenda. C'è anche un mite gregario di Guerra, che in quattro anni non ha vinto una volta: Bergamaschi, soprannominato Singapore per il taglio degli occhi all'orientale; è lui a conquistare la prima maglia rosa.
Bartali comincia in sordina. Nella cronometro Cesena-Riccione (35 km) perde 5′25″ da Olmo, ma alla settima tappa gli vengono incontro le montagne. Bartali passa primo sul passo delle Capannelle (1283 m), con 19 secondi su Ezio Cecchi; plana con lui sull'Aquila, poi sulla salitella d'ingresso allo stadio lo lascia. Vince con 16 secondi di vantaggio: Guerra, Binda, Martano arrivano a 3′22″, i francesi più lontano ancora.
Bartali non fa le volate, non si occupa della classifica: è uno scalatore, soltanto le montagne lo interessano. Ha una capacità nuova di ripetere gli scatti, un cambio di marcia che distrugge. Passa primo su 7 dei 10 colli del Gran Premio della Montagna, che naturalmente vince.
Il Giro, invece, se lo aggiudica Bergamaschi; Guerra è quarto, Binda tredicesimo. La loro stagione è passata. Ha inizio, invece, l'era di Bartali. Dopo il settimo posto del Giro va in Spagna per una campagna vittoriosa, che chiude con la vittoria nel Giro del Paese Basco; poi, a 21 anni, diventa campione italiano. La vittoria di Bergamaschi al Giro si rivela effimera. Singapore va al Tour ma si ritira. Con il fascismo non si può: subisce la confisca dei premi, la squalifica fino al 24 agosto e, in una parola, il disonore.
Olmo è uno stilista impareggiabile, un passista elegante e veloce. Nell'ottobre 1935 prepara il Giro della Provincia di Milano, cronometro a coppie di 118 km, che intende correre con Alfredo Bovet. Va al Vigorelli a provare una bicicletta; il direttore del velodromo, Anteo Carapezzi, lo vede girare e, alla fine, gli dice: "Pedali bene. Potresti tentare il primato dell'ora". Olmo ci riflette su e il giorno dopo si ripresenta con il suo mentore Oliveri; fa una prova di mezz'ora e al termine decide di tentare subito. Vengono convocati la giuria e il cronometrista. Quel giorno, 31 ottobre 1935, al Vigorelli di Milano Olmo sfonda il muro dei 45 km nell'ora, coprendo 45,090 km.
"È il nuovo Binda", si dice. E c'è davvero bisogno di un erede. Il 22 marzo 1936, infatti, Binda cade durante la Sanremo e si rompe il femore: è la fine. Chiude, a 33 anni, una carriera ineguagliabile: ha vinto 3 titoli mondiali, 4 Giri di Lombardia, 2 Sanremo, 4 campionati italiani, 5 Giri d'Italia, con 41 vittorie di tappa; al Giro è stato leader per 64 giorni su 128 di gara.
Il suo erede Olmo è però molto più fragile di Bartali: quest'ultimo si esprime con la torsione, il primo è eleganza e grazia. Ma sono tempi duri, serve la forza. La Società delle Nazioni ha votato le sanzioni economiche contro l'Italia, a seguito della proclamazione della sovranità italiana sull'Impero d'Etiopia a opera di Mussolini il 9 maggio 1936.
Il 16 maggio 1936 Olmo vince subito la prima tappa del Giro e veste la maglia rosa. Bartali non ha fretta. Quando il 27 nella nona tappa, Campobasso-L'Aquila, trova le montagne, Olmo ha già vinto tre tappe e continua a indossare la maglia rosa. Quel giorno Bartali attacca sulla Salita delle Svolte; soltanto Enrico Mollo, un duro, vincitore dell'ultimo Giro di Lombardia, gli resiste, ma, sulla rampa di Barisciano, Bartali lo lascia indietro e arriva solo all'Aquila con 6′22″ su Del Cancia e Giovanni Valetti, 7′51″ su Olmo, 9′51″ su Mollo, 10′12″ su Guerra. Conquista la maglia rosa e non la lascia più.
Concede splendide evoluzioni a Olmo, che il 29 maggio 1936 vince la prima cronoscalata del Giro, sul Terminillo, la montagna del duce. Precede di 19 secondi Aladino Mealli e di 35 secondi la maglia rosa Bartali.
Olmo guerreggia con Di Paco nelle volate. Bartali, impassibile, controlla; però vince al Vittoriale, dove Gabriele D'Annunzio lo saluta con 21 colpi di cannone, perché "tutte le vittorie sportive devono essere salutate con il fuoco", e arriva solo a Salsomaggiore.
Bartali vince il Giro a 21 anni con 2′36″ su Olmo, che si è imposto in 10 tappe. Si aggiudica ancora il Gran Premio della Montagna: è passato primo su 7 dei 10 colli previsti. Non ha però molto tempo per festeggiare: suo fratello Giulio viene travolto a 19 anni da una Balilla durante una corsa e muore in ospedale. Bartali entra in crisi e medita il ritiro.
Riprende a fatica. È presente l'8 novembre, quando per la prima volta il Giro di Lombardia arriva al Vigorelli. Bartali passa primo sul Ghisallo, fa la selezione, poi onora quel nuovo traguardo vincendo in volata su Diego Marabelli e Barral.
Bartali è ormai una stella, ma in marzo soffre di una grave forma di broncopolmonite, che supera soltanto alla fine di aprile. Il suo ingresso al Giro, l'8 maggio 1937, sembra incauto, un azzardo prematuro; i medici lo sconsigliano. Eppure il 12 maggio Bartali strappa la maglia rosa a Valetti nella prima cronosquadre della storia del Giro e la porta intatta per 18 giorni; vince la cronoscalata del Terminillo con 41 secondi su Mealli e 1′03″ su Valetti; poi arriva solo, in maglia rosa, a Foggia, dopo un attacco portato a 94 km dal traguardo. Il 26 maggio il suo incontro con le Dolomiti, che compaiono all'orizzonte del Giro per la prima volta, appartiene alla fiaba: Bartali scatta sul Passo Rolle, scende in picchiata verso Predazzo, risale la Val di Fassa, si arrampica invulnerabile sul Passo di Costalunga; in magnifica solitudine scende verso i porfidi rossi della valle dell'Adige, risale fino a Merano e vince, dopo una cavalcata solitaria di 107 km, con 5′38″ di vantaggio sul trio della Frejus: Valetti, Mollo, Walter Generati. Il giorno dopo, non pago, in maglia rosa arriva primo anche a Gardone. E D'Annunzio, per l'ultima volta, lo accoglie vestito da generale.
Bartali vince il suo secondo Giro con 8′18″ su Valetti, 17′38″ su Mollo. Per la terza volta consecutiva si aggiudica il Gran Premio della Montagna. Ha 22 anni, Mollo e Valetti 23. Guerra, vinto, si è ritirato a metà Giro. È iniziata un'altra era.
Olmo il 19 marzo 1938 vince la sua seconda Sanremo. Su Capo Mele risponde a un attacco del francese Auguste Mallet; fugge con quattro compagni eludendo la caccia di Bartali, e a Sanremo vince su Piero Favalli e Bovet. È il capitano della Bianchi al Giro, ma non si presenta. Lascia le corse a 26 anni.
Una scelta stupefacente. Al Giro è già salito per due volte sul podio: secondo nel 1934 e terzo nel 1935; ha vinto 20 tappe in cinque edizioni ed è salito sul podio per 43 volte su 87 tappe; ha indossato per 7 giorni la maglia rosa. Il 23 settembre 1937 aveva portato il suo primato dell'ora a 45,369 km, a 29 m soltanto dal record del mondo del francese Maurice Richard. Lascia un'immagine di eleganza pura e di stile.
Un telegramma di Starace impone a Bartali il Tour del 1937; Gino, obtorto collo, obbedisce. Con lui si schierano al via Valetti, Camusso, Martano, Giulio Rossi, Marco Cimatti, Glauco Servadei, Carlo Romanatti, Generati e Augusto Introzzi agli ordini di Girardengo, che riveste il ruolo di direttore sportivo. Gareggiano tra gli individuali anche quattro italiani d'appoggio: Mario Vicini, Ambrogio Morelli, Settimo Simonini, Edoardo Molinar.
Sono nove le squadre nazionali. Quattro con dieci uomini: oltre all'Italia, il Belgio di Sylvère Maes, la Francia di Lapébie e Speicher, la Germania di Erich Bautz. Quattro con sei uomini: la Spagna ‒ nonostante la guerra civile ‒, l'Olanda, il Lussemburgo e la Svizzera. Poi, oltre alla schiera degli individuali, c'è anche una squadra mista di tre uomini Gran Bretagna - Canada, con un canadese, Pierre Gachon, che si ritira già alla prima tappa. La grande novità è l'introduzione del cambio (derailleur). Come già detto, Desgrange, dopo aver resistito a lungo, cede al progresso. Per tutti c'è un Super-Champion a tre velocità, derivato dal cambio italiano.
Bartali si mette in luce nella quarta tappa, Metz-Belfort, in cui polverizza il record della scalata del Ballon d'Alsace. Nella settima, Aix-les-Bains - Grenoble, il 7 luglio 1937 offre un saggio ancor più completo: attacca a fondo sul Col du Télégraphe, passa primo e solo sul Galibier, vince in solitudine con 1′53″ su Camusso, 2′38″ su Lapébie e conquista la maglia gialla. Maes prende 7′17″ di distacco, mentre Speicher si ritira. Bartali ha oltre 9 minuti di vantaggio sul secondo in classifica, il belga Edouard Vissers.
Il giorno dopo, 8 luglio, la Grenoble-Briançon (194 km) si sviluppa tra i monti. Bartali si aggiudica l'abbuono sul muro di Laffrey, poi conduce un contrattacco all'inseguimento di un gruppetto di fuggitivi. La strada è in discesa, viscida per la pioggia. Guida Rossi, seguito da Bartali e Camusso. Al passaggio di un ponte di legno Rossi scivola; Bartali, per evitarlo, vola oltre la spalletta del ponte cadendo sul letto del torrente Colau. L'acqua è gelata, con rapide e gorghi; Bartali resta lì per alcuni minuti attaccato a una rete che sorregge due sassi, tenendo con l'altra mano la bicicletta; poi Camusso lo aiuta a tirarsi fuori. Bartali è ferito, sotto choc, eppure non si arrende; sempre sostenuto da Camusso, rimette in sesto la bici. Mentre Rossi è costretto al ritiro, Bartali, dolorante e sanguinante, arriva al traguardo di Briançon con 9′29″ di distacco, riuscendo, nonostante tutto, a difendere la maglia gialla e conservando 2′05″ di margine sul tedesco Bautz. Tuttavia, le sue condizioni non sono affatto buone: quel bagno gelido ha ulteriormente indebolito il suo fisico debilitato dalla broncopolmonite. Nella tappa successiva, Briançon-Digne, quando i belgi attaccano con foga, crolla; scortato da Camusso, arriva con 22 minuti di ritardo; si trascina ancora per tre tappe, poi si ritira.
Camusso, solo, vince per distacco a Narbonne. Si tratta di un Tour sfortunato: la squadra belga al completo, con Maes in maglia gialla, maltrattata e insultata, abbandona la corsa a Bordeaux; così Lapébie vince il Tour. L'isolato Vicini, il Rosso di Cesena, finisce secondo a 7′17″; Camusso è quarto a 26′53″ dal vincitore.
L'anno dopo l'ordine dei gerarchi è perentorio: bisogna vincere il Tour. A Bartali non viene nemmeno concesso il permesso di partecipare al Giro e la polemica s'infiamma. Il Giro lo vince Valetti, ma Bartali è lì, il 5 luglio, al via del Tour con undici compagni, agli ordini di Girardengo: Bergamaschi, Bini, Mollo, Servadei, Rossi, Vicini, Giordano Cottur, Introzzi, Martano, Simonini, Nello Troggi.
Temporeggia a lungo, poi sui Pirenei Bartali adotta una tattica nuova: sulle montagne scatta a un chilometro dal passo e si aggiudica l'abbuono. Dopo aver superato l'Aspin, cerca di arrivare solo a Luchon, ma sbaglia una curva e viene superato da Félicien Vervaecke e Vissers. Bartali vince in volata a Marsiglia l'undicesima tappa e aspetta le Alpi. Il 22 luglio 1938, nella quattordicesima, Digne-Briançon, decide di sfidare la maglia gialla Vervaecke. Passa primo sul Col d'Allos e sul Vars, poi, a 10 km dalla vetta dell'Izoard, si lascia dietro Vicini e Mathias Clémens, gli ultimi a cedere. Bartali sale potente e agile tra le pietraie della Casse Desert; arriva solo a Briançon con 5′18″ su Vicini; Vervaecke finisce a 17′22″. Il tifo è in estasi.
Invano i belgi, per due volte, in discesa e sul piano, provano ad attaccarlo in gruppo. Bartali risponde a ogni assalto e vince il Tour con 18′27″ su Vervaecke. Antonin Magne, ottavo, finisce a 49′00″, Maes, quattordicesimo, a 1h21′11″. Il regime si fa vanto di quella vittoria, ma l'atteggiamento di Bartali, campione della fede, indispone: non piace che egli dedichi le sue vittorie a santa Teresa di Lisieux o alla Madonna di Lourdes, invece che ai gerarchi. Il 9 agosto il Minculpop (ministero della Cultura popolare), addetto al controllo dei mezzi d'informazione, invia ai direttori dei quotidiani una velina con un ordine: "I giornali si occupino di Bartali esclusivamente come sportivo".
L'uomo che aiuta Bartali a venir fuori dal torrente Colau e lo salva si chiama Francesco Camusso. È un vincitore del Giro, ma avrebbe potuto vincere anche quel Tour se non fosse rimasto accanto a Bartali ferito. Camusso, soprannominato Cichin, è nato a Cumiana (Torino) il 9 marzo 1908; è uno scalatore di razza ed è l'ultimo arrivato nella pattuglia di piemontesi protagonista degli anni Venti: Girardengo, Brunero, Aimo, Enrici, Gay. È, tuttavia, un uomo complesso, superstizioso, afflitto da un grande naso.
Si presenta al via del Giro del 1931 da comprimario; la scena è di Binda e Guerra. Quando essi si ritirano, tocca a Marchisio e Giacobbe diventare protagonisti. A due tappe dalla fine del Giro Camusso, 23 anni, si trova secondo in classifica a 2′20″ da Giacobbe, che, come lui, è uno scalatore. Davanti alle loro ruote c'è la Cuneo-Torino (252 km) con il Sestriere.
All'inizio della salita si verifica una collisione tra la maglia rosa e Gremo; Giacobbe deve riparare la ruota. In testa resta così un trio di piemontesi: Marchisio, Ettore Balmamion e Camusso. A 4 km dal passo, Camusso allunga; lascia i due compagni; scollina con un minuto di vantaggio su Marchisio, mentre Giacobbe, in rimonta, passa a 1′35″. Mancano 130 km al traguardo. Camusso insiste con coraggio; vola in discesa. Alle sue spalle si organizza l'inseguimento, ma, uno alla volta, gli avversari si arrendono sfiniti. Camusso giunge solo a Torino con 3′10″ di vantaggio su Giacobbe e Marchisio; vince la tappa e il Giro. Il giorno dopo si presenta a Milano con il fazzoletto rosso al collo: quelli della sua squadra, la Gloria, votati alla corsa d'attacco, erano infatti chiamati 'Garibaldini'. Camusso non è una meteora; tiene fede al suo nome ("camoscio"): è uno scalatore di vaglia, ma anche un discesista coraggioso.
Nel Giro del 1934 vince la prima tappa e conquista la maglia rosa seminando tutti sulla salita del Pino. Porta la maglia per tre tappe, poi la perde e assiste alla grande battaglia tra Guerra e Olmo. Quando Olmo crolla, Camusso è lì, alle spalle di Guerra, e nella tredicesima tappa, Firenze-Bologna, quando l'attacco di Olmo fa vacillare Guerra, ne approfitta e riconquista la maglia rosa, a quattro tappe dalla fine. Poi Guerra si riprende nella cronometro e torna leader. Camusso, però, lo mette in difficoltà altre due volte: lo lascia a 1′45″ sul Pian di Cansiglio, poi a 45 secondi sul Pian delle Fugazze, e Guerra riesce a salvarsi grazie anche all'aiuto delle spinte. Camusso finisce secondo a 51 secondi soltanto dalla Locomotiva umana (così era soprannominato Guerra): senza gli abbuoni avrebbe vinto anche quel Giro.
Camusso lascia il segno anche all'estero: al Tour del 1932, il 19 luglio, vince per distacco la decima tappa Cannes-Nizza, firmata dagli italiani con una stupenda tripletta (primo Camusso, secondo Barral a 1′18″, terzo Marchisio a 1′20″); passa primo sul Galibier. A Parigi sale sul podio, terzo, dietro al francese Leducq e al tedesco Stoepel. Sempre nel 1932, il 26 agosto, nella seconda tappa del Giro della Svizzera, Davos-Lugano, stacca tutti e giunge al traguardo con oltre tre minuti sullo svizzero Egli. Anche lì finisce sul podio, terzo.
Nel Tour del 1935 vince in splendida solitudine la settima tappa da Aix-les-Bains a Grenoble con 4 minuti circa su Morelli e 10 sulla maglia gialla Romain Maes. A Digne è secondo per 7 secondi dietro a Vietto, con 9 minuti di vantaggio sulla maglia gialla; rientra in classifica; è terzo, dopo 15 tappe, quando, investito da un'auto, è costretto al ritiro.
Poi, nel 1937, è al fianco di Bartali nel Tour de France. Quando quest'ultimo si ritira, Camusso spicca il volo nella Montpellier-Narbonne e vince in solitudine con 8 minuti di vantaggio. Finisce quarto nella classifica finale. Audace e generoso, combattivo e intelligente, dopo Binda e Bartali è l'atleta più forte sulle montagne.
Bartali è un corridore completo. Il 18 marzo 1939 sul Turchino cade la neve, sulla Riviera tira un vento forte e gelido. È il giorno della Sanremo e Bartali, rinvenendo da solo, si aggancia a un gruppetto di fuggitivi, poi attacca su Capo Cervo e soltanto Vicini gli resiste. Sul piano, ad Arma di Taggia, si riportano sotto Bini, Osvaldo Bailo e Pietro Chiappini; Bartali vince la volata con due lunghezze di vantaggio su Bini.
Torna al Giro per il tris. Va all'attacco già nella seconda tappa; stacca Valetti di 5′33″ e conquista la maglia rosa. Il giorno dopo la risposta di Valetti è stupefacente: quando Bartali fora sul passo del Bracco, a 120 km dal traguardo, Valetti lo attacca e lo mette alle corde; Bartali perde 7′02″ e la maglia rosa. Valetti lo precede di 21 secondi anche nella cronoscalata del Terminillo; conquista la maglia rosa a Firenze, culla del rivale, gli infligge altri 2′09″ di distacco nella cronometro Trieste-Gorizia (39,8 km). Ai piedi delle Dolomiti Bartali ha 3′59″ di distacco; Valetti resiste nella prima tappa dolomitica e a Cortina arriva con Bartali, ma viene travolto dai micidiali scatti di quest'ultimo nella seconda tappa e crolla. Bartali stacca tutti sul Rolle, insiste, vince a Trento battendo in volata un pugno di compagni di fuga e strappa a Valetti, staccato di 7′48″, la maglia rosa.
Sembra un colpo mortale, ma in realtà non lo è. C'è un giorno di riposo e Valetti ne approfitta per recuperare e tessere la sua trama: si allea con i belgi per forzare già all'inizio della Trento-Sondrio. I belgi lanciano subito la corsa nella valle dell'Adige; Bartali non si fa sorprendere, ma resta solo. Piove a dirotto. All'inizio della Val di Non sono in tre al comando: Valetti, con il suo compagno Olimpio Bizzi, e Bartali, in maglia rosa. Bartali fora e ha un cambio di gomma problematico; poco dopo fora anche Valetti, ma Bizzi gli passa prontamente la ruota, poi è svelto a riparare, così riparte prima che giunga Bartali, forza e riprende subito Valetti. Sono due contro uno su falsipiani, che la maglia rosa non ama. Bizzi tira con furia; Valetti, gran passista, è veloce nei rettilinei della Val di Sole. Bartali perde terreno: ai piedi del Tonale è a 3′30″. Lì Valetti spicca il volo. Presto la pioggia si tramuta in neve.
Sul Tonale, in un'atmosfera irreale, Valetti passa con 2′35″ su Bizzi; Bartali è staccato di 5′10″. Valetti si butta in discesa. Ci sono venti centimetri di neve fresca: non deve neppure frenare. I suoi inseguitori, invece, hanno problemi nel tenere la strada sulla neve battuta dalle automobili del seguito. La cavalcata di Valetti è irresistibile. Arriva solo a Sondrio; Bartali, staccato di 6′48″, perde la maglia rosa, ma non si arrende. Indomito, nell'ultima tappa, prova ancora a riprendersi la maglia rosa: sul Ghisallo stacca Valetti di 50 secondi, allarga il vantaggio a 1′05″ in discesa, ma sul piano Valetti, con i suoi alleati, si riporta sotto. Bartali d'orgoglio vince l'ultima volata all'Arena, ma Valetti vince il Giro, realizzando un capovolgimento inatteso e stupefacente.
Bartali punta al Mondiale su strada di Varese. Prima, però, al Vigorelli sono in programma i Mondiali su pista. Lì viene assegnato soltanto il titolo della velocità dilettanti, vinto dall'olandese Derksen, poi la manifestazione viene sospesa. La Germania invade la Polonia: ha inizio la seconda guerra mondiale. Il Campionato Mondiale su strada non ha luogo.
L'Italia resta ancora neutrale, così, il 23 ottobre 1939, il Giro di Lombardia si corre. Bartali scatta sul Marchirolo, semina tutti e vince in solitudine con 3′35″ su Adolfo Leoni, un velocista elegante che non teme le montagne. Ma non ci sono automobili al seguito, la benzina è razionata: c'è già clima di guerra.
Il 4 giugno 1939, al Giro del Piemonte, Bartali incontra un ragazzo sottile dal naso lungo e dalle gambe da fenicottero; ha 19 anni, si chiama Fausto Coppi. Proprio su uno scatto di Coppi, sulla salita di Moriondo, Bartali fa la selezione e arriva solo a Torino; Coppi si classifica terzo a 3′31″. Pavesi, direttore sportivo della Legnano, lo nota e lo ingaggia.
Fausto Angelo Coppi è nato il 15 settembre 1919 a Castellania, un paesino a 380 m di quota alle pendici degli Appennini, sopra Tortona, in provincia di Alessandria. È uno dei cinque figli di Domenico e Angiolina, contadini: gli altri sono Livio, Dina, Maria e Serse. A 14 anni viene assunto come garzone presso la salumeria Merlano a Novi Ligure; va e torna in bicicletta. Dopo un po' lo si vede volare sulle salite di Carezzano e Villalvernia.
Il giovane Coppi disputa la prima corsa il 1° luglio 1937 a Castellania, ma si ritira a causa di una foratura. Quell'anno Cavanna, che, dopo essere stato il massaggiatore di Girardengo e Guerra, ha messo su una scuola di corridori a Pozzolo Formigaro, lo ammette tra i suoi allievi.
Quando Coppi, il 28 maggio 1939, va a gareggiare alla Coppa Città di Pavia, Cavanna scrive un biglietto a Rossignoli, l'eroe dei primi Giri, che è tra gli organizzatori: "Ti mando due miei allievi. Coppi vincerà il primo premio, Bergaglio farà quello che potrà. Osserva bene Coppi. Assomiglia a Binda". Quel giorno Coppi arriva solo a Pavia. Rossignoli resta impressionato dalla sua facilità in salita e dal suo passo in pianura. "Diventerà un campione", è il suo giudizio.
Pavesi lo ammira al Giro del Piemonte e, il 14 agosto 1939, Coppi riceve i complimenti da Girardengo, quando vince con ampio distacco a Varese la corsa per gli indipendenti sul percorso scelto per i Campionati del Mondo.
Il 17 maggio 1940 Coppi parte da piazzale Velázquez per l'avventura del Giro: ha davanti a sé 3574 km. È l'ultimo dei gregari di Bartali alla Legnano; nessuno lo considera. Tre sono i favoriti: Bartali, Valetti, vincitore degli ultimi due Giri, e Vicini. Pavesi gli dice: "Prova a scoprire i tuoi limiti" e Coppi, passando dalla sua terra, si muove già nella seconda tappa, Torino-Genova. Si trova davanti quando, nella discesa della Scoffera, il suo capitano Bartali cade per colpa di un cane; Coppi, ignaro, entra per primo nello stadio della Nafta. Soltanto Favalli lo supera; Bartali arriva a 5′15″ con Vicini, mentre Valetti finisce a 8′56″. I tre favoriti sono già fuori gioco: Bartali, addirittura, è costretto al ricovero in ospedale avendo riportato l'incrinatura del femore; gli ordinano venti giorni di riposo assoluto, ma, dopo una notte, esce e riparte.
Nelle due tappe successive la situazione di classifica di Bartali e Valetti viene ulteriormente compromessa. Dopo quattro tappe Bartali ha un quarto d'ora di distacco, Valetti mezz'ora. Il Giro si apre alla speranza di molti.
Mentre Leoni e Bizzi, della Bianchi, conquistano importanti traguardi, Coppi svolge con scrupolo il lavoro di gregario, ma il 27 maggio, nella decima tappa Arezzo-Firenze, si muove. Insegue Primo Volpi sulla salita della Consuma, lo salta in discesa e attacca: viene ripreso a 9 km dal traguardo. Il giorno di riposo non lo deconcentra.
Il 29 maggio c'è la Firenze-Modena, 184 km con quattro passi: Prunetta (761 m), Monte Oppio (821 m), Abetone (1388 m), Barigazzo (1221 m). Il toscano Cecchi, soprannominato lo Scopino di Monsummano, va in fuga sulle sue strade; Coppi, a 8 km dalla cima dell'Abetone, scatta e lo insegue; rimonta, scollina a 10 secondi da Cecchi, lo raggiunge subito e lo salta. Si trova solo in testa al Giro d'Italia, a 100 km dal traguardo, ma non si lascia impressionare: tranquillo, va all'attacco con coraggio. Sul Barigazzo Coppi ha 2′40″ su Cecchi, 3′10″ su Bartali e sul lussemburghese Didier. Ci si aspetta che la sua azione perda forza, ma la fatica non lo doma. Dopo tre ore di fuga solitaria Coppi arriva a Modena con 3′45″ sugli inseguitori: è la prima delle sue 151 vittorie. Un successo splendido.
Coppi indossa la maglia rosa con 1′03″ su Mollo e 3′46″ su Canavesi. Il gregario è diventato protagonista. Lascia spazio ai rivali della Bianchi ‒ Leoni, Bizzi, Vicini ‒ soltanto per vittorie di giornata. Poi affronta le Dolomiti; la Pieve di Cadore-Ortisei misura solo 110 km, ma ha tre passi acuminati. Superata Cortina, Bartali attacca a Pecol, Coppi lo raggiunge; insistono in pieno accordo. Sul Falzarego Cecchi è a 1′05″; in discesa Coppi fora per primo e Bartali, magnanimo, lo aspetta. Sul Pordoi Bartali fa l'andatura, rincuora Coppi che fatica; insieme scollinano con 2′20″ sull'irriducibile Mollo, poi planano verso Pian Schiavaneis, risalgono tra dolomie giallo-nere al passo Sella in un paesaggio di fiaba. In quella cavalcata memorabile è Bartali il maestro. Sul passo Sella Bartali e Coppi passano insieme con 2′52″ su Mollo e Cottur. Bartali vince a Ortisei su Coppi, Mollo è terzo a 2′13″.
Bartali si concede un colpo di mano a Verona, ma pilota con sicurezza il giovane Coppi verso Milano. Quest'ultimo vince il Giro a vent'anni con 2′40″ su Mollo e 11′45″ su Cottur. È il 9 giugno 1940. Il giorno dopo il duce dal balcone di palazzo Venezia lancia il suo proclama: "Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria".
L'Italia è in guerra. Attacca la Francia, proprio mentre le truppe del Reich invadono Parigi; il 24 giugno i francesi firmano l'armistizio. Coppi e Bartali al Tour pagheranno per quello che la Francia considera un tradimento.
In Italia si continua a correre. Il 30 giugno Coppi diventa campione italiano dell'inseguimento, ma Bartali riporta il titolo tricolore su strada, con 5 vittorie su 7 corse. Il 27 ottobre c'è il Giro di Lombardia e Bartali fa la selezione sul Ghisallo: restano in cinque al comando. Quando Bartali si ferma con la ruota libera guasta, Coppi allunga e resta solo; Bartali si scatena nella rincorsa: raggiunge Coppi a un chilometro dal passo e lo lascia indietro. Dopo una fuga solitaria di 58 km Bartali vince il suo terzo Giro di Lombardia con 4′07″ sui primi inseguitori e 7′08″ su Coppi. È il campione.
Il 14 novembre Bartali si sposa con Adriana Bani. Coppi ha vinto il Giro in licenza: sta compiendo il servizio militare, ma non smette di gareggiare. Il 6 aprile 1941 va nella terra di Bartali e vince la sua prima classica, il Giro di Toscana. Fugge da solo a 60 km dal traguardo e lascia Bartali, secondo, a 3′01″; poi s'impone al Giro del Veneto, staccando Cinelli su un cavalcavia a 3 km dal traguardo. Vince il Giro dell'Emilia con un numero da finisseur e la Tre Valli Varesine con un attacco da lontano. Imprese che restano sullo sfondo della grande tragedia della guerra.
Il 21 giugno 1942 diventa campione italiano su strada battendo in volata il compagno di fuga Mario Ricci. Quattro giorni dopo, al Vigorelli, mentre si riscalda prima della finale del Campionato italiano dell'inseguimento, cade fratturandosi la clavicola. Cavallerescamente Cinelli rifiuta il titolo, che quel giorno avrebbe vinto senza combattere: dichiara che avrebbe affrontato Coppi quando questi si fosse rimesso. Nell'ottobre successivo Coppi, guarito, riesce a raggiungere Cinelli dopo 4160 m, vincendo così il titolo italiano dell'inseguimento; poi punta al record dell'ora.
Con il carburante razionato non si è potuto allenare dietro moto, ma il 7 novembre 1942, un giorno di nebbia, Coppi entra al Vigorelli per il suo tentativo. Alle 13.45 Coppi esce sulla pista. Il meccanico Ugo Bianchi controlla per l'ultima volta la bicicletta. Sono presenti Cinelli, il seigiornista Rigoni, il velocista Astolfi, Fiorenzo Magni, che due giorni prima ha stabilito il record del mondo dei 50 km, Emilio Colombo, ora segretario del CONI milanese, e Adriano Rodoni. Coppi ha scelto il rapporto 52x15, che sviluppa 7,35 m per pedalata. Aveva provato, nei giorni precedenti, il 25x7, che sviluppa 7,60 m, ma lo ha scartato giudicandolo eccessivo. Ha pedivelle da 17,1 cm, gomme da 120 e 110 g.
Il record da battere di Archambaud è 45,840 km. Alle 14.12 il cronometrista Ferruccio Massara gli scandisce gli ultimi cinque secondi e Coppi parte. È veloce al via: 33 secondi nel primo giro contro i 34 secondi di Archambaud, ma alla mezz'ora è in ritardo (22,946 km contro i 23,007 del francese). Poi, faticosamente recupera. Copre 45,871 m, migliorando il record di 31 m.
Coppi ritorna subito in caserma; il giorno dopo ha inizio l'operazione Torch con gli sbarchi degli angloamericani in Marocco e Algeria. Il 9 novembre Hitler e Mussolini cominciano a inviare forze in quella che chiamano 'testa di ponte tunisina', nella zona di Tunisi e Biserta. Anche il caporale del 38mo Reggimento di fanteria della Divisione Ravenna Fausto Angelo Coppi riceve l'ordine di partire.
È una guerra molto breve quella di Coppi. Il 6 marzo 1943 il generale Messe attacca Montgomery a Medenine e ne viene duramente sconfitto. Il 13 aprile Coppi viene catturato dagli inglesi a Capo Bon; il 17 maggio entra nel campo di concentramento di Megez el-Bab; molto più tardi passa al campo di Blida, a 84 km da Algeri.
Mentre Coppi è prigioniero, Bartali è libero. Fa la spola in bicicletta tra Firenze, Assisi e il Vaticano trasportando nel tubo piantone del telaio foto e documenti per ebrei in pericolo. Essendo della Milizia della strada, compie le sue missioni in camicia nera. Salva 49 inglesi, portandoli da Ponte a Ema sui monti, dai partigiani. Bartali viene anche arrestato dagli uomini del famigerato maggiore Carità. Gli vengono mostrate lettere di ringraziamento indirizzategli dal Vaticano, ma riesce a convincerli essersi trattato soltanto di pacchi dono.
La guerra miete vittime anche tra i ciclisti: l'olimpionico Toni Merkens, la maglia rosa Hermann Buse, il campione del mondo Albert Richter, torturato a morte dalla Gestapo, Marcel Buysse, Cipriani, uno dei pochi ad aver battuto Binda al Giro.
L'Africa di Coppi è dura. Soltanto il 1° febbraio 1945 sale sul piroscafo Città di Orano, come automobilista aggregato alla RAF in Italia, dove le truppe alleate ormai dilagano. Qualche giorno dopo essere sbarcato in Italia, a Caserta, Coppi incontra il calciatore del Napoli Umberto Busani, che gli fa conoscere il giornalista Gino Palumbo. Questi scrive un articolo su La Voce in cui lancia un appello per trovare una bicicletta per Fausto Coppi. Un falegname, Giuseppe Davino, si presenta con una vecchia Legnano e Coppi, tre anni dopo, riprende a volare.
Coppi, il 22 novembre 1945, si sposa con Bruna Ciampolini a Sestri Ponente. Il 19 marzo 1946 torna alla Sanremo. La corsa è emozionante: cinque uomini in fuga a 285 km dal traguardo (Giovanni Bardelli, Telmino Caselatto, Luigi Mutti, Lucien Teisseire e Coppi). I primi tre cedono a Ovada. Sul Turchino Coppi stacca Teisseire, restando solo a 151 km dal traguardo: è la più grande, meravigliosa cavalcata della storia della Milano-Sanremo. Coppi arriva al traguardo con 14′00″ su Teisseire e 18′30″ su Ricci e Bartali.
La sfida tra Coppi e Bartali diventa appassionante. Coppi ha firmato per la Bianchi in cambio di un autocarro; Bartali è rimasto alla Legnano con Pavesi. Il divorzio accende una rivalità che in ogni gara si nutre di motivi nuovi.
Bartali risponde all'impresa di Coppi nella Sanremo vincendo il Trofeo Matteotti e il Campionato di Zurigo, dove tra i due clan si accende la polemica. Coppi replica nel Giro di Romagna. Poi, si ritrovano al Giro d'Italia a sei anni e sei giorni dall'ultima maglia rosa, che copriva le spalle di Coppi. Erano alleati allora; ora sono avversari: è il 15 giugno 1946.
La Francia ha vinto la guerra, l'Italia l'ha perduta, ma il Giro riparte un anno prima del Tour. C'è sul tappeto la questione di Trieste e Cottur, triestino, la ricorda, arrivando solo a Torino e conquistando la maglia rosa. Poi Genova assiste al favoloso assolo di Toni Bevilacqua, che strappa la maglia rosa al compagno di squadra della Wilier Triestina.
Tra Coppi e Bartali avvengono scaramucce già nelle prime tappe, ma è il 23 giugno durante la nona, Chieti-Napoli (244 km), che esplode la battaglia. Bartali attacca sulle salite dell'Appennino che hanno fatto la storia del Giro ‒ Rocca Pia, Rionero Sannitico, Macerone ‒ e costringe Coppi a inseguire per 180 km; alla fine lo stacca di 4 minuti.
Poi, con Vito Ortelli capoclassifica, si ha una lunga tregua, rotta il 30 giugno dall'episodio di Pieris. Nella Rovigo-Trieste, appena superato il confine della zona A, il Giro trova la strada bloccata; i corridori vengono colpiti da una sassaiola; si sentono colpi di pistola. La corsa si ferma; Ortelli, Coppi, Bartali si nascondono sotto le auto del seguito. Soltanto 16 coraggiosi decidono di raggiungere Trieste: sono Guerrino Amadori, Antonio Ausenda, Elio Bertocchi, Bevilacqua, Cottur, Salvatore Crippa, Enzo Coppini, Egidio Feruglio, Andrea Giacometti, Generati, la maglia nera Luigi Malabrocca, Angelo Menon, Marabelli, Carlo Moscardini, Bruno Pasquini e Giannino Piccolroaz. Raggiungono Barcola sui camion, poi inforcano le bici; una folla enorme li aspetta. Guidati da Cottur e Bevilacqua entrano nell'ippodromo di Montebello; vengono avvolti nei tricolori: quel giorno il Giro diventa un manifesto politico. A Parigi si sta discutendo il destino di Trieste. Sono i giorni in cui l'Istria, Trieste, Gorizia e perfino parte della provincia di Udine sono attribuite alla Iugoslavia. In un tripudio di bandiere tricolori Trieste rivendica la sua italianità. Il giorno dopo Bruno Roghi apre La Gazzetta dello sport con il suo attacco più famoso: "I giardini di Trieste non hanno più fiori. Le campane di Trieste non hanno più suoni. Le bandiere di Trieste non hanno più palpiti. Le labbra di Trieste non hanno più baci. I fiori, i palpiti, i suoni, i baci sono stati tutti donati al Giro d'Italia".
Dopo i brividi di Pieris, dopo i palpiti di Trieste, ecco le Dolomiti. La partenza della prima delle tre tappe dolomitiche, Trieste-Auronzo, viene spostata per prudenza a Udine. Puntualmente Bartali attacca sul passo della Mauria; Coppi lo segue e vince ad Auronzo, dove Bartali veste la maglia rosa.
Il giorno dopo, 3 luglio, appena oltre Cortina d'Ampezzo, Coppi attacca a Pocol; Bartali ha problemi con il cambio e resta indietro. Coppi scollina sul passo del Falzarego con 2′25″ su Bartali e Ortelli, che, coraggioso, cerca spiragli in quella omerica sfida. A Feltre il distacco è salito a 4′10″ e Coppi è maglia rosa virtuale. Poi, dietro, Bini raggiunge Bartali, l'antico rivale, e lo aiuta in maniera decisiva nella difesa della maglia rosa: a Bassano Coppi vince con 1′12″ su Bartali.
La corsa è apertissima, coinvolgente. L'Italia si divide in due, soffre e si entusiasma. Il 5 luglio, nella Bassano-Trento Coppi attacca ancora sul Passo Rolle, ma Bartali, in maglia rosa, risponde bene; poi, nella discesa del Passo di San Lugano, quando Bartali fora, Coppi lo attacca e vola per la valle dell'Adige. Bartali si difende; Coppi è irresistibile: conquista Trento con 2′08″ sul rivale, che difende la maglia rosa per 47″, di misura. Bartali è salvo; controlla con autorità le ultime tre tappe, lasciando a Coppi il traguardo di Milano: vince il Giro con 47″ su Coppi e 15′28″ su Ortelli. Poi partecipa al Giro della Svizzera e, davanti a un ventaglio di stranieri di gran nome, lo domina: s'impone in quattro tappe su otto e nel Gran Premio della Montagna; è primo con 16′30″ di vantaggio sul secondo.
Coppi va in Francia; vince il Critérium du Trocadéro con 2′14″ su Bartali e, poi, il Gran Premio delle Nazioni a cronometro. Il 27 ottobre fa suo il Giro di Lombardia, piantando due compagni di fuga sul cavalcavia della Ghisolfa nel cuore di Milano.
Bartali apre il 1947 vincendo da solo la Sanremo sotto la pioggia, con 3′57″ su Cecchi, mentre Coppi si ritira. Quest'ultimo, però, lo batte nel Giro di Romagna. Al Giro d'Italia Bartali gli piazza subito una stoccata, nella seconda tappa, sfruttando un attacco audace di Ortelli, sul colle Caprile. Sull'Abetone, nella quarta tappa, divampa la battaglia: alla fine vince Coppi a Prato e Bartali veste la maglia rosa, che conserva per 13 tappe.
Sono ancora le Dolomiti teatro del duello. Bartali brucia Coppi a Pieve di Cadore; il 12 giugno, al via della tappa Pieve di Cadore - Trento, ha in classifica 2′41″ di vantaggio. Sul Falzarego, però, mentre lancia la volata per il traguardo della montagna, pasticcia con il cambio e cade; Coppi lo sorpassa; Bartali si butta a capofitto nella discesa e cade di nuovo. In fondo alla discesa Coppi ha 1′20″ di vantaggio e insiste; dietro Bartali insegue indomabile ma Coppi allarga il distacco sul Pordoi. Sul passo Coppi ha 4′07″ di vantaggio. A Cavalese ha 8 minuti di vantaggio, ma lì la maglia rosa è raggiunta da un quintetto di inseguitori, tra cui Magni, Alfredo Martini, Sylvère Maes. Coppi, da solo, resiste, pur diminuendo il vantaggio; vince a Trento, dopo 150 km di fuga solitaria, con 4′24″ di vantaggio e strappa la maglia rosa al rivale: il Giro è suo, con 1′43″ su Bartali.
I due s'incontrano di nuovo due mesi dopo al Giro della Svizzera (16-29 agosto), e Bartali lascia Coppi a 40′06″. Quest'ultimo, tuttavia, nella cronometro Losanna-Ginevra (60,6 km), offre un saggio impareggiabile: stacca Stan Ockers di 6′12″, Ferdi Kübler di 6′43″ e Bartali di 6′47″.
Coppi vince, il 31 agosto, il Giro del Veneto con 8 minuti di vantaggio dopo 170 km di fuga. È una stagione magica per lui: diventa campione italiano; vince l'Attraverso Losanna con un allungo da finisseur; domina il Gran Premio delle Nazioni (8′15″ al secondo); diventa campione del mondo dell'inseguimento, battendo Gerrit Schulte e Bevilacqua. Il 4 ottobre, al Giro dell'Emilia, quando Bartali fora a 155 km dal traguardo, Coppi parte da solo e arriva al traguardo con 10′45″ di vantaggio.
È una successione di vittorie memorabile. Il 26 ottobre, al Giro di Lombardia, Coppi scatta al rifornimento di Asso, sulla Valbrona raggiunge Magni, che era in fuga, lo stacca, sorvola il Ghisallo, mentre Bartali guida l'inseguimento con tenacia. Poi, al termine di una battaglia stupenda, dopo un assolo di 59 km, precede Bartali di 5′24″. Coppi ha effettuato il sorpasso.
Intorno a Bartali e Coppi ci sono molti altri atleti: alcuni sono affascinanti, come Vietto e Jean Robic, per esempio. Due scalatori, due grimpeurs; uno stilista puro e un lottatore feroce.
René Vietto è circondato dalla leggenda: ombroso, sognatore, generoso, audace; lo hanno chiamato Le Roi René. Si è fatto una reputazione sulla Costa Azzurra, vincendo al Mont Agel e al Mont Faron. È nato il 17 febbraio 1914 a Rocheville-les-Cannets, vicino Cannes, ed è figlio di un emigrante di Limone Piemonte. Nello stile cerca di imitare Binda; in bici ha un'eleganza rara. Conosce l'apogeo della sua carriera nel 1934, a vent'anni, quando vince 4 tappe al Tour e il Gran Premio della Montagna. S'impone a Grenoble nella tappa del Galibier con 3 minuti e mezzo di vantaggio su Martano e Antonin Magne, la maglia gialla. Due giorni dopo decolla sul Vars, sorvola il Col d'Allos e vince a Digne con 2′33″ su Trueba e 6′28″ su Magne e Martano. Nella Nizza-Cannes ripete il suo volo per La Turbie, Braus e Castillon, arriva con Martano e vince in mezzo alla sua gente in estasi.
Poi, per due volte, a distanza di ventiquattr'ore, Vietto salva la maglia gialla Magne, prima nella discesa del Puymorens, poi in quella del Portet d'Aspet, quando risale la montagna in senso contrario alla corsa per soccorrerlo. Questo gesto commuove la Francia; così, quando Vietto va in assolo magnifico a vincere a Pau attraverso Tourmalet e Aubisque, tutto il paese si esalta. Vietto finisce il Tour quinto, ma è primo nel cuore e nella leggenda.
L'anno dopo Vietto patisce la scelta di Desgrange, che, entusiasta della prima cronometro introdotta nel 1934, ne inserisce cinque per 360 km. Mal preparato, finisce fuori classifica, anche se si regala due vittorie di tappa ad Aix-les-Bains e Digne. Vietto è un visionario; sui Pirenei, nella Perpignan-Luchon, attacca a 250 km dal traguardo; Félicien Vervaecke e Sylvère Maes faticano duramente, ma poi lo saltano e gli danno venti minuti.
Vietto si adagia nel successo, così Desgrange rifiuta di inserirlo nella squadra francese. Vietto torna nel 1939 nella squadra regionale del Sud-Est più maturo, meno donchisciottesco. A Lorient, al termine della quarta tappa, conquista la maglia gialla e la porta attraverso la Francia: è di nuovo Le Roi. Quel ritorno infiamma i francesi, che poi piangono il suo crollo sull'Izoard; la vittoria finisce a Sylvère Maes. Vietto è secondo a Parigi, staccato di mezz'ora.
Il Tour riprende, dopo la guerra, il 25 giugno 1947. Alla partenza Marcel Cerdan stringe la mano di Vietto, ormai trentatreenne, il quale va all'attacco sul pavé del Nord e conquista la maglia gialla a Bruxelles. Lo insegue Robic, suo compagno di squadra, che i tifosi chiamano Biquet ("Tesoruccio"), oppure Tête de cuir ("Testa di cuoio"), diventato in Italia Testadivetro, perché porta un casco per proteggere il cranio che si è fratturato nella Roubaix del 1944 cadendo al rifornimento di Amiens. Incurante del fatto che Le Roi René indossi la maglia gialla, va all'attacco sul Cucheron e sul Porte: vince a Grenoble, stacca Vietto di oltre 8 minuti e la maglia gialla passa all'italiano Aldo Ronconi. Vietto replica tre giorni dopo sull'Izoard: fugge con Apo Lazarides, vince a Digne, lascia Robic a oltre 6 minuti, Ronconi a più di 7 e riconquista la maglia gialla. Robic, quando arrivano i Pirenei, va all'attacco subito, già sulle prime rampe del Peyresourde; dopo 190 km di fuga, vince a Pau con 10 minuti su Vietto, che conserva la maglia gialla.
A tre tappe dalla fine Vietto ha solo 1′34″ sull'italiano di Francia Pietro Brambilla e quasi 4 minuti su Ronconi, ma davanti alla sua ruota c'è la Vanne - St.-Brieuc, terzultima tappa, una cronometro di 139 km. Quel giorno Vietto manda Jean Leulliot a metà percorso con l'incarico di dargli i distacchi; quando arriva a quell'appuntamento trova l'amico a terra: è caduto dalla moto e si è fratturato il cranio contro un paracarro. Sconvolto, Vietto crolla, perde un quarto d'ora e la maglia gialla, che passa a Brambilla. Questi, nipote di Cesare Brambilla, vincitore del secondo Giro di Lombardia del 1906, si trova a un passo dalla storia, ma la squadra italiana non è compatta e la Francia detesta gli italiani. Tutto congiura contro Brambilla, che ha la solidità fragile dell'emigrante. Al via dell'ultima tappa va a chiedere l'aiuto di Robic, che glielo rifiuta.
All'uscita di Rouen, sulla Côte de Bonsecours, Robic attacca con l'aiuto di Édouard Fachleitner; stacca Brambilla a 140 km dall'ultimo traguardo e vince il Tour senza aver mai portato la maglia gialla. Robic è un bretone di Radenac, pur essendo nato nelle Ardenne. Orgoglioso, ha il gusto della polemica e una volontà di ferro, il suo tratto caratteristico è l'energia. Alto 1,61 m, è un peso piuma; così, in cima ai colli, si fa passare un borraccia piena di piombo per scendere più veloce.
Mentre sorge la stella di Robic, quella di Vietto si spegne. Vietto è stato un innovatore nel campo dei materiali; troppo lento per vincere in volata, doveva arrivare da solo. Al Giro ha gareggiato per tre volte senza lasciare il segno, appartiene soltanto alla leggenda del Tour: ha vinto 10 tappe e portato per 31 giorni la maglia gialla. Quando esce di scena, Robic prende il suo posto e si mette, fieramente quanto inutilmente, all'inseguimento di Bartali e Coppi. Il 15 luglio 1948 è lui ad attaccare sul Col d'Allos e sul Vars, ma Bartali lo demolisce; Robic crolla sull'Izoard e finisce con 25 minuti di distacco. Il 2 giugno 1950, al Giro, nel 'tappone' dolomitico, passa primo sul Rolle e sul Pordoi, ma poi, mentre è ormai lanciato con Bartali, Hugo Koblet e Kübler nella valle dell'Isarco, a pochi chilometri da Bolzano ha un crollo e arriva al traguardo con 13′35″ di distacco. Nel Tour del 1949, nel 'tappone' pirenaico, grazie a una foratura di Coppi, Robic s'invola sul Peyresourde e vince a Luchon. Nel 1950, quando sull'Aspin il pubblico provoca la caduta di Bartali, che porta poi al ritiro delle due squadre italiane, Robic cade con lui. Al Tour del 1952, nella prima all'Alpe d'Huez, è Robic ad attaccare, ma Coppi lo riduce subito alla ragione: Robic finisce secondo a 1′20″ da Coppi. Quell'anno prova l'attacco anche sul Mont Ventoux e Coppi, in maglia gialla, lo lascia andare via: così Robic vince ad Avignone con 1′37″ su Bartali. È spesso davanti sulle montagne: arriva nella scia di Coppi e Ockers a Pau, 4 minuti prima di Bartali. L'anno dopo, il 14 luglio 1953, Robic scatena un'offensiva nell'undicesima tappa Cauterets-Luchon (115 km), arriva solo al traguardo con 1′27″ su Louison Bobet e conquista la maglia gialla. Il giorno dopo la porta per la prima volta in corsa, ma la perde per una 'fuga-bidone' che lascia gli assi a oltre venti minuti; nella tappa successiva, ritardato da una caduta, perde 38 minuti e, infine, si ritira.
Nel suo palmarès figurano un Tour e 6 vittorie di tappa, una Roma-Napoli-Roma, la prima maglia iridata del ciclocross nel 1950 e un titolo di campione di Francia.
Adolfo Leoni è figlio di un ferroviere di Gualdo Tadino, ha otto fratelli. A vent'anni, nel 1937, con una volata imperiale vince il Campionato del Mondo dei dilettanti; diventa campione italiano su strada professionisti a Roma nel 1941. Il 19 marzo 1942 vince la Sanremo in volata su Bevilacqua e Favalli. Per nove Giri ‒ e in mezzo c'è la sosta per la guerra ‒ vince sempre: 17 tappe. Nel Giro del 1940 si piazza primo in 4 tappe. Leoni indossa anche la maglia rosa: nel Giro del 1949 ci vuole l'impresa di Coppi nella Cuneo-Pinerolo per spodestarlo.
Leoni è un uomo educato e gentile, più indulgente verso gli altri che con sé stesso; studia ingegneria, scrive novelle. Il suo rivale nel dopoguerra è Oreste Conte, friulano, capace di vincere 13 tappe al Giro e di portare la maglia rosa. Conte è alla Bianchi, con Coppi, Leoni alla Legnano, con Bartali. Diventano due frecce di una sfida più grande.
Vito Ortelli è nato a Faenza il 5 luglio 1921, figlio di Lazzaro, costruttore di telai di bicicletta, e Angela Casadio. Il padre gli costruisce la bici su misura a 4 anni e Vito, bambino, si esibisce a pagamento (2 soldi) nelle piazze di Faenza. A 14 gli regalano la bicicletta da pista, ma lui evade dal velodromo e con quella, senza freni e con il rapporto fisso, esplora le salite: Rocca delle Caminate, la Colla, Cento Forche, Monticino. In discesa frena con i piedi sulle ruote. A 19 anni, in coppia con Magni, batte gli assi nel Giro della Provincia di Milano. Poi la guerra li divide.
Ortelli è un corridore completo: buon passista, eccellente scalatore, audace in discesa e grande inseguitore. Il 23 settembre 1945, a Torino, batte Coppi nella semifinale del Campionato italiano dell'inseguimento, nonostante il suo direttore sportivo, Graglia, si fosse accordato con Cavanna: 20.000 lire e vittoria a Coppi. Graglia sicuro della sconfitta aveva taciuto. Ortelli aveva battuto di 70 m Coppi. In finale poi aveva sconfitto anche Leoni ed era diventato campione italiano.
Ortelli, quel giorno, diventa nemico di Coppi e, con Bartali, Bevilacqua e Guido De Santi, è l'unico tra i corridori italiani ad avere il coraggio di attaccarlo. L'11 agosto 1946, a Milano, sconfigge Coppi nella finale dell'inseguimento: vince il suo secondo titolo italiano e questa volta non ci sono trame, né tradimenti. Ma è la strada il suo campo d'azione.
Negli anni 1946-48 diventa il 'terzo grande' prima di Magni; spesso s'inserisce nel duello tra Coppi e Bartali. Ha vinto il Giro di Toscana nel 1942 con due minuti e mezzo su Bartali; ha lasciato Coppi a due minuti e mezzo nella Milano-Torino del 1945; il 22 giugno 1946 stacca anche Bartali sulla rampa di Chieti e vince la sua prima tappa al Giro. Il giorno dopo si viene a trovare proprio nel cuore della battaglia campale scatenata sui monti dell'Appennino da Bartali contro Coppi e a Napoli indossa la maglia rosa. La porta attraverso l'Italia. È ancora in maglia rosa quando il Giro subisce l'agguato di Pieris: quel giorno viene colpito in testa da un sasso e, ai primi spari, si ripara sotto un'auto del seguito insieme con Aldo Zambrini, il mentore di Coppi. Termina quel Giro al terzo posto, dopo Bartali e Coppi.
Nel Giro del 1947, nella seconda tappa, è Ortelli a scattare sul Caprile e a innescare un grande attacco di Bartali: i due fuggono insieme e a Genova lasciano Coppi a quasi 3 minuti. È ancora Ortelli, il 25 maggio 1948, il protagonista della fuga di 250 km che lascia gli assi a 13 minuti e, alla fine, porterà Magni alla vittoria. Quel giorno Ortelli veste nuovamente la maglia rosa. Magni cerca di strappargliela, ma Ortelli si salva nella discesa della Capannaccia; quando, però, fora nella Bologna-Udine, Magni trova molti alleati e riesce a portargliela via. Ortelli tuttavia, sulle Dolomiti, è sempre l'ultimo testimone dei duelli tra Coppi e Bartali, l'ultimo a perdere le ruote. È di nuovo terzo nella classifica finale.
Nel 1948 diventa campione italiano precedendo Coppi. Il campionato è articolato in cinque prove; al via della prova decisiva, il Giro dell'Emilia, Ortelli si presenta in testa; Coppi dà battaglia, cercando di portare via altri corridori, per impedire al rivale di fare punti. Coppi domina e vince, ma Ortelli, nonostante due forature, si salva bene e si aggiudica il titolo italiano per un punto soltanto: 27 a 26. L'anno dopo finisce secondo nella Sanremo a 4 minuti da Coppi.
L'8 aprile 1951 Bevilacqua si allinea al via della Roubaix. Sulla sua ammiraglia c'è Giulio Rossi, che ha vinto nel 1937. Nel finale Bevilacqua si trova nel gruppetto di avanguardia; quando attacca a Wattignies, a 22 km dal traguardo, prima Kübler poi Raymond Impanis cedono di schianto; resta con quattro compagni e allunga sul pavé. All'entrata di Lesquin, a 17 km dall'arrivo, Bevilacqua si scopre con 30 m di vantaggio e forza. Lo inseguono Magni, Rik Van Steenbergen e Bobet: quando Magni slitta e cade, resta solo contro due campioni. Invano Bobet e Van Steenbergen si alternano nell'inseguimento: Bevilacqua arriva solo a Roubaix con 1′32″ di vantaggio sui suoi inseguitori. È un finisseur micidiale, un passista formidabile.
Antonio Bevilacqua è nato a Santa Maria di Sala (Venezia) il 22 ottobre 1918, quarto dei sei figli di Florindo e Teresa, due contadini. Gianni Brera, che lo ammira, gli dà il soprannome di Labròn. Bevilacqua è uno stradista di classe e un grande inseguitore: per due volte infatti veste la maglia di campione del mondo nell'inseguimento. In finale prima sconfigge Wim Van Est a Rocourt nel 1950, tra le polemiche, e l'anno dopo batte Koblet, al sommo della gloria, al Vigorelli. Quella finale, con 18.000 spettatori sulle tribune e 20.000 fuori dal Vigorelli, fa epoca, ma non stupisce gli intenditori. Bevilacqua aveva sempre battuto Koblet e proprio contro di lui al Vigorelli, il 19 luglio 1950, aveva polverizzato il primato di Coppi sui 5 km con 6′05″.
È un velocista potente e temibile, un uomo eclettico capace di vincere 11 tappe al Giro d'Italia e di indossare la maglia rosa. Toni sa vincere in volata oppure con allunghi prepotenti o con il grande volo. Poi l'11 giugno 1949 s'impone nella cronometro di Torino (65 km), il giorno dopo la grande battaglia della Cuneo-Pinerolo. Il 14 maggio 1950 diventa campione italiano su strada con un assolo superbo: fugge con Martini a 85 km dal traguardo, poi lo stacca nel finale; vince con 1′23″ su Martini, 3′15″ su Ricci, mentre Coppi e Bartali, che si fanno i dispetti, sono staccati di 7′34″.
Bevilacqua sale sul podio al Mondiale di Varese dietro Kübler e Magni. Di Bevilacqua piace l'umanità: quando Bartali demolisce Bobet al Tour del 1948, è Toni a spingere il rivale vinto sull'ultima salita. È un generoso: quando nel 1972 muore in bicicletta, fa l'ultimo regalo, la donazione delle cornee.
Il 19 marzo 1948 Coppi, nella Milano-Sanremo, scatta su Capo Mele, lascia i tre compagni di fuga e procede da solo. Il macchinista di un treno rallenta, va con il passo di Coppi e suona la sirena; tutti i viaggiatori, affacciati ai finestrini, urlano il suo nome: una scena surreale. Coppi vince a Sanremo con 5′17″ di vantaggio su Vittorio Rossello e Fermo Camellini, 8′53″ su Bizzi. Bartali arriva nel gruppo staccato di 11 secondi. Pareggia sulle strade amiche, staccando Coppi sul San Giovanni e imponendosi nel Giro di Toscana con 3′58″ di vantaggio. Poi fa suo anche il Campionato di Zurigo.
Al Giro d'Italia tra Bartali e Coppi ci sono subito bagliori di guerra sul colle Caprile, poi sulla Porretta; i due si controllano, si studiano. Altri ne approfittano: Magni, staccato di 14′21″ dopo due tappe, rientra in classifica. La situazione di Coppi e Bartali, già difficile, viene compromessa nella Bari-Napoli, quando va in porto una fuga di 250 km, condotta con ardore da Ortelli, Magni, Ronconi, Cecchi: gli assi perdono 13′23″.
Coppi va all'attacco nella sedicesima tappa, Auronzo-Cortina (90 km): fa il vuoto sul passo Monte Croce di Comelico e arriva solo con 3′12″ di vantaggio. Il giorno dopo, nella Cortina-Trento, parte a 145 km dal traguardo: scollina sul Falzarego con 1′50″ su Bartali; sul Pordoi allarga il vantaggio a 4′18″, poi, dopo un finale convulso, in cui Bartali e la maglia rosa Cecchi forano, Coppi vince con 2′51″ sul magnifico Ortelli. Bartali e Cecchi finiscono a 7′20″ e Magni veste la maglia rosa.
La Cimatti di Cecchi e la Bianchi di Coppi, però, presentano reclamo, perché Magni si è fatto spingere sulle salite. La giuria penalizza di 2 minuti Magni, che così conserva la maglia rosa per 11 secondi su Cecchi. La Bianchi, per protesta, si ritira: l'abbandono di Coppi desta sensazione e suscita polemiche. L'UVI infligge a Coppi e alla sua squadra un mese di squalifica; la Bianchi, in risposta, annuncia che Coppi non andrà al Tour.
Magni vince il Giro, ma viene subissato di fischi al Vigorelli; Cecchi, lo Scopino di Monsummano, è secondo a 11 secondi dopo 4164 km di corsa, il più piccolo margine della storia del Giro. Ancora una volta lo Scopino, con discrezione, è rimasto sulle soglie della gloria.
Bartali finisce ottavo al Giro. È ormai alle soglie dei 34 anni e la sua stagione sembra finita, ma il 26 giugno 1948 sale sull'Orient Express diretto a Parigi. Si presenta al Tour a distanza di dieci anni dall'ultima apparizione. Apre con una squillante vittoria a Trouville. Lì, al termine della prima tappa, regola 11 compagni di una fuga alimentata con furore da Bevilacqua.
Nelle cinque tappe successive Bartali subisce la controffensiva di Bobet, giovane talento francese. Questi, con tre azioni incisive, gli guadagna 21 minuti: 4 minuti e mezzo a Dinard, nella seconda tappa, dove è battuto in volata da Vincenzo Rossello; 14 a Nantes, nella terza tappa, al termine di una grande offensiva, in cui indossa la maglia gialla; altri minuti a Biarritz, nella sesta, dove coglie la sua prima vittoria al Tour. Bobet accende grandi speranze. Il 7 luglio, sui Pirenei, Bartali inizia la sua replica. Arriva a Lourdes con Robic e Bobet e li batte in volata; il giorno dopo fa il bis a Tolosa, vincendo uno sprint di 24 corridori.
Bobet stupisce. Si parla del suo abbandono a Sanremo per un problema al piede che lo fa soffrire; invece, in maglia gialla, va all'attacco, in compagnia di Lazaridès, sul Castillon e il Turini, e vince la Sanremo-Cannes, staccando Bartali di oltre 7 minuti. Lì Louis diventa Louison. Dopo 12 tappe, a nove dalla fine, Bartali ha un ritardo di 21′28″ dalla maglia gialla Bobet e di 18′59″ dal migliore dei belgi, Roger Lambrecht. Sembra una situazione compromessa.
A quel punto, però, Bartali ritrova le Alpi: il 15 luglio, nella Cannes-Briançon (274 km), va all'assalto. Sotto la pioggia schianta Robic sull'Izoard; dopo un assolo di 55 km arriva a Briançon con 6′18″ su Brik Schotte, 9′15″ su Camellini, 10′43″ su Vietto. Bobet, staccato di 18′07″, salva a stento la maglia gialla. Il giorno dopo, 16 luglio, in una giornata freddissima, Bartali attacca ancora sul Col de Porte. Invano i francesi fanno quadrato attorno alla maglia gialla: Bartali scollina oltre Cucheron e Granier, arriva solo ad Aix-les-Bains con 5′53″ su Ockers e strappa a Bobet, staccato di 7 minuti, la maglia gialla.
Lì il Tour si concede un giorno di riposo, ma non basta a Louison Bobet e ai belgi per ricucire le ferite. Il giorno dopo Bartali, in condizioni smaglianti, attacca ancora e vince la terza tappa consecutiva: nel giorno del suo compleanno giunge solo a Losanna con 1′47″ su Schotte. Nelle tre tappe alpine ha rovesciato la situazione: ora è primo con 13′47″ su Bobet e 31′50″ su Schotte.
Il giorno dopo la tappa si rivela un duro calvario per Bobet: attaccato dai belgi, ormai distrutto, Louison arriva con 21 minuti di distacco. Bartali, invece, non ha avversari: può permettersi di perdere 12 minuti nella cronometro di Strasburgo (120 km). Manda il suo gregario di fiducia, Giovanni Corrieri, a vincere a Metz; si consente un'altra vittoria a Liegi, la settima, in una volata ristretta; concede a Corrieri un'altra licenza vittoriosa a Parigi e vince ancora il Tour, con una prova di forza splendida, a dieci anni dal primo successo, con 26′16″ su Schotte. La popolarità di Bartali è così alta che, quando il 14 luglio lo studente siciliano Antonio Pallante spara a Togliatti e l'Italia si trova sull'orlo della guerra civile, si dice che furono le sue vittorie al Tour a evitare quel pericolo.
Coppi attende il ritorno di Bartali e l'8 agosto, alla Tre Valli Varesine, lo marca da vicino e poi lo brucia in volata. La rivalità tra Coppi e Bartali raggiunge il suo acme, e così il 22 agosto, al Mondiale di Valkenburg, si ripete quanto successe vent'anni prima tra Binda e Girardengo a Budapest. Coppi e Bartali si guardano, si spiano, si neutralizzano, paralizzati l'uno dalla presenza dell'altro; poi, quando la gara è compromessa, si ritirano insieme. Quella corsa passerà alla storia come 'la vergogna di Valkenburg'. L'UVI squalifica Bartali e Coppi per due mesi.
Poiché la squalifica viene ridotta, Coppi fa in tempo a vincere in solitudine il Giro dell'Emilia il 10 ottobre. Poi, il 24, parte a 83 km dal traguardo, polverizza il record dell'ascensione del Ghisallo e vince il Giro di Lombardia con 4′45″ di vantaggio.
Nel 1948 Bartali ha vinto la sfida con Coppi, ma, a quel punto, lascia la Legnano e tenta l'avventura industriale, mettendosi in sella a una bici Bartali: è una stagione del tutto nuova per lui.
Coppi ha voglia di riscatto e il 19 marzo 1949 stacca tutti sul Capo Berta: vince la Milano-Sanremo con 4′17″ di vantaggio. L'8 maggio va via sul Trebbio e s'impone nel Giro di Romagna con 3′50″ su Magni; Bartali finisce a 10′30″. Soltanto alla vigilia del Giro d'Italia Bartali replica, dominando il Giro di Romandia.
Il Giro d'Italia 1949 riserva due eventi memorabili: il primo si ha il 2 giugno nel 'tappone' dolomitico Bassano-Bolzano (237 km). Bartali passa primo sul Rolle con Coppi a ruota; poco prima di Moena, però, fora e Coppi lo attacca. La sua corsa è un volo. Mancano 90 km al traguardo; invano Bartali, orgogliosamente, lo insegue. Coppi scavalca tre passi (Pordoi, Campolongo, Gardena); Bartali è sempre più lontano, sempre più solo. Infine Coppi arriva a Bolzano con 6′58″ sulla maglia rosa Leoni, Bartali e Giancarlo Astrua.
Il secondo evento ha luogo il 10 giugno. Al via della terzultima tappa, Cuneo-Pinerolo (254 km), Leoni è ancora maglia rosa, ha 43 secondi di vantaggio su Coppi, mentre Bartali è terzo a 10′11″. Ad Argentera, a 192 km dal traguardo, Bartali fora; Coppi parte di scatto, davanti a lui ci sono cinque passi. Sembra un'azione di disturbo: così la valutano i suiveurs. Sul colle della Maddalena Coppi ha 1′25″ su Primo Volpi; Bartali passa tredicesimo a 2′40″, ma, ai piedi del Vars, decide di muoversi. Sul Vars e sull'Izoard Bartali ha costruito le sue due leggendarie vittorie al Tour; Coppi, invece, non conosce quelle montagne. Eppure scollina sul Vars con 4′30″ su Bartali e Volpi. Ecco l'Izoard, splendido e duro. Dietro di lui sale Bartali, ormai solo nell'inseguimento. Sulla cima dell'Izoard ha 6′55″ da Coppi.
È un braccio di ferro titanico e disperato. Bartali profonde nell'inseguimento ogni energia, ma Coppi, davanti, è imprendibile. Supera Monginevro e Sestriere, arriva a Pinerolo. Vince, dopo 192 km di fuga e dopo cinque forature, con 11′52″ di vantaggio su Bartali. Martini è terzo a 20′04″. Quella di Coppi a Pinerolo è la più grande vittoria mai ottenuta durante una grande corsa a tappe; è la vittoria del secolo. Coppi vince il Giro con 23′47″ su Bartali e 38′27″ su Cottur.
Coppi va con Bartali al Tour del 1949. Bartali è al quarto assalto, Coppi all'esordio. Prima della partenza per Parigi il commissario tecnico Alfredo Binda gli fa stringere un accordo, il cosiddetto patto di Chiavari, secondo cui i due atleti s'impegnano ad aiutarsi durante la gara. Davanti a loro ci sono 4808 km divisi in 21 tappe. Sono affiancati da dieci compagni: Serafino Biagioni, Angelo Brignole, Giovanni Corrieri, Guido De Santi, Ettore Milano, Bruno Pasquini, Luciano Pezzi, Vincenzo Rossello, Mario Ricci e Gino Sciardis. Uomini forti ed esperti: Ricci, per esempio, 35 anni, in tempo di guerra ha vinto due Giri di Lombardia ed è stato campione italiano. Affianca gli azzurri una squadra cadetti forte di sei uomini, capitanata da Fiorenzo Magni, con Tino Ausenda, Pino Cerami (un italiano di Charleroi), Alfredo Martini, Silvio Pedroni e Armando Peverelli.
L'inizio di Coppi è disastroso: dopo cinque tappe, a St.-Malo, si trova con 36′55″ di ritardo in classifica. A fatica Binda lo convince a continuare. Il 5 luglio, nella quinta tappa, Rouen - St.-Malo, Coppi era già sceso di sella tra Pontfarcy e Avranches, offeso, sentendosi tradito. In quella tappa Coppi era andato in fuga poco dopo la partenza, aveva avuto una piccola collisione con la maglia gialla Jacques Marinelli ed era caduto; aveva quindi chiesto la bici di ricambio e Giovanni Tragella gli aveva offerto quella di Ricci, poiché la sua si trovava sull'ammiraglia di Binda al seguito di Bartali. Coppi aveva giudicato quella situazione non una disattenzione di corsa ma un tradimento del patto di Chiavari: quel giorno aveva perso 28′43″ dal gruppo di Marinelli. Coppi riparte a fatica; poi, però, si riprende vincendo la cronometro di La Rochelle (92 km) con 1′32″ su Kübler, 2′47″ su Van Steenbergen, 3′18″ sul triestino De Santi, mentre Bartali arriva a 4′31″ e la maglia gialla Marinelli a 7′32″.
Nella decima tappa si complica la situazione tattica degli italiani, perché Magni, sempre intraprendente, arriva a Pau insieme a tre compagni con 20 minuti di vantaggio e indossa la maglia gialla. Il 12 luglio, tuttavia, nel 'tappone' pirenaico Coppi appare rinato: sale sull'Aubisque nella scia di Bartali, gli offre la sua borraccia; è terzo a Pau con 57 secondi di distacco soltanto perché Robic e Lazaridès approfittano di una sua foratura, mentre Bartali è sesto a 4′37″ e Magni conserva la maglia gialla pur essendo arrivato a 16′03″.
Il 18 luglio, nella sedicesima tappa Cannes-Briançon (275 km), sulle Alpi, Coppi e Bartali, dopo un folle attacco di Kübler, vanno via insieme sull'Izoard e Coppi rallenta più volte per aspettare il compagno: Bartali vince a Briançon e indossa la maglia gialla, distaccando Robic di 5′06″, Lazaridès di 6′28″, Magni di 12′12″. In classifica Bartali ha soltanto 1′22″ di vantaggio su Coppi.
Il giorno dopo, 19 luglio, c'è la Briançon-Aosta (257 km), con Monginevro, Moncenisio, Iseran e Piccolo San Bernardo. Coppi e Bartali attaccano ancora sul Piccolo San Bernardo, seminano tutti e passano insieme in vetta. A La Thuile Bartali fora, poi cade; Coppi rallenta, ma Binda gli manda a dire di proseguire. In 42 km Coppi stacca Bartali di 4′55″, vince ad Aosta e strappa la maglia gialla al compagno; Robic è terzo a 10′16″, gli altri sono ancora più lontani. In classifica ora Coppi precede Bartali di 3′57″ e Marinelli di 12′08″.
Il 23 luglio, nella cronometro Colmar-Nancy (137 km), Coppi lascia Bartali, secondo, a 7′02″. Vince il Tour all'esordio con 10′55″ su Bartali, 25′13″ su Marinelli, 34′28″ su Robic. Coppi realizza per primo la doppietta Giro-Tour. È primo anche nel Gran Premio della Montagna davanti a Bartali e Robic.
È l'annata magica di Coppi: l'11 settembre vince il Giro del Veneto con una fuga solitaria di 122 km; diventa campione italiano e strappa a Bartali anche la maglia tricolore. Chiude l'anno così come l'aveva incominciato: il 23 ottobre a 56 km dal traguardo vola via e s'impone nel Giro di Lombardia con 2′52″ su Kübler. La grande sfida con Bartali è finita.
Il 1950 si apre con due successi di Bartali che vince in volata la Sanremo e in rimonta il Giro di Toscana. Coppi risponde subito e s'impone con due splendidi assolo nella Parigi-Roubaix e nella Freccia Vallone: il 9 aprile nella Roubaix attacca al rifornimento di Arras, poi a 45 km dal traguardo resta solo, sorvola il pavé, vince con 2′41″ su Maurice Diot e 5′24″ su Magni; il 30 aprile nella Freccia Vallone fugge via a 85 km dall'arrivo e giunge a Liegi con 6′05″ su Impanis. Due numeri di gran classe, due pezzi d'autore.
Coppi e Bartali si ritrovano il 14 maggio nel Campionato italiano. Si marcano come a Valkenburg; arrivano a 7′34″ da Bevilacqua e fanno la volata per il diciottesimo posto: la vince Coppi, aggrappandosi alla maglia di Bartali, che protesta e ottiene il declassamento del rivale.
Così al Giro Bartali e Coppi sono nuovamente l'uno contro l'altro. Mentre si controllano, lo svizzero Koblet vince a Locarno con un assolo di 58 km; poi fa il bis a Vicenza, scattando con Pasquale Fornara sul Pian delle Fugazze. Koblet veste la maglia rosa; Coppi è staccato solo di 3′38″, Bartali di 6′12″. È il 2 giugno quando, proprio lì dove iniziano le montagne, davanti alle Scale di Primolano, Peverelli urta Coppi, che cade e si frattura il pube. Coppi viene ricoverato all'ospedale di Trento, mentre Bartali, sull'ultimo colle, il Gardena, fugge via. A Selva di Val Gardena ha 35 secondi su Robic e 1′30″ su Koblet, ma fora a Ponte all'Isarco, venendo così raggiunto. Vince a Bolzano, ma Koblet, in maglia rosa, è con lui.
È l'anno santo e il Giro finisce a Roma. Bartali ha 5′48″ di distacco da Koblet e nove tappe a disposizione per recuperare, ma non ci sono più grandi salite. Koblet evita tutte le insidie e fa suo il Giro con 5′12″ su Bartali. È il primo straniero a vincere. Gianni Brera scrive sulla Gazzetta dello sport un fondo memorabile intitolato Nello sport non ci sono stranieri.
Koblet conferma la sua classe vincendo il Giro della Svizzera; Bartali, invece, cerca riscatto al Tour, inseguendo con ostinazione la terza vittoria. Ha di fronte Bobet, Kübler, Robic. In avvio gli azzurri vincono con Leoni, Corrieri, Magni, per due volte con Alfredo Pasotti, che arriva a 5 secondi soltanto dalla maglia gialla. Queste vittorie a ripetizione, la rivalità con la squadra francese, insieme ai ricordi di guerra, creano un clima di tensione. Il tifo è acceso.
Il 25 luglio 1950 il 'tappone' pirenaico Pau - St.-Gaudens (230 km) regala in avvio il numero a effetto di Robic sull'Aubisque. Bartali si riporta sotto in discesa; passa insieme con Robic, Bobet e Ockers sul Tourmalet; poi c'è l'Aspin. Dietro a Kléber Piot, in fuga, Bartali guida con Robic e Bobet a ruota. Mentre sale la folla si fa sempre più minacciosa: urla ostili, pugni, bastoni. Bartali viene colpito più volte sulla schiena; poi viene fatto cadere e coinvolge Robic nella caduta; si rialza. Insulti e sputi intorno a lui. Non reagisce. Però insiste e vince a St.-Gaudens, bruciando in volata otto compagni di fuga, tra cui Magni, che conquista la maglia gialla con 2′31″ su Kübler e 3′20″ su Bobet.
Bartali, amareggiato, dice al commissario tecnico Binda di voler tornare a casa. Quest'ultimo sente anche gli altri corridori: Magni vuole continuare, ma si trova solo. Binda, allora, in risposta all'aggressione, decide di ritirare le due squadre, A e B. Invano Jacques Goddet, patron del Tour, si reca per due volte nell'hotel degli italiani per farli recedere da questa decisione. Al mattino chiede che almeno Magni, la maglia gialla, con la squadra cadetti, parta. Gli azzurri se ne vanno. Così Kübler vince il Tour. Tredici anni prima anche i belgi, insultati e vilipesi a Bordeaux, avevano lasciato il Tour con Sylvère Maes in maglia gialla.
È il momento dei due K del ciclismo elvetico, Kübler e Koblet. Kübler, soprannominato l'Aquila di Adliswil, è un corridore focoso, aggressivo, temerario; crolla spesso per il troppo ardire. Il tifo lo ama. Koblet, invece, è un purosangue; tutto in lui è armonia e misura, ma la sua audacia in discesa è leggendaria. Kübler ha sei anni più di Koblet e, a 31 anni compiuti, ha fretta di conseguire successi.
Nei primi mesi del 1951 Kübler vince la Liegi-Bastogne-Liegi, la Freccia Vallone e il Giro di Romandia. Poi a Varese brucia Magni e Bevilacqua e diventa campione del mondo. Nel Tour 1955, a 36 anni, attacca ai piedi del Mont Ventoux in una giornata caldissima; poi, vittima di una crisi tremenda, Kübler arriva ad Avignone con 26 minuti di distacco da Bobet.
Se Kübler è la furia, Koblet è lo stile. In Francia lo chiamano Le Pédaleur de charme: trasforma la corsa in sfilata. S'impone al Tour del 1951 con autorità magnifica. Quell'anno Coppi è sconvolto per la morte del fratello Serse, così Koblet vince cinque tappe, dominando le due cronometro. Il 15 luglio 1951, anzi, regala un capolavoro splendido nella Brive-Agen (177 km), un assolo di 135 km che resta per sempre nella leggenda. Solo, contro assi come Coppi, Bartali, Bobet, Raphaël Géminiani, Ockers, Robic coalizzati insieme contro di lui, Koblet riesce a incrementare il vantaggio e ad arrivare al traguardo con 2′35″ sul gruppo.
Coppi ha un sussulto e arriva a Luchon con Koblet, che lo batte in volata. Sembra di nuovo competitivo, ma andando a Montpellier crolla, arriva con 33′33″ di distacco da Koblet e si salva di pochi secondi dal tempo massimo. È irriconoscibile, la tragedia di Serse lo ha distrutto. Però risorge sulle Alpi e arriva solo a Briançon. Koblet vince il Tour, Coppi finisce decimo a 47 minuti.
Il Giro ha trovato un terzo pretendente: Fiorenzo Magni. La guerra lo ha indurito; è stato processato per collaborazionismo, condannato e amnistiato. Soltanto nel 1947 aveva potuto riprendere le corse. Nel 1948 aveva vinto il Giro tra le polemiche con l'aiuto delle spinte.
Sembrava una vittoria caduta dal cielo, irripetibile. Magni però è un passista eccellente, un discesista formidabile e un uomo astuto; la sua audacia è leggendaria. Il 10 aprile 1949 si è presentato solo al Giro delle Fiandre, senza compagni, e ha attaccato a 120 km dal traguardo, arrivando ad avere 3 minuti di vantaggio, è stato ripreso da 16 corridori a 8 km dalla conclusione, ma è riuscito a vincere in volata contro atleti come Schotte, Sterckx, Impanis. L'anno dopo è tornato, è partito a 70 km dal traguardo ed è giunto solo con 2′20″ su Schotte e 9′20″ su Louis Caput. Nel 1951 si ripete ancora, arrivando solo con 5′38″ su Bernard Gauthier. Diventa il Leone delle Fiandre.
Il Giro del 1951 è affollato di nuovi assi. Bobet, che ha vinto la Sanremo, Koblet e Kübler, Van Steenbergen, Schotte e Marcel Kint, tre belgi campioni del mondo. Magni approfitta della situazione, sfrutta gli attacchi dei pretendenti per abili colpi di mano. I grandi si scontrano tra loro, si regalano exploits di giornata. Coppi vince la cronometro più lunga della storia del Giro, Perugia-Terni (81 km), con 1′07″ su Bobet, 1′24″ su Koblet, 2′10″ su Kübler, 5′13″ su Bartali, e, solo in volata, il 'tappone' dolomitico. Bartali fugge a Foggia, dove regala la vittoria al gregario Corrieri. Bobet s'impone a Cortina; Koblet offre un assolo magnifico a St.-Moritz, vincendo con 4′40″ di vantaggio; Van Steenbergen conquista per tre volte la maglia rosa, perdendola però sempre. Anche Magni veste per tre volte la maglia rosa, portandola fino a Milano: vince con 1′46″ sul belga. Coppi è solo quarto, a 4′04″.
Anche il 1951 è un anno triste per Coppi. Il 29 giugno al Giro del Piemonte, a 2 km dal traguardo, a causa delle rotaie del tram cade il fratello Serse. Si rialza, arriva al Motovelodromo di Torino; poi va in albergo dove si sente male. Poche ore dopo muore. Fausto, che lo amava molto, è distrutto per il dolore.
Serse Coppi aveva classe: il 15 agosto 1945 aveva vinto la Milano-Varzi con sette minuti di vantaggio sul fratello Fausto. Erano partiti insieme al Giro del 1947, ma Serse, caduto nella Firenze-Perugia, aveva riportato la frattura esposta di tibia e perone ed era rimasto per quindici mesi assente dalle corse. Il 17 aprile 1949 Serse aveva vinto addirittura la Parigi-Roubaix: si tratta però di una vittoria dimezzata. Quel giorno tre corridori si presentano in testa a Roubaix: i francesi André Mahé e Jacques Moujica e il belga Frans Leenen; ma sbagliano l'ingresso e si ritrovano dietro allo stadio. Nella confusione Moujica cade, gli altri due entrano nel velodromo scalando l'ingresso della tribuna stampa, il più lesto è Mahé, che taglia per primo il traguardo. Serse vince la volata degli inseguitori per il quarto posto. Quando scopre l'accaduto, sporge reclamo: Mahé non ha compiuto l'intero percorso. Il tormentone va avanti per mesi e viene risolto assegnando la vittoria ex aequo a Serse Coppi e Mahé. Serse, però, non decolla. Ama troppo la bella vita, le ragazze. Fuma, gioca a bocce, frequenta i locali notturni. Il sacrificio non fa per lui.
Ancora scosso per il lutto, Coppi è un automa al via del Tour 1951. Porta il casco per rispettare la promessa che ha fatto a mamma Angiolina disperata. Si risveglia nel finale e regala il lampo di Briançon.
La guerra, la prigionia, le cadute, la tragedia di Serse. Coppi viene messo alla prova, ma ha le capacità per reagire e riprende a volare.
Coppi si presenta al Giro del 1952 dopo due anni sofferti. Koblet è il favorito, ma nella seconda tappa perde cinque minuti. Coppi sbaraglia gli assi nella quinta tappa, Roma - Rocca di Papa, 35 km a cronometro. Infligge 1′59″ a Kübler, 2′45″ a Bartali, 2′59″ a Magni, 3′03″ a Koblet. A Venezia conquista la maglia rosa.
Il 29 maggio, nel 'tappone' dolomitico, sul Falzarego, Coppi attacca in maglia rosa. Bartali, ancora una volta, è l'ultimo a cedere. Coppi regala il volo solitario. Passa da solo su Falzarego, Pordoi e Sella e, dopo 75 km di fuga, vince a Bolzano con 5′20″ su Bartali e Magni. Gli stranieri sono sbaragliati. S'impone anche nella Erba-Como, 65 km a cronometro, con 15″ su Koblet e 1′19″ su Astrua. La sua resurrezione è splendida. Coppi vince il Giro dimostrando una superiorità schiacciante: 9′18″ su Magni, 9′24″ su Kübler, 10′33″ su Bartali, 14′38″ su Koblet.
Tre settimane dopo Coppi torna al Tour insieme a Bartali e Magni. Binda riesce a gestire bene quella convivenza difficile. Quando Coppi fora sul Col du Castillon, Bartali gli passa la ruota. Poi, sul Galibier, si assiste al famoso passaggio di borraccia immortalato in una foto storica.
Magni, irriducibile corsaro, conquista la maglia gialla a Metz, nella sesta tappa. Coppi vince la settima, Metz-Nancy, 70 km a cronometro. Il suo gregario Carrea, a Losanna, prova l'emozione di indossare la maglia gialla. Ma il giorno dopo, il 4 luglio 1952, il Tour scopre l'Alpe d'Huez e Coppi onora da par suo questa montagna nuova, arrivando da solo con 1′20″ su Robic e 2′22″ su Ockers, al quale per 5 secondi strappa la maglia di leader.
Dopo un giorno di riposo, il 6 luglio, c'è il 'tappone' alpino Le Bourg d'Oisans-Sestriere (182 km) con Croix-de-Fer, Télégraphe, Galibier, Monginevro e Sestriere. Coppi, motivato da alcuni tentativi di attacco sui primi due colli, si muove sul Galibier e vola via da solo. Allarga il vantaggio sul Monginevro, conquista di slancio il Sestriere e vince con 7′09″ su Bernardo Ruiz e 9′33″ su Ockers. Successivamente sui Pirenei si regala anche il traguardo di Pau. Poi vola invincibile sul Puy de Dôme e si afferma in solitudine a Clermont-Ferrand. Stravince il Tour con 28′27″ su Ockers, 34′38″ su Ruiz, 35′25″ su Bartali. Pochi giorni dopo, però, cade a Perpignan e si frattura la clavicola. Mentre Coppi è in primo piano, sullo sfondo avvengono altre prodezze. Pasquale Fornara domina il Giro della Svizzera, la prima di quattro belle vittorie. Bartali, a 38 anni, torna campione italiano. Sono passati 17 anni dalla sua prima vittoria.
La sfida Coppi-Koblet conosce la sua acme nel Giro del 1953. Coppi vince in volata a Roccaraso, ma Koblet domina la tappa a cronometro di Follonica e conquista la maglia rosa. Coppi si riavvicina a 55″ con la tappa a cronometro a squadre e attende con fiducia le Dolomiti. Ma, sorprendendo tutti, è Koblet, in maglia rosa, ad attaccare nella valle del Piave e a guadagnare ad Auronzo ancora 1′04″ su Coppi. Il giorno dopo, nel 'tappone' dolomitico, Coppi attacca sul Falzarego, solo Koblet e Fornara gli resistono; poi Koblet, discesista spericolato, fugge da solo. Ad Arabba ha 2′15″ su Coppi, Fornara e Volpi. Coppi dimezza il distacco sul Pordoi, poi a 2 km dal passo Sella raggiunge e stacca la maglia rosa. Sul passo ha 1′25″ su Koblet e Fornara, ma Koblet ha l'abilità del falco in discesa. Si butta a capofitto. A 20 km dal traguardo Coppi è raggiunto; Koblet non fa la volata. Coppi vince la tappa e dichiara che il Giro è finito, riconoscendo e assegnando, di fatto, la vittoria al suo avversario. Si parla di armistizio. La corsa però non è finita e il giorno dopo, 1° giugno, c'è la Bolzano-Bormio, penultima tappa, solo 125 km: Koblet ha 1′59″ di vantaggio su Coppi, ma, per la prima volta al Giro, c'è lo Stelvio (2758 m). Coppi invita Nino Defilippis ad attaccare. Defilippis, con giovanile ardore, allunga. Koblet parte all'inseguimento e scatena la bagarre. Coppi, fin lì tranquillo, scatta a 11 km dal passo. Salta Koblet e vola via. La maglia rosa va in crisi. Scollina sesto con un distacco di 4′27″. Gli restano 20 km di discesa per rimontare, rischia, va oltre i limiti e cade per due volte. A 7 km dal traguardo fora. Finisce a 3′28″ da Coppi. Perde la maglia rosa per 1′29″.
Il suo direttore sportivo Guerra parla di tradimento. Koblet toglie il saluto a Coppi, che vince il suo quinto Giro d'Italia. Ma fu tradimento davvero? Davvero Coppi usò Defilippis come pretesto per considerare rotto un patto morale?
Koblet cerca subito riscatto e due settimane dopo stravince il Giro della Svizzera. Dà sei minuti a Schaer nella cronometro. Già leader invulnerabile vince l'ultima tappa con 12′50″ sugli inseguitori. Poi aspetta Coppi al Tour per la rivincita. Coppi però va solo da tifoso sull'Izoard, insieme a Giulia Occhini, a veder passare la corsa; e quel giorno una caduta rovinosa sottrae Koblet al suo momento più sfolgorante.
Il 22 agosto 1948, quando a Valkenburg si era ritirato insieme a Bartali dal Mondiale, Coppi si era fatto una promessa: "Un giorno diventerò campione del mondo". Rientra in scena, il 30 agosto, nel Campionato del Mondo di Lugano. Attacca sulla Crespera, a 85 km dal traguardo. Parte su un tratto di pendenza del 10% con il rapporto 51x11, che sviluppa 5,18 m per pedalata. Solo il belga Germain Derycke gli resiste. L'attacco è così determinato che, dopo pochi chilometri, a Manno, i due fuggitivi hanno già un minuto di vantaggio. Ockers e Varnajo, marcati da Gismondi, tentano una controffensiva. Più indietro si trova il gruppo degli inseguitori con Bobet, Kübler, Defilippis, Fornara, Geminiani, Wagtmans, Gaul. Non c'è nulla da fare. Coppi è irresistibile. A due giri dalla fine, però, ha sempre alla sua ruota l'ombra inquietante di Derycke. Quest'ultimo è la grande speranza del ciclismo belga; è in quel momento, insieme a Rik Van Steenbergen, il corridore belga meglio pagato: 60.000 vecchi franchi al mese. Il 12 aprile, a 23 anni, ha trionfato nella Parigi-Roubaix, bruciando allo sprint Donato Piazza, gregario di Coppi, e l'olandese Wagtmans. Derycke è un tattico, un calcolatore. Ha il vizio di restare passivo a ruota e di bruciare poi gli avversari con il suo sprint finale. Farà così anche il 19 marzo 1955, quando vincerà la Milano-Sanremo davanti a Bernard Gauthier.
Coppi se lo trascina dietro come un peso inerte, ma sa che il suo sprint è pericoloso. Allora al penultimo passaggio sulla Crespera forza e lo lascia. Derycke si arrende subito: a Manno ha già un minuto e mezzo di distacco. Coppi vola e vince in solitudine con vantaggi ingenti: 6′16″ su Derycke, 7′33″ su Ockers e Gismondi. Quinto si piazza Defilippis, davanti a Gaul, a oltre nove minuti, settimo è Kübler, che brucia Bobet e Geminiani, a tredici minuti.
Coppi arriva al traguardo attanagliato dai crampi. Rivela di aver assunto caffeina pura in corsa e di essersi sottoposto, la settimana prima, a una cura di stricnina: si tratta di sostanze stimolanti, a quell'epoca non ancora vietate, che possono avere però anche gravi effetti tossici.
Derycke non tradirà le speranze. Oltre alla Parigi-Roubaix metterà nel suo palmarès classiche come la Freccia Vallone, la Milano-Sanremo, la Liegi-Bastogne-Liegi e il Giro delle Fiandre. Ockers ha già 33 anni. Ha alle spalle una lunga carriera ricca di piazzamenti: si è classificato per due volte sesto al Giro e per due volte secondo al Tour, nel 1950 dietro a Kübler e nel 1952 dietro a Coppi. Ha conosciuto la grande vittoria da pochi mesi, il 2 maggio, quando alla Freccia Vallone ha attaccato sul Mont-Theux, ha raggiunto Defilippis, lo ha staccato sulle Forges ed è arrivato solo a Liegi. Quel successo lo ha fatto entrare in un'altra dimensione.
Dopo Lugano Ockers conoscerà la gloria: rivincerà la Freccia Vallone e il giorno dopo s'imporrà nella Liegi-Bastogne-Liegi. Sarà poi primo nella Challenge Desgrange-Colombo (classifica che tiene conto dei piazzamenti: Giro, Tour, Parigi-Roubaix, Parigi-Bruxelles, Giro delle Fiandre, Giro di Lombardia e Milano-Sanremo) e vincerà per due volte la classifica a punti del Tour. Nel 1956 farà sua anche la Roma-Napoli-Roma. Diventerà, accanto al suo amico Van Steenbergen, protagonista sulla pista. Vincerà anche il Campionato del Mondo su strada il 28 agosto 1955 sul circuito di Frascati. Staccato dagli assi di 10 minuti a 90 km dal termine, partirà all'inseguimento con Bruno Monti e Molinéris, raggiungerà i primi a 30 km dal traguardo e, sull'ultima salita, li staccherà. Arriverà solo con un minuto di vantaggio (quel giorno Derycke salirà di nuovo sul podio, terzo). Ockers sarà ricevuto a palazzo da re Baldovino. Ma la sua parabola è destinata a interrompersi tragicamente: il 29 settembre 1956, in una individuale di 50 km su pista al Palazzo dello sport di Anversa, investirà Sterckx, cadrà e, a 36 anni, perderà la vita per la frattura del cranio.
Cinque giorni dopo il trionfo di Lugano, Coppi incontra Patterson, campione del mondo dell'inseguimento, al Vigorelli e lo piega davanti a un pubblico in visibilio, segnando 6′02,2″. Coppi sembra il miglior ciclista del momento sia su strada sia su pista.
Sul podio di Lugano va anche Giulia Occhini. Bruna, la moglie di Coppi, la vede sullo sfondo della foto della premiazione. S'inquieta. Trova indizi. Scopre prove. E allora si presenta per tre volte al Giro del 1954, per difendere il suo uomo e la sua famiglia. Quell'anno, al Giro, Coppi subisce la vendetta di Koblet, che porta in maglia rosa a Milano il suo gregario Carlo Clerici. Ma dietro le quinte della corsa si sviluppa un gioco di intrighi, imbarazzi, gelosie e coperture. Coppi è protetto dall'omertà del clan. Ma Giulia Occhini è vistosa. Quando riappare a St.-Moritz, in montgomery bianco, Pierre Chany del giornale L'Équipe scrive di una "dame en blanc". Quel giorno nasce la figura della Dama Bianca, certamente più importante per la cronaca rosa e forse per la nera che per quella sportiva, ma tutt'altro che trascurabile per il peso avuto nella vita di un grandissimo campione.
Una settimana dopo la fine del Giro Fausto e Giulia, lasciate le rispettive famiglie, vanno a vivere insieme. Coppi acquista villa Carla a Novi Ligure. Lì la notte tra il 25 e il 26 luglio irrompono i carabinieri con il marito di Giulia, Enrico Locatelli: una scena di sconvolgente imbarazzo per Coppi. Il 9 settembre i carabinieri tornano e arrestano Giulia per adulterio; la portano nel carcere di Alessandria. Giulia è incinta. Dopo quattro giorni viene liberata con foglio di via per il domicilio coatto di Ancona, dove è accolta con disprezzo e polemiche. Ha l'obbligo di presentarsi in questura. Coppi viene privato del passaporto. Eppure riesce ancora a vincere il Giro di Lombardia per la quinta volta. Forse, alla luce della vicenda umana, il suo vero capolavoro.
Subiscono poi un processo penoso: Coppi viene condannato a due mesi per abbandono del tetto coniugale, Giulia Occhini a tre. Alla vigilia del Giro, il 13 maggio 1955, a Buenos Aires nasce Faustino.
Coppi ha la testa altrove, non sembra in condizioni brillanti, ma nella penultima tappa si lascia coinvolgere da Magni in un'avventura vittoriosa. Gastone Nencini è in maglia rosa, quasi sicuro ormai della vittoria finale. Ma a Roncone va via l'irriducibile Magni, terzo in classifica generale; Nencini, insieme a Coppi, si riporta su di lui, ma poi fora; Magni attacca con furore e Coppi, dopo un po', lo spalleggia. Quell'attacco, portato a 160 km dal termine della tappa, va a segno. Coppi taglia per primo il traguardo di San Pellegrino, Magni vince il Giro. Nencini, staccato di 5′37″, piange di rabbia. È l'ultima impresa di Coppi al Giro. Il 18 settembre 1955, al Giro dell'Appennino, Coppi regala il suo ultimo volo solitario.
Gli emigranti: Rossi, Clerici, Cerami
Jules Rossi è italiano, come Garin. Si chiama, in realtà, Giulio e, a differenza del vincitore del primo Tour, non rinuncia alla cittadinanza italiana. Giulio Rossi è nato il 3 novembre 1914 ad Acquanera di Santa Giustina di Boccolo dei Tassi, quattro case nel cuore dell'Appennino, presso Bardi, in provincia di Piacenza. Suo padre muore sul Piave nella Grande Guerra. Così Giulio, a 6 anni, sbarca a Nogent-sur-Seine, in Francia, con il resto della famiglia. Incomincia a gareggiare timidamente a 14 anni. A 18 è già un asso tra i dilettanti. Veste la celebre maglia del Vélo-Club de Levallois: in Italia vince la San Geo e il Circuito del Lario. È un corridore di rara eleganza e di gran classe. Il 28 marzo 1937 si schiera al via della Parigi-Roubaix. Già l'anno precedente aveva lottato a lungo per la vittoria, ma era finito quinto. Nel finale Rossi si trova in testa con sei compagni e moltiplica gli attacchi. Cedono Danneels e Vergili. Resta solo contro quattro fiamminghi. L'arrivo non è più all'Hippodrome des Flandres, ma nell'Avenue Gustave Delory. Giulio Rossi tira in testa negli ultimi 2 km aumentando l'andatura, per impedire gli scatti. È un numero da inseguitore. Hendrickx, Declercq, Van de Pitte, Lievens, nascosti nella sua scia, nemmeno riescono ad accennare il sorpasso. Rossi li stacca dalla ruota a uno a uno. Conquista così, alla trentasettesima edizione, la terza vittoria italiana nella Parigi-Roubaix. Riesce, a 22 anni, dove Girardengo e Binda hanno fallito. Sette anni dopo, nel 1944, Rossi ha già in pugno la sua seconda Parigi-Roubaix, quando viene bruciato all'ultimo metro da Maurice De Simpelaere: un secondo posto amaro.
Rossi è compagno di Bartali nei Tour del 1937 e del 1938. È proprio lui, l'8 luglio 1937, nell'ottava tappa, Grenoble-Briançon, a causare la più famosa caduta di un italiano al Tour: slitta sul bagnato in discesa, mentre comanda un contrattacco, seguito da Bartali in maglia gialla e da Camusso; per evitarlo Bartali vola oltre la spalletta del ponte nelle acque del torrente Colau. Rossi è costretto al ritiro. Bartali si ritira sei giorni dopo. Ma nel 1938 Rossi e Bartali conoscono l'altra faccia della corsa. Rossi, l'11 luglio 1938, vince la tappa di Arcachon, Bartali domina il Tour.
Nel 1938 Rossi è il primo italiano a vincere la Parigi-Tours; nel 1941 è il primo italiano a imporsi nel Gran Premio delle Nazioni a cronometro.
Altri emigranti firmano le prime vittorie italiane nelle classiche straniere. Nel 1948 tocca a Fermo Camellini, un reggiano di Scandiano che aveva portato per quattro giorni la maglia rosa nel Giro del 1946, la prima vittoria italiana nella Freccia Vallone, due anni prima di Coppi. Nel 1965 tocca a Carmine Preziosi, irpino di Sant'Angelo all'Esca, trapiantato a Farciennes in Belgio, la prima affermazione azzurra nella Liegi-Bastogne-Liegi.
Tengono alto il nome dell'Italia in Francia il ciociaro Nello Trogi, detto La Chèvre de l'Estaque; Giuseppe Tacca, novarese di Cavaglio d'Agogna, detto Pierrot; Marinelli, trentino della Val di Non, soprannominato La Perruche ("Il Pappagallo"), che finisce terzo al Tour del 1949, dietro a Coppi e Bartali, dopo aver portato a lungo la maglia gialla. Anche Vietto è figlio di un emigrante piemontese.
Quando il Giro del 1954 parte da Palermo, Carlo Clerici ha appena fatto in tempo a ritornare da Zurigo, dove ha ricevuto la cittadinanza svizzera. Ha 24 anni ed è un gregario di Koblet. A Taormina, traguardo della seconda tappa, che vede il crollo di Coppi avvelenato dalle ostriche, Clerici sfiora il sogno. Poi sul traguardo recrimina per la mancata maglia rosa: era in fuga, ma aveva forato e poi era stato fermato da Guerra per aiutare Koblet.
Il Giro però gli offre altre possibilità. Nel corso della sesta tappa, a Capua, a 224 km dal traguardo di tappa, Clerici entra in una fuga di sette uomini e la corsa gli regala una splendida avventura. Arriva ad avere 35 minuti di vantaggio, vince all'Aquila davanti a Nino Assirelli. Indossa la maglia rosa con quasi 14 minuti su Assirelli, 34 sul suo capitano Koblet, 39 su Coppi. Clerici è un ottimo scalatore ed è competitivo nelle tappe a cronometro: in quella di Riva del Garda perde poco vantaggio, così come sull'Abetone.
Sul Pordoi cede solo 12 secondi a Coppi, sul Campolongo è l'unico a resistergli, ma cade nella discesa su Corvara e Coppi si allontana. Koblet lo raggiunge e lo pilota, ma salendo sul Passo Gardena fora. Clerici sale da solo, l'ammiraglia di Guerra si ferma con il capitano, ma è proprio Koblet a invitare il suo direttore sportivo a raggiungere la maglia rosa. Koblet è grande quel giorno, in pochi chilometri recupera due minuti di distacco, raggiunge la maglia rosa e la guida giù per la Val Gardena. Il vantaggio di Coppi diminuisce. A Bolzano Coppi riprende a Clerici meno di due minuti. Clerici resta saldo sul trono. Nemmeno il Bernina lo fa tremare. Così vince il Giro con 24′16″ su Koblet. Coppi è quarto, giù dal podio. Poi Clerici prova l'assalto al Tour, ma rientra nella sua dimensione: finisce dodicesimo a 56 minuti da Bobet. È terzo al Giro della Svizzera, dietro a Fornara e Kübler. L'avventura da sogno è finita.
Diverso è il percorso di Pino Cerami. È nato il 22 aprile 1922 a Misterbianco, in provincia di Catania. I suoi sono emigrati in Belgio nel 1927. Cerami si rivela al pubblico a 27 anni, accompagnando Coppi in un raid storico nella Freccia Vallone del 1949: quel giorno finisce quarto. Coppi lo nota. Cerami fa il Giro ed è ventiquattresimo, poi veste la maglia azzurra al Tour nella squadra B, capitanata da Magni.
La vittoria gli sfugge al Giro di Lombardia del 1953 per autentica sfortuna: Cerami è in fuga, ma l'errore di un segnalatore all'ultimo chilometro fa sbagliare strada al drappello di testa e Bruno Landi è più pronto di Cerami a correggere la rotta.
Cerami vince due tappe del Giro d'Europa nel 1954. Si era sposato nel 1952 con Claire e nel 1956, dopo 29 anni che vive lì, ottiene la cittadinanza belga. Il 10 aprile 1960 si schiera al via della Parigi-Roubaix. Nel finale attacca con Tino Sabbadini. Rinviene su Tom Simpson in fuga e lo lascia. Sa di essere battuto allo sprint, allora forza: a 2 km dal traguardo anche Sabbadini cede. Cerami, a 38 anni, arriva solo a Roubaix. Fa subito il bis nella Freccia Vallone, staccando tutti sulla salita della Rue d'Assaut. Quell'anno sale sul podio al Campionato del Mondo, terzo, dopo aver aiutato Van Looy a vincere.
Per vent'anni gregario, Cerami sconvolge le gerarchie. Nel 1961 vince in solitudine la Parigi-Bruxelles e s'impone nella Freccia del Brabante e nella Anversa-Ougrée. Finisce secondo nel 1962 nella Freccia Vallone e ancora nel 1963, a 41 anni, nella Liegi-Bastogne-Liegi. Il 1° luglio 1963 vince, scattando a 700 m dal traguardo, la tappa di Pau al Tour. Solo per l'anagrafe è belga.
L'industria ha sempre usato la bicicletta per la promozione pubblicitaria. Nel 1909 Atala, Bianchi, Dei, Labor, Rudge-Withworth, Stucchi ‒ le sei squadre del primo Giro d'Italia ‒ portano il nome di industrie di biciclette. Da mezzo secolo i corridori portano sulla strada i nomi e i marchi di industrie del settore.
Ma nel 1953 Magni ha un'idea: trasformare la bicicletta in veicolo pubblicitario per tutti i prodotti. L'idea è semplice e geniale: moltiplica per mille il ventaglio di sponsor possibili. Tutte le industrie, non soltanto i produttori di biciclette, possono investire nel ciclismo.
L'idea di Magni è dettata da un'urgenza. Nell'autunno del 1953 la Ganna ha rinunciato a mantenere in vita la sua squadra. Magni si rivolge allora al titolare dei Laboratori Cosmochimici, Zimmermann, che produce la crema di bellezza Nivea. Lo convince a fondare il Gruppo sportivo Nivea: il 22 dicembre 1953 la nuova società viene presentata. Con Magni ci sono Baroni, Rossello, Isotti, Salimbeni, Pedroni, Baffi. Il promotore Magni è così impegnato in prima persona che tiene anche la contabilità della squadra. La novità sconvolge. Il presidente dell'UCI Adriano Rodoni è ostile. Magni, però, lavora bene dietro le quinte. Così Rodoni deve accettare le scelte dell'assemblea di Torino, che vota l'apertura agli sponsor, ed è costretto a sostenerla. La federazione internazionale però si oppone. Soprattutto i francesi, che hanno il Tour per squadre nazionali, sono contrari e vietano agli italiani le gare in Francia. Magni non può partecipare alla Parigi-Roubaix. Allora Coppi, campione del mondo in carica, solidale con lui, non si schiera in quella gara. Il braccio di ferro è lungo e duro; Jacques Goddet, patron del Tour, accusa gli italiani di portare il veleno nel ciclismo. I francesi disertano il Giro. Allora, il 20 maggio, da Palermo, dove il giorno dopo prende il via il Giro d'Italia, Rodoni annuncia che non ci sarà una squadra italiana ufficiale al Tour e dichiara: "La nostra partenza è resa impossibile dal nuovo regolamento da voi stabilito che non permette agli atleti di portare scritte pubblicitarie". Il 21 maggio, nel prologo del Giro, ci sono due squadre nuove, la Nivea-Fuchs di Magni e la Doniselli-Lansetina di Bevilacqua e Soldani. La Nivea (cosmetici) e la Lansetina (detersivi) sono le prime industrie non sportive a entrare nel ciclismo. Quelle due squadre non lasciano il segno nella storia dello sport: infatti non vincono nemmeno una tappa. Però aprono la strada. Nel varco, dietro di loro, passerà una valanga. In ottobre l'UCI accetta che i corridori possano partecipare alle gare internazionali con le scritte pubblicitarie consentite da ciascun paese. La novità si diffonde. In Belgio è Van Hauwaert a promuovere l'ingresso degli sponsor, in Francia è Geminiani.
Nel Giro del 1955, con la Nivea Fuchs, che vince la corsa con Magni, ecco la Ignis, la Faema di Koblet, la Leo-Chlorodont di Nencini, che si impone in cinque tappe. Le scritte degli sponsor diventano familiari. E c'è una straordinaria lente che moltiplica l'impatto del messaggio pubblicitario: dal 1954 in corsa c'è la televisione. La forza della comunicazione viene centuplicata. Così le industrie più diverse investono nel ciclismo: elettrodomestici, abbigliamento, elettronica, cosmetici, detersivi, acque minerali, mobili, lubrificanti e carburanti, tessili, aperitivi, macchine per caffè, liquori, materie plastiche, colori e vernici.
Anche la Francia si arrende. Nel Tour del 1956 prendono il via la St.-Raphael di Geminiani, la Helyett-Leroux di Jacques Anquetil, la Mercier BP del campione di Francia Bernard Gauthier. E Roger Walkowiak, un oriundo polacco, vince il Tour portando sulla maglia gialla la scritta St.-Raphael. Jacques Goddet è stato sconfitto.
Molti di questi sponsor lasciano una traccia indelebile nello sport: la Faema di Gaul e Van Looy, la Ignis di Poblet, la Salvarani di Gimondi, la Molteni di Merckx, la Del Tongo di Saronni, la Mercatone Uno di Pantani, la Mapei che domina la scena internazionale negli anni Novanta.
È un ciclismo nuovo, meno romantico, più complesso. La prestazione sportiva è sempre più legata all'immagine e al denaro.
Nel Giro del 1909 non c'è la radio, né la televisione, ma il cinema sì. E poi c'è la stampa. La Gazzetta dello sport, giornale organizzatore, esce tre volte a settimana: un numero costa 5 centesimi, l'abbonamento annuo 7 lire. La notizia è legata alla carta.
Il 5 giugno 1932, dalle gradinate dell'Arena dove finisce il Giro, Nello Corradi dell'EIAR fa la prima radiocronaca parlando per due ore di Binda e Guerra, Gerbi e Pesenti. Anche al Tour, in quell'anno, compare la prima automobile per reportage radio della TSF (Transmission sans fil): i servizi vengono registrati su dischi e portati a Parigi.
Un anno dopo, nel 1933, all'arrivo del Giro c'è una novità per gli atleti: l'intervista ai primi arrivati. Così Binda legge un lungo comunicato scritto e Demuysere parla un po' in francese e un po' in fiammingo. Al Tour del 1935 ci sono quattro servizi al giorno e i motociclisti della TSF seguono la corsa sui colli, garantendo reportages tempestivi e aggiornati. La radio si afferma.
I media subiscono lo sconquasso della guerra. In Francia, per esempio, L'Auto, che aveva continuato a uscire durante l'occupazione tedesca (aveva anche una rubrica con i comunicati degli occupanti), è proibito: la sua proprietà finisce sotto sequestro. All'inizio del 1946 due giornali parigini, Ce Soir e Sports, avevano incominciato a organizzare la Ronde de France in cinque tappe. Il 28 febbraio nasce L'Équipe, che organizza il Petit Tour de France sul percorso da Monaco a Parigi, passando per le Alpi. È proprio L'Équipe, insieme a Le Parisien libéré, a rilanciare il Tour nel 1947 sotto la guida di Goddet.
Nel dopoguerra la radio regna sovrana. Le imprese di Coppi e Bartali esaltano questo mezzo di comunicazione. Nicolò Carosio racconta il volo solitario di Coppi nella Milano-Sanremo. Parole magiche, musicali. Il 10 giugno 1949 Mario Ferretti annuncia la fuga del secolo, nella Cuneo-Pinerolo, con parole che entrano nella leggenda: "Un uomo solo al comando. La sua maglia è biancoceleste. Il suo nome è Fausto Coppi".
Al Giro del 1953, però, fa la comparsa la televisione. La prima diretta si ha alla partenza in piazza Duomo a Milano il 12 maggio 1953. Alla radio c'è 'Giringiro' con Silvio Gigli e il Quartetto Cetra.
Il 3 gennaio 1954 si inaugura il servizio pubblico televisivo. Sette arrivi di tappa vengono trasmessi in diretta, altri sono filmati e messi in onda la sera. Compare, con il ventiduenne Adriano De Zan, la figura del telecronista di ciclismo. In corsa si usano soltanto telecamere fisse. Nella tappa del Bondone del 1956 per la prima volta i punti di ripresa sono due: uno sul traguardo, l'altro a 5 km dall'arrivo. Si coglie il dolore puro degli uomini nella tormenta di neve. Il 31 agosto 1958 ai Campionati del Mondo di Reims compare la telecamera mobile, che riprende la cavalcata gloriosa di Baldini. Da allora le novità tecnologiche si susseguono. L'uso del satellite, la mondovisione, il colore, le riprese dalle motociclette e dall'elicottero, fino alla microtelecamera montata sulla bicicletta di Cipollini nella tappa di Lecce al Giro del 1998.
Il 20 maggio 1962 ha inizio il 'Processo alla tappa', lo conduce Sergio Zavoli. La corsa diventa un grande spettacolo interconnesso; acquista profondità. Dietro alla vittoria o alla sconfitta c'è la vita. L'avvento della televisione incide sulla corsa. La telecamera diventa un secondo traguardo. La battaglia in corsa ha inizio con la diretta. L'immagine quasi prevale sulla realtà. E questo cambia il corridore: ora, insieme alle capacità atletiche e al coraggio, conta anche la sintassi, oppure il sorriso, o la vis polemica. I corridori hanno un volto. Recitano davanti a una platea di milioni di telespettatori.
Arendonk, nella Campine belga, il territorio alla frontiera olandese, con le case di mattoni rossi e i canali: Rik Van Steenbergen nasce lì, il 15 settembre 1924. Il suo idolo è Karel Kaers, l'uomo che ha bruciato Guerra nel Mondiale di Lipsia del 1934. A 18 anni Rik diventa professionista proprio per disputare una gara all'americana (cioè a squadre composte di coppie di concorrenti che si alternano in corsa ogni 2-3 giri) con Kaers al Vel d'Hiv di Bruxelles. Diventa subito campione del Belgio su strada. A 19 anni vince il Giro delle Fiandre. S'impone anche nei velodromi. È potente e velocissimo. Un gigante: 1,86 m per 83 kg. Il 1° settembre 1946 fa un'entrata catastrofica nel primo Campionato del Mondo del dopoguerra a Zurigo. Mentre è in fuga con il connazionale Marcel Kint, campione del mondo del 1938, e con il semisconosciuto svizzero Hans Knecht, cede per crampi: vince Knecht, Van Steenbergen finisce terzo, staccato.
Rik preferisce la pista alla strada: è un re delle Sei giorni. Quando gli ingaggi calano, si ripresenta su strada. Il 4 aprile 1948 si schiera alla Parigi-Roubaix. A Hem, a 6 km dal traguardo, tre uomini sono in testa: Émile Idée, campione di Francia, Magni e Verschueren. Van Steenbergen guida l'inseguimento, ricongiungendosi al terzetto tra le prime case di Roubaix. Lì Idée, temendo lo sprint di Rik, attacca, ma Van Steenbergen resta alla sua ruota e lo batte con facilità.
Quattro anni dopo, il 13 aprile 1952, Van Steenbergen fa il bis con quella che ritiene la più bella vittoria della carriera. Fausto Coppi attacca a Courrières; solo due uomini gli resistono: Kübler e Dupont. Van Steenbergen, staccato di 50 secondi, recupera sul pavé di Lesquin con un allungo spettacolare di 5 km e si ricongiunge ai primi, ma Coppi si allontana di nuovo. Solo Van Steenbergen gli resiste. Coppi moltiplica gli attacchi sulla Côte de Hem, ma Van Steenbergen con uno sforzo enorme lo tiene e lo batte di dieci metri allo sprint. "Sono fiero di essere l'unico corridore capace di riprendere Coppi in fuga", dichiarerà poi. Non è questo il primo dolore che Van Steenbergen infligge a Coppi. Lo aveva già battuto nella Freccia Vallone del 1949 e il 21 agosto dello stesso anno aveva preceduto Kübler e Coppi a Copenaghen, dove aveva indossato la sua prima maglia di campione del mondo. Van Steenbergen è il primo a uguagliare la tripletta iridata di Binda con due prepotenti volate su Van Looy a Copenaghen 1956 e su Bobet e Darrigade a Waregem 1957.
Il 19 maggio 1954 vince, senza saperlo, la Milano-Sanremo. Non si accorge che Filippi e Rémy sono stati ripresi a 1200 m dall'arrivo. Domina la volata del gruppo ed è convinto di essere terzo: scopre poi di essere il vincitore. Solo la montagna gli è nemica: ha un fisico troppo pesante e patisce le salite.
Van Steenbergen sa però anche vincere per distacco, come nella Freccia Vallone del 1958. Nelle gare a tappe, vince il Giro d'Argentina nel 1952 e sfiora la vittoria nel Giro del 1951, giungendo secondo a 1′46″ da Magni, ma davanti a Coppi. Indossa la maglia di Girardengo, primo segno di una grande emigrazione degli assi belgi nelle squadre italiane.
Nelle grandi corse si aggiudica 25 tappe: 15 al Giro d'Italia, 4 al Tour, 6 alla Vuelta. Per quattro volte conquista la maglia rosa, portandola per otto tappe. Ma veste anche la maglia gialla e quella amarillo.
Su pista vanta 13 titoli nazionali, 40 Sei giorni, oltre mille vittorie, che aggiunge a 338 successi su strada: 3 campionati del mondo, 2 Parigi-Roubaix, 2 Giri delle Fiandre, 2 Freccia Vallone, la Milano-Sanremo, la Parigi-Bruxelles e 3 titoli di campione nazionale. Le sue volate con Poblet e la sua rivalità con Van Looy sono entrate nella leggenda.
Quando Angelo Conterno, nel 1956, vince la Vuelta, l'Italia scopre il ciclismo iberico. È una forza nuova che cresce, destinata a essere protagonista alla fine del secolo.
Gli spagnoli preferiscono ancora la corrida, scoprono tardi la bicicletta. Il loro primo asso è Vicente Trueba, alto 1,54 m, soprannominato la Pulce dei Pirenei. Trueba è uno scalatore agile e leggero e vince nel 1933 il primo Gran Premio della Montagna al Tour passando in testa su undici colli; non è altrettanto dotato come discesista, così non riesce a vincere una sola tappa nei grandi giri.
Quando la Vuelta nasce, nel 1935, subito diventa terreno di conquista: s'impone il belga Gustave Deloor. Edoardo Molinar, il 14 maggio 1935, a Zamora ottiene la prima vittoria di tappa italiana della storia. La Vuelta resta a lungo una corsa marginale. S'interrompe prima per la guerra civile, poi per la guerra mondiale. Solo negli anni Cinquanta decolla, quando il ciclismo spagnolo riesce a esprimere i primi campioni: Bernardo Ruiz, Jesús Loroño, Miguel Poblet, Federico Martín Bahamontes, Antonio Suárez.
Bernardo Ruiz, vincitore della Vuelta nel 1948, il 24 maggio 1955, a Frascati, ottiene la prima vittoria di tappa spagnola al Giro. Nel 1952 era stato il primo spagnolo a salire sul podio finale al Tour, terzo, dietro a Coppi e Ockers. Nel 1961 Antonio Suárez, terzo dietro ad Arnaldo Pambianco e Anquetil, è il primo spagnolo a salire sul podio del Giro. Jesús Loroño, vincitore della Vuelta nel 1957, è un guerriero orgoglioso, capace di farsi valere in montagna, ma con un brutto carattere. Miguel Poblet, invece, è un corridore straordinario. Quando compare al Giro del 1956 vince subito quattro tappe. Il suo sprint è folgorante. L'anno dopo vince altre quattro tappe, rivaleggiando in volata con Van Steenbergen, ed è capace di arrivare solo sul monte Bondone.
In sei Giri d'Italia consecutivi Poblet vince venti tappe e, ogni anno, mai meno di tre. Nella Milano-Sanremo compie due capolavori: il 19 marzo 1957 arriva con cinque compagni di fuga e supera Fred De Bruyne negli ultimi metri. Il 19 marzo 1959, invece, un plotone di 91 corridori si avventa sul traguardo: è la volata più affollata di sempre. Ci sono velocisti formidabili come Van Steenbergen, Van Looy, Darrigade, Vannitsen, Van Daele, ma il piccolo Poblet, astuto e micidiale, riesce a sorpassarli tutti con uno sprint capolavoro.
Bahamontes, detto l'Aquila di Toledo, è un grimpeur da sogno, capace di vincere il Gran Premio della Montagna al Tour, al Giro e alla Vuelta. Mentre sale è elegante e irresistibile; ma, come Trueba, la discesa lo respinge e sul passo è mediocre. Fallisce l'assalto al Giro, ma nel 1959 gli riesce un colpo incredibile: il Tour.
La vittoria di Conterno nel 1956 matura in questo orizzonte di risveglio, di entusiasmi nuovi per il ciclismo. Conterno, soprannominato Penna bianca, non è tra i favoriti. Vince però la seconda tappa a Oviedo e conquista la maglia amarillo. Poi la difende con abilità fino alla fine. Nelle ultime tre tappe Conterno ha la broncopolmonite; i compagni lo spingono sulle salite: i tifosi lanciano sputi contro la maglia amarillo, che viene penalizzata. Gli italiani chiedono l'aiuto dei belgi, che Van Steenbergen accorda. Alla fine Conterno vince la Vuelta con 13 secondi su Loroño. Si lascia alle spalle Impanis, Bahamontes, Van Steenbergen. Saranno soltanto tre gli italiani capaci di imitarlo: Gimondi nel 1968, Battaglin nel 1981, Giovannetti nel 1990.
Mentre Bartali si ritira e Coppi va incontro al crepuscolo, nuovi talenti sbocciano: uno specialista delle cronometro, Anquetil; un velocista formidabile, Van Looy; due spagnoli dall'aspetto insolito, Poblet e Martín, che assume il soprannome di Bahamontes; uno scalatore da brivido, Charly Gaul, detto l'Angelo della montagna.
Gaul, 23 anni, si presenta al Giro del 1956 già circondato dalla leggenda: l'anno prima al Tour aveva vinto con 14 minuti di vantaggio il 'tappone' del Galibier. Prima vince per distacco a Campobasso, poi batte Bahamontes nella cronoscalata di San Luca. Ma, a tre tappe dalla fine, è ventiquattresimo, staccato di 16′05″ in una classifica compressa, in cui Cleto Maule è a 9″ dalla maglia rosa Fornara. È il 6 giugno 1956, giorno del 'tappone' dolomitico: Merano-Trento/Bondone. Le condizioni meteorologiche sono quasi proibitive. Gaul passa primo sul Costalunga, sul Rolle, sul Brocon. Ha i freni rotti, così in discesa è raggiunto e staccato. In Valsugana Gaul avanza e riconquista la testa. Passa solo a Trento. Sale sul Bondone nella tempesta di neve. Vince una tappa epica, la più micidiale della storia del Giro, con 7′44″ su Alessandro Fantini e 12′15″ su Magni. Conquista la maglia rosa e vince il Giro con un capovolgimento sensazionale. Invano Magni, secondo a 3′27″, lo attacca nella penultima tappa, cercando di ripetere il colpo dell'anno prima: finisce battuto a Milano, ma ha corso per 13 tappe con la clavicola fratturata, eroicamente. Una prova grandiosa.
Il Giro è un obiettivo difficile da conseguire. Bobet ha vinto tre Tour di fila nel triennio 1953-55, ma il Giro resta per lui stregato anche nel 1957: per tre volte conquista la maglia rosa e sempre la perde. Paga a caro prezzo la rivalità con Gaul, che regala episodi stupendi.
Il 6 giugno 1957 Gaul pedala in maglia rosa verso il monte Bondone. All'altezza di Ospitaletto Bobet e Geminiani lo attaccano e Gaul deve impegnarsi nell'inseguimento. Quando arriva alla sua montagna con oltre 4 minuti di distacco, si arrende. Poblet, invece, desta sensazione arrivando solo sul Bondone, con 1′26″ su Ercole Baldini e Bobet. Quel giorno Nencini veste la maglia rosa, ma Bobet gli è subito dietro, a 19″ soltanto, e programma l'attacco sulle Dolomiti. Approfittando anche delle tre forature di Nencini nella discesa del Rolle, i francesi attaccano. Ma è proprio Gaul a riportare la maglia rosa su Bobet. Gaul perfeziona la vendetta, vincendo la tappa davanti a Geminiani e allo stesso Bobet. Nencini vince così, grazie all'aiuto di Gaul, quel Giro che meritava. Il Tour, invece, vede l'affermazione prepotente di Anquetil: anche il regno di Bobet è finito.
Il 16 luglio 1958 Gaul regala un'altra impresa al Tour. Al via della ventunesima tappa, che prevede quattro passi ‒ Luitel, Col de Porte, Cucheron, Granier ‒ è staccato in classifica di 16′03″. Il suo attacco è sconvolgente. Gaul arriva ad Aix-les-Bains con 7′50″ su Jan Adriaenssens, 10′09″ su Vito Favero, che riconquista la maglia gialla (già vestita sui Pirenei), 14′35″ sul leader della corsa Geminiani, 20′01″ su Nencini e Bobet, 23′14″ su Anquetil. Due giorni dopo, nella penultima tappa, la cronometro Besançon-Digione, strappa a Favero la maglia gialla e vince il Tour.
Gaul alimenta la sua leggenda nel Giro del 1959. A due tappe dalla fine è a 3′36″ dalla maglia rosa Anquetil, ma il 6 giugno va all'attacco sotto la pioggia sull'ultimo colle del Giro, il Piccolo San Bernardo. Solo Anquetil gli risponde, resistendogli a lungo. Poi, a 4 km dal passo, crolla. Gaul gli infligge 6′10″, poi incrementa il vantaggio in discesa. Arriva a Courmayeur con 9′48″ su Anquetil. Vince il suo secondo Giro con un nuovo clamoroso capovolgimento.
Se Gaul è l'Angelo della montagna, Federico Martín, detto Bahamontes, è l'Aquila. Conosce un solo terreno: la salita, mentre si trova male in pianura e in discesa. Bahamontes è nato nel cuore della Nuova Castiglia, a Toledo, l'11 luglio 1929. Conserva nel portamento altero l'impronta moresca e medievale della sua città. È cresciuto portando pacchi in bicicletta per le strade di Toledo, che è arroccata sulla collina. Impara subito a scalare.
Quando si presenta al Tour a 25 anni, nel 1954, dà spettacolo sui Pirenei: passa primo su Aubisque e Tourmalet. Continua lo show sulle Alpi: è primo anche sul Galibier. Vince subito il Gran Premio della Montagna. Gli spagnoli lo chiamano El Águila de Toledo, ma anche El Picador o, ancora, Saltamontes.
Bahamontes accende la fantasia. Ha il busto del torero, ma solo i monti gli interessano. Una volta compiuta la sua missione, si rilassa. Nel Tour d'esordio, per esempio, passa primo e solo sul Col de Romeyère, nel Vercors, poi, con la scusa di un freno rotto, si ferma, compra un gelato e aspetta l'ammiraglia.
Già il 28 aprile 1957 a Mieres scopre il sapore della vittoria, quando indossa la maglia amarillo alla Vuelta. Ma al Tour si esibisce in un ritiro tragicomico proprio alla vigilia dell'ingresso della corsa in Spagna. Puig, responsabile della squadra, lo insulta con tutto il ricco vocabolario della lingua spagnola. I suoi compagni lo pregano. Tutto risulta inutile.
Il 21 maggio 1958, staccando Gaul di 27″ sulla collina di Superga, si impone nella quarta tappa del Giro. E, nel Tour 1958, arriva solo a Luchon e Briançon. Trovata la strada per la vittoria, Bahamontes diventa più intraprendente.
Nel Tour 1959 approfitta dei contrasti tra i francesi, in particolare tra i nazionali e Henri Anglade, detto Napoléon, che gareggia con il Centre-Midi; e, soprattutto, della rivalità che, in seno alla squadra tricolore, divide Anquetil e Roger Rivière. In quel Tour Bahamontes sfiora la maglia gialla, mancandola per 4 secondi, nella quindicesima tappa sul Puy de Dôme, dove vince la cronoscalata con 1′26″ su Gaul, 3′00″ su Anglade e 3′37″ su Rivière. La indossa nella diciassettesima tappa a Grenoble, arrivando insieme a Gaul con 3′42″ sugli assi francesi inerti. Il giorno dopo si arriva in Valle d'Aosta, a St.-Vincent, e Bahamontes, in maglia gialla, poco competitivo come discesista, scendendo in Val d'Isère viene lasciato a cinque minuti; eppure Rivière e Anquetil si guardano e permettono il suo successivo recupero. Così Bahamontes può anche perdere sei minuti nell'ultima cronometro e vincere il Tour davanti ad Anglade, Anquetil e Rivière. È il primo spagnolo a imporsi al Tour.
In montagna Bahamontes regala numeri memorabili, la sua danza è puro spettacolo. Sulle salite vince undici tappe nei grandi giri. Lega il suo nome alle montagne: passa per primo 4 volte sull'Aubisque e sul Tourmalet, 2 volte sull'Izoard e sul Galibier; vince per sei volte il Gran Premio della Montagna al Tour. È il rappresentante di una Spagna arcaica e fiera, che ha ancora il gusto della prodezza.
Il Giro del 1958 regala un protagonista stupefacente: Ercole Baldini. Un contadino aristocratico, con un concetto alto del fair play, dotato anche di vis polemica. In bicicletta dà lezione di stile. Il 29 ottobre 1955 Baldini entra nel Vigorelli, il tempio della pista. Ha 22 anni e vuole battere il record dell'ora dilettanti. Si lancia ma fora quando, dopo 19 giri, ha trovato il ritmo. Non si scoraggia. Torna sulla linea di partenza e ricomincia. Dopo 27 giri fora di nuovo. È amareggiato e scoraggiato, ma il giorno dopo, 30 ottobre, riprova. Pedala sicuro, sfiora i sacchetti di sabbia, vola a ritmo di record. Alla fine copre 44.870,92 m, nuovo record mondiale dell'ora dilettanti. Il Vigorelli, 13 anni prima, aveva visto il record di Coppi e un anno dopo, al termine del Giro di Lombardia, vedrà anche la sua ultima vittoria in una classica. Il campione Baldini nasce in una grande culla.
Baldini è di Villanova di Forlì. Viene alla luce il 26 gennaio 1933. Riceve il nome del nonno, che si spegne a quattro giorni dalla sua nascita. Ercole conosce la guerra da bambino. Le bombe americane cadono sulla ferrovia Bologna-Ancona. Quando viene sfondata la Linea gotica, la sua terra diventa zona di guerra. Mamma Angela è sfollata a Castiglione con i tre bimbi più piccoli, tra cui Ercole. Papà Romeo sta a Villanova con i tre più grandi. Uno di loro, Riziero, viene ucciso da una granata americana il 14 novembre 1944 e mamma Angela, con i suoi piccoli, attraversa le linee per vederlo un'ultima volta. Ercole abita in una cascina con dieci ettari di terra.
Il 29 agosto 1956 a Ordrup, nella finale dell'inseguimento del Campionato del Mondo, trova Leandro Faggin, un veneto di grande tempra, che due anni prima ha già vestito la maglia iridata a Colonia. Baldini è in un momento delicato, conteso tra pista e strada, dove pure si trova bene: ha vinto, per due volte, il Giro della Svizzera meridionale, è reduce da un brillante successo nel Gran Premio internazionale dell'Isola di Man. I due commissari tecnici azzurri Costa e Proietti pensano a lui per il mondiale, il primo per la pista, l'altro per la strada. Entrambi lo convocano. Nasce una polemica che lascia Baldini un po' spaesato. Costa prevale per Ordrup; Proietti, invece, avrà Baldini per la strada all'Olimpiade. Il giorno della finale Costa regge Faggin, Proietti Baldini. Al colpo di pistola Baldini conquista un buon vantaggio. Quando fora, dopo 1225 m, Faggin è in leggera rimonta. Si riparte dalle posizioni acquisite, con Baldini avanti di venti metri. Al nuovo via Faggin in due giri annulla lo svantaggio, ma la reazione di Baldini non gli dà scampo: il romagnolo vince in 5′04,8″ contro 5′06,6″.
Il 19 settembre, da dilettante, torna al Vigorelli in maglia iridata. L'obiettivo è addirittura il record assoluto dell'ora che il 29 giugno, su quella stessa pista, il ventiduenne Anquetil aveva strappato a Coppi rompendo il muro dei 46 km con 46,159 km. Quindicimila tifosi gremiscono il velodromo. Baldini usa una bicicletta di 6,45 kg, con pedivelle da 17,5 cm e ruote a 32 raggi, e monta il rapporto 53x15. Alle 17,47 il colpo di pistola. Il giorno dopo l'editoriale della Gazzetta dello sport è titolato "Prodigio al Vigorelli". Baldini ha percorso 46,393 km. Da dilettante ha battuto il record dell'ora assoluto, migliorandolo di 234 m. Orio Vergani lo paragona a Ribot, il cavallo invincibile.
Dalla pista alla strada. Nei due mesi che lo separano dai giochi olimpici Baldini vince cinque corse, tra cui la Milano-Bologna. Il 7 dicembre è a Melbourne in maglia azzurra con Bruni, Cestari e Pambianco. È quest'ultimo ad aprirgli la strada. Poi Baldini, con un assolo di 35 km, vince l'oro olimpico su strada con 1′59″ di vantaggio. Sono gli emigranti a intonare a piena gola l'inno di Mameli.
Baldini è conteso dopo quel 1956 da favola. Pavesi lo ingaggia alla Legnano. Il 30 maggio 1957, al Giro d'Italia, Baldini ottiene il primo successo da professionista nella cronometro di Forte dei Marmi. È un passista formidabile. Un treno irresistibile, quando la strada è piana e rettilinea.
Nell'anno d'esordio Baldini si laurea campione d'Italia, vincendo due delle cinque prove previste: il Giro di Romagna e il Giro del Lazio a cronometro. Il 4 novembre 1957 regala a Coppi l'ultima vittoria della carriera nel Trofeo Baracchi, corsa a cronometro a coppie di 108 km. Quel giorno, a 30 km dal traguardo, Baldini fora e Coppi, in difficoltà a tenerne il passo, continua per tirare il fiato: il pubblico, convinto che sia stato Baldini a non reggere il ritmo del Campionissimo, lo insulta. Ma Baldini rientra e trascina Coppi. Alla fine la coppia Baldini-Coppi vince per 5 secondi soltanto.
Nel 1958 Baldini sorprende al Giro d'Italia. Vince 4 tappe. Il 19 maggio nella tappa a cronometro Varese-Comerio lascia Poblet a oltre un minuto e indossa la maglia rosa. Il 26 maggio si aggiudica la frazione a cronometro di Viareggio (59 km) a 46 km/h di media e manda fuori tempo massimo 60 corridori. Il 2 giugno stacca Gaul, che ama le forti pendenze, sulla salita di Boscochiesanuova. Il 5 giugno, in maglia rosa, è primo a Bolzano nel 'tappone' dolomitico, che prevede Pordoi, Campolongo e Gardena. Vince il Giro con 4′17″ sul belga Jean Brankart e si lascia alle spalle Gaul, Bobet, Nencini, Poblet, oltre a Coppi, trentaduesimo.
Binda lo seleziona per il Mondiale di Reims: 14 giri sul circuito di Gueux, che misura 19,771 km, per un totale di 276,794 km. Quel giorno, 31 agosto, Bobet, Nencini e l'olandese Voorting vanno in fuga al secondo giro e Baldini, sollecitato da Coppi, li raggiunge. Mancano 247 km al traguardo. Il sogno fiorisce. Invano Van Looy lancia la sua offensiva a metà corsa. Riesce solo ad avvicinarsi. Quando cede Voorting, Bobet e i due azzurri si impegnano allo spasimo. Le tirate di Baldini schiantano, così Nencini e Bobet cedono. Baldini resta solo a circa 50 km dall'arrivo. "Alla morte ragazzo" è il messaggio che Binda gli mostra con un cartello di fortuna. Baldini vince, al termine di una fuga da leggenda: 247 km, di cui 50 da solo.
In maglia iridata Baldini diventa nuovamente campione italiano, poi rivince il Baracchi in coppia con Aldo Moser. Per Baldini sono quattro anni da favola. Nessuno è mai riuscito a mettere insieme l'oro olimpico, la maglia rosa, il record dell'ora, la maglia iridata su pista e su strada.
Poi la stella di Baldini esaurisce progressivamente il suo splendore. Regala solo lampi di luce, soprattutto nelle gare a cronometro. Vince il Gran Premio delle Nazioni con 4 minuti sul secondo classificato, s'impone nella tappa di St.-Vincent al Tour del 1959; nelle sfide contro il tempo è il grande antagonista di Anquetil, gli infligge cinque sconfitte: quattro sul terreno amico di Forlì e Castrocaro Terme (su 90,5 km lo lascia a cinque minuti nel 1958 e a un minuto nel 1959; su 86,5 km lo stacca di tre minuti nel 1962 e di due minuti e mezzo nel 1963), una a Nantes, al Tour 1959, dove però viene battuto da Rivière. Sui rettilinei, dove può sprigionare tutta la sua potenza, è più forte di Anquetil. Passa alla storia come il Direttissimo di Forlì.
Il 18 giugno 1958 un italiano, Pasquale Fornara, vince il Giro della Svizzera per la quarta volta. Un record ineguagliato. Fornara è di Borgomanero. È un corridore completo, capace di salire sul podio al Giro e alla Vuelta e di sfiorarlo al Tour, eccellente nelle tappe a cronometro, si difende molto bene in montagna. Realizza il suo 'poker' nel momento in cui il ciclismo svizzero raggiunge la sua acme.
Il Giro della Svizzera è nato nel 1933. La Svizzera aveva già avuto corridori importanti. Lucien Lesna, uno dei grandi pionieri, vincitore di due Parigi-Roubaix, è nato a Le Locle. Era stato uno svizzero, Charles Laeser, di Ginevra, campione nazionale di mezzofondo, il primo straniero a vincere una tappa del Tour de France nel 1903. Il grande Oscar Egg, uno dei più eclettici campioni della storia, formidabile su pista e su strada, aveva destato sensazione con i suoi tre favolosi record dell'ora ‒ l'ultimo aveva resistito per 19 anni ‒ ma aveva vinto anche la Parigi-Tours, la Milano-Torino e Le Bol d'or.
Negli anni Venti Heiri Suter, ultimo di quattro fratelli corridori, si era imposto nel 1923 nella Parigi-Roubaix e nel Giro delle Fiandre, primo a realizzare la doppietta, ma anche nella Bordeaux-Parigi, nella Parigi-Tours per due volte, e nel Gran Premio Wolber.
Il primo Giro della Svizzera si svolge dal 28 agosto al 2 settembre 1933: cinque tappe per 1253 km. Si parte e si arriva a Zurigo. Tra i 60 partenti vi sono corridori di fama come Nicolas Frantz, vincitore di due Tour; Jean Aerts, campione del mondo dilettanti e vincitore del Giro del Belgio; Vicente Trueba, dominatore del primo Gran Premio della Montagna al Tour; il giovane Olmo; Hermann Buse, il primo straniero ad aver indossato la maglia rosa. Ma è un italiano, Luigi Macchi, un gregario di Binda, a firmare con la vittoria la prima tappa della storia del Giro della Svizzera: arriva da solo a Davos con 2′28″ sull'austriaco Max Bulla. Questi, il giorno dopo, s'impone a Lucerna e diventa leader. Vince anche a Ginevra e domina. Nella classifica finale è primo con 9′01″ sullo svizzero Albert Buchi.
Bulla, viennese, si era rivelato al Tour del 1930, cui aveva partecipato come touriste-routier, vincendo tre tappe. Quando l'Austria sarà annessa alla Germania si ritirerà dalle corse, ma ricomparirà a 40 anni dopo la fine della guerra.
Primo italiano a vincere il Giro della Svizzera è Giovanni Valetti nel 1938. Valetti, vincitore del Giro d'Italia, lascia sfogare il lussemburghese Arsène Mersch nelle prime due tappe, poi vince a Bellinzona con 35″ su Robert Zimmermann e 4′34″ su Del Cancia. Il giorno dopo, a Siders, lascia il secondo, Leo Amberg, a 3′15″ e diventa leader della classifica. Alla fine trionfa con 12′49″ su Mersch e 16′20″ su Canavesi. Kübler s'impone a 23 anni, nel 1942, tempo di guerra. Bartali è il primo a realizzare la doppietta: vince nel 1946 e nel 1947 di prepotenza portando per due volte la maglia di leader dall'inizio alla fine. Una superiorità schiacciante, una dimostrazione di forza senza uguali. Nelle due edizioni Bartali vince sei tappe, oltre al Gran Premio della Montagna. Nel Giro del 1947 non ha di fronte comprimari, ma campioni come Coppi, Koblet, Kübler, Ockers, eppure li travolge: in classifica generale lascia il secondo, Bresci, a 21′16″, mentre Coppi è quinto a 40′06″.
È il momento d'oro per questa corsa stupenda, che si svolge tra montagne e paesaggi eleganti. In quegli anni Kübler e Koblet, per tre volte ciascuno, accendono il tifo con grandi vittorie. È proprio in questo periodo che si fa luce Pasquale Fornara, un corridore completo, che qui dà la misura della sua forza. Nel 1952 infligge al campione del mondo Kübler 3′41″ nella tappa a cronometro di Crans Montana, poi arriva da solo ad Arosa. Vince la classifica finale con 4′57″ su Kübler.
Fornara fa il bis nel 1954. S'impone nella classifica finale con 2′54″ su Agostino Coletto. Mentre Coppi, vincitore di due tappe ‒ in quella a cronometro Lecco-Lugano, di 98 km, infligge 5 minuti a Fornara e 8 a Coletto ‒ finisce quinto a 5′32″. Fornara vince ancora nel 1957 sul belga Sorgeloos e nel 1958, dopo una bella lotta con Defilippis, con 7 minuti sul tedesco Junkermann. Il suo 'poker' resta nella storia. Solamente Fornara ha vinto il Giro della Svizzera per quattro volte: i grandi del ciclismo svizzero, Kübler e Koblet, si sono fermati a tre.
Altri italiani firmeranno con il loro nome questa corsa: Giuseppe Fezzardi (1963), Franco Bitossi (1965), Ambrogio Portalupi (che s'imporrà a 22 anni nel 1966, il più giovane vincitore della storia), Gianni Motta (1967), Vittorio Adorni (1969), Roberto Poggiali (1970), Mario Beccia (1980), Giuseppe Saronni (1982), Giorgio Furlan (1992), Marco Saligari (1993), Stefano Garzelli (1998), Francesco Casagrande (1999). Tra i grandi vincitori figureranno anche Merckx e Roger De Vlaeminck, Fuente e Kelly, Hampsten e Armstrong, Vinokurov e Ullrich.
Il 14 luglio 1959 la Francia festeggia l'anniversario della presa della Bastiglia. Al Tour si corre la diciottesima tappa, Grenoble-Aosta (243 km), tra grandi montagne. Piove nelle valli, fa freddo in quota. Bobet, ormai staccato e vinto, vuole arrendersi con un ultimo gesto d'onore. Sale solo, in retroguardia, sulla cima dell'Iseran e lì, a 2770 m di quota, scende dalla bicicletta.
Louis Bobet è nato il 12 marzo 1925 a St.-Méen-le-Grand. Dall'età di dieci anni fa il garzone di panettiere e pedala per consegnare chili di pane nel raggio di diversi chilometri. Un esercizio quotidiano. A 12 anni monta sulla prima bicicletta da corsa. All'età di 14 anni vede il Tour e scopre Jean Fontenay in maglia gialla. Poi viene la guerra. Nel Tour successivo, otto anni dopo (1947), Bobet è schierato al via, con il numero 41, accanto a Schotte e Vietto, Robic e Kübler. L'11 agosto 1946 era diventato campione di Francia dei dilettanti sulla pista di Vincennes e, nel 1947, si era rivelato in una classica francese, Les Boucles de la Seine, arrivando solo con 6 minuti di vantaggio su Teisseire, dopo una fuga di 70 km. Il giovane Louis finisce il suo primo Tour alla nona tappa.
L'anno dopo riprova e, nella terza tappa, a Nantes, conquista la maglia gialla. La perde subito e la riconquista a Biarritz. Poi, sui Pirenei, quando si scatena Bartali, che vince a Lourdes e Tolosa, Bobet resiste bene. Esce dai Pirenei in maglia gialla con 9 minuti di vantaggio. Ogni giorno c'è battaglia. Bobet l'alimenta da par suo. Attacca sul Col de Turini in maglia gialla e vince a Cannes. La Francia si entusiasma. Ma davanti alla sua ruota compaiono le Alpi. Alla partenza della tredicesima tappa Bobet ha 2′29″ su Lambrecht e 14′06″ su Impanis, due belgi, mentre Bartali è staccato di 21′28″. Un abisso. Ma Bartali è l'Homme de fer e lì decide la sua rimonta: Bobet entra in crisi sul Vars e sull'Izoard, sotto una pioggia gelida, perde 18 minuti, ma a Briançon conserva ancora la maglia gialla. Bartali prosegue la sua offensiva il giorno dopo, nell'ennesima tappa in condizioni climatiche difficili. Bobet cerca di tenerlo, con uno sforzo sovrumano, ma Bartali fugge via sul Col de Porte, vola su Cucheron e Granier: Bobet perde 7 minuti e lascia la maglia gialla. È spossato. Viene staccato ancora a Losanna, dove Bartali festeggia i 34 anni con la terza consecutiva vittoria in solitudine. Bobet è secondo, ormai vinto e forse demotivato: il 19 luglio 1948, mentre il Tour pedala verso il nord i belgi, che hanno Schotte terzo, attaccano Bobet. L'ultima salita del Tour è la Vue des Alpes. Lì Bobet scivola indietro. Toni Bevilacqua ne intuisce il calvario. È un contadino veneto che conosce il dolore. Gli azzurri hanno combattuto per due settimane contro i francesi, sono stati irrisi mentre Bobet per nove giorni ha portato la maglia gialla, sono stati insultati sulle montagne. Bevilacqua dimentica insulti e derisioni, vede l'uomo che soffre e lo aiuta. Bobet, scalzato dal podio, finisce quarto a 33 minuti da Bartali. È una grande lezione.
Il 19 marzo 1951 Bobet si presenta alla Milano-Sanremo con un piano. Attacca sul Capo Berta insieme al suo fido gregario Pierre Barbotin. Ultimo a cedere è un giovane poco conosciuto, Loretto Petrucci. I due francesi scollinano con 25″ su Petrucci e 40″ su Impanis. Fuggono via, imprendibili, per i 27 km che mancano. Così Bobet vince la Milano-Sanremo, davanti a Barbotin, Petrucci arriva terzo a 3′19″. Sanremo è un santuario per Bobet, che ha il gusto di manifestarsi nei luoghi simbolo del ciclismo. Così, al Tour del 1950, passa primo sul Vars e sull'Izoard e vince a Briançon con tre minuti di vantaggio sulla maglia gialla Kübler. Il giorno dopo Bobet prova a rovesciare il Tour. Attacca a Pont de Claix, a 180 km dal traguardo. Un assalto temerario. Viene ripreso e superato nel finale e perde altri 6 minuti, punito per troppa audacia. "Mi interessa solo la vittoria, non il secondo posto", dichiara. Finisce terzo, per la prima volta sul podio.
Bobet insegue la vittoria in una grande gara a tappe, ma non riesce a raggiungerla. Sembra un corridore da classiche. Ha anche una buona punta di velocità. Il 21 ottobre 1951, infatti, si aggiudica il Giro di Lombardia, bruciando allo sprint Minardi, Coppi e altri cinque compagni di fuga. Fallisce però al Giro del 1953. Sofferente per un ascesso, Louison crolla sull'Abetone, dove il fratello minore Jean è costretto a spingerlo. Alla fine si ritira.
Al Tour del 1953 Coppi non parte. Koblet cade in modo rovinoso nella discesa del Soulor. In corsa Louison rifiorisce. Il 22 luglio, al via della diciottesima tappa, Gap-Briançon, la classifica è aperta, con il regionale Jean Malléjac in maglia gialla, seguito dall'italiano Astrua a 1′13″ e da Bobet a 3′13″. Bobet va all'attacco sul Vars con Loroño a Melezen. Semina il basco nella discesa, effettuata con audacia e virtuosismo. Sale, ormai solo, sui ghiaioni dell'Izoard. Alla Casse Deserte vede, come un miraggio, Coppi ai bordi della strada. Vince con 5 minuti e mezzo sull'olandese Jan Nolten, mentre Malléjac e Astrua finiscono a 11 minuti. Bobet indossa la maglia gialla. Rafforza la sua posizione nella tappa a cronometro di St.-Étienne. Vince finalmente il Tour, a 28 anni, con 14 minuti di vantaggio su Malléjac e 15 su Astrua. Dietro di loro il vecchio Bartali, undicesimo a 39 anni, e Magni, quindicesimo.
L'anno dopo riprova. Non ci sono italiani a causa della polemica per i marchi pubblicitari. Bobet vince la seconda tappa con una volata che folgora Kübler e Koblet. Il quarto giorno è già in maglia gialla. La perde dopo cinque tappe. Koblet cade per tre volte e si ritira. Bobet riconquista la maglia gialla a Millau, a 10 tappe dalla fine, e controlla la corsa. Si regala due traguardi. Una nuova cavalcata sull'Izoard ‒ la terza ‒ chiusa da una vittoria a Briançon con 2 minuti su Kübler. Poi una splendida vittoria nella tappa a cronometro di Nancy, dove lascia lo svizzero a due minuti e mezzo. Vince il suo secondo Tour con oltre un quarto d'ora di vantaggio su Kübler.
Nel 1955 terzo successo al Tour, stavolta con la maglia di campione del mondo (il 22 agosto 1954 a Solingen aveva staccato Schaer e Gaul di 12 secondi, vincendo a braccia alzate). Domina la competizione anche se Gaul, sotto la pioggia gelida, lo stacca di 14 minuti nella sua città favorita, Briançon. Ma il 19 luglio consuma la sua vendetta sul Mont Ventoux, dove Malléjac entra in crisi e crolla; Bobet passa solo in testa, dopo un tentativo di attacco di Kübler, e continua solo per altri 60 km fino ad Avignone, dove è primo con 49″ su Brankart e 55″ su Fornara e Coletto. Bobet conquista la maglia gialla sui Pirenei, a St.-Gaudens, dove Gaul arriva solo, e non la perde più. Ha vinto così tre Tour consecutivi.
Bobet riesce ad aggiungere al suo palmarès anche la Parigi-Roubaix: l'8 aprile 1956 compie un capolavoro. Si trova in una fuga a sei, con i suoi compagni De Bruyne e Gauthier, contro il veloce Van Steenbergen. Manda all'assalto i suoi fidi fino a stremare l'avversario, poi lo fulmina in volata.
Bobet è un fine stratega, eppure il Giro d'Italia resterà per lui stregato. Il suo palmarès è invidiabile: una maglia iridata, due titoli di campione di Francia, 3 Tour de France, Milano-Sanremo, Giro di Lombardia, Parigi-Roubaix, Giro delle Fiandre, Bordeaux-Parigi; ha vinto il Gran Premio della Montagna al Giro e al Tour; ha saputo imporsi a cronometro e vincere allo sprint. È il campione dell'organizzazione, un corridore completo, audace, intelligente. La sua visione è lucida. Ha un sesto senso che gli permette di leggere la corsa e di prevederla, ma è capace anche di grandi slanci. L'impresa lo affascina. Un grande. Per questo la gente trasforma il suo nome Louis in Louison.
Sul finire degli anni Cinquanta Coppi porta in giro la sua leggenda. Il 10 dicembre 1959 parte con Geminiani per Ouagadougou, nell'Alto Volta, per una gara con safari. Tornano insieme a Parigi. Poi Geminiani va a Clermont-Ferrand, Coppi a Novi. Il 20 si parlano al telefono: si sentono male. Coppi va alla partita di calcio Alessandria-Genova, ma quella sera stessa Geminiani, con febbre alta, perde conoscenza. All'Institut Pasteur la diagnosi è: Plasmodium falciparum, malaria perniciosa. Curato con il chinino Geminiani viene salvato. Suo fratello Angelo telefona a casa Coppi. Gli viene risposto che in Italia sanno come curare Coppi. Fausto si mette a letto il 27. Il 29 chiamano il dott. Allegri di Serravalle; questi convoca a consulto il prof. Astaldi. I medici non capiscono. Il 1° gennaio viene chiamato il prof. Fieschi. Coppi viene ricoverato d'urgenza: alle 23 è in pericolo di vita. C'è Giulia con lui. Nel cuore della notte arriva Bruna con la figlia Marina di 12 anni. L'agonia è breve. Alle 8,45 del 2 gennaio 1960 Coppi muore di malaria perniciosa. Ha 40 anni.
Orio Vergani, sul Corriere della sera, in un appassionato articolo rimasto famoso scrive tra l'altro "Il Grande Airone ha chiuso le ali". Il 4 gennaio, sul colle di San Biagio, cinquantamila persone seguono il funerale del grande corridore.
Coppi ha vinto 5 Giri e 2 Tour, realizzando per due volte la doppietta Giro-Tour. Il suo curriculum vanta 5 Giri di Lombardia, 3 Milano-Sanremo, Parigi-Roubaix, Freccia Vallone, 3 titoli mondiali (uno su strada e 2 nell'inseguimento) e 9 titoli italiani (4 su strada e 5 su pista), il record dell'ora. Coppi ha portato la maglia rosa al Giro per 31 giorni e ha vinto 22 tappe. Al Tour ha indossato la maglia gialla per 19 giorni e ha vinto 9 tappe. Coppi ha riportato 151 vittorie su strada. Nel suo caso, però, non è il numero delle vittorie che conta, ma la qualità dell'interpretazione. Coppi ha vinto 58 corse per distacco. Ha inanellato 3000 km di fuga da solo.
Fortissimo e fragile. Se Bartali è un uomo di ferro, Coppi è di cristallo. Eppure la luce lo attraversa regalando arcobaleni. Binda, certo, ha espresso una superiorità più netta nella sua epoca. Merckx, in assoluto, vincerà di più. Ma il connubio tra quantità di successi e qualità dell'interpretazione delle gare pone Coppi su un piano leggendario.
In quegli anni anche la figura di Koblet tramonterà drammaticamente. Koblet vince il Giro della Svizzera del 1955 respingendo l'attacco di Ockers. Poi si lancia negli affari, ma fallisce. Sonja, la modella che aveva sposato a Zurigo il 6 dicembre 1954, lo lascia. Dieci anni dopo quel giorno felice, il 2 novembre 1964, Koblet si schianta con la sua Alfa Romeo contro l'unico albero di un campo ai bordi della strada. Non ci sono tracce di frenata ed è pieno giorno. Quattro giorni dopo, a 39 anni, muore. Un'uscita di scena avvolta nel mistero.
Koblet è il campione più grande che la Svizzera abbia mai avuto. Ha vinto il Giro d'Italia, primo straniero a riuscirvi, il Tour de France e, per tre volte, il Giro della Svizzera. Pur essendo un eccezionale corridore nelle gare a cronometro, in quei tre Giri ha saputo vincere anche il Gran Premio della Montagna. Era un discesista formidabile. Come Coppi è stato un campione eclettico, un grande inseguitore e un corridore da pista completo, capace per esempio di aggiudicarsi 9 Sei giorni.
Molti tratti lo accomunano a Coppi: l'eleganza, lo stile purissimo, la qualità delle sue vittorie. In più era il campione del fair play. Come Coppi sapeva accendere l'entusiasmo. Come lui ha conosciuto la bellezza del volo e la tragedia.
Si cerca l'erede di Coppi. Il primo candidato al ruolo è Loretto Petrucci, che pagherà però proprio la rivalità cercata con il campione.
Petrucci nasce a Gello, antico borgo di Pistoia, il 18 agosto 1929. È figlio del calzolaio di Capostrada. Cresce in tempo di guerra. Una pista nel letto del torrente Ombrone per fare le volate, prima di quella delle Cascine. Le prime gare tra Gello e Capostrada, la salita delle Piastre, il passo della Collina. La rivalità con Renzo Soldani, figlio del mugnaio di Cireglio. Petrucci veste la maglia azzurra ai Giochi di Londra del 1948, ma si ritira. Si ritira anche nella prima Milano-Sanremo, nel 1950. Ma l'anno dopo è terzo, dietro a Bobet e Barbotin, che gli sono fuggiti via per poco sul Berta. Poi vince il Giro di Toscana arrivando solo con Minardi e battendolo in volata. Si piazza quarto al Giro delle Fiandre. Viene ingaggiato dalla Bianchi di Coppi.
Il 19 marzo 1952 Petrucci è al via della Milano-Sanremo. A Savona, a 100 km dal traguardo, va via in fuga un gruppetto di 15 uomini, con Geminiani e Schaer. Petrucci, Minardi e Wagtmans contrattaccano sul Berta e si ricongiungono a pochi chilometri da Sanremo. La volata è tra 14 atleti. Petrucci parte da lontano e vince di prepotenza davanti a Minardi. Giorgio Fattori lo definisce l'Aramis in bicicletta.
Petrucci si conferma subito, arrivando secondo nel Giro delle Fiandre. Nella Parigi-Bruxelles fugge solo, controvento, a 40 km dal traguardo e viene ripreso. E il 19 marzo 1953 si ripresenta a Sanremo. Sul Capo Mele attacca Robic, si forma un gruppetto di otto corridori, tra cui c'è Petrucci, che ha champagne nella borraccia. Vanno all'attacco in pieno accordo. Robic e Walkowiak cedono su Capo Berta. Minardi lancia la volata, ma Petrucci, con uno spunto irresistibile, vince nettamente con la media record di oltre 40 km/h.
Petrucci brilla. Si piazza secondo al Giro di Campania, quinto al Giro delle Fiandre, ancora secondo alla Milano-Torino e al Giro del Piemonte, vince la Parigi-Bruxelles bruciando Schotte in volata, è terzo nella Freccia Vallone. Avendo già vinto tre classiche a soli 23 anni, Petrucci pecca forse di orgoglio: si rifiuta di fare il gregario di Coppi al Mondiale di Lugano e per giunta critica la Dama Bianca. Coppi non gradisce e Petrucci, che ha vinto la Challenge Desgrange-Colombo, il campionato del mondo a punti dell'epoca, fa le valigie. Con la Bianchi è guerra. Coppi non lo vuole nei circuiti a ingaggio. Nella Milano-Sanremo, mentre in volata si lancia cercando il terzo successo, un gregario di Coppi, Pino Favero, lo trattiene per la sella e Petrucci finisce quinto, dietro a Favero e a Coppi. È l'inizio della fine. Petrucci crolla moralmente, si lascia andare. Al Giro del 1954 si ritira nella prima tappa dopo soli 12 km. Vince ancora un Giro del Lazio, ma a 26 anni si ritira. Resta a lungo famoso come ultimo italiano ad aver vinto la Milano-Sanremo, fino al 1970, anno della vittoria di Michele Dancelli.
Il secondo possibile erede di Coppi, Romeo Venturelli, esplode nel 1960. Venturelli era andato a Milano a prendere Coppi al ritorno dall'Africa, perché la Dama Bianca, indispettita, si era rifiutata di farlo e lo aveva riportato a villa Carla. Quella sera, a cena, era stato testimone dei rimbrotti della Dama e del silenzio corrucciato di Coppi.
Coppi lo designa come suo erede e la sua presenza in quell'ultima cena crea alla sua fama una sorta di alone leggendario. Il 14 marzo 1960 alla Parigi-Nizza, nella tappa a cronometro di Nîmes (37 km), precede Rivière di 19″ e Anquetil di 29″. Otto giorni dopo, a Reggio Emilia, vince in volata su Carlesi e Favero una tappa della Genova-Roma. Il 12 maggio, al Giro di Romandia, nella Noyon-Montana, parte a 5 km dal traguardo e vince con 42″ su Anquetil. Venturelli sa imporsi in tutti i modi: a cronometro, in volata, da solo.
Viene da Sassostorno di Lama Mocogno (Modena). È nato il 9 dicembre 1938. Alto 1,82 per 76 kg, ha 42 pulsazioni a riposo. Alla vigilia del Giro 1960 c'è grande attenzione intorno a lui. Il 20 maggio, nella tappa a cronometro di Sorrento (25 km) Venturelli vince battendo Anquetil di 6″ e Carlesi di 54″. Indossa la maglia rosa. Un grande trionfo. Ma lì, nel momento della gloria, mostra i suoi limiti. Perde subito la maglia rosa: non sa gestirsi, beve troppo e di tutto, è renitente alla fatica. Presto si trascina. Nella quarta tappa va in crisi a Vasto, ma riesce a salvarsi; però sta male, di notte viene chiamato per assisterlo il dott. Frattini, medico del Giro. Il giorno dopo Venturelli è subito in retrovia. Per tirarsi su beve champagne, ma a Popoli si ferma e si ritira. È la fine. Venturelli vincerà solo il Trofeo Baracchi, in coppia con Ronchini, e, cinque anni dopo, con un ritorno di fiamma, il Giro del Piemonte. Poi scompare.
Il terzo atleta indicato a suo tempo come successore di Coppi è Guido Carlesi, livornese, capace di arrivare secondo al Tour dietro ad Anquetil nel 1961 e di vincere sette tappe al Giro d'Italia. È soprannominato Coppino (anni prima di Franco Chioccioli, secondo Coppino della storia). Il quarto è Italo Zilioli, un purosangue, ma anche un filosofo che si interroga sulla vita, un allievo di Socrate in bicicletta. Anche Felice Gimondi fu definito dai francesi il nuovo Coppi. Anche Motta fece riaffiorare quell'elegante fantasma. E poi, molti anni dopo, Franco Chioccioli. Tutte copie, alcune anche preziose, certo, ma impari rispetto all'originale.
Il dopo-Coppi è un periodo di interregno. Nelle classiche è l'era di Van Looy, gran velocista e grande guerriero. Nelle corse a tappe è l'epoca di Anquetil, stilista di rara eleganza, un calcolatore cinico, capace di vincere 5 Tour, 2 Giri, 1 Vuelta. Arnaldo Pambianco però lo batte nel Giro del Centenario dell'Unità d'Italia con pieno merito. In quegli anni Nino Defilippis insegue la grande vittoria senza trovarla mai. Uno scalatore veneto, Imerio Massignan, regala emozioni sulle montagne. Un caparbio faticatore, Balmamion, abile e tenace, vince due Giri e sale sul podio al Tour. Spuntano talenti: Adorni, Zilioli, Motta, Bitossi. Ma il 1960 vede prima di tutto il trionfo di Gastone Nencini al Tour.
Nencini è un attaccante, audace e generoso. Non lo spaventa il rischio. Azzurro già al Mondiale dilettanti di Varese 1951, poi in quello di Lussemburgo, infine in quello di Lugano 1953. Quella volta scatta sulla Crespera al penultimo passaggio, viene raggiunto e trafitto da Filippi nel finale di gara. Un argento amaro.
Nencini ha personalità. È un corridore completo, un attaccante ardito. Ma fuma molto, beve, è un latin lover di successo. Così viene licenziato dalla Legnano alla fine della sua prima stagione da professionista. Ha anche temperamento ed è pronto a menare le mani. Così, nella stagione successiva, mentre alla Vuelta la Nivea Fuchs di Magni e la sua Leo Chlorodont sono impegnate in una contesa commerciale oltre che sportiva, non esita a scagliare la pompa contro Magni. Pochi giorni dopo infiamma il Giro. Il 23 maggio 1955 vince a Roma, con 13 secondi di vantaggio su Coppi. Rivince a Scanno il 26 maggio: è Astrua a tagliare per primo il traguardo, ma viene retrocesso per aver spinto Gemianini, e a Nencini, secondo, viene assegnata la vittoria. Geminiani veste la maglia rosa, con due secondi appena di vantaggio su Nencini. Il 28 maggio c'è la tappa a cronometro di Ravenna. A Bilancino di Mugello comprano due radio nuove e affittano una televisione per seguire l'Enfant du pays. Sono tutti a casa di Nencini oppure alla Casa del popolo a seguire la corsa. Quando vedono Nencini che stacca Geminiani di 45 secondi e veste la sua prima maglia rosa, a Bilancino mettono due damigiane di vino sulla via Bolognese e offrono da bere a chi passa. Nencini porta la maglia rosa per cinque tappe, oltre le Dolomiti. Poi, nella penultima giornata, subisce l'agguato di Magni e Coppi. Lotta disperatamente. Ogni sforzo è vano. A San Pellegrino Nencini piange di rabbia e di dolore. Si classifica terzo in un Giro che già era sicuro di aver vinto.
Può però riscattarsi due anni dopo. È un Giro controverso. Il 3 giugno 1957, nella tappa di Campo dei Fiori, risolta da un attacco di Alfredo Sabbadin, Gaul conquista la maglia rosa con 36″ su Nencini. Questi viene penalizzato di 20″ per spinte e Rolly Marchi, presidente della sua squadra, ordina il ritiro dal Giro. Poi, smaltita la rabbia, Nencini rimane in corsa e il 6 giugno, nel giorno del Bondone, diventa leader. Poi difende, grazie anche all'aiuto di Gaul, i 19 secondi di vantaggio su Bobet. Vince il Giro, senza aggiudicarsi nemmeno una tappa, davanti a Bobet, Baldini, Gaul, Geminiani.
Torna sul podio nel Giro del 1960, quando sfiora la grande vittoria. Nella quinta tappa, anzi, Nencini va in fuga nella discesa del Terminillo, raggiunge e supera Gaul, e, seguito solo da Carlesi, vince a Rieti. Nella dodicesima tappa, dopo che la discesa del Passo delle Cento Croci aveva martirizzato i tubolari con oltre cento forature, sul viale di Sestri Levante Nencini, spavaldo, euforico, attacca addirittura Van Looy e lo piega nel finale.
L'8 giugno, a un giorno dalla fine del Giro, nella Trento-Bormio (229 km) c'è il Gavia, l'ultimo serio ostacolo sulla strada della maglia rosa Anquetil. Nencini monta gomme pesanti. Van Looy attacca già a Cadine e fugge con tre compagni scelti e con Stablinski, che controlla la fuga per conto della maglia rosa. Sul Tonale dal gruppo va via Massignan, di prepotenza. Van Looy, dopo 180 km di fuga, cede. Sul Gavia è primo Massignan. Nencini passa con un pugno di secondi di vantaggio sulla maglia rosa e va poi giù velocemente, mentre davanti Gaul brucia Massignan, che ha forato per due volte. Anquetil, aiutato da Carlesi e Coletto, salva la maglia rosa per 28″. Nencini ha recuperato su di lui, in una sola discesa, 2′34″. Finisce secondo il 9 giugno: per la terza volta sale sul podio del Giro. È in gran forma.
Diciassette giorni dopo Nencini a Lille incomincia una nuova avventura al Tour de France. A trent'anni ha all'attivo già 3 Tour ed è sempre riuscito a lasciare il segno. Nel Tour del 1956 ha vinto l'ultima tappa, bruciando tre compagni di fuga, ma è finito solo ventiduesimo a 55 minuti dal vincitore Walkowiak. In quello del 1957 si è imposto in due tappe di montagna, sulle Alpi e sui Pirenei. A Briançon, nella decima tappa, è arrivato solo con il belga Janssens, dopo aver attaccato sul Télégraphe e di nuovo sul Galibier, e lo ha battuto in volata. Poi Nencini era caduto a St.-Gaudens, il 15 luglio, e aveva riportato una ferita profonda al gomito. Fatta l'antitetanica, nonostante il parere contrario dei medici, Nencini si era presentato al via della St.-Gaudens - Pau, diciottesima tappa, con gli occhiali scuri per nascondere gli effetti della notte in bianco. Aveva ceduto sul Tourmalet, dove Anquetil lo aveva lasciato indietro, poi era risorto sul Soulor, aveva raggiunto Anquetil in maglia gialla e lo aveva staccato. A Pau si era imposto in una volata a sei. Nella classifica finale Nencini era finito sesto a 24 minuti da Anquetil, che aveva ottenuto a 23 anni la prima vittoria al Tour. Nel Tour del 1958, pur lavorando per Favero (che nella nona tappa, Quimper - St.-Nazaire, indovinata la fuga buona, aveva conquistato la maglia gialla a Luchon), aveva vinto la diciannovesima tappa, Carpentras-Gap, in volata sulla maglia gialla Geminiani, Anquetil e Adriaenssens. In classifica generale era finito quinto a 13 minuti da Gaul e a 10 da Favero, brillante secondo.
Anquetil, che ha appena vinto il Giro, primo francese a riuscirvi, rinuncia al Tour del 1960. C'è, invece, Nencini che è finito ad appena 28″ da lui. È un Tour sperimentale, con quattro grandi squadre nazionali ‒ Belgio, Francia, Italia, Spagna ‒ composte da 14 corridori, altre cinque nazionali comprendenti 8 corridori e quattro squadre regionali.
Nencini conquista la maglia gialla il primo giorno. Ci sono due semitappe: nella prima entra in una fuga di 14 uomini e finisce terzo, nella seconda, una tappa a cronometro di 27,8 km a Bruxelles, è preceduto di 32″ soltanto da Rivière. I giorni successivi sono un festival per i nazionali francesi, che vincono a ripetizione e portano in maglia gialla Anglade. Vittorie e rivalità tra i francesi. Rivière, che ha portato il record dell'ora oltre il muro dei 47 km, si ritiene il migliore e, il 1° luglio, nella sesta tappa, St.-Malo - Lorient (191 km), attacca incurante del fatto che il compagno Anglade sia capoclassifica. Lo seguono solo Nencini, Adriaenssens e Junkermann: un italiano, un belga e un tedesco. Rivière non sfrutta il loro lavoro, ma alimenta l'offensiva con ardore. Anglade intima al suo direttore sportivo Marcel Bidot di fermare Rivière. Questi, considerando Rivière più forte, non interviene. I quattro fuggitivi giungono a Lorient con un quarto d'ora di vantaggio. Sono loro a disputarsi la vittoria del Tour. Rivière vince la tappa davanti a Nencini, mentre Adriaenssens veste la maglia gialla con 1′12″ su Nencini e 2′14″ su Rivière.
Rivière ha 24 anni, è un campione nuovo, un eccezionale rouleur. Il 19 maggio 1957 aveva prodotto sensazione al Parc des Princes sconfiggendo Anquetil nella finale dell'inseguimento del Campionato di Francia. Il 15 agosto a Rocourt aveva eliminato in semifinale Guido Messina, campione del mondo uscente, e, battendo Albert Bouvet in finale, aveva indossato la maglia iridata dell'inseguimento. Il 19 settembre, al Vigorelli, con 46,923 km aveva superato il primato dell'ora di Baldini di 530 m. Poi, un anno più tardi, era tornato lì e, il 23 settembre, nonostante una foratura dopo 48 minuti di corsa, si era migliorato fino a 47,346 km.
Su pista Rivière ha messo fine al regno di Messina, vincendo tre titoli mondiali consecutivi nell'inseguimento negli anni 1957-59. È un passista favoloso. Un uomo capace di battere Anquetil e Baldini a cronometro, ma anche di vincere il 'tappone' pirenaico e di passare primo sul Tourmalet. Quarto nel Tour del 1959, vuole la vittoria.
Il suo attacco provoca grandi polemiche. Con i francesi lacerati, gli italiani si prendono delle soddisfazioni: Graziano Battistini vince ad Angers, Defilippis a Limoges. Rivière vince la prima tappa pirenaica a Pau, battendo in volata Nencini e Battistini, mentre Adriaenssens e Junkermann perdono due minuti. Quel 5 luglio Nencini veste per la prima volta la maglia gialla. La sfida è ormai Nencini-Rivière. Il giorno dopo ‒ mentre Battistini passa primo sull'Aubisque ‒ Rivière ha una flessione sul Peyresourde e Nencini guadagna su di lui 1′16″. Porta poi il suo vantaggio sul francese a 1′38″, un gap che il primatista dell'ora sa di poter demolire facilmente nella tappa a cronometro di 83 km della terzultima giornata.
Il Tour avanza senza scosse fino a Millau, dove c'è il giorno di riposo. Rivière passa la giornata con sua moglie Huguette. È tranquillo. Mostra fiducia. Il giorno dopo, 10 luglio, lo investe la tragedia.
Nencini è un abilissimo discesista. Correre in discesa è un'operazione che richiede intuizione, sensibilità, riflessi, intelligenza, audacia. Nencini ha queste qualità, come Koblet e come Magni. Le mette a frutto anche dal Col de Perjuet. E in quella discesa, nell'inseguire Nencini che fugge in maglia gialla, Rivière esce di strada. Scompare letteralmente nel precipizio. Invisibile, nascosto da una piega del terreno, venti metri più in basso. Impossibilitato a muoversi, con la colonna vertebrale fratturata, incapace di gridare. La carriera di Rivière è spezzata a 24 anni. Ma anche la sua vita. Non può sfuggire al suo destino crudele. Invalido all'80%, non cesserà di soffrire. I suoi tentativi per reagire e andare avanti nella vita ‒ aprirà anche un bar-ristorante che chiamerà Vigorelli, in ricordo dei suoi due record dell'ora ‒ falliranno. Avrà guai con la giustizia. Ricorrerà alla droga. Finché, a 40 anni, la morte non lo incontrerà.
Il Tour va avanti. Oltre il dramma. Regala gioie agli italiani. Nel 'tappone' alpino Battistini e Massignan arrivano soli a Briançon. Lì Nencini guadagna un altro minuto su Adriaenssens e il giorno dopo, con Battistini e Massignan, altri due. Battistini diventa il secondo della classifica.
Nencini s'impone al Tour con 5′02″ su Battistini: ha portato la maglia gialla per 14 giorni. A Colombey-les-Deux-Églises ha ricevuto i complimenti del generale de Gaulle, accorso ai bordi della strada per applaudire la corsa. Lo chiamano il Leone del Mugello. La scrittrice Anna Maria Ortese lo definisce il Toscano scontroso e gentile. Per Orio Vergani è Pellaccia da discesa.
In quel 1960 Anquetil è il primo francese a vincere il Giro. È un talento puro, uno stilista perfetto, affascinante. Anquetil è nato l'8 gennaio 1934 a Mont-St.-Aignan, figlio di Ernest e Marie Legrand. Pochi anni dopo scoppia la guerra. Jacques cresce in una terra dilaniata dal conflitto. Ha 10 anni, il 6 giugno 1944, quando avviene lo sbarco di Normandia. Impara a disinnescare le bombe. Quando la guerra finisce, Jacques scopre la strada. Bella, infinita, tentatrice. Papà Ernest ha un cuore d'oro, ma è autoritario e collerico; Marie, la madre, si separa e va a vivere da sola a Parigi. Jacques cresce in un mondo frantumato. Ha paura della solitudine. È timido. Ha la prima bicicletta da corsa a 14 anni. Disputa la prima gara nel 1951. Il 2 agosto 1952 a Helsinki ottiene la medaglia di bronzo: in realtà è dodicesimo nella gara su strada, ma finisce terzo nella classifica di squadra, che si fa per somma di tempi. Nel 1953 debutta tra i professionisti con La Perle, la squadra di Francis Pélissier, cercatore di talenti soprannominato il Mago. Il 23 settembre, a 19 anni, parte al Gran Premio delle Nazioni, 140 km a cronometro. Supera, uno dopo l'altro, De Smet, Forestier, Joy, Huot e Metzger e vince con 7 minuti di vantaggio. A cronometro è strabiliante. È uno stilista perfetto. Nell'inverno va a Novi Ligure a trovare Coppi, il suo modello.
Nel 1954 Jacques incontra per la prima volta la bionda Janine, sposa del dott. Boéda, il medico che lo cura, madre di due figli, Annie e Alain.
In bicicletta Anquetil impone la sua filosofia basata sull'uso di alti rapporti. Nelle corse a cronometro fa oltre 8 m per pedalata. Al Vigorelli attacca il record dell'ora di Coppi, rimasto intatto durante gli assalti di Schulte, Patterson, Koblet e Bobet. Dopo due tentativi infruttuosi ‒ il 23 novembre 1955 aveva coperto 45,175 km, il 25 giugno 1956, esaurito da una partenza troppo veloce, s'era fermato dopo 50 minuti ‒ il 29 giugno 1956 lo supera di 288 m, coprendo 46,159 km.
Nel 1957, approfittando della rinuncia di Bobet, Anquetil conquista il suo primo Tour sconfiggendo gli scalatori Gaul e Bahamontes. Nel 1958 è lanciato solo verso il traguardo della Parigi-Roubaix, quando, a 13 km dalla conclusione, fora e viene raggiunto. Per la delusione non tornerà più al via di questa gara. Si ritira dal Tour a Besançon, per gravi problemi polmonari, che fanno temere per la sua carriera.
Sono mesi duri anche per Janine, che tenta il suicidio: ingoia un tubetto intero di sonnifero e apre il gas. Viene salvata dalla cameriera. E, il 22 dicembre, a St.-Gervais-les-Bains, per lei c'è un nuovo matrimonio: diventa Madame Anquetil. Jacques ha 24 anni, Janine 30, sei di più. Pochi mesi dopo comprano una bella casa a St.-Adrien, sulla Senna, a pochi chilometri da Rouen, e vanno a vivere lì.
Il 16 maggio 1959 Anquetil, 25 anni, si presenta al Giro forte della sua vittoria al Tour e di sei successi consecutivi nel Gran Premio delle Nazioni. Ha una scorta d'eccezione, Janine: prima di lei le donne erano bandite dalle corse, con la sola eccezione della Dama Bianca.
La carovana è maschile e maschilista, ma Anquetil rompe il tabù. Janine compare al Giro e non vive dietro le quinte: segue le corse, sta con la squadra. Incoraggia, assiste, si prodiga. In quel Giro Anquetil vince la seconda tappa e indossa la maglia rosa. La perde subito all'Abetone, dove subisce la legge di Gaul. Duella per due settimane contro un Van Looy scatenato, che ogni giorno infiamma la corsa. Anquetil riconquista la maglia rosa a sorpresa nel 'tappone' dolomitico. Poi desta sensazione nella tappa a cronometro della Val di Susa, 51 km in salita: vince a 47,713 km/h di media, meglio del record dell'ora, con 1′20″ su Baldini. Sembra invincibile ormai. Poi, però, crolla sull'ultima salita, il Piccolo San Bernardo, nella penultima tappa e perde la maglia rosa per opera di Gaul. Viene sconfitto anche al Tour a causa della rivalità con Rivière e Anglade.
L'anno dopo vince il Giro a spese di Nencini e Gaul. S'impone anche nel Tour 1961, portando la maglia gialla dal primo all'ultimo giorno. Il pubblico francese, infastidito dalla sua superiorità, lo fischia sonoramente al Parc des Princes.
Scomparso dalla scena Rivière, Anquetil trova un nuovo oppositore: il battagliero Raymond Poulidor, che infiamma il tifo di Francia contro di lui. Jacques lo trasforma in un glorioso battuto. Poulidor salirà per 8 volte sul podio del Tour, senza vincere mai. Ed è un uomo capace di vincere la Milano-Sanremo del 1961 ‒ parte a 22 km dal traguardo e resiste alla rincorsa del gruppo guidato da Van Looy ‒, il Campionato di Francia, la Freccia Vallone, la Vuelta 1964.
Nel 1964 Anquetil realizza la doppietta Giro-Tour, riuscita fino a quel momento solo a Coppi. Quell'anno al Tour la rivalità con Poulidor raggiunge l'acme. Nel 1965 si lascia convincere da Geminiani a tentare di vincere sia il trofeo Dauphiné Libéré sia la Bordeaux-Parigi. Tra la fine della prima gara e l'inizio della seconda intercorrono meno di ventiquattro ore. Il 29 maggio Anquetil batte Poulidor nel Dauphiné. Quello stesso giorno, dopo l'arrivo ad Avignone, raggiunge alle sei del pomeriggio Nizza, con la polizia che gli apre la strada; qui decolla con un Mystère 20 messogli a disposizione dal generale de Gaulle e all'una di notte prende il via per la Bordeaux-Parigi (557 km). A 11 km dal traguardo stacca l'ultimo avversario, Tom Simpson. Una prodezza estrema. Vince quattro Tour di fila nel periodo 1961-64 e porta a cinque, un record stupefacente, il numero delle sue vittorie. Si lancia con veemenza contro chi combatte la battaglia al doping, in nome del diritto alla privacy e all'autodecisione, che, però ‒ visti i casi di Jensen e Simpson ‒, pare piuttosto il diritto all'autodistruzione. Viene fatto cavaliere della Legion d'onore dal generale de Gaulle.
Offre ancora un'impresa portentosa al Vigorelli. Il 27 settembre 1967 monta un rapporto mai visto, il 52x13, che sviluppa 8,54 m per pedalata. Per 48 minuti resta in ritardo sul record di Rivière, ma dopo 39 km va in vantaggio e lo incrementa giro dopo giro. Rivière è presente al Vigorelli e lo vede battere il suo record dell'ora. Anquetil copre 47,493 km. Poi, però, rifiuta il controllo anti-doping e il record non viene omologato. Tra i due record dell'ora Anquetil ha vinto 5 Tour, 2 Giri d'Italia, una Vuelta, 5 Parigi-Nizza, un Giro di Sardegna, 9 Gran Premi delle Nazioni a cronometro, la Gand-Wevelgem, la Bordeaux-Parigi, la Liegi-Bastogne-Liegi. Ha cercato la maglia iridata con tenacia, ma è finito per sette volte tra i primi dieci, senza vincere mai.
Anquetil passa inevitabilmente alla cronaca anche per le sue vicende personali: organizza in maniera poco classica la sua vita familiare. Vuole avere un erede. Janine non glielo può dare più. Sua figlia Annie, nata dal precedente matrimonio della donna, sì. Nasce Sophie. Jacques, così, è bigamo e le sue donne, Janine e Annie, l'una figlia dell'altra, vivono sotto lo stesso tetto. Annie, fatalmente, diventa la favorita del sultano. Jacques, però, ha un figlio anche da Dominique, la moglie di Alain, fratello di Annie. Il 2 aprile 1986 viene alla luce Christopher, il figlio maschio che aspettava.
Il 18 novembre 1987 muore a 53 anni di cancro allo stomaco. Anquetil è stato corridore di un'eleganza rara in bicicletta. Calcolatore lucido e cinico in corsa, non aveva lo slancio visionario di Bobet, l'impeto dirompente di Rivière. Grande egocentrico. Focoso paladino del doping. Viveur impenitente e sacrilego. Ha lasciato ricordi che brillano e macerie.
Il 29 agosto 1953 sul circuito di Lugano Van Looy, 19 anni, è battuto nel Campionato del Mondo dilettanti da Filippi e Nencini. Infuriato, convinto che i due azzurri abbiano sfruttato le scie, si rifiuta di salire sul podio. Cinque giorni dopo diventa professionista con una squadra dal nome augurale, L'Avenir.
Nato a Grobbendonck, vicino ad Anversa, il 20 dicembre 1933, dall'età di 12 anni si alza alle quattro del mattino per consegnare giornali a domicilio: usa una bicicletta con un solo rapporto, 48x18, e a volte porta 50 chili di carta. Impara a soffrire così. Si forgia gambe potenti e un carattere d'acciaio. Incomincia a gareggiare a 15 anni. Diventa, per due volte, campione del Belgio dilettanti.
Il suo inizio tra i professionisti è difficile. Quando si sposa con Nini Marien, nell'aprile 1955, viene considerato un corridore da kermesse. Il rapporto con la moglie lo matura e gli insegna l'ambizione e la perseveranza.
Nel 1956 Van Looy è un corridore nuovo. Vince la Gand-Wevelgem e la Tre giorni di Anversa. Il 22 aprile 1956 arriva solo nella Parigi-Bruxelles, la sua prima classica, davanti a un ventaglio di campioni. Ha un carattere fiero, che lo porta a caricarsi sulle spalle il peso della corsa, a isolarsi, sicuro della propria forza. Interpreta la gara come duello e nell'uno contro uno è insuperabile. Ma presto deve imparare a sue spese che la corsa di squadra e le coalizioni spesso sconfiggono il più forte.
Nel 1957 Van Looy riporta 37 vittorie, tra cui la Gand-Wevelgem, ma è Fred De Bruyne a vincere le gare più importanti. Tra i due nasce una fiera rivalità. De Bruyne è un uomo da classiche. Aveva esplorato la sua vocazione alle corse a tappe nel 1953 mettendosi alla ruota di Bartali, che portava il numero 3, sull'Aubisque: "Dopo un po' leggevo 33", confidò poi con autoironia. Capì e puntò sulle corse di un giorno. Il 19 marzo 1956, alla Milano-Sanremo, parte con Boni all'inseguimento di quattro fuggitivi, li raggiunge e salta, poi su Capo Berta stacca anche Boni e resiste alla controffensiva gagliarda di Magni, vincendo con 50 secondi di vantaggio. L'anno dopo, con la maglia italiana della Carpano-Coppi e con Ettore Milano sull'ammiraglia, vince la Parigi-Roubaix: stacca nel finale Coletto e Barone, resiste al gruppo scatenato, nonostante una foratura a 2 km dal traguardo, e arriva primo con oltre un minuto di vantaggio su Van Steenbergen. Ma s'impone anche al Giro delle Fiandre e alla Parigi-Tours. De Bruyne è capace di vincere per tre volte la Liegi-Bastogne-Liegi e per tre anni consecutivi la Challenge Desgrange-Colombo, vero campionato del mondo a punti dell'epoca.
Eppure Van Looy riesce a isolare questo campione e a demolirlo. All'inizio del 1958, il 19 marzo, Rik vince la Milano-Sanremo con uno sprint folgorante davanti a Poblet. Poi arriva da solo nella Parigi-Bruxelles. In entrambe le gare polverizza la media record. Diventa campione del Belgio. Si circonda, alla Faema, di un pugno di corridori fedeli, le celebri 'guardie rosse'. Una coorte di uomini che fiammeggia in testa al gruppo. Non si era mai vista prima una squadra capace di controllare la corsa con tale efficacia.
Il 30 marzo 1959 Van Looy domina il Giro delle Fiandre correndo all'attacco. Non è solo un uomo da classiche. Sale sul podio alla Vuelta. Infiamma il Giro: indossa la maglia rosa, vince quattro tappe e sfiora il podio, quarto, dietro Gaul, Anquetil e Diego Ronchini. Vince la Parigi-Tours. Il suo tallone d'Achille sono le montagne. Troppo pesante, le patisce. Però si batte sempre. Così, il 18 ottobre, desta sensazione nel Giro di Lombardia: passa primo sul Ghisallo e poi domina la volata al Vigorelli, rimontando il velocissimo Vannitsen.
L'anno dopo è ancora sfolgorante protagonista al Giro. Vince tre tappe, va all'attacco sulle Dolomiti. Prima di crollare fa vacillare Anquetil. Poi, il 14 agosto 1960, Van Looy diventa campione del mondo, lasciando Darrigade a dieci metri sul circuito del Sachsenring. L'anno dopo, il 3 settembre, a Berna, regala il bis con una volata di prepotenza sul circuito del Bremgarten, precedendo Defilippis. Diventa l'Imperatore di Herentals.
Tutti si chiedono perché non vinca la Parigi-Roubaix. Ama la corsa di testa, è potente ed è in grado di arrivare da solo o di vincere allo sprint. Ma lo sport ciclistico non è una scienza esatta. Così Van Looy fallisce la Parigi-Roubaix più volte. Finché, nel 1961, non spezza anche quel tabù.
In marzo era giunto secondo nella Milano-Sanremo, dove solo Poulidor, per tre secondi, era scampato al suo arrembaggio. Poi era andato alla Parigi-Roubaix contro il parere del medico, che lo aveva invitato a rinunciare a causa di un infortunio riportato due settimane prima al Giro delle Fiandre. Invece Van Looy si schiera il 9 aprile 1961. Contro il suo stile gareggia con prudenza. E alla fine domina in volata i suoi cinque compagni di fuga. Vince la Parigi-Roubaix per due volte di fila con la maglia di campione del mondo. L'11 aprile 1962, a pochi giorni dai successi nella Gand-Wevelgem e nel Giro delle Fiandre, provocato da uno scatto di Poulidor, allunga alla bandierina rossa dell'ultimo chilometro, si toglie tutti di ruota e arriva solo con 24 secondi di vantaggio su Daems. L'11 aprile 1965, a 32 anni, si regalerà un tris memorabile, attaccando a 10 km dal traguardo e arrivando solo al velodromo davanti al pubblico in piedi.
Van Looy vince anche la Liegi-Bastogne-Liegi, una corsa che sembra poco adatta alle sue caratteristiche a causa delle rampe, a lui notoriamente poco gradite, del finale. Attacca a Stembert, soffre sul Mont-Theux, riparte in pianura, è raggiunto sulle Forges da Rohrbach, che lo attacca per due volte. Van Looy resiste e s'impone in volata.
È un generoso, più forte della sfortuna e del tradimento. A Renaix, l'11 agosto 1963, cerca anche il tris mondiale. Viene beffato sul traguardo da Benoni Beheyt, un compagno, anzi, un gregario, che gli toglie la terza maglia iridata. Van Looy aveva dominato la corsa annullando un grande attacco di Anquetil e riprendendo un allungo di Tom Simpson. A 2 km dal traguardo chiede di tirare a Beheyt, che gli risponde di avere i crampi. Sono allora Cerami e Gilbert Desmet a tirare la volata a Van Looy, che tiene Beheyt a protezione della sua ruota posteriore. Ma il traguardo è una muleta irresistibile e Beheyt all'ultimo momento supera il suo capitano. Beheyt si coprirà della brutta fama di corridore inaffidabile e incline al tradimento. Sarà emarginato dal gruppo. A 26 anni metterà fine alla sua carriera. Il grande Van Looy ridarà in seguito a Beheyt la sua amicizia. Beheyt, dal canto suo, avvierà un commercio di biciclette e farà il commissario in moto nelle grandi prove in Belgio.
Anche per l'Imperatore la corsa è dolore. Van Looy si frattura la clavicola alla Vuelta, cade al Tour 1964 nella prima tappa ed è costretto al ritiro. Il Galibier nel 1966 è un vero calvario per lui: finisce fuori tempo massimo. Ma è sempre capace di ritornare. Va ancora sul podio alla Vuelta 1965 con otto vittorie di tappa. Sfiora per pochi centimetri il 'poker' nella Parigi-Roubaix, bruciato da Janssen. Le sue 'guardie rosse' si disperdono. L'Imperatore resta solo. Ma gli manca ancora una classica alla sua collezione: la Freccia Vallone. Nel crepuscolo della carriera sembra un bersaglio troppo difficile. Ma il 21 aprile 1968 Van Looy è lì. Entra in tutte le fughe. Attacca. Solo Samyn gli rimane incollato alla ruota. Lo sprint non ha storia. Van Looy completa il suo palmarès. È l'unico ad aver vinto tutte le classiche (a Merckx manca la Parigi-Tours). Ma ha lasciato il segno anche nei grandi giri, dove spesso ha fatto 'esplodere' il gruppo, seminando il panico tra gli assi. Ha vinto 37 tappe: 12 al Giro, 7 al Tour, 18 alla Vuelta. Ha indossato la maglia rosa, la maglia gialla e, per tre volte e 12 tappe, la maglia amarillo alla Vuelta. Ha vinto il Gran Premio della Montagna al Giro e la classifica a punti al Tour. È stato terzo alla Vuelta (1959 e 1965). Ma ha vinto anche tre Giri di Sardegna con 18 successi di tappa. Van Looy è stato grande nella sua interpretazione anche nel Mondiale di Imola. Quando si trovò in fuga a 235 km dal traguardo con pochi compagni perplessi, fu lui a spronarli. Voleva mostrare a Merckx che Van Looy, a 35 anni, non era finito. Così lanciò Adorni verso una stupenda vittoria. Van Looy ha chiuso con 474 vittorie su strada. Superbo, generoso, splendido nella sua insolenza. Unico.
Gli eventi agonistici a tappe possono regalare storie straordinarie. La Carpano presenta al Giro del 1962 come capitano Nino Defilippis, 30 anni, e tra i gregari Franco Balmamion, 22 anni. Il primo è un torinese metropolitano, il secondo viene da una famiglia di calderai di Nole Canavese.
Defilippis ha classe innata. Solo un grande Van Looy gli ha impedito di indossare la maglia iridata nel 1961. Ha perso un Giro delle Fiandre perché il vento aveva strappato il telone del traguardo e Defilippis aveva fatto la volata in un punto sbagliato, ed era stato così battuto da Tom Simpson.
Nino ha soccorso Serse Coppi, nel 1951, quando cadde in corso Casale. Sullo Stelvio, nel 1953, ha preparato l'attacco di Fausto Coppi a Koblet. Defilippis era scattato e Koblet, in maglia rosa, aveva fatto l'errore di seguirlo, scatenando la bagarre. A quel punto Coppi ha avuto la scusa per attaccare: poteva considerare rotto il patto per colpa di Koblet.
Quando si presenta al via, nel 1962, Defilippis ha già vinto sei tappe al Giro e altre cinque al Tour. Il 19 ottobre 1958 si era imposto nel Giro di Lombardia con un numero spettacoloso: a 2 km dal traguardo era uscito dal gruppo, aveva raggiunto e saltato una coppia di fuggitivi che si chiamavano De Bruyne e Van Looy, e aveva resistito al ritorno di Poblet. Un campione. In corsa, però, è troppo spesso fedele al suo bel soprannome: Cit, ragazzo. Compie leggerezze che paga a caro prezzo.
In quel Giro, dopo nove tappe, Balmamion ha già 14′03″ di ritardo. Defilippis diventa l'uomo di classifica e comanda le manovre. Balmamion, però, è più libero di muoversi: fa il vuoto sulla salita di Bosco del Cansiglio, ma poi viene ripreso. È un Giro aperto: non c'è Anquetil, Gaul è staccato, l'ultimo vincitore Pambianco crolla, il migliore in corsa, Van Looy, è fuori classifica e il suo gregario De Smet è in maglia rosa. E, sulle Dolomiti, arriva la bufera di neve, il Giro viene decimato dalla neve, che spazza via, con Gaul e Van Looy, anche De Smet, staccatissimo. Restano in corsa 54 uomini: ci sono anche Defilippis e Balmamion, che sul Rolle arriva a 30″ dal suo capitano. Battistini va in maglia rosa con 3″ su Anglade. Il giorno dopo, su un grande attacco di Adorni, crolla anche Anglade. Mancano sei tappe alla fine e Defilippis sogna. I suoi rivali non gli sembrano invincibili giganti. Balmamion, ora, è decimo in classifica, staccato di 8′49″. Ma, sulla salita di Taceno, esce per inseguire Soler. Il gruppo guarda indifferente e Balmamion guadagna 4′20″. In testa alla classifica c'è il duo della Legnano Battistini-Massignan con lo spagnolo Pérez Francés. Il giorno dopo, nella Lecco-Casale, una tappa piatta, insospettabile, la Carpano programma l'attacco. Defilippis, per non dare nell'occhio, lascia la maglia di campione d'Italia e si presenta in maglia bianconera. Fugge al via, dopo 2 km. Battistini non si fa sorprendere e con qualche fatica si riaggancia. Non insegue però quando, a 130 km dal traguardo, in contrattacco dieci uomini vanno in fuga: c'è anche Balmamion. Carpano e Molteni, tre uomini a testa, alimentano l'attacco, così i fuggitivi arrivano con 6′44″. Balmamion veste la maglia rosa con 2′21″ su Battistini. Un capovolgimento incredibile. Defilippis, che in corsa aveva chiamato l'ammiraglia chiedendo che i suoi non tirassero, si infuria. Mena manrovesci sul traguardo. Grida: "Sono stato tradito!". Fa le valigie, lascia l'albergo della squadra e va a cena con la fidanzata Giacinta. Giacotto e il patron Turati lo aspettano di notte davanti a casa sua a Torino e, alle tre di notte, lo convincono a rientrare. Defilippis e Balmamion dormono nella stessa stanza. Divisi da un silenzio impenetrabile. Attori di un film muto che, a tre tappe dalla fine, regala l'inverosimile: la Carpano va all'attacco della sua maglia rosa. Defilippis e Bailetti, che aveva molto aiutato Balmamion a Casale, vanno in fuga e la maglia rosa, rassegnata, non si difende. Tocca ai rivali delle altre squadre salvarla. Defilippis attacca ancora sul Col de Joux. Invano. Fallisce la grande occasione e finisce terzo nella classifica finale. Il gregario Balmamion vince il Giro. È il fante che diventa re.
Balmamion è nato l'11 gennaio 1940, figlio di Michele e di Giovanna. La passione della bicicletta gli viene trasmessa dallo zio Ettore Balma Mion. Un errore dell'impiegato dell'anagrafe ha fatto sì che i due fratelli, Ettore e Michele, avessero lo stesso cognome scritto in modo diverso. Ettore, il maggiore di quattro fratelli, era stato protagonista nel Giro di Camusso: ma anche Francesco, il penultimo, aveva fatto il corridore. Da ragazzo Franco andava alla corse con zio Francesco in lambretta: stava dietro portando la bicicletta a spalla. Franco era diventato professionista nel 1961 alla Bianchi e aveva per direttore sportivo Pinella De Grandi, che era stato il meccanico di Coppi. Nel primo Giro era passato in testa sulla Maddalena, poi era stato ripreso e Poblet aveva vinto la tappa davanti a lui. Dopo un buon inizio, però, sorpreso da una frattura nel gruppo, era stato staccato di 20 minuti a Teano. Nel 1962 era passato alla Carpano con Giacotto e in marzo aveva ottenuto la sua prima vittoria nella Milano-Torino, staccando Adorni sulla 'rampetta' d'ingresso al Motovelodromo. Un segno fausto, poi confermato dal successo nel Giro.
Nel 1963 Balmamion fa il bis al Giro. Anche lì manda un segnale: pochi giorni prima vince il Campionato di Zurigo battendo Conterno in una volata a due. Al Giro gli altri battagliano e crollano. La scena è di Adorni, Carlesi, Ronchini, Taccone, Zancanaro. Balmamion non si fa mai staccare. Poi strappa la maglia rosa a Ronchini con un colpo di mano nel finale a Leukerbad, in Svizzera. Viene risparmiato sul Gran San Bernardo, dove passa con un minuto e mezzo di ritardo. Perde la maglia nella cronometro, ma la riconquista nel 'tappone' dolomitico: quando Adorni va in crisi sul Valles lo attacca e successivamente aumenta il vantaggio sul San Pellegrino. Balmamion vince il secondo Giro con 2′24″ su Adorni. Si è imposto dunque in due Giri d'Italia senza riportare alcuna vittoria di tappa.
Nel 1967, forse il suo anno migliore, si piazza secondo dietro a Gimondi. Sale anche sul podio al Tour e il 30 luglio diventa campione italiano staccando i favoriti di 3′30″ nel Giro di Toscana. È secondo, per due volte, al Giro della Svizzera. In carriera porta per 12 giorni la maglia rosa e per 5 volte la maglia azzurra. Vince solo 12 corse. Al Giro, su dieci partecipazioni, non riesce mai a tagliare primo il traguardo. Eppure per due volte il Giro è suo. Tenace, solido, forte di cuore e di gambe, pronto nel cogliere le occasioni, impone uno stile.
Il 30 maggio 1964, a Montepulciano, Defilippis si toglie tutti dalla ruota e coglie la sua decima vittoria di tappa al Giro, l'ultima. A differenza di Balmamion, Defilippis, eccellente finisseur, arriva spesso primo. A fine carriera può contare su 56 vittorie. Se Balmamion non ha mai vinto una tappa nei grandi giri, Defilippis ne ha vinte 19: 10 al Giro, 7 al Tour, 2 alla Vuelta. Nel suo carnet figurano anche due campionati italiani, il Giro di Lombardia, molte classiche italiane e 9 maglie azzurre. Terzo al Giro, quinto al Tour, sesto alla Vuelta, gli manca la grande corsa a tappe. Ma è un protagonista brillante del periodo che va dal crepuscolo di Coppi all'apparizione di Merckx.
La sfida tra Defilippis e Balmamion è illuminante: è la prova che al Giro conta la resistenza. Dove la strada è impervia, il mulo può sconfiggere il purosangue.
Un personaggio diverso tanto da Defilippis quanto da Balmamion è sicuramente Italo Zilioli, che porta nel mondo solitamente muscolare e operaio del ciclismo una connotazione intellettuale e quasi filosofica. Zilioli ha radici bergamasche. I suoi genitori, Battista e Ines, vengono dalla Val Seriana. Nella crisi che prelude alla guerra, gli Zilioli emigrano a Torino in cerca di lavoro. Italo nasce lì, nella periferia, il 24 settembre 1941, durante la guerra. È un bambino introverso, riservato. Ama la musica. Suona la fisarmonica. All'età di dieci anni, quando un circo ambulante pianta le tende nel prato davanti a casa sua, viene scoperto e ingaggiato. In seguito lavora alla Magnadyne come disegnatore. È magro come uno stelo. Alla Gios lo prendono lo stesso e a 18 anni diventa campione italiano allievi. Giacotto, grande talent-scout, lo fa assumere come impiegato alla Carpano. Ed è con la Carpano che esordisce tra i professionisti al Giro dell'Appennino del 1962. Ha un avvio difficile nel Giro d'Italia del 1963, ma nella seconda parte è brillante, si piazza spesso tra i primi. Coglie una bella vittoria nella prima tappa del Giro della Svizzera. Poi, nel finale di stagione, desta sensazione: quattro belle vittorie, con azioni d'attacco brillanti e spettacolari, in classiche come la Tre Valli Varesine, il Giro dell'Appennino, il Giro del Veneto e il Giro dell'Emilia. Viene subito definito il nuovo Coppi. Zilioli resta schiacciato da quest'investitura. Non dorme la notte. Sa di non poter essere Coppi. Eppure, a differenza di Petrucci e Venturelli, tiene il campo a lungo. Ama la bicicletta. È un creativo. In corsa improvvisa. Preferisce l'invenzione al calcolo, anche quando appare votata alla sconfitta.
Sergio Zavoli, al 'Processo alla tappa', lo trasforma in primattore. I suoi dubbi amletici, i suoi interrogativi esistenziali bucano il video. Talentuoso, intelligente, fragile, molto umano, Zilioli è un corridore appassionato e un uomo vero. Deve anche combattere con un po' di sfortuna, che lo trattiene al di qua della grande vittoria. Per tre volte consecutive Zilioli arriva secondo al Giro d'Italia nel triennio 1964-66: rispettivamente dietro Anquetil, Adorni e Motta. Poi è ancora terzo, quarto e quinto. Insegue la maglia rosa per 14 Giri consecutivi, la sfiora molte volte e non la raggiunge mai. Eppure rivaluta la figura dello sconfitto. Gli dà dignità, decoro, profondità. Però, il 28 luglio 1970, al Tour, nel quale corre per la squadra di Merckx, il suo scatto da finisseur gli regala la vittoria ad Angers e lo porta a strappare la maglia gialla al suo capitano. Zilioli meglio del grande Merckx! Indossa quella maglia per sei tappe, conosce la felicità, poi Merckx la riconquista e, sui giornali di Francia, compare la foto di Zilioli, quando era ancora in maglia gialla, solo con la ruota in mano che attende l'ammiraglia e i compagni, che non arrivano: sono tutti di scorta a Merckx. L'inatteso capoclassifica, dopo sei giorni, è solo.
Oltre alla maglia gialla, Zilioli veste quella azzurra ai mondiali per sette volte. Si inventa molte belle vittorie. Si impone in 5 tappe del Giro, sempre per distacco, sia pure minimo. A Sass Fee, nel 1965, vince con 16 secondi sulla maglia rosa Adorni. A Sanremo, nel 1968, anticipa di 4 secondi Merckx. A Folgaria, nel 1969, si impone su Gimondi per 3 secondi soltanto. A Rivisondoli, nel 1970, solo 13 secondi lo separano da Bitossi. All'Argentario, nel 1972, un fragile velo di 15 secondi lo protegge dal grande corridore belga Roger De Vlaeminck.
Vito Taccone conosce fin da piccolo dolore e miseria. Vive in una casetta di campagna sulla Strada 11 del Fucino, vicino ad Avezzano, tra le montagne della Marsica. A cinque anni s'inerpica con le pecore su quei monti, dove corrono i lupi.
Il padre, Gaetano, all'alba del 25 febbraio 1960, viene trovato con il cranio fracassato nella stalla. Accanto al cadavere c'è, libero e proteso sopra di lui, il suo cavallo. Gli zoccoli non sono insanguinati. Gli inquirenti trovano nella legnaia un nodoso bastone sporco di sangue. Tre giorni prima Gaetano era stato testimone di un delitto e probabilmente è stato fatto tacere. Gaetano ha cinque figli: Onorina, Agatina, Vito, Edda e Vittorio. Vito fa il corridore e di fatto si assume la responsabilità di tutta la famiglia.
Quando esordisce al Giro appare subito un personaggio fiero e rustico. In corsa pratica la legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente. I suoi litigi con Armani, Gentina, Pellicciari, Bailetti, con Manzaneque al Tour, entrano nella storia. Odia e fa la pace. Nella Biella-Leukerbad, al Giro, colpisce Pellicciari con un pugno, lo butta fuori strada e lo costringe al ricovero in ospedale, poi vince quella tappa. In televisione dedica la vittoria "all'amico Pellicciari" e gli manda il mazzo di fiori del vincitore.
La Marsica va in delirio, quando, a Potenza, il 30 maggio 1961, vince la sua prima tappa al Giro. Non era mai successo. Quando però, un anno dopo, Vincenzo Meco, da Avezzano, vince sul Passo Rolle nella tormenta di neve, la Marsica si divide in due e Taccone non gradisce la nuova rivalità.
In bicicletta è un corsaro mai domo. Sa scattare in salita, sa buttarsi a corpo morto in discesa, sa dare il massimo in volata. Impulsivo, selvaggio, rabbioso, indomabile, ribelle fino alla violenza, polemico fino all'insulto. In televisione Sergio Zavoli, come un domatore, lo trasforma in grande personaggio. Al Giro del 1964, quando il fratello Vittorio, che lavora alle linee telefoniche, cade e versa in fin di vita, Vito trasforma quella vicenda in un dramma nazionale. Lascia la corsa, si precipita a Roma, si rivolge al famoso chirurgo Paride Stefanini, salva il fratello. Piace, perché scaglia parole come sassi, perché si mette in piazza, si racconta, polemizza, piange e inveisce, si pente. Pratica il sopruso, ma ha il senso del peccato. Prega e ringrazia. Porta l'unica maglia rosa della sua vita alla Madonna di Tortona. Taccone è l'unico corridore che abbia dato del tu al Papa. "Papa Giovanni, tu per chi fai il tifo?", gli chiese a bruciapelo. E il Papa non si scandalizzò.
Il 21 ottobre 1961 Taccone s'impone nel Giro di Lombardia. Rientra su Massignan dopo il Muro di Sormano, a 8 km dal traguardo, e lo batte in volata. Nel Giro del 1963 vince cinque tappe, di cui quattro di fila, una sull'altra; e nel 'tappone' dolomitico arriva da solo a Moena con 4 minuti di vantaggio.
Però Taccone vive anche la tragedia. Quando sposa Fausta la sua bimba, Manuela, muore appena nata. È uno scalatore. La sua vita è in salita. Quando finisce di correre, la cronaca riporta i suoi guai con la giustizia: per aver cacciato di frodo, per aver sparato contro l'insegna di un negozio, per assegni a vuoto, per rissa, per oltraggio, per minacce a mano armata. Taccone sbaglia molto, ma, poi, è capace di autocritica, resiste, cammina come un acrobata sul filo, ma non cade irreparabilmente. Supera anche un tumore al colon. Anche trent'anni dopo aver smesso di correre rimane un personaggio. Continua con le sue verità scomode e dichiara di essere stato un campione di sport e di malefatte. Orgoglioso e sincero.
Franco Bitossi è di Camaioni di Carmignano, dove le colline di Carmignano degradano verso l'Arno, nell'ansa detta Barca de' Camaione, il 1° settembre 1940.
Il 21 ottobre 1967 Bitossi si ferma per un attacco di tachicardia sul passo d'Intelvi, ma riparte, rimonta, va in fuga da solo a 65 km dal traguardo e vince il Giro di Lombardia con 31″ su Gimondi e Poulidor. Bitossi è un corridore audace e brillante; ha un soprannome bello e temibile: Cuorematto.
Ha un temperamento ansioso e lo stress gli causa una forte aritmia cardiaca che lo coglie anche a riposo. I medici fanno risalire la causa a un trauma infantile legato allo smarrimento del fratello Alberto che tutti erano convinti fosse annegato in Arno. Questo disturbo si manifesta la prima volta a 17 anni, nel 1958, in una gara allievi a Settignano. Bitossi si ferma, poi riparte e finisce terzo in una corsa vinta da Marcello Mugnaini. Il calvario dura per dieci anni, fino al Giro di Toscana del 1968, dove, dopo una crisi, Bitossi vince.
Il 14 ottobre 1961, a Termoli, ottiene la prima vittoria da professionista, seguita da un lungo periodo di eclisse: tre anni senza vittorie, problemi legati al cuore e la tentazione di smettere. Riemerge dal tunnel il 18 maggio 1964 al Giro nella Brescia - San Pellegrino (193 km), quando, sulla Presolana, basta un piccolo urto con Baldini per innescare una crisi: Bitossi si siede su un paracarro e piange, poi si rimette in sella, insegue e vince. Questa vittoria produce la metamorfosi.
Bitossi s'impone in quattro tappe di quel Giro: San Pellegrino, Livorno, Santa Margherita Ligure e Pinerolo. Come Coppi vince la Cuneo-Pinerolo che onora con una fuga d'altri tempi. È il 5 giugno 1964 e Bitossi ha già avuto un attacco di tachicardia sul Col della Maddalena, ma è rientrato a Vars. Attacca a Guillestre, a 130 km dal traguardo, sale in solitudine magnifica per la Casse Deserte, scollina sull'Izoard con 6′25″ di vantaggio che sul Monginevro diventano 7′10″. Poi incomincia la caccia: sul Sestriere Bitossi mantiene 3′55″ di vantaggio. Solo contro sette (Anquetil, Adorni, Motta, Guido De Rosso, Zilioli, Zimmermann ed Enzo Moser) resiste e vince con 1′58″ di vantaggio.
Bitossi è un corridore brillante, creativo, veloce e ha il gusto dell'impresa. Nel 'tappone' dolomitico al Giro del 1966 passa primo su Pordoi, Falzarego, Forcella Cibiana e passo Duran; poi, in crisi di fame, viene ripreso dopo 170 km di fuga a due passi dal traguardo di Belluno.
Indossa per tre volte la maglia tricolore. Il 21 giugno 1970 si gareggia sul percorso del Giro del Veneto e Bitossi va in fuga con Gimondi e lo batte in volata: il primo degli inseguitori Marino Basso arriva a 5′43″. L'anno dopo a Prato Bitossi brucia ancora Gimondi in volata, mentre terzo è Enrico Paolini. Il tris Cuorematto lo ottiene il 29 settembre 1976, a 36 anni, sul percorso della Coppa Bernocchi, battendo allo sprint il campione uscente Francesco Moser. Per due volte è anche campione italiano di ciclocross.
Al Giro infila una collana di 21 vittorie di tappa, una meno di Coppi, e vince anche per tre volte il Gran Premio della Montagna. Al Tour s'impone in 4 tappe e nella classifica a punti. Vince il Giro della Svizzera, insieme a 8 tappe, il Giro di Catalogna, la Tirreno-Adriatico, per due volte il Giro di Lombardia e il Campionato di Zurigo. Chiude con un bottino di 142 vittorie, alcune di eccezionale qualità.
Tra le sue imprese più esaltanti quella del 10 ottobre 1970, quando nel Giro di Lombardia, dopo un attacco di Gimondi, Bitossi sorprende Merckx in contrattacco, si unisce al fuggitivo e poi lo batte allo stadio Sinigaglia di Como. Terzo è Motta (a oltre due minuti), quarto Merckx, quinto Hermann Van Springel, sesto Ritter, settimo Luis Ocaña.
Nella storia del ciclismo i gentlemen non mancano. Binda, Cinelli, Leoni, Bobet lo erano, come anche Vittorio Adorni: elegante, dentro e fuori corsa. Ha frequentato la scuola solo fino alla quinta elementare, ma si esprime con proprietà e misura; arrivando al successo nell'era in cui si afferma la televisione, trasforma il ciclista mangiapolvere in attore garbato.
Nasce a San Lazzaro di Parma il 14 novembre 1937, da Giovanni e Ines. A 11 anni va a lavorare a Parma nell'orologeria Ciliàn e dopo tre anni presso un negozio di ferramenta, per poi finire alla Barilla, dove Pietro Barilla in persona ‒ quando scopre che il giovane Vittorio si alza alle quattro del mattino per allenarsi ‒ gli consente di incominciare il lavoro con un paio d'ore di ritardo, per recuperare meglio. Così Vittorio diventa 'probabile olimpico'. È conteso da Costa, commissario tecnico della pista, e Rimedio, commissario tecnico della strada. Alla fine, al velodromo olimpico dell'EUR, è solo riserva e assiste alla vittoria di Arienti, Testa, Vallotto e Vigna nell'inseguimento. Infuriato per aver mancato quell'appuntamento, vince una decina di corse nello spazio di due mesi e il direttore sportivo Guerra gli chiede di passare professionista con lui.
Guerra è un maestro della corsa d'attacco. Il suo allievo Adorni si presenta al Giro il 3 giugno 1962, il giorno dopo che questo era stato sconvolto e decimato da una tormenta. In quella corsa Adorni spicca il volo sul Tonale, scollina solo, plana sicuro nel suo primo volo, risale con stile elegante la montagna, vince all'Aprica con 3′26″ di vantaggio. È l'entrata in scena di un campione. Eccellente passista, discesista coraggioso, capace di difendersi bene in montagna, Adorni sa preparare attacchi profondi che lasciano il segno. Anquetil, già nel 1964, lo considera il miglior corridore italiano.
Campione italiano dell'inseguimento dilettanti nel 1959, la pista gli ha affinato lo stile, ma Adorni sceglie la strada. Regala una grande performance al Giro del 1965. Nella sesta tappa, il 20 maggio, vince in solitudine in modo superbo a Potenza, staccando Bitossi di 2′48″. Domina la cronometro di Taormina, nella quale un esordiente, il suo compagno Gimondi, finisce secondo a 1′22″. Compie un'impresa storica, il 3 giugno, nel 'tappone' di Madesimo con quattro passi: Furka, San Gottardo, Piccolo San Bernardo, Spluga. Attacca in maglia rosa e, dopo una cavalcata solitaria, arriva al traguardo con 3′33″ su Taccone e 4′49″ su Bitossi. Vince il Giro con 11′26″ di vantaggio su Zilioli: nessuno più riuscirà a imporsi con un distacco così ampio.
Adorni diventa anche celebre per i secondi posti: al Giro del 1963 dietro a Balmamion e in quello del 1968 dietro a Merckx, al Campionato del Mondo di Sallanches nel 1964 dietro a Janssen, nella Sanremo del 1965 dietro a Den Hartog per essere partito troppo lontano nella volata. Sale tre volte sul podio della Liegi-Bastogne-Liegi senza vincere mai.
Però, il 1° settembre 1968, cancella ogni rimpianto nel Mondiale di Imola con una vittoria memorabile, al termine di una fuga pazza, in cui lascia il secondo, Van Springel, staccato di 9′50″. È la sua impresa più grande.
Adorni si mostra un grande stratega in corsa e per questo Merckx lo sceglie come luogotenente. Si muove bene in gruppo, lascia la prima linea e si trasforma in tessitore. Ma, nel 1969, vince il Giro della Svizzera con un grande attacco nella tappa di Crans Montana, poi nella crono finale di Zurzach (44 km) lascia Van Springel a oltre un minuto.
Imola a parte, Adorni ha regalato le sue più belle imprese al Giro d'Italia, cui è legato il suo nome per averlo vinto nel 1965 e per essersi piazzato secondo per due volte. Si è imposto in 11 tappe e ha portato per 18 giorni la maglia rosa. Ha, soprattutto, avuto il gusto dell'impresa: ha vinto, infatti, cinque tappe del Giro con azioni spettacolari, da campione, e ha battuto Anquetil a cronometro.
Troppo lento allo sprint, gli sono mancate le classiche. Campione del mondo a Imola, nel 1968, ha indossato la maglia tricolore sopra quella iridata, vincendo il titolo italiano a Reggio Calabria, bruciando Taccone. Ha regalato vittorie di alta qualità e ha offerto del ciclista un'immagine educata e gentile.
Il 17 ottobre 1964, dopo 15 anni ‒ ultimo fu Coppi ‒ un uomo solo s'impone nel Giro di Lombardia: Gianni Motta, 21 anni. È un corridore nuovo, che pratica la corsa d'attacco. Sul passo d'Intelvi Motta fa la selezione e gli resiste solo Simpson. I due scollinano con 45″ di vantaggio. Fuggono via a 60 km dal traguardo. Quando Simpson, esausto, smette di collaborare, Motta, a 20 km dall'arrivo, lo lascia e vola via tra due ali di folla entusiasta. Motta valica il San Fermo e giunge solo al traguardo con 2′03″ di vantaggio su Carmine Preziosi, un emigrante irpino di 21 anni che vive in Belgio. Offre all'esordio una grande prova di forza e di classe.
Motta è nato a Cassano d'Adda, come il celebre calciatore Valentino Mazzola, il 13 marzo 1943. Vince molto come dilettante. Al Giro di Romandia del 1964, nella cronometro di Le Locle, ottiene la prima vittoria da professionista.
Motta è un purosangue delle due ruote, spettacolare, prodigo, discontinuo. Il 6 giugno 1964 a Biella ottiene la prima vittoria al Giro: duella con Bitossi sulla Croce di Serra, lo stacca, resiste con i denti al suo ritorno e vince con 5″ di vantaggio. Poi in una settimana regala una tripletta (Gran Premio Corsico, Gran Premio Molteni, Coppa Bernocchi) e chiude la stagione con il diamante del Giro di Lombardia.
L'anno dopo però, nel Giro di Lombardia del 1965, sul San Fermo a due passi dal traguardo, si ritrova in testa insieme a Simpson, che veste la maglia iridata, ma è lui a cedere: perde così l'occasione per un bis sensazionale. Motta è un protagonista brillante e battagliero e solitamente non ha molti alleati. In due Campionati del Mondo (1966 e 1967) è il migliore in corsa. Si esaurisce però in una serie di attacchi spettacolari ma poco produttivi e finisce in entrambe le occasioni al quarto posto.
In corsa è sempre molto determinato: nel Giro del 1966 attacca già nella prima tappa sul San Bartolomeo e provoca il crollo di Anquetil, che perde 3′15″, un distacco fatale. Nel duello Gimondi-Anquetil fa la corsa a modo suo. A Campobasso, sospettato di essere al soldo di Anquetil, riceve gli sputi dei tifosi. Sul traguardo piange e vuole ritirarsi. Per fortuna non lo fa. Sulla Maddalena, sorprende Adorni, che si era molto prodigato per difendersi da un duro attacco di Julio Jiménez, e gli strappa la maglia rosa a Brescia. La consolida subito sul Vetriolo, dove vince con 3″ su Jiménez e 1′15″ su Bitossi. Poi, sull'ultima curva del passo di Lavazè, si toglie di ruota anche lo spagnolo, lo stacca in discesa, passa primo sul Costalunga, plana in Val di Fassa e arriva primo a Moena. A 23 anni vince il Giro d'Italia.
Motta ha talento e riesce a eccellere su tutti i terreni. Vince la Sei giorni di Milano in coppia prima con Van Steenbergen, poi, per tre volte, con Peter Post. A 22 anni finisce terzo al Tour alle spalle di Gimondi e Poulidor. È tra i pochi che ha il coraggio di attaccare Merckx e quando fugge con lui, come nella Milano-Sanremo del 1967, finisce secondo.
Nello stesso anno domina il Giro della Svizzera vincendo a Silvaplana e a Locarno, dove arriva solo con 5 minuti di vantaggio. Ma poi qualcosa s'inceppa. Fa discutere la presenza ingombrante di un medico. Cade e resta ferito a una gamba. È inquieto, spesso a torto. La vittoria si fa più ritrosa con lui. Motta passa con il nemico Gimondi alla Salvarani, ma non lega con lui. Cerca scorciatoie e non le trova: viene squalificato per tre volte al Giro. Si ritira a 31 anni, si lascia tentare da un ritorno inutile a 33. Non riesce a chiudere la carriera come l'aveva incominciata. In ogni caso nel suo albo d'oro figurano un Giro d'Italia, con 5 vittorie di tappa, e un Giro della Svizzera, il Giro di Lombardia, molte classiche italiane ‒ tra cui 4 Tre Valli Varesine e 3 Giri dell'Emilia ‒, due Giri di Romandia, 5 Sei giorni. Ha portato per 7 volte la maglia azzurra e per 8 giorni quella rosa. Un palmarès nobile, illuminato da lampi di grande talento.
Michele Dancelli, invece, è un corsaro splendido in bicicletta. La strada per lui è avventura audace. La sua carriera è assalto. Dancelli appartiene alla stirpe meravigliosa dei 'cavalli matti', come Piemontesi, come il triestino De Santi.
È nato l'8 maggio 1942 a Castenedolo, nel Bresciano, ultimo di sette figli. Aggressivo, coraggioso, molto veloce, è molto temuto. È lui, il 19 marzo 1970, a regalare il miracolo nella Sanremo, primo italiano a vincerla dopo un digiuno di 17 anni. Quel giorno Dancelli va in fuga a 206 km dal traguardo con 17 compagni, tra cui Van Looy, i due De Vlaeminck, Bitossi. A 80 km dal traguardo, quando sul traguardo volante di Loano Chiappano e Zilioli scattano, Dancelli li raggiunge, li salta e va alla ventura. Invano Roger De Vlaeminck lo insegue. Dancelli si produce in un superbo assolo, arrivando a scollinare su Capo Berta con 3′30″ di vantaggio. Ai piedi del Poggio ha ancora 1′32″ sul gruppo che lo insegue, riesce a tenere il vantaggio e vince con 1′39″ su Karstens, Leman, Zilioli, Godefroot, Wolfshol: una vittoria memorabile.
Dancelli vince molto, ama il rischio e infiamma le corse. Conquista la maglia rosa nella prima tappa al Giro del 1965. La porta per tre giorni nel 1967 e per 9 nel 1968. È primo in 11 tappe al Giro: in quello del 1970 è protagonista, riporta 4 successi, tra cui la tappa della Marmolada, e finisce quarto in classifica. Vince per due volte il titolo italiano. Conquista la Freccia Vallone e la Parigi-Lussemburgo. Per due volte sale sul podio del campionato del mondo, terzo nel 1968 e nel 1969. In un universo dove si afferma ormai il calcolo la sua corsa ha la bellezza dell'avventura pura.
Nel Giro di Adorni, il suo compagno di squadra Gimondi, staccato di 12′57″, finisce sul podio a 22 anni. L'anno prima si era aggiudicato il Tour de l'Avenir. È un uomo resistente, da corse a tappe.
Adorni nel 1965 va al Tour con la Salvarani. A pochi giorni dal via uno dei gregari, Babini, si ammala. Gimondi viene chiamato a sostituirlo. Si trova a Colonia accanto a Van Looy e Poulidor, Bahamontes e 'Napoléon' Anglade, davanti a sé 4188 km.
Gimondi non è un remissivo, un fragile. Il suo avvio è splendido: arriva subito secondo a Roubaix e, vincendo a Rouen la terza tappa, conquista la maglia gialla. La perde, ma la riconquista a Bagnères-de-Bigorre, dove si ritira Adorni per problemi fisici. A quel punto Gimondi diventa capitano della squadra.
Tutta la Francia tifa per Poulidor, secondo in classifica, ma sul Mont Ventoux Gimondi resiste al suo assalto. Poulidor, staccato di soli 39″ in classifica, è convinto di liquidare il suo giovane rivale nella cronometro del Mont Revard (26,9 km). Ma Gimondi stupisce e la vince con 23″ su Poulidor. Poi nella cronometro finale, Versailles-Parigi (37,8 km), si conferma il migliore: s'impone con 30″ su Motta e 1′08″ su Poulidor. Trionfa al Tour a 22 anni al primo assalto con 2′40″ su Poulidor e 9′18″ su Motta, che sale sul podio.
Nella primavera successiva in sette giorni Gimondi vince in solitudine la Parigi-Roubaix e la Parigi-Bruxelles. Il 17 aprile 1966, nella Roubaix, regala un'impresa memorabile: con Dancelli raggiunge l'uomo di testa De Boever e poi sul celebre Pas Rolland, a 42 km dal traguardo, fugge solo sotto la pioggia. Invano un gruppo con Van Looy, Poulidor, Janssen, Merckx, Godefroot, Altig cerca di riprenderlo. Gimondi vince con 4′08″ su Janssen. E L'Équipe titola a tutta pagina "Gimondi comme Coppi".
Gimondi è un bergamasco di Sedrina, nato il 29 settembre 1942, tagliato nella roccia, un campione completo. Passista, scalatore, riesce anche a vincere in volata.
L'attesa per Gimondi al Giro del 1966 è enorme. C'è la sfida con Anquetil, che ha vinto cinque Tour, due Giri, una Vuelta. È il nuovo asso contro il vecchio re. Anquetil si fa sorprendere nella prima tappa: quando Motta attacca e scatena la bagarre, viene staccato e, nonostante un duro inseguimento, perde 3′15″. Nella terza tappa, quando Gimondi fora, è Anquetil ad andare all'assalto: Gimondi insegue per 77 km, ma alla fine perde 1′36″. A Campobasso fora di nuovo e perde altri 31 secondi. Gimondi non è invulnerabile. E anche Anquetil appare in declino. Adorni lo batte nella cronometro di Parma e indossa la maglia rosa. Motta, però, con un contrattacco sulla Maddalena, gliela strappa e poi la consolida.
Intorno ai due grandi sfidanti ci sono pretendenti bene armati. Solo nel 'tappone' dolomitico, ventesima tappa, Gimondi coglie la sua prima vittoria al Giro, dopo una fuga di 170 km di Bitossi: scatta a 6 km dal traguardo e arriva solo a Belluno con 26″ su Adorni. Troppo poco. Il Giro è di Motta, davanti a Zilioli, secondo per la terza volta. Gimondi finisce al quinto posto.
Vince la Coppa Agostoni, la Coppa Placci, la Corsa di Coppi a Salsomaggiore. Grazie al gioco di squadra ritrova la grande vittoria il 22 ottobre al Giro di Lombardia. Con Adorni, suo compagno alla Salvarani, dà battaglia sul San Fermo, ma Anquetil, che è in lotta con lui per il Superprestige, non lo molla. Restano in sei: tra loro ci sono Merckx e Dancelli molto veloci. Adorni entra per primo al Sinigaglia con alla ruota Gimondi. Alla campana Merckx cerca di forzare il passaggio all'interno, ma Adorni lotta spalla a spalla e lo tiene al limite del regolamento, finché non lo costringe a frenare. Gimondi controlla Dancelli all'esterno e vince precedendo Merckx, Poulidor e Anquetil. Un grande ordine d'arrivo.
Il 20 maggio 1967, al via del Giro, Gimondi ritrova Merckx, che ha dominato la primavera, Anquetil, che ha per gregario il vincitore del Tour Aimar, Adorni e Motta. L'8 giugno Gimondi precede Merckx di 4″ sulle Tre Cime di Lavaredo, ma la tappa viene annullata per le spinte. Uno scandalo che ha raggiunto limiti intollerabili. Anquetil, ormai vulnerabile, si salva nel 'tappone' dolomitico solo perché non c'è intesa tra i rivali: solo, staccato di 1′18″ a 50 km dal traguardo di Trento, riesce a rientrare nei falsipiani della Valsugana. Lì Gimondi ha 34″ di ritardo dal francese in maglia rosa e, con disappunto, sente che alla tappa Trento-Tirano viene 'tolto' lo Stelvio. Gli restano il Tonale e l'Aprica. Il 10 giugno, con Motta, attacca sul Tonale. Anquetil scollina a 1′10″, però rientra in discesa pilotato dal vincitore dell'ultimo Tour Aimar. Gimondi sembra vinto, ma, a 6 km da Edolo, all'improvviso, parte in contrattacco. È una cavalcata superba, Gimondi arriva a Tirano con 4′09″ su Anquetil, gli strappa la maglia rosa e vince il suo primo Giro.
Gimondi prova subito la doppietta Giro-Tour. Ma nella quinta tappa lascia troppo spazio al francese Roger Pingeon, che gli guadagna 6′22″. Pingeon è un don Chisciotte sempre sospeso tra il volo e la caduta. Quell'anno vola. Gimondi, invece, sul Col de Mente nei Pirenei, vittima di problemi intestinali, crolla. Mostra la sua classe, regalando una bella vittoria in solitudine sul Puy de Dôme, ma finisce solo settimo. La doppietta resterà per lui sempre inarrivabile.
L'anno dopo è già troppo tardi per ritentarla. È incominciata l'era Merckx, che sarebbe durata per otto anni. Eppure Gimondi non si rassegna, non si piega. Esplora ogni spiraglio, ogni possibilità. Vince il Giro del 1969 grazie alla squalifica di Merckx. Coglie il tiranno stanco nel Mondiale 1973 di Barcellona e si veste della maglia iridata. Vince un secondo Giro di Lombardia per la squalifica di Merckx, dopo essere stato staccato nettamente in gara.
Il 18 maggio 1974, in maglia iridata, attacca a San Lorenzo a Mare, poi stacca Huysmans e Demeyer, ultimi a opporsi, e vince a braccia alzate la Milano-Sanremo, con 1′53″ su Leman, De Vlaeminck, Bitossi. Una grande vittoria. Poi, nel 1976, a 34 anni, fa il tris al Giro davanti a Merckx. Un sorpasso memorabile. Tenace, duro, Gimondi ha resistito più di quel conquistatore.
Il suo palmarès è davvero notevole. È l'unico italiano ad aver vinto le tre grandi corse a tappe: Giro, Tour e Vuelta. Al Giro si è piazzato per 9 volte sul podio: 3 primo, 2 secondo e 4 terzo. Ha vinto un Tour e nel 1972 è giunto secondo dietro Merckx. Si è aggiudicato 7 tappe al Giro, 7 al Tour e una alla Vuelta. Ha portato per 24 giorni la maglia rosa, per 19 la maglia gialla, per 5 la maglia amarillo. È stato campione del mondo e per due volte campione italiano (1968 e 1972). Ha vinto 6 classiche: Parigi-Roubaix 1966, Milano-Sanremo 1974, due Giri di Lombardia (1966 e 1973) e due Parigi-Bruxelles (nel 1966 e, dieci anni dopo, nel 1976). Oltre al Giro di Romandia, al Giro di Catalogna, a due Gran Premi delle Nazioni e a un numero cospicuo di classiche italiane e di cronometro. È stato, nell'era di Merckx, un guerriero fiero e irriducibile.
Il 19 marzo 1966 un belga di vent'anni, Eddy Merckx, si presenta alla Sanremo e la vince con uno sprint folgorante: i suiveurs ricordano allora che nel Mondiale dilettanti di Sallanches 1964, all'ultimo giro, scattò sulla Côte de Passy e giunse solo al traguardo.
Nel 1967 Merckx si ripresenta alla Milano-Sanremo. Attacca dopo Imperia, solo Motta gli resiste. Sul Poggio si riportano sotto Gimondi e Bitossi. Merckx vince la volata a quattro. Due vittorie su due. Ha 21 anni.
Merckx è nato a Meensel Kiezegem, nel Brabante, il 17 giugno 1945. Debutta professionista a vent'anni con la Flandria e nello spazio di due anni diventa un re. Nel 1967, dopo il bis nella Sanremo, s'impone nella Gand-Wevelgem e nella Freccia Vallone. Al Giro d'Italia scopre qualità da scalatore arrivando solo sul Block Haus nella Maiella. Batte in volata Willy Planckaert a Lido degli Estensi, dimostrando doti di velocista di grandissimo livello. Per venti tappe resta in lizza per la vittoria, prima di essere fulminato da una crisi sul Tonale e di perdere 10′20″ da Gimondi a Tirano. Ma il 3 settembre 1967, al Mondiale di Heerlen, Merckx va in fuga con Motta dopo 5 chilometri di corsa, guerreggia impavido e alla fine, sul traguardo, brucia Janssen, Saez e Motta.
Giacotto lo ingaggia alla Faema nel 1968 e il Giro rivela che Merckx è anche uomo da corse a tappe. Ha appena vinto la sua prima Roubaix con una corsa di selezione e si presenta protetto da un mentore ideale, Adorni. Veste subito la maglia rosa a Novara. Con Motta, positivo al controllo anti-doping e squalificato a fine Giro, stacca tutti a St.-Vincent. Cede la maglia rosa a Dancelli nella terza tappa, ma, il 1° giugno, la riconquista sulle Tre Cime di Lavaredo con un acuto memorabile. Va via con Adorni a 12 km dal traguardo, rimonta tutti i fuggitivi, ultimo Polidori, poi resta solo nella bufera e schianta gli avversari: Motta finisce a 4′08″, Zilioli a 5′12″, Gimondi a 6′19″. A 23 anni è il primo belga a vincere il Giro: Adorni è secondo a 5′01″, Gimondi terzo a 9′05″.
Gimondi, in quel Giro, riesce ancora a battere Merckx per 39″ nella cronometro di San Marino. Ma tre mesi dopo, il 13 settembre, nella cronometro di Rosas al Giro di Catalogna Merckx prevale. È ormai il migliore anche nelle prove contro il tempo. Al Giro del 1969, infatti, nella stessa cronometro di San Marino, lascia Gimondi a 1′07″. Aveva già inanellato in avvio di stagione tre grandi vittorie: Sanremo, Giro delle Fiandre e Liegi-Bastogne-Liegi.
Il suo dominio è scosso da un evento clamoroso. Il 1° giugno a Savona Merckx, in maglia rosa, lanciato verso il bis al Giro, risulta positivo. Si parla di complotto, il pianto di Merckx suscita indignazione; perfino Indro Montanelli, sul Corriere della sera, scrive un pezzo intitolato "Tutti a casa": per protesta, anzi per sdegno. Merckx viene espulso dalla corsa e squalificato. Solo così Gimondi vince il suo secondo Giro.
Il 28 giugno 1969 un Merckx dolente e graziato si presenta a Roubaix all'esordio nel Tour. Ci si interroga sul suo conto. Invece è sfolgorante nella rivincita. Sbaraglia il campo. Vince sette tappe. Il primo giorno è già leader. Arriva solo sul Ballon d'Alsace. Batte Gimondi in volata a Digne e gli concede la rivincita il giorno dopo a Aubagne. Domina la cronoscalata sul Mont Revel.
Il 15 luglio, nella Luchon-Mourenx, quindicesima tappa, va all'attacco, in maglia gialla, sul Tourmalet, supera l'Aubisque, fugge solo per 130 km e vince con 7′56″ di vantaggio su Dancelli. S'impone nelle tre cronometro. Vince il Tour al primo assalto con 17′54″ su Pingeon. Gimondi è quarto a 29′24″. Merckx appare incontenibile.
La sua sconfitta, quando accade, stupisce ed è subito seguita dalla feroce rivincita. Nel 1970, nella Sanremo di Dancelli, Merckx finisce ottavo, ma si ripaga con la Gand-Wevelgem, la Roubaix e la Freccia Vallone. Poi conquista la doppietta Giro-Tour. Al Giro si presenta sovrappeso e viene staccato sul Croce Domini, ma il giorno dopo attacca sul Monte Baldo e vince in solitudine. Nella cronometro di Treviso infligge 1′46″ al primatista dell'ora Ritter. Vince il Giro, risparmiandosi, con 3′14″ su Gimondi. Al Tour esercita una vera tirannia. Vince il prologo, concede la maglia gialla per sei giorni al suo scudiero Zilioli, s'impone in altre sette tappe e alla fine è primo con margini enormi sugli avversari.
Nel 1971 Merckx va con Albani alla Molteni. Passa come un ciclone vincendo Milano-Sanremo, Liegi-Bastogne-Liegi, Tour, Mondiale e Giro di Lombardia. Salta il Giro d'Italia che viene vinto da un outsider, lo svedese Gosta Pettersson, ben pilotato da Alfredo Martini. Quell'anno al Tour Merckx conosce difficoltà nuove. Ocaña lo stacca di 15″ sul Puy de Dôme; poi, attaccandolo con altri sul Col de Porte, gli infligge 1′38″ a Grenoble. Il giorno dopo, 9 luglio, nella Grenoble-Orcières-Merlette (134 km), Ocaña lo attacca di nuovo sulla Côte de Laffrey e, poi, sul Col de Noyer se ne va solo. È un braccio di ferro memorabile. Un uomo audace, finalmente, sfida il tiranno.
Nessuno aiuta Merckx, costretto a inseguire per 77 km Ocaña, il quale, davvero straordinario quel giorno, dà tutto in questo assalto formidabile. Sul traguardo precede Merckx di 8′42″ e diventa primo in classifica con 8′43″ su Zoetemelk. Per Merckx è la più bruciante delle sconfitte. Sembra un colpo micidiale. Nella disfatta, però, si scopre la forza dell'uomo. Dopo un giorno di riposo, nella tappa seguente, Orcières-Merlette - Marsiglia, Merckx contrattacca per 251 km e alla fine guadagna 2′12″ a Ocaña. La sfida è brutale. Nella crono di Albi solo 11″ separano Merckx dal rivale.
Arrivano i Pirenei con promesse di guerra. Sono i monti di Ocaña. Li presidia la sua gente. Merckx attacca a più riprese sul Col de Mente. Ocaña, in maglia gialla, è costretto a difendersi. Resta incollato alla ruota di Merckx. Poi si scatena la tempesta. Rovesci d'acqua. Torrenti sulla strada. In un ambiente infernale Merckx si lancia a corpo morto nella discesa. Sa che il rivale ha una bici corta, meno stabile, e rischia per seminarlo. Fa una curva a sinistra sparato, slitta, urta il muro, cade e riparte subito. Due spettatori accorrono. Ocaña, che sopraggiunge, li investe. Poi, mentre cerca di rialzarsi, viene centrato in pieno da Zoetemelk, poi anche da López Carril e Agostinho. Finisce all'ospedale. Quel 10 luglio Ocaña è defenestrato così, in modo crudele. Merckx, che alla partenza della tappa era secondo a 7′23″ da Ocaña, si ritrova leader. Vince il terzo Tour consecutivo grazie alla sua audacia e al fato. Poi riveste la maglia iridata a Mendrisio, bruciando Gimondi.
Ritrova Ocaña il 9 ottobre 1971 al Giro di Lombardia. Merckx parte da solo a 45 km dal traguardo, Ocaña è il più tenace degli inseguitori. Poi, non trovando collaborazione, si ferma sdegnato e si ritira. Merckx vince con 3′31″ su Bitossi.
Nel 1972 ripete la doppietta Giro-Tour, ma vince anche la Sanremo staccando tutti nella discesa del Poggio, si aggiudica la Liegi-Bastogne-Liegi, la Freccia Vallone e, con un assolo di 46 km, il Giro di Lombardia. Migliora il record dell'ora a Città del Messico, coprendo 49,431 km. Invano al Giro viene attaccato dal vincitore della Vuelta, José Manuel Fuente, uno spagnolo ardente, che in montagna sa ripetere gli scatti con alti rapporti. Invano Ocaña e Thevenet lo attaccano al Tour. Merckx appare invincibile.
Nel 1973 vince quattro classiche, tra cui la Roubaix con un assolo di 42 km. Doma Ocaña alla Vuelta. Poi porta la maglia rosa dal primo all'ultimo giorno. Per Merckx la vittoria è la norma. Desta stupore la sconfitta. Come nel Campionato del Mondo di Barcellona, quando viene incredibilmente battuto in volata da Gimondi.
In Italia Merckx finisce al centro di un nuovo caso. Il 13 ottobre 1973 s'impone nel Giro di Lombardia con una fuga solitaria di 60 km, infliggendo 4′15″ a Gimondi; risulta però positivo per stimolanti e viene squalificato. Il suo medico, dott. Cavalli, si autoaccusa di avergli somministrato del Mucantil, un farmaco che contiene efedrina.
Gimondi conosce un momento di luce. Il 18 marzo 1974, in maglia iridata, vince la Milano-Sanremo per distacco, lasciando Leman a 1′53″. Merckx, però, non c'è. Si ripresenta al Giro, dove Fuente, che ha vinto la sua seconda Vuelta, lo fa soffrire. Fuente in montagna ha una sola legge: l'attacco. Al Giro d'Italia fa penare Merckx come nessuno è mai riuscito a fare. Lo stacca, infatti, sul Faito e gli prende 42″; lo ristacca sul Carpegna e gli infligge 1′05″; lo semina anche sul Ciocco, guadagnando altri 41″. Merckx, però, è duro come il granito. Si accontenta di limitare i danni. Gli basta la cronometro di Forte dei Marmi per annullare lo svantaggio. Poi, sul Ghimbegna, porta a Fuente la stoccata decisiva. Non è però più un Merckx invincibile. Fuente lo lascia di nuovo indietro a Iseo e, soprattutto, sulle Tre Cime di Lavaredo.
Quel giorno, 6 giugno 1974, Merckx sfiora la sconfitta per opera di un giovane nuovo, Giovan Battista Baronchelli. Questi attacca la maglia rosa a 2 km dal traguardo. Merckx, che in classifica ha su di lui soltanto un margine di 33″, si pianta, sprofonda. Ma, a 400 metri dal traguardo, con una torsione d'orgoglio, sprinta e conserva la maglia rosa per 12″. Vince il Giro per la quinta volta, ma con un vantaggio minimo.
Il suo trono sembra vacillare. Invece Merckx vince di seguito Giro della Svizzera e Tour. Il quinto Tour su cinque partecipazioni. Poi, il 25 agosto, a Montreal, coglie la sua terza vittoria nel Mondiale, battendo in volata Poulidor.
Merckx sembra non conoscere tramonto. Incomincia il 1975 in modo travolgente: nello spazio di un mese vince Milano-Sanremo, Amstel Gold Race, Giro delle Fiandre e Liegi-Bastogne-Liegi. Ma Thevenet al Tour lo stacca in montagna a St.-Lary-Soulan e sul Puy de Dôme. Poi gli infligge il colpo decisivo a Pra-Loup, dove si registra un capovolgimento spettacolare e clamoroso. Merckx, all'attacco dell'ultima salita, a 6,5 km dal traguardo, ha 1′10″ di vantaggio su Thevenet, ma viene folgorato dalla crisi a 4 km dalla conclusione. Thevenet lo salta, gli infligge 1′56″, gli strappa la maglia gialla. Il giorno dopo lo stacca di 2′22″ a Serre-Chevalier. Per la prima volta Merckx è battuto al Tour.
La curva di luce di Merckx si spegne a trent'anni. Il 19 marzo 1976 regala ancora il lampo della settima vittoria nella Milano-Sanremo: Merckx arriva solo con 28″ su Panizza.
Il palmarès di Merckx è il più ricco della storia: 5 Giri, 5 Tour, una Vuelta, 4 mondiali su strada (uno da dilettante, 3 da professionista), 7 Milano-Sanremo, 5 Liegi-Bastogne-Liegi, 3 Parigi-Roubaix, 3 Freccia Vallone, 3 Gand-Wevelgem, 2 Giri di Lombardia, 2 Giri delle Fiandre, 2 Amstel Gold Race, una Parigi-Bruxelles e una Henninger Turm, il record dell'ora. Al Giro ha vinto 25 tappe e indossato per 77 volte la maglia rosa, al Tour ha conquistato 34 tappe e vestito per 111 volte la maglia gialla. Alla Vuelta, nella sfida con Ocaña, è arrivato primo per 7 volte portando per 11 tappe la maglia amarillo.
Merckx rende più grandi anche i rivali che hanno cercato di contrastarlo: Motta e Gimondi, Ocaña e Thevenet, Godefroot e Roger De Vlaeminck nelle classiche, il favoloso Fuente in montagna. Merckx è stato il più superbo interprete della corsa d'attacco. L'offensiva era la sua legge. Merckx, ha scritto Antoine Blondin, "appartiene semplicemente al patrimonio universale dello sforzo umano, sullo stesso piano dei cosmonauti che vanno sulla Luna".
Nella prima settimana del Tour 1975 un corridore nuovo mette a ferro e fuoco la corsa. Vince e indossa la maglia gialla. Francesco Moser è l'ottavo degli undici figli di Ignazio e Cecilia, due contadini della Val di Cembra, in Trentino. Per raggiungere casa, a Palù di Giovo, deve percorrere una salita affilata come un coltello. Eppure, nato tra i monti, li patisce. Ma è il primo italiano a suo agio nel pavé. Entra di forza nella leggenda della Roubaix con tre stupende vittorie in solitudine.
Moser è il quarto di una famiglia di corridori. Il primo a correre è Aldo, classe 1934, un uomo capace nel 1959 di vincere il Gran Premio delle Nazioni a cronometro battendo di 4″ Rivière, di finire quinto e sesto al Giro, di vincere due Baracchi in coppia con Baldini. Aldo, però, non ha volata, così è un eterno piazzato: in 15 Giri d'Italia non vince mai una tappa, anche se veste la maglia rosa e per cento volte arriva con il primo gruppo. Anche Enzo, classe 1940, si mette in sella: come Aldo veste la maglia rosa. Poi anche Diego, nato nel 1947, cavalca la bici. L'ultimo è Francesco, nato il 19 giugno 1951.
Quando Francesco ha 13 anni, il padre Ignazio muore, colpito da ictus, mentre taglia l'erba in un campo. Francesco lavora duro in campagna e si tempra. Nella sua vita la bici da corsa compare tardi, solo quando il fratello Diego gli presta una vecchia Atala. Francesco ci prende gusto e presto Aldo gli regala una moderna Cinelli. A 18 anni Francesco comincia a gareggiare. Ottiene la prima vittoria a Cavareno in Val di Non e, in settembre, a Velletri diventa campione italiano del Centro sportivo italiano. L'anno dopo è già azzurro. Ai Giochi di Monaco 1972 finisce settimo nella gara su strada e nono nella prova a cronometro. Diventa campione italiano dilettanti. Poi passa professionista nel 1973.
Il 2 giugno dello stesso anno vince la sua prima tappa del Giro d'Italia a Firenze, battendo Poggiali e Fuente. Fatica in avvio, ma l'anno successivo è subito protagonista della Parigi-Roubaix. A 22 anni, all'esordio, Moser attacca a Solesmes, poi riprova a Bouvignies, infine a Templeuve. Si trova solo in testa a 25 km dall'arrivo, con 50″ di vantaggio. Roger De Vlaeminck si lancia al suo inseguimento. Solo per una foratura Moser viene raggiunto a 11 km dal traguardo. Poi, mentre cerca di seguire quel virtuoso del ciclocross, in una curva insidiosa cade e finisce secondo a 57″ dal belga. Nel 1976 arriva di nuovo secondo, bruciato allo sprint da Marc Demeyer. La Roubaix sembra una corsa maledetta per lui. Ma a Moser non manca certo l'ostinazione.
Il 16 aprile 1978, sotto la pioggia, si presenta alla Roubaix con la maglia di campione del mondo. La sua azione, a Bachy, a 23 km dal traguardo, fa esplodere il gruppetto di testa. Sul pavé di Wannehain Moser si isola al comando e con un assolo fantastico semina i rivali. Giunge al traguardo con 1′40″ su De Vlaeminck, Raas e Maertens. E L'Équipe titola a tutta pagina "Un arc-en-ciel sur Roubaix".
L'8 aprile 1979 c'è il sole, quando sul pavé di Wannehain Demeyer attacca. Solo Kuiper, Moser e De Vlaeminck rispondono. Poi, uno dopo l'altro, i rivali forano. Moser insiste da solo e forza, così, quando a 11 km dal traguardo fora a sua volta, nessuno può più raggiungerlo. Vince, a quattro giorni dal suo successo nella Gand-Wevelgem, con 40″ su De Vlaeminck.
Il 13 aprile 1980, a 90 km dal traguardo, Moser fa già parte del quartetto di testa, con De Vlaeminck, Thurau e Duclos-Lassalle. Impone un ritmo infernale. Prova più volte ad andarsene da solo. Ultimo a cedere, a 15 km dall'arrivo, è Thurau. Moser vince con 1′48″ di vantaggio. Tre vittorie di fila, come il grande Lapize.
Moser ha uno stile di corsa che piace molto, al tempo stesso audace e generoso. In questo modo riesce presto a conquistare la maglia azzurra. È settimo nel 1974 a Montreal all'esordio mondiale. Solo Merckx gli nega la vittoria nella Milano-Sanremo del 1975. Diventa campione d'Italia a Pescara bruciando Lualdi in un arrivo a due. Infiamma il Tour in maglia gialla.
In tre campionati del mondo consecutivi (1976-78) fa sempre la selezione e arriva con un solo compagno a giocarsi la vittoria: vince a San Cristóbal nel 1977, battendo Thurau, ma viene trafitto da Maertens a Ostuni e da Kneteman ad Adenau. S'impone al Giro di Lombardia già nel 1975, quando, con due compagni di strada, Paolini e Chinetti, stacca di 1′17″ De Vlaeminck, Maertens e Merckx.
Diventa grande protagonista del Giro, dove insegue la vittoria che gli sfugge davanti alla ruota come un miraggio. Si batte sempre con furore, arrivando spesso a polemizzare con De Vlaeminck, Saronni e Baronchelli. Però vince 23 tappe e porta per 57 giorni la maglia rosa. È uno specialista di tappe a cronometro, potente ed elegante. È un guerriero irriducibile, che non accetta la resa e sa risorgere. Solo all'undicesimo tentativo, nel 1984, raggiunge la vittoria al Giro.
Nell'anno in cui Moser diventa campione del mondo, un ragazzo di 19 anni passa professionista. Si chiama Giuseppe Saronni. È nato a Novara il 22 settembre 1957, sei anni più giovane di Moser. Anche lui viene da una famiglia di ciclisti. Il fratello maggiore, Antonio, classe 1956, è campione italiano di ciclocross. Anche il fratello minore Alberto, classe 1961, corre. Suo padre Romano e il nonno paterno erano stati corridori. Il nonno materno Tito Brambilla aveva disputato il Giro ed era cugino di Cesare Brambilla, vincitore del secondo Giro di Lombardia. Del resto anche Pierre Brambilla, spodestato da Robic nell'ultima tappa del Tour del 1947, appartiene alla stessa famiglia.
Saronni viene dalla pista. Campione italiano della velocità allievi e junior, è campione junior anche nell'inseguimento. Gareggia ai Giochi di Montreal 1976 con il quartetto dell'inseguimento, eliminato nei quarti. La pista gli ha affinato lo scatto, rapido e pungente.
Il 23 febbraio 1977 esordisce tra i professionisti ed è secondo a Laigueglia, battuto solo da Maertens. Riporta 8 vittorie nella prima stagione: anche classiche come la Tre Valli Varesine, il Giro del Friuli, il Giro del Veneto. Veste la maglia azzurra a San Cristóbal ed è subito nono.
Nel 1978 sfiora la vittoria alla Milano-Sanremo. La sua ruota è veloce e vincente. Ha un esordio folgorante al Giro: si aggiudica tre delle prime otto tappe con volate vittoriose su Van Linden, De Vlaeminck, Moser. Finisce quinto in classifica generale e vince la classifica a punti. Non male per un ragazzo di vent'anni. Al Mondiale di Adenau si piazza quarto a un pugno di secondi dal vincitore Knetemann. Chiude la stagione con 28 vittorie.
Si propone ormai come sfidante di Moser. È più veloce di lui e più furbo. Nel 1979 imperversa subito in avvio di stagione. Per la seconda volta consecutiva Roger De Vlaeminck gli impedisce di vincere la Sanremo, ma Saronni, secondo, precede Moser, quarto. Alla vigilia del Giro Saronni sconfigge Moser in una volata a due nel Campionato di Zurigo e s'impone con autorità nel Giro di Romandia.
Il Giro 1979 parte da Firenze, che ritrova le vecchie divisioni. I tifosi di Moser contro quelli di Saronni, come guelfi e ghibellini, bianchi e neri. L'organizzatore del Giro, Vincenzo Torriani, ha allestito una corsa su misura per Moser: ha inserito 5 cronometro e limato le montagne. Baronchelli lo rifiuta con sdegno. In avvio Moser conquista 3″ a Saronni, quanto basta per indossare la maglia rosa. Nella cronometro successiva, dalla reggia di Caserta al Maschio Angioino di Napoli, Moser vola a quasi 50 km/h e in 31 chilometri infligge 26″ a Saronni. Indossa per otto giorni la maglia rosa, sicuro, fiducioso. Ma Saronni gli fa sentire gli artigli bruciandolo in volata a Vieste.
Moser attende tranquillo la terza cronometro a San Marino, 28 km impegnativi. È il 25 maggio 1979. E il responso della corsa è sorprendente. Saronni vince la cronometro e precede Moser di 1′24″, strappandogli la maglia rosa. Ci si attende la replica di Moser, ma non arriva. Moser soffre di congiuntivite virale e nella quarta cronometro, a Portovenere, Saronni gli strappa altri 38″. Sul Penice Saronni insolentisce con gli scatti Moser, che rientra in discesa. A Pieve di Cadore con uno scatto a 800 metri dal traguardo gli leva altri 6 secondi. E Moser, ferito nel cuore, in televisione dichiara che avrebbe cercato di fargli perdere il Giro. Saronni, invece, teme Knudsen.
Moser mantiene subito fede alla parola data, forza sul Pordoi e vince a Trento, obbligando Knudsen a cedere. Spiana così la strada al rivale per il trionfo. Al via dell'ultima cronometro, Cesano Maderno - Milano (44 km), Saronni ha 1′48″ di vantaggio su Moser. Servirebbe l'impresa, invece Saronni domina quell'ultima tappa, lascia Moser a 21″ e vince a 21 anni il Giro. Dopo Marchisio e Coppi è il più giovane vincitore. Moser, secondo a 2′09″, fallisce per la sesta volta l'assalto al Giro, per lui è una sconfitta molto amara.
Saronni ha una volata che trafigge. Il suo sprint è il balenio di una scimitarra. E la sua lingua punge. Moser è più estroverso e generoso. Saronni è furbo e calcolatore. Sono tutti e due orgogliosi. Non negano mai all'avversario la freccia di una risposta. Si sfidano dentro e fuori la strada. Moser usa la spada, Saronni il fioretto. Sboccia un duello che accende l'Italia. Il tifo si divide come ai tempi di Binda e Guerra, Bartali e Coppi. L'acme viene raggiunto nel 1981, proprio quando la parabola di Moser conosce il suo punto più basso.
Il destino ha voluto che al mondiale Moser e Saronni siano stati sconfitti dallo stesso avversario, Freddy Maertens. Questi brucia Moser sul traguardo di Ostuni nel 1976. È un asso. Sa essere irresistibile: quando vince la Vuelta nel 1977 si aggiudica 13 tappe. Ma è una testa matta, presto scompare, per riapparire cinque anni dopo a Sallanches 1981 e bruciare Saronni all'ultimo metro. Il fato regala ai due azzurri anche lo stesso riscatto. Se Moser aveva vinto a San Cristóbal, un anno dopo Ostuni, il 5 settembre 1982 Saronni s'impone a Goodwood, nel Sussex, con uno sprint folgorante, la più superba volata della storia del campionato del mondo. La strada è in leggera salita con una curva a destra. Saronni parte agli 800 metri e stacca dalla ruota ogni avversario. Li perde letteralmente lungo la strada. Vince in volata per distacco con 5″ su LeMond e 7″ su Kelly, due campioni.
Saronni, in maglia iridata, il 16 ottobre 1982 si schiera al Giro di Lombardia. Ci sono tutti i migliori: Hinault, Raas, Kelly, Kuiper, De Wolf, Argentin, Moser. Sul San Fermo scattano Visentini e Baronchelli, altri quattro corridori si aggiungono. I sei scollinano con 12″ di margine. Saronni guida l'inseguimento e lo conclude a poco più di due chilometri dal traguardo. È una volata a undici. E Saronni ripete lo sprint di Goodwood. Invano il francese Jules e Moser cercano di opporsi. Saronni vince con cinque metri di vantaggio.
È il suo momento magico. Il 19 maggio 1983 Saronni riprova l'assalto alla Sanremo. È Moser a fare la selezione nella discesa della Cipressa. Restano davanti 14 uomini all'attacco del Poggio. Provano Fernández e Bittinger. Quando scatta Saronni, vola come un falco sui due fuggiaschi, li salta, scollina con 10″, poi allarga il vantaggio in discesa. Vince la Milano-Sanremo con 44″ su Bontempi, Raas, Vanderaerden, Kelly. Una grande vittoria dopo 3 secondi posti nel triennio 1978-80.
Poi Saronni fa il bis al Giro. L'inizio è difficile ma alla quarta tappa brucia Argentin con una spinta proibita, che la giuria benigna reputa un atto di difesa. Conquista la maglia rosa alla settima tappa grazie agli abbuoni. Van Impe lo fa patire in montagna, ma Saronni rafforza la posizione nella cronometro di Parma che vince con 30″ su Visentini. Soffre sulle Dolomiti, ma si difende con le unghie e con i denti. Si presenta nella cronometro finale con 1′56″ su Visentini. Lì scampa a un tentativo di avvelenamento da parte di un dirigente della squadra del suo rivale. Visentini vince la cronometro con 49″ su Saronni. È il momento di Saronni. Ma già si intravedono le prime crepe.
Moser pare ormai avviato verso il tramonto. Quando al Giro 1983, ai piedi del San Fermo, vinto, si ritira, sembra una resa definitiva. Invece, con una torsione stupefacente, si ripresenta. In agosto il prof. Francesco Conconi gli propone l'assalto al record dell'ora. È un progetto che sfrutta tutte le possibilità della scienza. Cinque mesi di preparazione. Il prof. Antonio Dal Monte mette a punto le ruote lenticolari. La posizione viene studiata nella galleria del vento.
A Città del Messico, a 2240 m di quota, il 19 gennaio 1984 Moser batte il record dell'ora di Merckx, rompendo il muro dei 50 km. È un missile nuovo: la sua bici ha le ruote lenticolari, il manubrio a corna di bue, pedali senza fermapiedi; il corridore veste un body aderente, una calottina di seta in testa, ha il cardiofrequenzimetro; il sangue è arricchito con l'autoemotrasfusione. Moser stupisce il mondo coprendo 50,808 km nell'ora. Quattro giorni dopo arriva a 51,151 km. Merckx è superato di 1720 metri. Un anno dopo l'emotrasfusione viene bandita.
Moser è rinato. Vince la Sanremo 1984 fuggendo nella discesa del Poggio. Poi al Giro è il leader della corsa per 16 giorni, prima di essere spodestato da Fignon ad Arabba nel 'tappone' dolomitico. Fignon va in maglia rosa con 1′31″ su Moser. Questi gli toglie 10 secondi di abbuono nell'ultima volata. Poi stupisce nella cronometro finale, da Soave a Verona (42 km): infligge a Fignon 2′24″, entra trionfatore all'Arena di Verona e spezza il tabù del Giro. L'anno dopo sfiora la seconda vittoria al Giro, battuto solo da Hinault, che ha tra i suoi scudieri LeMond.
Moser chiude con un bel palmarès: campione del mondo per due volte (su strada e nell'inseguimento), campione d'Italia per 9 volte (3 su strada, 6 su pista), ha vinto 3 Parigi-Roubaix, 2 Giri di Lombardia, Milano-Sanremo, Tours-Parigi, Freccia Vallone, Campionato di Zurigo, Gand-Wevelgem, un Giro d'Italia, con 23 vittorie di tappa e 57 maglie rosa, 16 Sei giorni, record dell'ora; due tappe al Tour, dove ha portato la maglia gialla per sette giorni e due tappe alla Vuelta, dove pure ha indossato per 7 giorni la maglia amarillo.
Mentre Moser rinasce, Saronni, dopo il formidabile biennio 1982-83, a 26 anni sprofonda. Ha già un palmarès di primissimo piano: il Campionato del Mondo di Goodwood, il titolo italiano 1980 vinto per distacco, due Giri d'Italia con 24 vittorie di tappa e 49 maglie rosa, il Giro della Svizzera 1982 e, poi, Milano-Sanremo, Giro della Lombardia, Freccia Vallone, Campionato di Zurigo, due vittorie di tappa alla Vuelta. La sua è un'eclissi precoce. Nemmeno le volate lo tentano più. Si salva al Giro per la solidità della sua squadra, ma è una recita senza speranza di vittoria. Eppure i suoi guizzi favolosi, come stoccate inarrestabili, restano nella storia.
Il 18 maggio 1978 Merckx annuncia il suo ritiro dalle corse. Quattro giorni prima Hinault ha vinto la Vuelta all'esordio. Ha 23 anni. Al Tour, il 21 luglio, domina la cronometro Metz-Nancy (72 km), infliggendo 4′10″ a Zoetemelk e strappandogli la maglia gialla. Due giorni dopo trionfa a Parigi.
Hinault è un bretone, come Robic, come Bobet. È un campione nuovo. Eccellente nelle tappe a cronometro, capace di battere allo sprint Maertens e Saronni, resistente, forte in montagna, sfrutta le tecniche di punta della scienza medica. È soprannominato Le Blaireau ("il Tasso"). Il 13 ottobre 1979 vince il Giro di Lombardia con una corsa di selezione, cui resiste solo Contini.
Nella primavera 1980 s'impone, sotto la neve, nella Liegi-Bastogne-Liegi con 9′24″ su Kuiper. Quell'anno si presenta al Giro. Il 30 maggio attacca sugli Appennini e vince a Roccaraso. Poi, il 5 giugno, manda avanti il suo esploratore Jean-René Bernaudeau, stacca tutti sullo Stelvio, arriva a Bormio con il suo gregario e gli cede quella vittoria prestigiosa. Però indossa la maglia rosa e vince il Giro con 5′43″ su Panizza. Il 31 agosto diventa campione del mondo a Sallanches, dominando la corsa e arrivando solo con 1′11″ su Baronchelli, ultimo compagno d'avventura.
Hinault ha la forza e la pazienza. Nel Giro del 1982 lascia sfogare Moser, Saronni e i moschettieri della Bianchi. Poi tira una sassata a Campitello Matese e conquista la maglia rosa. Quando Silvano Contini alza la cresta, lo stende a Monte Campione.
Nel Giro del 1985 Hinault accetta la sfida di Moser, rigenerato dalla vittoria su Fignon. Moser vince il prologo di Verona. Viene sorpreso nella cronosquadre da Saronni che gli strappa per 3″ la maglia rosa e rilancia un'antica sfida. Hinault guarda con distacco. Quando si muove, sulla salita della Val Gardena, Saronni crolla e Moser perde 2′06″. Hinault vede Moser e Saronni sempre in bilico sulle salite e non ha dubbi. Vince la cronometro di Maddaloni con 53″ su Moser e indossa la maglia rosa. Controlla la corsa. Vede Saronni e Visentini perdere 6′38″ sugli Appennini. Ha un solo avversario, Moser, che è ben vivo e vince a St.-Vincent. Al via della cronometro finale, Lido di Camaiore-Lucca (48 km), Moser si trova meglio di un anno prima. Ha solo 1′15″ di distacco e 6 km in più per recuperare. Ma Hinault non è Fignon. Ha le ruote lenticolari e il manubrio a corna di bue. Concede a Moser, splendido per orgoglio, solo 7″ e si aggiudica il suo terzo Giro.
Hinault vince dieci grandi corse a tappe: 3 Giri d'Italia su tre partecipazioni, 5 Tour e 2 Vuelta. Nel suo palmarès, oltre alla maglia iridata, figurano 2 Giri di Lombardia, 2 Liegi-Bastogne-Liegi, 2 Freccia Vallone, la Roubaix, vinta in volata su De Vlaeminck e Moser, l'Amstel Gold Race, 5 Gran Premi delle Nazioni a cronometro. Hinault non esprime la superiorità schiacciante di Merckx. Deve vedersela con atleti come Moser, Saronni, LeMond, Roger De Vlaeminck, Fignon, Kelly. Ma su obiettivi mirati non perdona.
Il 23 febbraio 1969 Roger De Vlaeminck gareggia sul circuito di Magstadt, in Germania, nel Campionato del Mondo dilettanti di ciclocross. È il detentore del titolo ed è in testa, insieme a René Declercq, rispetto al quale è più veloce. Ma all'ultima curva sbanda e finisce secondo. Sei giorni dopo debutta tra i professionisti, passa da una gara di 24 km tra i campi a una di 200 su strada, il Circuit Het Volk: lo vince. Il 19 marzo solo Merckx lo precede nella Sanremo.
De Vlaeminck è un eclettico. Meglio, Roger De Vlaeminck, detto il Gitano, è uno straordinario vincitore di corse, capace di vincere competizioni diverse come la Sanremo, per tre volte, e il Giro di Lombardia, per due, e di legare per sempre il suo nome alla Parigi-Roubaix. Sale su quel podio mitico per dieci volte, con 4 vittorie e altrettanti secondi posti.
De Vlaeminck ha un gran brutto carattere, ma è un attaccante audace e micidiale. Nelle corse di un giorno è un vero predone. Il 17 aprile 1970, per esempio, sei uomini sono in fuga a Rocourt nel finale della Liegi-Bastogne-Liegi: Merckx, Verbeek, Pintens, Van Springel e i due De Vlaeminck, Eric e Roger. È quest'ultimo a entrare solo nel velodromo, precedendo di 12″ Verbeek e Merckx. Il 22 aprile 1971 Roger riprende De Schoenmacker, in fuga da 160 km, in vista del traguardo e vince la Freccia Vallone. Nel 1972 compare in Italia e si aggiudica subito la Milano-Torino, la Tirreno-Adriatico, che vince poi per sei anni consecutivi, e 4 tappe del Giro. Ogni traguardo è buono per lui. Conquista tutte le classiche italiane, anche più volte. Una vera razzia.
Il 19 marzo 1973, nella Sanremo, attacca con tre compagni, sul Capo Verde. Resta solo. Resiste davanti al gruppo scatenato e si impone con 2″ su Francioni e 4″ su Gimondi. È un finisseur micidiale, ma ha anche uno sprint che non perdona. Vince altre due Sanremo, nel 1978 e nel 1979, bruciando Saronni nel momento di maggior fulgore.
De Vlaeminck incute paura anche a Merckx. Il 12 ottobre 1974, infatti, De Vleminck lo brucia allo stadio Sinigaglia di Como e vince il Giro di Lombardia. Due anni dopo fa il bis: quando Thevenet attacca sul passo d'Intelvi, De Vlaeminck è pronto a seguirlo. Nasce una fuga a cinque che arriva al traguardo, dove il Gitano non perdona.
I limiti di De Vlaeminck vengono fuori solo nei grandi giri: non tiene per tre settimane ed è in difficoltà sulle grandi montagne. Al Giro finisce quarto nel 1975. Però vince per 3 volte la classifica a punti, 22 tappe, e indossa la maglia rosa.
S'impone nel Giro della Svizzera 1975 battendo Merckx di 55″: quella volta vince il prologo e cinque tappe su dieci. La sfida che decide si ha nell'ultima tappa, la cronometro di Affoltern am Albis di 20,4 km: lì De Vlaeminck respinge l'assalto di Merckx, battendolo per 3″.
Nel ciclocross diventa campione del mondo tra i dilettanti e tra i professionisti (1975), oltre a vincere per 5 volte il titolo belga. Sa essere protagonista in pista, nelle Sei giorni. Resta nella storia per il suo eclettismo. Nel 1975 a Yvoir è secondo nel Campionato del Mondo su strada, anticipato dall'allungo di Kuiper. Campione del Belgio per due volte, vanta un ventaglio di classiche memorabile: 4 Parigi-Roubaix, 3 Milano-Sanremo, 2 Giri di Lombardia, 2 Het Volk, oltre a Liegi-Bastogne-Liegi, Campionato di Zurigo, Freccia Vallone, Parigi-Bruxelles, Giro delle Fiandre. Odiato da molti, tacciato di tradimento da Moser e da De Muynck, spesso bandito dalla nazionale belga perché considerato un solista allergico al gioco di squadra, Roger De Vlaeminck è stato uno splendido corsaro del ciclismo mondiale.
Il 15 maggio 1982 a Cortona un esordiente al Giro indossa la maglia rosa: Laurent Fignon. È un parigino occhialuto di 21 anni. Un anticonformista. Ha appena lasciato la matematica per il ciclismo. Finisce quel Giro al quindicesimo posto.
Fignon si afferma, l'anno dopo, nel 1983. Prima accompagna Hinault nella sua Vuelta vittoriosa: lo aiuta sul Col de Serranillos a liquidare il leader Julián Gorospe, sostiene il suo capitano sofferente sul Col de Navacerrada, finisce al settimo posto e vince una tappa.
Promosso capitano per la rinuncia di Hinault, vince il Tour all'esordio. Indossa la maglia gialla per l'abbandono del leader Pascal Simon, infortunato. Poi controlla bene gli scalatori Winnen, Arroyo e Van Impe sulle Alpi. Vince la cronometro di Digione, in cui allarga i distacchi. La vittoria al Tour pone il problema della coabitazione con Hinault, che lo risolve passando alla Vie Claire.
Dieci mesi dopo il successo al Tour perde il Giro del 1984 all'ultima tappa, trafitto da Moser nella crono di Verona, ma è di gran lunga il migliore in montagna. Rivince subito il Tour piegando di forza Hinault, cui lascia solo il prologo e per 3″ soltanto. Ma lo supera di 49″ nella cronometro di Le Mans, lo stacca di 52″ in 3 km di salita a Guzet-Neige. Invano Hinault prova azioni da lontano. Scatena la battaglia campale nella tappa dell'Alpe d'Huez, ma alla fine lascia altri tre minuti al rivale. Il dominio di Fignon è schiacciante. Vince sei tappe e il Tour, staccando Hinault di 10′32″.
Pare l'uomo nuovo, atteso. Invece, mentre si afferma la stella di Greg LeMond, a causa di una tendinite Fignon sprofonda nella crisi. Ma lotta e riemerge. Vince la Freccia Vallone nel 1986. Sale sul podio alla Vuelta. È settimo al Tour.
Fignon ha il coraggio dell'attacco. Quando, il 19 marzo 1988, scatta sul Poggio, solo Fondriest gli risponde. Fignon ne sfrutta la scia, poi prevale di forza in una volata incerta e vince la Milano-Sanremo. A 8″ da lui arriva sul traguardo il gruppo.
Un anno dopo, il 18 marzo 1989, riprova. Cambia interpretazione: risponde a un attacco dell'olandese Frans Maassen e fugge con lui; sul Poggio lo stacca; scollina con 12″ di vantaggio. Fa il bis superbo con 7″ su Maassen e 30″ su Baffi che vince la volata del gruppo. È una doppietta memorabile. Quel giorno Fignon inaugura la Coppa del Mondo, la nuova competizione a punti che raggruppa le più importanti classiche e che durerà per 15 anni fino al 2004.
La metamorfosi di Fignon sorprende. Da uomo dei grandi giri a corridore da classiche. Ma Fignon, al Giro del 1989, è ancora capace di sorprendere. Nel 'tappone' dolomitico forza sulla Marmolada. Sotto il suo forcing crolla il colombiano Herrera, sul Pordoi è la volta di Roche, sul Campolongo tocca alla maglia rosa Breukink. A Corvara Fignon riconquista la maglia rosa, a cinque anni di distanza, e la difende fino alla fine.
Vince il Giro e il 23 luglio, al via dell'ultima tappa, ha in mano anche il Tour. È maglia gialla con 50 secondi di vantaggio su LeMond. Gli mancano solo 24,5 km alla vittoria ma ha la sindrome dell'ultima cronometro. Nella notte della vigilia rivede il sorpasso di Verona. La sua corsa è sofferenza e tremito. Per 8″ perde il Tour nell'ultima cronometro. Eppure il suo palmarès ne dimostra il valore. Fignon ha vinto 2 Tour, imponendosi in 9 tappe e portando per 22 giorni la maglia gialla, e un Giro d'Italia, con 3 vittorie di tappa e 16 maglie rosa. È salito sul podio alla Vuelta, terzo nel 1987, e ha vinto due tappe. E poi vanta un Campionato di Francia, due Sanremo, Freccia Vallone, Gran Premio delle Nazioni, Giro d'Olanda.
Stephen Roche è di Dublino. Il suo 1987 è favoloso. Roche vince il Giro d'Italia al termine di un clamoroso braccio di ferro con il capitano della sua squadra Visentini, che sconfigge prima sul piano psicologico che su quello tecnico.
Al Tour si trova la strada spianata dal ritiro di Hinault e dall'incidente di caccia che ha messo fuori gioco LeMond. Roche mette una solida opzione sulla vittoria vincendo l'ottava tappa, la cronometro di Futuroscope (87,5 km), con 42″ su Mottet, che indossa la maglia gialla. Poi subisce l'assalto in due tempi di François Bernard, che prima lo sorpassa sui Pirenei e poi conquista la maglia gialla nella cronometro del Mont Ventoux, infliggendogli 2′19″ di distacco. Bernard balza in testa alla classifica con 2′34″ su Roche e 2′47″ su Mottet. La situazione sembra compromessa a sette tappe dalla fine. Ma il giorno dopo, sulle strade accidentate del Vercours, si sviluppa un'offensiva di cui cade vittima Bernard ed è Roche a conquistare la maglia gialla. La perde subito all'Alpe d'Huez su attacco di Delgado, che la indossa. Roche, il giorno dopo, rischia lo sprofondamento a La Plagne, dove si salva a prezzo di uno sforzo titanico: oltre il traguardo ha bisogno della maschera a ossigeno per rinvenire. Il finale del Tour è incertissimo. Roche strappa 18 secondi alla maglia gialla Delgado a Morzine e si porta a 21″ da lui in classifica. E nella cronometro di Digione (38 km), dominata da Bernard ‒ il più forte, ma non il più saggio in corsa ‒, Roche precede lo spagnolo di 1′01″ e vince il Tour per 40 secondi. Realizza così la doppietta riuscita solo a Coppi, Anquetil, Merckx e Hinault. Ma non si ferma lì. Chiude la stagione beffando Argentin nel Campionato del Mondo di Villach. Ottiene così una tripletta riuscita solo al grande Merckx nel 1974.
Sean Kelly, un altro irlandese, vince più di lui. Mette nel suo ricco palmarès tre Giri di Lombardia, due Sanremo e due Roubaix, oltre alla Vuelta e a due Giri della Svizzera.
Già a vent'anni Kelly vince il Giro di Lombardia dilettanti. Nel 1983 si impone in una volata incertissima con un colpo di reni su LeMond. Nel 1985 brucia Van der Poel. Nel 1991 attacca sul Lissolo con Gayant, arriva con lui sul traguardo e lo batte facilmente.
Kelly non perdona quando la corsa è dura. Lascia il suo segno anche nella Sanremo. Nel 1986 rincorre Beccia e LeMond, scattati sul Poggio, scollina con loro e li batte allo sprint. Nel 1992 fa il bis con un capolavoro che distrugge il sogno di Argentin: quest'ultimo scatta sul Poggio, scollina con 7″ su Fondriest, ma è Kelly a riportarsi sotto con una discesa fantastica e a batterlo nettamente in volata.
Le vittorie di Kelly e Roche, tuttavia, non sono al di sopra di ogni sospetto: entrambi sono coinvolti nel doping e questo toglie splendore al loro palmarès.
Tre corridori italiani accendono grandi speranze: Battaglin, Visentini e Baronchelli. Tre uomini sospesi tra la prodezza abbagliante e l'incompiuta.
Il 21 aprile 1981 Giovanni Battaglin si schiera al via della Vuelta a Santander. Ha quasi trent'anni. Per due volte è già salito sul podio del Giro d'Italia. Ha vinto 3 tappe al Giro e portato la maglia rosa. È uno scalatore capace di imporsi nel Gran Premio della Montagna sia al Tour sia al Giro della Svizzera. La sua carriera è segnata da infortuni e crisi, da incompiute, da imprese e cadute verticali.
Battaglin parte in sordina. Ma, nell'ottava tappa, che parte da Granada, una cronoscalata di 30 km, si rivela. Vince sulla Sierra Nevada e conquista la maglia amarillo. Invano Belda e Pedro Muñoz cercano di scalzarlo. Per undici giorni Battaglin difende la sua leadership e, il 10 maggio, è primo a Madrid.
Tre giorni dopo, a Trieste, si schiera al via del Giro d'Italia. Battaglin perde subito 20 secondi nel prologo e sprofonda nell'ombra. Lascia la scena a Saronni e Moser, che si sfidano a viso aperto, con grande determinazione. Però Battaglin prova un attacco nella tappa di Lanciano, arriva ad avere quasi 3 minuti di vantaggio, ma fallisce.
C'è il trio della Bianchi ‒ Prim, Baronchelli, Contini ‒ che insidia i due grandi. Però sul Terminillo Battaglin attacca di nuovo, parte una fuga a sei e a Cascia riesce ad affondare Moser, che era crollato in salita e poi caduto in discesa. Nella cronometro di Montecatini anche Battaglin cade e perde due minuti. Si va sulle Dolomiti con Contini in maglia rosa. Lì, a quattro tappe dalla fine, Battaglin attacca sul passo Furcia, vince a San Vigilio di Marebbe con 10 secondi soltanto su Saronni, ma prende anche 30 secondi di abbuono. Il giorno dopo, 5 giugno 1981, sulle Tre Cime di Lavaredo, a 2 km dal traguardo, attacca ancora nella scia degli svizzeri Breu e Fuchs. Arriva terzo con 22″ su Saronni e 35″ su Prim. Guadagna altri 10 secondi di abbuono e conquista la maglia rosa. Alla vigilia della cronometro finale, Soave-Verona (42 km), 39 secondi separano Battaglin da Saronni. Sembrano pochi. Invece Battaglin, che corre sulla sua terra, precede Saronni per un solo secondo e vince il Giro. Saronni, fischiato all'Arena di Verona, piange di rabbia. Battaglin è primo in classifica con 38″ su Prim e 50″ su Saronni. Senza gli abbuoni il Giro sarebbe stato dello svedese Prim con 2 secondi su Battaglin.
Battaglin è il primo italiano a conquistare la doppietta Vuelta-Giro, un'accoppiata riuscita prima solo al grande Merckx. Si era piazzato terzo nel Giro del 1973, dietro a Merckx e Gimondi. Ancora terzo 7 anni dopo, dietro a Hinault e Panizza. Era finito sesto al Tour del 1979, ma era risultato positivo sul Ballon d'Alsace. Il suo palmarès conta 4 vittorie di tappa al Giro, 4 al Giro della Svizzera, di cui tre di fila nel 1978, e una sola, per distacco, al Tour, a Caen nel 1976. Ha portato per 5 giorni la maglia rosa. Ha mostrato a volte una grande fragilità. Al Giro del 1983, in crisi sul passo Cento Croci, ha perso oltre mezz'ora.
Se Battaglin è fragile, Giovanni Battista Baronchelli sembra un duro. Da dilettante ha vinto il Giro d'Italia e il Tour de l'Avenir. È un mantovano di Ceresara, nato il 6 settembre 1953. Forte in salita, a vent'anni mette alle corde Merckx al Giro, sulle Tre Cime di Lavaredo. Vince sei Giri dell'Appennino, un record che è la prova delle sue caratteristiche: ama le salite. Per questo è un grande interprete del Giro di Lombardia, una classica che non inganna sul valore degli atleti.
L'8 ottobre 1977, in questa gara, sul passo d'Intelvi resta un gruppo di 15 corridori tra cui De Vlaeminck e Maertens, che si controllano per la classifica del Superprestige, Moser e il giovanissimo Saronni, che scalpita. Poi fuggono in cinque. Tra di loro Baronchelli, che scatta sotto la pioggia a 19 km dal traguardo. Solo De Witte gli resiste, ma si mantiene passivo a ruota. Sulle prime rampe del San Fermo Baronchelli scatta e lo lascia al suo destino. Scollina con 50 secondi sul belga e 1′25″ sul primo gruppetto di inseguitori. Baronchelli vince in solitudine con oltre un minuto di vantaggio sui primi inseguitori.
Nove anni dopo Baronchelli, al termine di una stagione difficile in cui ha oltretutto dovuto cambiare squadra, a sorpresa regala il bis. È il 18 ottobre 1986. Ci sono sei uomini in fuga sulla Valpiana, l'ultima salita, con il veloce Kelly, che ha già vinto due volte questa corsa, e Baronchelli, fermo in volata. Il gruppetto entra a Milano. L'esito appare segnato. Ma in Corso Venezia, a 2 chilometri dal traguardo, all'improvviso, dopo che Kelly ha tirato, Baronchelli attacca. Kelly chiede all'australiano Anderson di chiudere. Questi si rifiuta. Secondi preziosi per Baronchelli, che fugge via e vince, a 33 anni, con 15 secondi su Kelly e Anderson.
Baronchelli, visto da fuori, appare duro come la roccia, chiuso come uno scrigno, invece è fragile come un bambino. A Nicotera, quando indossa la sua prima maglia rosa a 33 anni, si commuove e scoppia in singhiozzi. Dodici giorni dopo, a Foppolo, lascia il Giro imbronciato, per puntiglio, mentre è terzo in classifica. Baronchelli è un enigma. Parla a monosillabi. Il soprannome che porta, GiBi, due sillabe soltanto, ne esprime la personalità. Perde di pochissimo il Giro, finendo per due volte secondo: nel 1974 a 12″ da Merckx, nel 1978 a 59″ da Johan De Muynck. Per otto volte finisce nei primi sei al Giro, senza vincere mai.
Gli mancano la testa, la squadra giusta e la fortuna. Chiuso, introverso, patisce le polemiche. Soffre sia Moser sia Saronni. Eppure al Mondiale di Sallanches, battuto solo da Hinault, che corre in casa, mostra la sua classe. Vince cinque tappe del Giro, il Gran Premio di Francoforte, il Giro del Paese Basco e quello di Romandia, molte classiche italiane, la tappa di Santiago de Compostela alla Vuelta nei giorni in cui si rivela Miguel Induráin. Baronchelli è grande solo a metà.
Roberto Visentini è ricco, l'esatto contrario dello stereotipo del corridore, è insofferente, rissoso, egocentrico. Non è amato dai compagni. Però pedala bene. Campione del mondo junior, ha vinto il titolo italiano dell'inseguimento. È passista dotato, eccellente nelle tappe a cronometro e va bene in salita. È nato a Gardone il 2 giugno 1957. Elegge a teatro per le sue imprese il Giro d'Italia. Visentini, che ha già portato la maglia rosa nel 1980 e nel 1981, minaccia la vittoria di Saronni nel 1983. Lo stacca sul San Fermo, lo attacca nel 'tappone' dolomitico, lo insidia a cronometro. Alla fine Visentini arriva secondo in quel Giro; senza gli abbuoni lo avrebbe vinto con 38 secondi di vantaggio.
L'anno dopo Visentini fugge nella discesa di Montemarcello, si presenta solo a Lerici, con 19″ su Fignon, e si regala la prima vittoria da professionista in una corsa in linea. Arriva alle Dolomiti con un solo minuto di distacco dalla maglia rosa Moser e lì, il 7 giugno, regala una recita nuova. In Val Gardena Moser va in crisi e trova aiuti lungo la strada. Visentini, allora, protesta, inveisce e viene insultato. A 14 km dal traguardo scende di bicicletta. Quando il suo direttore sportivo Boifava gli intima di arrivare al traguardo, lo fa. Ma si arrende. Arriva in grave ritardo. Il giorno dopo perde altri dieci minuti. Finisce il Giro al diciottesimo posto a 24 minuti da Moser. Torna a casa, mette il telaio della sua bicicletta nella morsa e con la sega lo taglia in cento pezzi, li mette in una borsa e porta tutto a Boifava dicendogli che non avrebbe corso più.
Undici mesi dopo è al via del prologo del Giro. Ha una bici rivoluzionaria, dal nome carnivoro, Piranha, che viene rifiutata dai giudici perché irregolare. Eppure finisce secondo a 7″ da Moser. E il 20 maggio, quando il Giro arriva in Val Gardena, si prende la rivincita: resiste al forcing di Hinault e indossa la maglia rosa. Per nove giorni la porta con orgoglio, dalle Dolomiti alla Calabria. Poi Hinault gliela strappa nella crono di Maddaloni. Cede nella Cecina-Modena sulle rampe degli Appennini. Perde quasi sette minuti, poi si ritira. Va al Tour e finisce a un'ora da Hinault.
Ma il 12 maggio 1986 è a Palermo, pronto a dare battaglia. Attacca sul Monte Poro; poi di nuovo sulla Crocetta. Nella sesta tappa scatta a due chilometri e mezzo dal traguardo e arriva solo a Potenza con 11″ su Saronni, che prende la maglia rosa. Nella cronometro di Siena (46 km) solo Piasecki lo batte di 7″, ma Visentini stacca la maglia rosa Saronni di 23″, LeMond di 33″, Moser di oltre un minuto. A Sauze d'Oulx strappa altri 16″ a Saronni che si sente minacciato. Infatti Visentini va all'attacco sul San Marco con LeMond e a Foppolo conquista la maglia rosa. Invano LeMond lo attacca sul Pordoi. Visentini si difende bene e, a 29 anni, vince il Giro. È primo, davanti a Saronni, Moser, LeMond.
Nel Giro del 1987 si presenta come l'uomo da battere. Vince il prologo di Sanremo e indossa subito la maglia rosa. Ma la corsa è stupefacente. Visentini scopre un aspide nella sua squadra: l'irlandese Roche. Questi conquista la maglia rosa nella terza tappa. Sul Terminillo chiede a Visentini collaborazione e ottiene un rifiuto. È una crepa insanabile. Il 4 giugno nella cronometro di San Marino (46 km) Visentini surclassa il campo: lascia il secondo, Rominger, a oltre un minuto. Strappa a Roche, staccato di quasi tre minuti, la maglia rosa.
Due giorni dopo il Giro va a Sappada e nella discesa della Forcella di Monte Rest Roche allunga. Si crea una situazione surreale. Roche, della Carrera, è all'attacco e, dietro, i corridori della Carrera inseguono. Visentini chiede che Roche venga fermato, ma gli irlandesi hanno nei geni la lotta. Roche insiste. A 10 km dal traguardo Visentini si stacca. È un crollo psicologico. In pochi chilometri perde 6 minuti e il Giro. Roche gli strappa la maglia rosa. A quel punto Visentini promette di attaccarlo con tutte le sue forze ma poi una caduta gli offre l'alibi per il ritiro. Nello spazio di tre mesi Roche vince Giro, Tour e Mondiale.
Visentini torna ancora all'assalto. Invano. Nella tappa del Gavia, nel Giro del 1988, beve cognac nella tormenta e arriva con 31 minuti di ritardo.
Visentini, bellicoso e prodigo, minaccioso e fragile. Un re incompiuto. Eppure nella storia del Giro resta. Ha vinto 6 tappe ‒ 2 per distacco e 4 cronometro ‒ e ha portato per 27 giorni la maglia rosa, più di Girardengo, Magni, Gimondi e Hinault.
I primi grandi velocisti ‒ Zimmerman, Taylor, Banker, Kramer ‒ furono americani. Eccellenti pistards, gli statunitensi trascurano la strada. Incominciano a incuriosirsi solo negli anni Cinquanta. Due californiani, George Koenig, figlio di un professore di Stanford, e Rick Bronson, vengono in Italia e, con l'aiuto di Cinelli, gareggiano nelle competizioni junior. Quando tornano in California, fondano un club, che chiamano Pedali alpini. I sei statunitensi delle gare su strada ai Giochi di Roma del 1960, compreso Koenig, sono californiani. Negli anni Sessanta negli Stati Uniti c'è il boom della bicicletta: 5 milioni vendute nel solo 1964. Le donne sono in prima fila. Nel 1969, proprio quando Neil Armstrong ed Edwin Aldrin mettono piede sulla Luna, Audrey McElmury di San Diego vince il Campionato del Mondo femminile su strada. Arriva sola a Brno, con più di un minuto di vantaggio, e spiega al vento la bandiera americana. È il primo titolo mondiale su strada degli Stati Uniti. Il primo fiore di un paese che sboccia.
Nel 1971 nasce il Tour of California, 685 miglia in otto tappe. Nel 1975 vede la luce in Colorado una bella gara a tappe: la Coors Classic che, poi, si chiamerà Tour Du Pont.
Il salto di qualità avviene negli anni Ottanta. Il 4 settembre 1983 Greg LeMond, un californiano di 22 anni, indossa la maglia iridata, giungendo solo ad Altenrhein. L'anno dopo il ciclismo statunitense si afferma ai Giochi Olimpici di Los Angeles: Connie Carpenter e Alexi Grewal vincono le due prove su strada.
Al Giro del 1984 c'era già stato l'esordio in sordina di una squadra professionistica statunitense, con una donna direttore sportivo, Robin Morton: in quell'occasione Karl Maxon dell'Oregon si era segnalato con una fuga solitaria di 217 km. L'anno dopo la squadra statunitense al Giro, la 7 Eleven ‒ c'è perfino Eric Heiden, cinque ori nel pattinaggio ai Giochi di Lake Placid 1980 ‒, offre un'altra interpretazione. Il 1° giugno 1985 a Perugia Ron Kiefel, geologo di Denver, ottiene la prima vittoria statunitense al Giro. Il 7 giugno Andy Hampsten s'impone sul Gran Paradiso. LeMond, terzo dietro Hinault e Moser, è il primo statunitense sul podio del Giro. Anche il famoso Eric Heiden riesce a portare i suoi 85 chili oltre le Dolomiti: finisce quintultimo a tre ore di distacco.
Nel 1986 la bicicletta conquista gli Stati Uniti: a Colorado Springs si disputano i primi Campionati del Mondo su strada nel paese. LeMond a quel punto diviene il messia del ciclismo statunitense, il primo a recitare da leader su strada. Nato a Lakewood, California, il 26 giugno 1961, si trasferisce a Lake Tahoe all'età di 7 anni dove scopre lo sci, eccellendo nel freestyle. Ma a 14 anni vede la squadra dei ciclisti che si allena a Squaw Valley per i Giochi Panamericani. Con suo padre la segue in allenamento per 80 miglia: Sooner Pass e Mount Rose, Washoe Valley e Carson City. Il giovane Greg ammira i migliori ciclisti americani del momento, John Howard e George Mount: è un'illuminazione. Al ritorno il padre compra due bici da corsa: una gli serve per calare di peso, l'altra è per Greg. Questi, a 16 anni, nella sua prima corsa arriva secondo nel Tour di Fresno a 10″ da Howard. Roland Della Santa, di origini italiane, è il suo primo mentore; Eddie Borysewicz, di origini polacche, il suo primo allenatore.
Nel 1978 Greg va in Belgio e scopre il ciclismo europeo. Nel 1979 vince l'oro nel Mondiale junior su strada di Buenos Aires, ma anche l'argento nell'inseguimento e il bronzo nella cronosquadre. Vuole l'oro olimpico di Mosca, ma c'è il boicottaggio e il sogno s'infrange. In primavera, però, la squadra statunitense fa uno stage di sei settimane in Europa e Greg vince il Circuit de la Sarthe. Il giorno in cui finisce il Tour, 20 luglio 1980, a Parigi c'è anche LeMond e Guimard gli fa firmare il contratto con la Renault. LeMond ha 19 anni. Si sposa con Kathy Morris, con lei attraversa l'oceano e va a vivere a Nantes sulla Loira. Si aggiudica la Coors Classic, battendo il campione olimpico Suchoruãenkov. A 21 anni vince il Tour de l'Avenir ed è battuto solo da Saronni al Mondiale di Goodwood; a 22 vince il Critérium du Dauphiné e il mondiale; a 23 anni sale sul podio del Tour dietro il suo capitano Fignon e Hinault. Questi lo fa ingaggiare da Bernard Tapie in una squadra nuova, la Vie Claire, e, con il suo aiuto determinante, nel 1985, vince Giro e Tour. Già lì esplode la rivalità: Hinault cerca di frenare l'ascesa prepotente del suo delfino. Nella diciassettesima tappa del Tour Hinault va in crisi sul Tourmalet e, mentre LeMond è in fuga con Roche e Parra, gli arriva l'ordine di non tirare. LeMond piange sul traguardo, frustrato e deluso. E l'anno dopo si vendica.
Nel 1986 LeMond è pronto per il sorpasso: a Serre Chevalier, il 20 luglio, spodesta il suo capitano Hinault, decretandone la fine, e vince il Tour. L'era di LeMond sembra destinata a durare a lungo. Ma il 20 aprile 1987 a Rancho Murieta nella Lincoln Reserve, vicino a Sacramento (California), durante una battuta di caccia Greg viene ferito involontariamente dal cognato. Salvato grazie al pronto intervento di un elicottero, subisce tre operazioni. La sua carriera sembra finita. Invece, due anni dopo, LeMond risorge al Giro del 1989 nella cronometro di Firenze.
LeMond si allinea di nuovo al Tour in occasione del bicentenario della Rivoluzione francese. Al via del prologo il favorito Delgado si presenta con due minuti e 40 secondi di ritardo, poi nella cronosquadre perde altri 4 minuti e mezzo. LeMond conquista la maglia gialla nella cronometro di Rennes, quarta tappa: in quell'occasione sfoggia il manubrio a corna di bue. Fignon gli strappa la maglia gialla a Superbagnères. LeMond la riconquista nella cronometro di Orcières-Merlette. Fignon lo attacca a tre chilometri dall'Alpe d'Huez, lo stacca e lo spodesta. Va in testa alla classifica con 26 secondi di vantaggio. Troppo poco con una cronometro nell'ultima tappa. Allora Fignon, in maglia gialla, attacca ancora a Villard de Lans e guadagna altri 24 secondi.
Tra i due il 23 luglio 1989, al via dell'ultima tappa Versailles-Parigi, cronometro di 24,5 km, ci sono 50 secondi. Fignon parte due minuti dopo LeMond. Questi fila via veloce, oltre nove metri per pedalata. Posizione aerodinamica perfetta. Casco profilato, manubrio a corna di bue. Fignon è più scomposto, aggrappato a un manubrio tradizionale, il busto alto. Oscilla, fatica, lotta fieramente. Il suo vantaggio scema a poco a poco. Il cronometro scandisce il suo dramma. Fignon finisce a 58 secondi da LeMond, che vince il Tour per otto secondi. Il minimo vantaggio della storia. Trentacinque giorni dopo, a Chambéry, LeMond brucia Konyãev e Kelly e veste di nuovo la maglia iridata. La resurrezione è compiuta.
Nel 1990 LeMond si presenta al Giro con cinque chili di troppo. Annaspa. Ma al Tour appare subito competitivo. Nel prologo perde solo 4 secondi dallo specialista Thierry Marie. Il giorno dopo, però, quattro attaccanti decisi ‒ Bauer, Chiappucci, Maassen e Pensec ‒ staccano il gruppo di oltre dieci minuti. Il primo a cedere è Bauer, poi tocca a Pensec. Dopo che Bugno ha vinto all'Alpe d'Huez, il 12 luglio, Chiappucci indossa la maglia gialla a Villard de Lans. A 9 tappe dalla fine ha 7 minuti di vantaggio su LeMond, quarto in classifica. Ma nella tappa successiva ne perde subito 4. Poi tiene la posizione per due tappe. Il 17 luglio, sorprendendo tutti, Chiappucci va all'attacco in maglia gialla nel 'tappone' pirenaico. LeMond lo fa sfogare, poi lo riprende e sulla salita finale di Luz-Ardiden lo stacca. Chiappucci conserva la maglia gialla per 5 secondi. Nella penultima tappa, però, c'è la cronometro del Lac de Vassivière (45,5 km): LeMond, quinto, lascia Chiappucci a 2′20″ e vince il suo terzo Tour de France.
L'anno dopo LeMond riesce ancora a portare la maglia gialla per cinque giorni. Ma sul Tourmalet, su un attacco di Chiappucci, perde le ruote e arriva a Val Louron a 7 minuti da Chiappucci e Induráin, che indossa la maglia gialla. È il 19 luglio 1991. Il suo regno è finito.
LeMond ha vinto 3 Tour e si è piazzato una volta secondo e un'altra terzo, conquistando 5 tappe, di cui 4 a cronometro, e indossando per 22 giorni la maglia gialla. Al Giro d'Italia, su cinque partecipazioni, è finito una volta terzo e una quarto, vincendo una sola tappa. Ha vinto due campionati del mondo e per due volte è giunto secondo. È lui a imporre il ciclismo in America.
LeMond, però, non è solo. Il 5 giugno 1988, nella giornata tremenda del Gavia, sotto una tormenta di neve, Andy Hampsten è il primo americano a vestire la maglia rosa. Figlio di due docenti di letteratura e poesia inglese all'università del Colorado, è un uomo elegante e gentile. Per otto tappe difende quella maglia dagli attacchi di Zimmermann ed Erik Breukink. Diventa anche il primo americano a vincere il Giro. Hampsten è uno scalatore elegante, capace di imporsi nel Gran Premio della Montagna al Giro e di vincere all'Alpe d'Huez al Tour. Si impone per due volte nel Giro della Svizzera. Quando smette sceglie di vivere in Toscana, in una fattoria.
L'America si fa avanti con parecchi corridori eccellenti: il canadese Steve Bauer, il messicano Raúl Alcala, gli statunitensi Lance Armstrong, Bobby Julich, Tyler Hamilton, i colombiani Herrera e Parra. L'Europa non ha più il monopolio nelle gare su strada.
Il 5 giugno 1988 Franco Chioccioli, soprannominato Coppino, indossa la maglia rosa, quando il Giro parte da Chiesa Valmalenco. È l'erede di Saronni alla Del Tongo. Ma quello è un giorno da brividi. Sul Gavia c'è la neve. Chioccioli lotta, si difende con accanimento, con disperazione. Ma viene staccato nella tormenta. Arriva a Bormio con 5′04″ di distacco. Una resa dura, crudele, dopo sogni di gloria. Chioccioli, al termine del Giro, finisce quinto a 13′20″ da Andy Hampsten. Quel verdetto suona come una condanna a un ruolo di secondo piano.
Chioccioli, invece, sogna. È l'ottavo figlio di Assunta, che lo ha partorito a 44 anni, e Torquato, che, dopo una vita nelle miniere di carbone, ha scelto il sole e lavora come mezzadro sulle colline di Arezzo. Chioccioli cresce lì. Intraprendente, occhi furbi, lavora in campagna tra viti, ulivi e campi di grano.
Non è una roccia. Deve lottare prima con l'anemia mediterranea, poi con la glomerulonefrite. È delicato, fragile. Corre per la Figlinese e viene curato come un germoglio troppo tenero. Poi piano piano decolla. Quando, il 26 maggio 1991, si presenta al via di Olbia ha già all'attivo 9 Giri, ma non è mai salito sul podio: il suo miglior piazzamento è stato il quinto posto, ha vinto 3 tappe e portato per 2 giorni la maglia rosa. Nessuno parla di lui al via. I favori sono per Bugno, il numero uno, e, dopo di lui, per Fignon, Delgado, LeMond, Chiappucci.
Chioccioli incomincia con un'amarezza. Sul traguardo di Sassari alza le braccia al cielo in segno di vittoria e viene trafitto dal colpo di reni di Bugno. Si consola con la maglia rosa. Ma il corsaro Boyer gliela strappa a Sorrento. Chioccioli la riconquista a Scanno.
La prima tappa della verità è la cronometro di Langhirano (43 km). Al via Chioccioli ha 1′03″ su Bugno, che lancia il suo assalto. Chioccioli in maglia rosa si difende allo spasimo e conserva la maglia per un secondo soltanto. Chioccioli stacca Bugno sul Monviso e lo ristacca sul Sestriere. Galvanizzato, entra in un'altra dimensione. E, in maglia rosa, compie tre imprese memorabili nello spazio di sei giorni. Il 10 giugno scatta a ripetizione sul Mortirolo e, al quarto allungo, se ne va. Mancano 52 km al traguardo. Scollina con 52″ di vantaggio, scende a rotta di collo, risale all'Aprica, poi, sul Santa Cristina, passa con 1′25″ di margine e resiste al ritorno finale dei due francesi Bernard e Boyer. Vince all'Aprica con 32″ su Bernard. Il 12 giugno, nel 'tappone' dolomitico, scatta a 4 km dal Pordoi e lascia Chiappucci a 38″. Poi, il 15 giugno, nella cronometro dell'Oltrepò, 66 km da Broni a Casteggio, vola con stile superbo e stacca Bugno di 52″ e Chiappucci di 1′02″. Il 16 giugno, a Milano, Chioccioli vince il Giro con 3′48″ su Chiappucci e 6′56″ su Massimiliano Lelli.
A sorpresa Chioccioli ha sbaragliato il campo. Ha offerto un cambio di scala così clamoroso da sembrare eccessivo. Coppino, per una volta, ha recitato da Coppi. Poi Chioccioli si regala ancora solo una vittoria al Giro a Verbania e un successo per distacco a St.-Étienne al Tour. Poi il suo tramonto è repentino.
Il finisseur è l'uomo che risolve la corsa negli ultimi chilometri. Negli anni Ottanta l'Italia scopre due finisseurs di gran classe: Argentin e Fondriest.
Moreno Argentin è un veneto, nato a San Donà di Piave il 17 dicembre 1960. È un purosangue brillante, che viene dalla pista, dove ha conquistato 4 maglie tricolori, nell'inseguimento e nel mezzofondo. Nel triennio 1985-87 sale per tre volte sul podio nel campionato del mondo su strada: veste la maglia iridata a Colorado Springs, bruciando in volata il francese Mottet. Il suo sprint, in arrivi ristretti, è micidiale. Il 17 ottobre 1987, per esempio, nel Giro di Lombardia Argentin si riporta, con Marc Madiot passivo a ruota, su Eric Van Lancker poco prima dell'ultimo chilometro, poi liquida i due avversari allo sprint in piazza Duomo a Milano.
Ha uno scatto che brucia. Con quest'arma si fa luce nelle classiche. Ma non disdegna neanche l'azione di forza. Nella Freccia Vallone del 1991, per esempio, parte sulla Côte d'Ereffe, a 72 km dal traguardo, e non viene preso più. Argentin mette nel suo palmarès 4 Liegi-Bastogne-Liegi, 3 Freccia Vallone, il Giro di Lombardia e il Giro delle Fiandre. La Sanremo, però, resta stregata, anche se il Poggio sembra fatto apposta per lui: il 21 marzo 1992, infatti, scatta sul Poggio, scollina con 7″ di vantaggio, ma Kelly con una discesa incredibile gli si riporta sotto e lo brucia in volata.
Maurizio Fondriest, invece, fa sua la Sanremo il 20 marzo 1993. Anch'egli scatta sul Poggio, scollina con 10″ di vantaggio e non si fa raggiungere più. Sul traguardo dedica la vittoria alla figlia nata poche ore prima. Fondriest, nato a Cles il 15 gennaio 1965, spreca altre due grandi opportunità a Sanremo, battuto in due volate contro un solo avversario: nel 1988 da Fignon, nel 1995 da Laurent Jalabert.
Anche Fondriest, come Argentin, diventa campione del mondo: vince a Renaix nel 1989 in una volata rovente, approfittando della rissa tra Bauer e Criquielion. Si aggiudica due Coppe del Mondo nel 1991 e nel 1993. Fondriest è un corridore di classe. Al Giro del 1993 nella cronometro di Portoferraio, di 9 km, si prende il lusso di sconfiggere Induráin. Vince la Freccia Vallone con un volo solitario di 30 km.
Sia Argentin sia Fondriest cercano invano la sorte nei grandi giri. Ma falliscono. Grandi corridori di un giorno. Non hanno la resistenza alla fatica e la grande montagna li respinge.
Il 17 marzo 1990 Gianni Bugno attacca con Canzonieri a Imperia, a 33 km da Sanremo. Resta solo sulla Cipressa. Plana, risale sul Poggio braccato dalla muta degli inseguitori, resiste al contrattacco di Golz, taglia primo il traguardo con 4″ sul tedesco, 22″ sul francese Delion, 31″ su Argentin.
Bugno è nato a Brugg, in Svizzera, nel 1964, il giorno di San Valentino. I suoi genitori sono emigrati lì per lavoro. Passa l'infanzia dai nonni, a Cavaso del Tomba, ai piedi del Monte Grappa. Conquista la prima vittoria da esordiente a 15 anni. Presto lascia il liceo scientifico per la bicicletta. Passa professionista a 21 anni con Cribiori all'Atala, poi viene ingaggiato da Stanga alla Chateaux d'Ax. Ha 26 anni. Ha conosciuto la tragedia e la vittoria. All'esordio nel Giro d'Italia, nel 1986, il suo compagno di stanza Emilio Ravasio cade a 10 km da Sciacca e si spegne dopo lunghi giorni di coma: quel dramma lo segna.
Forte della vittoria nella Sanremo, Bugno si presenta al Giro del 1990 con grandi speranze. Ha già vinto un bel ventaglio di corse: 3 Giri dell'Appennino, la Coppa Agostoni, la Tre Valli Varesine, il Giro del Piemonte, la tappa di Limoges al Tour del 1988 e, per distacco, quella di Prato all'ultimo Giro. Ma ora entra in un'altra dimensione. Il 1990 è l'anno della metamorfosi. Il 18 maggio, quando il Giro ha inizio con la mini-cronometro di Bari, la bici di Bugno è una vela sul mare. Vola, sospinta dal vento, imprendibile. Bugno vince subito, sconfiggendo gli specialisti. In 13 km distacca di 3 secondi Thierry Marie, di 8 Lech Piasecki e infligge distacchi più larghi agli uomini da classifica: 29″ a Fignon, 31″ a LeMond, 42″ a Marco Giovannetti, 44″ a Mottet. Raggiante, per la prima volta indossa la maglia rosa. La difende subito con bravura.
A Sala Consilina, grazie al suo uomo Fidanza, contiene un attacco di Fignon. Sul Vesuvio, per rispondere a un attacco profondo dello spagnolo Chozas, fa la selezione e stacca i suoi rivali: LeMond perde addirittura 14 minuti. In corsa Bugno non è spietato, mostra fair play: non attacca, per esempio, Fignon quando cade in un tunnel buio. Però, quando lo vede annaspare in montagna, trasforma la salita all'abbazia di Vallombrosa in un'ascensione al cielo: vince lassù e lascia il francese a 1′18″. Fignon, sfiduciato, dolorante, si arrende sul passo di Lagastrello e si ritira, nel giorno della prima storica vittoria di un sovietico al Giro, quando Vladimir Pulnikov è primo sotto la pioggia a Langhirano.
Sembra quasi che la maglia rosa lo renda invincibile. Bugno sbaraglia gli avversari diretti nella cronometro di Cuneo (68 km): infligge 1′39″ a Giovannetti, 2′22″ a Mottet, 4′30″ a Ugrumov, 6′26″ a Chioccioli. Invano Mottet lo attacca per due volte quando la corsa sale sull'altopiano di Pinè. Quando ci riprova, nel 'tappone' dolomitico, Bugno lo segue e scandisce il passo sulla Marmolada e sul Pordoi, dove gli lascia la vittoria. Nemmeno il Mortirolo, un pugnale di pietra, arabescato di prati e boschi, che compare per la prima volta sulla scena del Giro, gli nuoce. In quest'occasione Bugno assiste alla vittoria del venezuelano Leonardo Sierra. Poi, trasforma la cronometro del Sacro Monte in un balletto elegante sotto la pioggia. Vince entusiasmando con 1′20″ su Marino Lejarreta, 2′20″ su Mottet, 2′36″ su LeMond.
Bugno vince il Giro con 6′33″ su Mottet, 9′01″ su Giovannetti. Ha indossato la maglia rosa dal primo all'ultimo giorno. La sua sembra ormai un'avventura incredibile, invece c'è subito la caduta.
Al Tour perde 25″ già nei 6,3 km del prologo. Subisce nella prima tappa il duro attacco di Chiappucci, Maassen, Bauer e Pensec che lo precedono di 10′35″. Perde altro terreno nella cronosquadre. Nella cronometro di Epinal (61,5 km), prende 1′47″ da Raúl Alcala. Finisce, senza un sussulto, fuori classifica. Poi ha una torsione e vince all'Alpe d'Huez, bruciando LeMond e Breukink. Ma crolla nella cronometro di Villard de Lans. Crolla ancora a Luz-Ardiden, dove finisce a 4′07″ da Induráin. Poi, nel suo stile, si risolleva con un'altra vittoria a Bordeaux. Fallisce di nuovo nella cronometro di Lac de Vassivière, quindicesimo a 3′12″. Finisce settimo a 9′39″ da un LeMond per niente irresistibile. E Chiappucci, secondo, diventa l'eroe italiano di quel Tour.
Bugno è l'eroe del chiaroscuro. Eclissi e splendori. Dopo quel Tour s'impone a San Sebastián e nella Wincanton Classic. È primo nella Coppa del Mondo. Nel 1991 Bugno parte deciso a fare il bis al Giro, invece si dissolve. Arriva a un solo secondo dalla maglia rosa Chioccioli. Poi perde 1′55″ sul Monviso. Cede sul Sestriere, quando Lejarreta attacca, poi vince, con un'impennata d'orgoglio, a Brescia. Ma finisce quarto a 7′49″ da Chioccioli.
Cerca il riscatto al Tour, ma lì trova un gigante nuovo: Miguel Induráin, che gli infligge 1′31″ nella cronometro di Alençon (73 km). Perde ogni speranza a Val Duron, quando viene staccato di 1′29″ da Chiappucci e Induráin. Passa al secondo posto in classifica vincendo per la seconda volta all'Alpe d'Huez, ma non sconvolge la gerarchia. Vince con un solo secondo su Induráin. Non trova spiragli nella guardia dello spagnolo. Finisce secondo al Tour con 3′36″ di distacco. Poi, il 25 agosto 1991, è primo nel Campionato del Mondo di Stoccarda.
Nel 1992, con la maglia iridata, Bugno rinuncia al Giro per puntare al Tour. Si prepara al Giro della Svizzera, poi va all'assalto. Ma non c'è nulla da fare contro Induráin, che lo lascia a 3′41″ nella cronometro del Lussemburgo (65 km). Cede nella tappa del Sestriere, dove Chiappucci stacca Induráin. Poi conosce il crollo doloroso all'Alpe d'Huez, dove perde 9′04″. Eppure nella cronometro di Blois (64 km) perde solo 40″ da Induráin e risale al terzo posto della classifica.
Bugno stupisce sempre. Delude o esalta. Resta sempre in un limbo vago, però con irruzioni nel paradiso. Così vince il secondo Campionato del Mondo consecutivo a Benidorm, a casa di Induráin. Nel 1993 però entrano in scena protagonisti nuovi: Rominger, Rijs, Jaskula, Ugrumov, Pantani. Bugno regala solo bagliori. Vince il Giro delle Fiandre nel 1994. Poi conosce l'infamia del doping che lo porta progressivamente alla fine della carriera.
Regala la sua ultima vittoria nel 1998 alla Vuelta, vincendo a Canfranc. Nel suo albo d'oro figurano 75 vittorie: restano indimenticabili 2 campionati del mondo, il Giro d'Italia, la Sanremo, il Giro delle Fiandre, due titoli italiani su strada. Poi c'è un buon numero di classiche italiane e straniere, con 8 tappe al Giro e 4 al Tour. Bugno ha indossato per 21 giorni la maglia rosa e per 12 volte la maglia azzurra. È stato grande, eppure incompiuto.
Claudio Chiappucci è figlio della metamorfosi. Per quattro anni non ha vinto mai. Nemmeno una kermesse. Per sei fa il gregario a Visentini, Roche, Giupponi. È un portaborracce sorridente e devoto. Poi, all'improvviso, il 1° luglio 1990, a 27 anni, entra in una nuova dimensione. Quel giorno al Tour si lancia in una fuga pazza con il francese Pensec, l'olandese Maassen e il canadese Bauer e guadagna 10′35″ sul gruppo. Undici giorni dopo, il 12 luglio, a Villard de Lans, conquista la maglia gialla. Sembra subito vulnerabile. Cede 4′53″ a LeMond a St.-Étienne. Pare un bersaglio facile, invece sconvolge gli avversari con una tattica nuova. Nel 'tappone' pirenaico sull'Aspin va all'attacco in maglia gialla. Poi sul Tourmalet arriva ad avere tre minuti di vantaggio su LeMond. Ma questi replica, insieme a Delgado, raggiunge Chiappucci e lo lascia a 8 km dal traguardo. Lì, a Luz-Ardiden, vince Induráin con 6″ su LeMond, mentre il temerario Chiappucci finisce a 2′25″ e conserva la maglia gialla per 5 secondi soltanto sull'americano. Chiappucci, in bilico, resiste al vertice della classifica fino alla penultima tappa, dove LeMond lo sopravanza di 2′21″ nella cronometro di Lac de Vassivière (45,5 km).
Finisce secondo nel Tour, a 2′16″ da LeMond. Si guadagna i favori del tifo con i suoi attacchi che sorprendono. Soprannominato Calimero, diventa el Diablo. Per tre anni è protagonista del Tour: terzo nel 1991, dietro Induráin e Bugno, è ancora secondo nel 1992, dietro Induráin. Desta sensazione il 18 luglio 1992 nella tredicesima tappa St.-Gervais - Sestriere (254 km), quando stacca Induráin in maglia gialla e lo mette in pericolo lasciandolo a 1′45″. È la sua impresa più grande.
Si conferma uomo da corse a tappe al Giro, finendo secondo nel 1991, dietro Chioccioli, e nel 1992, dietro Induráin. Poi è ancora terzo nel 1993, dietro Induráin e Ugrumov. Per sei volte, dunque, nel periodo 1990-93 sale sul podio del Giro e del Tour.
Il 23 marzo 1991 Chiappucci stupisce nella Milano-Sanremo. Scatta nella discesa del Turchino e guida un gruppo di attaccanti. Su Capo Mele restano in quattro al comando: Chiappucci, Sorensen, Nijdam, Mottet. Questi ultimi due cedono sulle prime rampe del Berta. Chiappucci e Sorensen insistono. Il gruppo arriva a vederli, ma non insiste nella caccia e i due fuggiaschi ne approfittano. Arrivano ancora in testa ai piedi del Poggio. Lì Chiappucci scatta e se ne va. Vince la Sanremo con 45″ su Sorensen e 57″ su Vanderaerden, che regola il gruppo in volata.
Chiappucci si scopre uomo da corse in linea. Vince la Clásica de San Sebastián, per due volte la Japan Cup, oltre al Giro del Paese Basco, al Giro di Catalogna, al Giro del Trentino. Chiappucci è eccellente in salita. Si impone nel Gran Premio della Montagna al Giro e al Tour. È un discesista spericolato. Discreto allo sprint, si difende sul passo, ma patisce la cronometro. Ha l'audacia dell'attacco a sorpresa, anche se, a volte, non ha la forza per sostenerlo. Piace per l'interpretazione audace, al limite della temerarietà. Al Giro del 1995, per esempio, si prende grossi rischi nella discesa del Cuvignone, sfiorando sul bagnato il guardrail.
Chiappucci conta 60 vittorie a fine carriera. Ha vinto la Sanremo. Ha indossato per 8 giorni la maglia gialla e per 8 volte la maglia azzurra. Macchia la sua carriera col doping assumendo EPO (eritropoietina) nel 1993. Poi, per altre due volte, viene sorpreso con l'ematocrito alto. Certo non è il solo, negli anni Novanta, a cercare scorciatoie. Quando i controlli diventano più seri, El Diablo si sgonfia. A partire dal 1995 la sua parabola sprofonda rapidamente.
Il 10 luglio 1989 nell'ottava tappa del Tour, Pau-Cauterets, Miguel Induráin va all'attacco. Un'azione concertata dal suo direttore sportivo Echevarri per favorire il capitano Delgado. Induráin scollina solo sull'Aubisque, arriva ad avere 5 minuti di vantaggio, poi in buona parte eroso per l'attacco di Delgado. Induráin vince la tappa con 27″ su Fuerte e 1′29″ su Delgado. È la sua prima vittoria al Tour.
Nel 1990 a Luz-Ardiden ottiene la seconda con 6″ su LeMond e 15″ su Lejarreta. Finisce decimo in quel Tour. È un corridore forte, ma non pare un re. È Chiappucci a promuovere la sua ascesa al trono. Il 19 luglio 1991 al Tour, a 700 metri dalla cima del Tourmalet, Chiappucci attacca. LeMond cede subito e Induráin, Bugno, Mottet e Leblanc scappano via davanti alla sua ruota. In discesa Induráin si sgancia e raggiunge Chiappucci sull'Aspin. Fuggono insieme. Al traguardo di Val Luron Induráin concede a Chiappucci la vittoria di tappa e indossa la maglia gialla. Il regno di Induráin ha inizio quel giorno, a 27 anni di età.
Induráin abita a Villava, vicino a Pamplona, in Navarra. È figlio di un ricco contadino, Miguel, e di Isabel Larraya. Gli Induráin hanno una cascina con 300 ettari di terra dove Miguel nasce il 16 luglio 1964. Suo padre, vecchio tifoso di Mariano Canardo, lo incoraggia. Miguel, il 3 luglio 1982 a Elda, Alicante, diventa a 18 anni il più giovane campione spagnolo dilettanti della storia. Va ai Giochi Olimpici di Los Angeles 1984, ma si ritira. Poi, al Tour de l'Avenir, vince la sua prima cronometro, Lourdes-Tarbes (30,5 km), con 20″ su Bernard. La prima di 42 vittorie contro il tempo. S'impone poi nella classifica finale. Il 25 maggio 1985 a Orense, al termine della seconda tappa, diventa leader della Vuelta a vent'anni, la più giovane maglia amarillo della storia. Difende il primato per quattro tappe, poi molla e finisce ottantaquattresimo a 2 ore e 24 minuti da Delgado.
La sua carriera è una lenta, continua ascesa. Impiega sette Tour per arrivare alla maglia gialla. Nel 1985 si ritira alla quarta tappa e l'anno dopo alla dodicesima. Nel 1987 arriva a Parigi novantasettesimo; nel 1988, quando aiuta Pedro Delgado a vincere, è quarantasettesimo; nel 1989 finisce diciassettesimo, quando, dopo essere partito sull'Aubisque per favorire un'azione di Delgado, prova la gioia della prima vittoria di tappa con una fuga a lunga gittata tra Pau e Cauterets. Nel 1990 vince a Luz-Ardiden con pochi secondi su LeMond e finisce decimo. Si era già imposto in due Parigi-Nizza consecutive e, nel corso di quell'estate, è il primo spagnolo a vincere una gara di Coppa del Mondo: la Clásica de San Sebastián.
Al Tour 1991 Induráin entra in un'altra dimensione. La sua sagoma di corridore è cambiata. È sceso da 90 a 80 kg e la montagna gli diventa lieve. Induráin non si spaventa quando LeMond, con un attacco a sorpresa nella prima tappa, lo lascia subito a un minuto e mezzo: gli fanno compagnia Bugno, Fignon, Delgado. Dà la sua prima risposta nell'ottava tappa, la cronometro di Alençon (73 km), dove prende 8 secondi a LeMond. Un vantaggio piccolo, ma significativo. Bugno perde 1′31″, Chiappucci 4′04″.
È un Tour che denuncia già i sintomi di un male grave. Nella cronometro, a 10 km dall'arrivo, Breukink era ancora in testa con 25 secondi su LeMond, poi crolla e finisce a 1′06″. Nei due giorni che seguono tutta la PDM ‒ compresi Breukink, Kelly e Alcala ‒ è costretta al ritiro. L'ipotesi di un virus, visto che solo i corridori sono stati colpiti, appare subito ridicola. Più tardi uscirà la rivelazione che il medico Wim Sanders ha somministrato EPO ai corridori nel periodo 1990-95.
Sei giorni dopo Alençon, il 19 luglio, Induráin sferra a LeMond il colpo decisivo a Val Louron. Va all'attacco con Chiappucci e infligge agli altri pesanti ritardi. Vince Chiappucci con un secondo su Induráin. Bugno arriva terzo a 1′29″, Fignon quarto a 2′50″, Mottet quinto a 3′53″, Hampsten sesto a 6′01″. LeMond perde 7′18″, Herrera 12′40″, Delgado 14′10″. Induráin veste la maglia gialla con 3 minuti su Mottet, seguito a pochi secondi da Bugno, 4 su Chiappucci, 5 su Le Mond. Quella maglia gialla è il simbolo di una nuova era. La superiorità di Induráin è evidente. Il 23 luglio Miguel accompagna Bugno all'Alpe d'Huez per un bis di prestigio, quarta vittoria di tappa dell'italiano al Tour, l'ultima. Bugno vince con un secondo su Induráin e 2 su Leblanc. Chiappucci perde 43″, Mottet e LeMond 1′58″.
Gli avversari rinunciano ad attaccare Induráin sul Joux-Plane e sul Mont Revard. Poi, il penultimo giorno, nella cronometro di Macon (57 km), Induráin chiude la partita: lascia Bugno a 27″, LeMond a 48″, Chiappucci a 1′08″. Il 28 luglio sale sul podio tra i due italiani. L'era di Fignon, sesto a 11′27″, e LeMond, settimo a 13′13″, è finita. Incomincia una tirannia. Induráin infatti vince, uno dopo l'altro, cinque grandi giri (3 Tour e 2 Giri d'Italia), un exploit che non era riuscito nemmeno a Merckx.
Il 24 maggio 1992 Induráin fa il suo ingresso al Giro, che parte da Genova per festeggiare Cristoforo Colombo e i cinquecento anni della scoperta dell'America. Il 26 maggio ad Arezzo indossa già la sua prima maglia rosa. È l'ottavo spagnolo a farlo, dopo Botella, Poblet, Suárez, Jiménez, Gómez del Moral, Fuente e Galdós.
Il giorno dopo vince la sua prima tappa al Giro: la cronometro di San Sepolcro (38 km), con 32″ su De las Cuevas. Per venti giorni, incontrastato, Induráin attraversa l'Italia in maglia rosa. Non lascia spazio agli attacchi di Chiappucci e Chioccioli. Ha solo un momento di difficoltà sul Bondone, poi devasta il campo nella cronometro finale Vigevano-Milano. Vince il Giro con oltre 5 minuti su Chiappucci e 7 su Chioccioli. È il primo spagnolo a imporsi. Riesce lì dove hanno fallito Ruiz e Loroño, Poblet e Bahamontes, Fuente e Galdós.
Nel Tour del 1993 Induráin indossa la maglia gialla già al termine del prologo, dove Chiappucci perde 30″. Questi, sempre battagliero, va all'attacco nella sesta tappa con LeMond e guadagna 1′22″. Induráin calmo aspetta la cronometro e lì, sui 65 km del Lussemburgo, infligge 3′ a De las Cuevas, secondo, 3′41″ a Bugno, 3′47″ a Jaskuùa, 4′04″ a Le Mond, che solo tre anni prima era il re di questa specialità. Solo Chiappucci lo fa vacillare il 18 luglio 1992 nel 'tappone' alpino St.-Gervais - Sestriere con un attacco da lontano. L'italiano entusiasma e vince con 1′34″ su Vona, 1′45″ su Induráin, che sul Sestriere conosce la crisi dura, e 2′53″ su Bugno. Chiappucci, staccato di 1′42″ in classifica, assume il ruolo di sfidante. Ma Induráin arriva con lui all'Alpe d'Huez. Poi nella cronometro finale precede Bugno di 40″ e Chiappucci, sesto, di 2′53″. Induráin sale di nuovo sul podio con i due italiani: Chiappucci, che vince per la seconda volta consecutiva il Gran Premio della Montagna, è staccato di 4′35″, Bugno di 10′49″.
Al Giro del 1993 Induráin deve rispondere alla sfida di Bugno e Argentin. Quest'ultimo sorprende tutti con un colpo di mano nella prima tappa all'isola d'Elba, in cui finisce fuori classifica LeMond, staccato di 8 minuti. Argentin porta la maglia rosa per dieci giorni. Ma l'Italia attende Bugno, che veste la maglia di campione del mondo. La risposta cruda viene dalla decima tappa, la cronometro di Senigallia: Bugno perde 2 minuti da Induráin e la gente piange lungo la strada. La resa di Bugno si compie poi sulla Marmolada. Induráin consolida la sua leadership nella cronometro del Sestriere. Vacilla, nella penultima tappa, sulla salita di Oropa, dove il lettone Ugrumov, al terzo scatto, lo lascia indietro di 36 secondi, ma fa il bis.
In due Giri d'Italia vittoriosi Induráin non è mai andato all'attacco. Nel terzo Giro, nel 1994, deve farlo, perché non è più il migliore a cronometro: nelle tre prove contro il tempo il russo Berzin lo precede sempre. Berzin, anzi, già nella quarta tappa vince a Campitello Matese, lasciando Induráin a 47 secondi, Chiappucci a 5 minuti e Chioccioli addirittura a 16 minuti. Poi il 29 maggio 1994 nella cronometro di Follonica (44 km) infligge a Induráin la più bruciante sconfitta della carriera: vola a 52,003 km/h e lo stacca di 2′36″. Induráin, allora, deve muoversi e lo fa sul Mortirolo: in discesa raggiunge Pantani che fugge, poi però crolla sul Santa Cristina. Finisce a 3′30″ da lui guadagnando sulla maglia rosa Berzin solo 36 secondi. Troppo poco. Nemmeno la cronometro del Bocco (35 km) può ribaltare la situazione: Berzin la vince con 20 secondi su Induráin. Invano Induráin attacca per due volte a Les Deux Alpes, Berzin tiene. Induráin finisce terzo a 3′23″ da Berzin, dietro anche a Pantani. La sua era al Giro termina lì.
Induráin è tentato dal record dell'ora. Graeme Obree, il 17 luglio 1993, sulla pista di Hamar aveva migliorato il record di Moser, portandolo a 51,596 km. E sei giorni dopo, a Bordeaux, Chris Boardman lo aveva spinto fino a 52,270 km. Il 2 settembre 1994, sulla pista di Bordeaux, Induráin rompe il muro dei 53 chilometri, coprendo 53.040 metri. Sembra un record destinato a durare e invece resiste solo cinquanta giorni, infranto subito da Rominger.
È al Tour che Induráin si realizza in pieno. Dopo un lungo approccio riesce a vincerne cinque consecutivi, nel periodo 1991-95, sempre grazie alla sua grande arma, la cronometro: ne vince sette e ne perde una sola, battuto da Rominger. Ogni volta cambia il suo delfino: prima batte Bugno e Chiappucci, poi tiene a bada Rominger, Ugrumov, Zülle. Cerca la sesta vittoria consecutiva al Tour. Ma crolla il 6 luglio 1996 sul Col des Arcs. Finisce undicesimo a 14 minuti da Rijs. Il 3 agosto 1996 ottiene la sua ultima vittoria nella cronometro dei Giochi Olimpici di Atlanta precedendo Olano di 12 secondi e Boardman di 31.
Induráin non ha mai vinto la Vuelta, dove era finito secondo nel 1991, battuto da Melchor Mauri. Prova a farlo per riscattare la sconfitta del Tour, ma il 20 settembre abbandona nella tredicesima tappa, che arriva a Lagos de Covadonga. È l'ultima apparizione in una competizione ufficiale. Il 2 gennaio 1997 annuncia il ritiro.
È stato un grande interprete delle cronometro: delle sue 99 vittorie 42 sono da ascrivere a questa specialità. Gli sono mancate le classiche: ne ha vinta solo una, a San Sebastián. Ha cercato la maglia iridata, trovandola solo a cronometro nel 1995 in Colombia: su strada è finito per due volte secondo, anticipato da Armstrong a Oslo nel 1993 e da Olano a Duitama nel 1995, e una volta terzo, dietro a Bugno e Rooks a Stoccarda nel 1991.
Induráin si è aggiudicato 7 grandi giri su 23. Ha vinto 2 Giri d'Italia su tre partecipazioni, con 4 vittorie di tappa, portando per 29 giorni la maglia rosa. Al Tour si è imposto 5 volte su 12 partecipazioni, con 12 successi di tappa e 60 giorni in maglia gialla. Alla Vuelta è partito per 8 volte senza vincere mai: ha portato la maglia amarillo per 4 giorni. In Spagna lo hanno chiamato El Rey Miguel. Non è stato il più grande. Raramente è andato all'attacco. Ma era elegante in corsa, grande nella discrezione e nella semplicità.
Mentre LeMond chiude la sua parabola, un corridore nuovo, Lance Armstrong, debutta tra i professionisti: l'8 agosto 1992 arriva ultimo nella Clásica de San Sebastián. Ma un anno dopo, a Oslo, il 29 agosto 1993, a 21 anni, vince il Campionato del Mondo con 19″ su Induráin. Armstrong è un texano che proviene dal nuoto e dal triathlon. È la nuova grande speranza. Ma sembra più adatto alle corse di un giorno. Vince, infatti, la Clásica de San Sebastián 1995 e la Freccia Vallone 1996. Sempre nel 1996 gli scoprono un cancro ai testicoli. Viene operato due volte, una per metastasi al cervello. Supera cinque cicli di chemioterapia. Torna alle gare nel 1998 e sembra già un miracolo. È un uomo nuovo. Si sposa con Kristin, da cui ha tre figli con la fecondazione assistita.
Come corridore stupisce. È più leggero, più motivato, più resistente e molto più forte di prima. È irresistibile in montagna e a cronometro, nelle corse a tappe diventa invulnerabile. Vince per sei anni consecutivi il Tour dal 1999 al 2004. Impone la sua legge su tutti i terreni. Non lascia scampo ai rivali: Ullrich, su tutti, ma anche Pantani.
Armstrong non è amato. La sua legge è la forza. Ma le sue stagioni brevi, la presenza al suo fianco di personaggi coinvolti col doping, il suo stile a volte brutale alimentano i sussurri. La sua area di dominio è circoscritta al Tour. Nessuno prima di lui lo ha vinto per sei volte. Anquetil, Merckx, Hinault, Induráin si sono fermati a cinque successi. Nella corsa francese Armstrong colleziona 21 tappe e 66 maglie gialle. Fa esplodere negli Stati Uniti la passione per la bicicletta.
Gli statunitensi non costituiscono l'unica novità della fine del secolo. Negli anni Ottanta si affacciano con forza i polacchi, primi ciclisti dell'Est professionisti: il primo è il vincitore dell'argento olimpico Czesùaw Lang nel 1983, seguito da Piasecki, da Halupczok, campione del mondo dilettanti che va subito incontro a una fine tragica, e da Jaskuùa. Poi ecco gli australiani: Anderson, McEwen, O'Grady, Evans, McGee. Ci sono poi i colombiani del Tour, i quali regalano la loro recita sui monti: Luis Herrera vince all'Alpe d'Huez nel 1984 e nel 1989 alle Tre Cime di Lavaredo, aggiudicandosi addirittura la Vuelta nel 1987.
I sovietici compaiono sulla scena del ciclismo professionista già alla Vuelta 1985 e, poi, al Giro 1989. Quando l'Unione Sovietica cade in pezzi, ecco apparire russi (Konyãev, Echimov, Ãmil′), ucraini (Pulnikov, Gonãar), lituani (Rumsas), lettoni (Ugrumov, Vainsteins), uzbeki (Abdujaparov), estoni (Kirsipuu), kazaki (Vinokurov). I russi Berzin e Tonkov vincono il Giro.
Altri paesi d'America si affacciano. Il Canada con l'ottimo Steve Bauer. Nel 1990 è un venezuelano, Leonardo Sierra, il primo re del Mortirolo. Al Tour 1991 il brasiliano Ribeiro vince a Rennes. In seguito il Giro 2002 scopre un nuovo re dei monti nel messicano Julio Alberto Pérez Cuapio. Il ciclismo conquista l'America e il mondo.
Negli anni Novanta la credibilità del ciclismo crolla. Si assiste a metamorfosi prodigiose. È un ciclismo diverso: c'è il doping duro di gruppo. E l'UCI tergiversa, nasconde, è impari davanti al degrado. L'autoemotrasfusione negli anni Ottanta e l'assunzione di eritropoietina, comunemente detta EPO, dal 1989 in poi, fanno la differenza. Scoppiano scandali clamorosi, che minano la credibilità delle corse.
Si assiste anche a incredibili cambi di scala. Gregari che recitano da campioni. Curve di luce abbaglianti che durano lo spazio di una stagione oppure di una corsa. Chioccioli nel Giro del 1991 assomiglia a Merckx: schianta letteralmente gli avversari. Berzin, un russo che viene dalla pista, mette fine in Italia al regno di Induráin. Leblanc, Olano, Museeuw, Brochard, Camenzind, Vainsteins diventano campioni del mondo. Ma il doping è dovunque. Lo scandalo Festina e il processo Conconi mostrano l'estensione del fenomeno. Ci sono le accuse precise, circostanziate del francese Erwin Mentheour, del fisioterapista Willy Voet, di Filippo Simeoni, dello spagnolo Abraham Olano Manzano.
È in questo orizzonte malato che Berzin, Rominger, Gotti per due volte, Tonkov, lo stesso Pantani, Garzelli, Simoni per due volte, Savoldelli vincono il Giro. Ma la qualità vera delle vittorie spesso resta nascosta nella privacy dei valori ematici.
La vittoria più spettacolare, certo, è quella del russo Berzin che sconfigge Induráin. Ma gli archivi di Conconi rivelano valori di ematocrito fuori norma per lui e per altri corridori di punta della sua squadra, la Gewiss.
Lo svizzero Toni Rominger, per esempio, impressiona. Vince per due volte il Giro di Lombardia per distacco: la prima nel 1989 con 2′33″ su Gilles Delion, la seconda nel 1992 con 41″ su Chiappucci. Si aggiudica per tre anni consecutivi la Vuelta nel periodo 1992-94. L'anno dopo si impone al Giro d'Italia con una superiorità schiacciante: conquista la maglia rosa alla seconda tappa e la porta fino a Milano. Per due volte migliora nel 1994 il record dell'ora arrivando a 55,291 km. È però assistito dal dott. Ferrari, che sarà condannato dieci anni dopo per doping.
Ivan Gotti vince due Giri d'Italia. Nel 1997 Gotti precede Tonkov di 1′27″. Nel 1999, dopo la squalifica di Pantani, precede Savoldelli di 3′35″. Poi, però, coinvolto in un processo per doping, patteggia una condanna a sei mesi, ridotta poi a una multa. Un'ammissione di colpa.
Paolo Savoldelli, soprannominato il Falco per la sua abilità di discesista, s'impone nel Giro del 2002 su Tyler Hamilton, ma solo dopo la squalifica per doping di Garzelli e quella di Simoni per una strana vicenda: un responso di non negatività al controllo anti-doping dovuto, sembra, a certe particolari caramelle; in seguito la giustizia lo ha completamente assolto.
È un ciclismo poco credibile nei suoi verdetti di strada. In questi anni nasce il fenomeno Armstrong. Sboccia Cipollini, un attore prestato alla bicicletta che incendia il tifo con le sue volate strapotenti. E sulle montagne appare un cavaliere da sogno: Pantani. Favole che coprono la piaga del doping.
Nel ciclismo, sport di fatica estrema, si è sempre fatto ricorso a farmaci. Questi un tempo venivano somministrati da managers senza scrupoli, come Choppy Warburton, che curava il gallese Arthur Linton, morto nel 1896 a 24 anni dopo una vittoriosa Bordeaux-Parigi, oppure da 'praticoni', come Biagio Cavanna, il massaggiatore di Coppi. Con l'apparizione del medico di squadra, negli anni Cinquanta, l'uso dei farmaci da un lato viene razionalizzato, dall'altro è più finalizzato e garantito.
Negli anni Settanta c'è ormai il doping scientifico, gestito da istituti di ricerca e scienziati di rango. A partire dagli anni Ottanta l'uso di metodi come l'autoemotrasfusione prima e l'assunzione di eritropoietina poi diventa così vantaggioso che i corridori puliti non sono più competitivi. Di qui l'estensione del doping nel ciclismo e l'importanza di combatterlo. Nasce una battaglia lunga e cruenta.
Il doping uccide. Il 25 agosto 1960 il danese Knut Enemark Jensen crolla a Casalpalocco durante la cronometro a squadre dei Giochi Olimpici di Roma. Muore due ore dopo il ricovero in ospedale. Il 13 luglio 1967, al Tour, il britannico Tom Simpson cade e perde conoscenza sul Mont Ventoux, arriva senza vita all'ospedale di Avignone. In entrambi i casi l'autopsia rivela stimolanti nel corpo dei corridori. Quelle tragedie inducono i dirigenti sportivi (CIO, UCI) ma anche i politici a promuovere misure contro il doping. Il Belgio per primo vara una legge anti-doping e il 6 marzo 1966 la Lega velocipedistica belga comincia i controlli. Anquetil li rifiuta con spregio. Così, dopo la cavalcata vittoriosa nella Liegi-Bastogne-Liegi, viene squalificato. Nella Freccia Vallone i primi due, Dancelli e Aimar, risultano positivi per anfetamine, il terzo, Altig, non si presenta ai controlli.
Anche il Tour 1966 dichiara guerra al doping. Il primo controllato è Poulidor. I corridori, però, sono renitenti ai controlli e il 29 luglio, nella Bordeaux-Bayonne, scendono dalla bicicletta per protestare. Il 28 agosto 1966, al Mondiale di Adenau, Altig, Anquetil, Stablinski, Motta e Zilioli non si presentano ai controlli e vengono squalificati per due mesi, Poulidor per un mese. Poi scatta il condono. La battaglia al doping resta semiseria.
Nemmeno la tragedia di Simpson insegna. Il 27 settembre 1967 al Vigorelli Anquetil batte il record dell'ora con 47,494 km, ma rifiuta ancora il controllo anti-doping. Quando il 28 gennaio 1968 viene trovato positivo in Belgio, il tribunale di Anversa lo inibisce dal correre in quel paese per due anni. Anquetil morirà di cancro allo stomaco a 53 anni.
Al Giro i controlli anti-doping compaiono nel 1968: la pena è l'espulsione dalla corsa e un mese di squalifica. Il 9 giugno, a Roma, Victor Van Schil, gregario di Merckx, viene sorpreso mentre da un borraccino versa liquido organico pulito nel flacone dei controlli. Gli viene imposto di riempire un nuovo flacone sotto gli occhi dei controllori. Cinque giorni dopo risulta positivo. È il primo tentativo scoperto di frode.
Alla fine di quel Giro arriva la bomba: sono 10 i corridori positivi, tra loro Gimondi, Balmamion, Motta. Si parla di doping anche in Parlamento. Balmamion viene scagionato subito, Gimondi dopo un parere del ministero della Sanità. Gli altri otto vengono squalificati. Al Tour anche l'ex campione del mondo Stablinski risulta positivo.
Si scopre in modo traumatico la vastità del doping. Al Giro, il 1° giugno 1969, Eddy Merckx, la maglia rosa, viene trovato positivo per stimolanti. Merckx piange e si professa innocente. Si ventila l'ipotesi del complotto. C'è una sorta di dramma mediale. Alla fine la squalifica viene sospesa. Merckx, però, risulterà ancora positivo: al Giro di Lombardia del 1973 per anfetamine e alla Freccia Vallone 1977 per Stimul, un farmaco su cui suo fratello, chimico, aveva svolto un lavoro di ricerca.
Non si usano solo stimolanti. Il quartetto olandese ai Giochi di Città del Messico 1968 fa già uso di steroidi anabolizzanti, che non sono ancora proibiti. Gli anni Settanta sono caratterizzati dall'impiego massiccio del cortisone, proibito solo nel 1979, dopo l'autodenuncia coraggiosa di Bernard Thévenet, vincitore di due Tour.
C'è già però chi fa l'emotrasfusione, come Zoetemelk al Tour del 1976: sarà trovato positivo per steroidi anabolizzanti nel 1979.
In Italia Conconi e il suo staff mettono a punto l'autoemotrasfusione: sarà questa pratica secondo molti a portare nel 1984 Moser al record dell'ora e il quartetto azzurro della 100 km all'oro olimpico; le strutture di Conconi ricevono robusti finanziamenti dal CONI per queste sperimentazioni sugli atleti. In quei Giochi di Los Angeles otto ciclisti della squadra statunitense si servono dell'emotrasfusione e due stanno male. Il CIO interviene e dal 1985 l'emotrasfusione viene bandita.
Molti campioni della bicicletta risultano positivi: Anquetil, Motta, Merckx, Gimondi, Rudi Altig, Maertens, Guimard, Pingeon, Thurau, Pollentier, Battaglin, Fignon, Guido Bontempi, Kelly, Bugno, Gotti, Pantani, Garzelli, gli olimpionici Ian Ullrich e Tyler Hamilton, Francesco Casagrande, Frigo, Lelli, i campioni del mondo Leblanc, Brochard, Millar, Camenzind e Museeuw. Molti i medici coinvolti: tra loro Michele Ferrari, mentore di Rominger e Armstrong. Ferrari è così famoso nel gruppo che il medico della Festina Eric Rijckaert, il quale pure somministra ormone della crescita, EPO e steroidi ai suoi atleti, è, al suo confronto, soprannominato dottor Punto: un'utilitaria di fronte al bolide di Formula 1.
Ferrari lavora all'inizio presso il prof. Conconi all'Università di Ferrara. Nel Centro di studi biomedici applicati allo sport di Conconi il 29 ottobre 1998 irrompono i Nas (Nuclei antisofisticazione dei carabinieri) e trovano alcuni files. Lì passano molte squadre e vengono trattati atleti di molti sport. I magistrati scoprono che squadre di punta, come Gewiss e Carrera, praticano il doping di gruppo, che tre ciclisti hanno valori di ematocrito oltre il 60% ‒ Chiappucci, Ugrumov, Guido Bontempi (62%) ‒ e che altri presentano comunque valori fuori norma: Pantani 58%, Gotti 57%, Fondriest 54,6%, Roche 54,2%, Berzin 53,9%, Bugno 52%. Va ricordato che l'UCI, nel 1997, aveva fissato il limite accettabile dell'ematocrito nel 50%, oltre il quale valore, indipendentemente dal possibile uso di sostanze illecite, era opportuno fermare l'atleta.
In seguito viene provato che un collaboratore di Conconi, il dott. Giovanni Grazzi, somministrò direttamente EPO a Chiappucci, Roche, Sorensen, Guido Bontempi e Chiesa. Alla fine del processo Conconi e i suoi collaboratori Grazzi e Casoni vengono assolti per prescrizione, ma il dispositivo della sentenza li condanna sul piano morale e sportivo: per anni hanno fiancheggiato gli atleti nell'assunzione di EPO, sostenendoli e di fatto incoraggiandoli nel doping, ottimizzando gli esiti dell'assunzione a fini sportivi.
La Francia viene scossa dal caso Festina. Tutto nasce l'8 luglio 1998, a tre giorni dal via del Tour, quando un doganiere ferma a Dronckaert il massaggiatore Willy Voet: trova sulla sua auto 234 dosi di EPO, 42 flaconi di ormone della crescita, 160 capsule di ormoni maschili (testosterone), prodotti per fluidificare il sangue. Esplode un caso che mette a repentaglio il Tour. Il processo che segue dà scandalo in Francia. Ammettono il doping Zülle, i campioni del mondo Brochard e Leblanc, Dufaux, Moreau, Hervé, Virenque, che però mente spudoratamente per due anni prima di crollare. Voet rivela come per tre anni i corridori Festina abbiano barato ai controlli anti-doping e non si tratta di un metodo della massima eleganza.
La frode non è una novità. Il 16 luglio 1978 il Tour aveva visto il caso clamoroso di Michel Pollentier all'Alpe d'Huez. Aveva attaccato e vinto su quella celebre salita, indossando la maglia gialla. Ma al controllo l'addetto, l'italiano Rinaldo Sacconi, lo vide armeggiare in modo sospetto, lo fece spogliare e scoprì, sotto l'ascella, una peretta con urina 'pulita'.
Non c'è soltanto la Festina. A partire dagli anni Novanta altre squadre sono pesantemente coinvolte nel doping di squadra: la Carrera, le olandesi PDM e TVM, la spagnola Kelme, la francese Cofidis. La battaglia al doping porta alla luce lo stato di degrado molto avanzato del ciclismo, la frode eletta a sistema. Un po' alla volta, tuttavia, in ogni paese, si comincia a considerare il doping un cancro sociale e, per combatterlo, vengono approvate leggi mirate.
Così i Nas e la Guardia di finanza irrompono al Giro a Sanremo il 6 giugno 2001: trovano nelle stanze dei corridori insulina, HGH (human growth hormone), testosterone, corticosteroidi, anabolizzanti. Il 17 maggio 2002, al Giro, c'è il primo arresto in corsa: riguarda Nicola Chesini. Il 20 finisce in cella Domenico Romano. Il 14 era stato arrestato Antonio Varriale, sostituito alla vigilia della partenza.
È un Giro travagliato. Il 13 maggio Garzelli aveva vinto a Liegi e conquistato la maglia rosa, ma poi risulta positivo e viene espulso. Il 23 maggio Simoni s'impone a Campitello e scopre di essere risultato positivo per cocaina a un controllo del 24 aprile (è il cosiddetto caso delle caramelle alla coca dal quale poi, come abbiamo visto, Simoni sarà assolto con formula piena). Non è finita. Sgambelluri e il russo Zakirov risultano positivi alla NESP (novel erythropoiesis-stimulating protein), un prodotto nuovo, lo stesso che era stato assunto da tre olimpionici del fondo ai Giochi di Salt Lake City tre mesi prima.
Due casi fanno rumore. Il 6 settembre 1997 Paola Pezzo, olimpionica della mountain bike, ad Annecy risulta positiva al nandrolone, ma il caso viene archiviato "non essendoci certezza della responsabilità dell'atleta". Il 28 luglio 2002 il lituano Raimondas Rumsas sale sul podio al Tour: nello stesso giorno sua moglie Edita viene fermata alla dogana di Chamonix con 37 prodotti, tra cui ormone della crescita, testosterone, corticoidi. "Sono per la suocera", dichiara: il magistrato la trattiene in carcere fino all'11 ottobre. Il 16 maggio 2003, al Giro, Rumsas viene trovato positivo per EPO.
Oltre al doping c'è la droga. Nell'inverno 2003-04 il ciclismo deve misurarsi con la tragedia. Jiménez e Pantani, due scalatori alati, muoiono per cocaina a distanza di due mesi l'uno dall'altro.
Marco Pantani è uno scalatore da fiaba. I suoi scatti accendono la corsa e la rendono splendida. Per cinque anni il popolo degli appassionati gode delle sue imprese. Ma sotto la luce abbagliante c'è la tragedia dura. La storia di Pantani è la metafora cruda del degrado di uno sport bello e malato.
Pantani è nato a Cesena il 13 gennaio 1970, ma vive con la famiglia a Cesenatico. Suo padre Ferdinando, che tutti chiamano Paolo, fa l'idraulico. Mamma Tonina gestisce un chiosco che vende piadine. Ha una sorella, Laura, che chiamano Manola. Pantani incomincia con il calcio. Gioca all'ala destra. È piccolo e scattante. Ma presto è attirato dalla strada, seducente e tentatrice. Un giorno segue con una bicicletta da passeggio i ragazzi del Gruppo ciclistico Fausto Coppi e, soffrendo, continua a pedalare. Resta affascinato dalla bicicletta e incomincia a gareggiare.
Fa le prime corse con il Gruppo ciclistico Fausto Coppi di Cesenatico. Nonno Sotero, che lo ama, gli regala una bella Vicini rossa da corsa. Marco si diverte. Il 22 aprile 1984, a 14 anni, ottiene la prima vittoria a Case Castagnole, nella sua Romagna. Poi vince a Serravalle, a Pieve Quinta, a Pieve di Noce in salita. Scopre la montagna. Resta stregato dagli Appennini. La bicicletta diventa il suo mondo. Marco fa esplodere le urla di mamma Tonina quando la smonta e la pulisce nella vasca da bagno. Sviluppa la sua abilità per la meccanica. È esigente, maniacale nella messa a punto della bicicletta. Cresce in fretta; vince e perde. Nel 1989 passa tra i dilettanti: prima alla Rinascita di Ravenna, poi alla Giocobazzi di Nonantola. Dà spettacolo nella scalata a cronometro della Futa. Nel 1990 sale sul podio al Giro d'Italia dilettanti insieme a Vladimir Belli e Ivan Gotti. L'anno dopo vince la tappa di Agordo ed è secondo nella classifica finale dietro a Francesco Casagrande. Nel 1991 veste anche la maglia azzurra alla Settimana Bergamasca, che viene vinta da uno statunitense, Lance Armstrong. È il primo incontro tra i due. Il 25 giugno 1992 al Giro d'Italia dilettanti Pantani attacca sul passo di San Lugano e arriva primo a Cavalese. Il giorno dopo si scatena nel 'tappone' dolomitico ‒ Sella, Gardena, Campolongo, Pian di Pezzè ‒, arriva ad Alleghe con oltre due minuti di vantaggio e vince il Giro. Il 5 agosto debutta tra i professionisti a Camaiore.
Esordisce con la Carrera, che ha per direttore sportivo Davide Boifava. In quella squadra opera il dott. Giovanni Grazzi, che somministra EPO. Presto Pantani viene seguito personalmente da Conconi. Compare agli occhi del grande pubblico il 4 e 5 giugno 1994, vincendo in solitudine due tappe di montagna al Giro d'Italia, a Merano e all'Aprica. Una rivelazione abbagliante. Il giorno della Lienz-Merano Berzin indossa la maglia rosa e Miguel Induráin è già in difficoltà. Ci sono cinque colli nel programma della giornata: passo Stalle, Furcia, il passo delle Erbe, quello di Eores e quello di Monte Giovo. Su quest'ultimo Pantani scatta a poche centinaia di metri dal traguardo della montagna. Sale con un pugno di secondi di vantaggio, poi si butta giù, con audacia, nella discesa ripida. Disegna traiettorie ad alto rischio. Vola a 80 km/h. Assume una posizione nuova, più aerodinamica, con i glutei quasi a contatto della ruota posteriore e lo stomaco contro la sella. È una freccia scagliata verso il traguardo. Un'apparizione memorabile.
Il Giro scopre un grande discesista. Un temerario come Magni e Koblet, come Rivière e Nencini, come Zilioli e Moser, come Freuler e Chiappucci. Pantani conquista in discesa la sua prima grande vittoria: arriva primo e solo a Merano con 40 secondi di vantaggio su Bugno e Chiappucci.
Il giorno dopo c'è la Merano-Aprica (188 km) con lo Stelvio e il Mortirolo, una salita che è una lama di pugnale. Pantani attacca lì. Berzin, in maglia rosa, prova a resistergli. Ma Pantani, con i suoi scatti, lo lascia indietro. In discesa attende Induráin, che va all'attacco di Berzin. Ne sfrutta la scia generosa. Va in salita con lui oltre l'Aprica. Poi, sul valico di Santa Cristina, scatta per due volte. Induráin risponde nel primo caso, poi crolla. Pantani vince all'Aprica e infligge a tutti grandi distacchi. Chiappucci arriva secondo a 2′52″. Induráin perde 3′30″, Berzin 4′06″. I suiveurs scoprono un campione.
Il 10 giugno il Giro affronta il 'tappone' Cuneo - Les Deux Alpes (201 km). Pantani cerca l'impresa. Parte sul Colle dell'Agnello e va. Vuole vincere il Giro. Il gruppo esplode in mille pezzi; poi c'è la discesa. Berzin, in maglia rosa, vacilla, ma Argentin lo prende quasi per mano e lo guida nell'inseguimento. Induráin è con loro. Incomincia la caccia. Davanti, Pantani affronta l'Izoard, che ha visto le imprese di Bartali e Coppi. Passa solo lassù. Arriva solo anche a Briançon. Ma lì mancano ancora 62 km al traguardo e c'è una vallata lunga, da affrontare controvento, che potrebbe essergli fatale. Rinuncia. Viene ripreso e a Les Deux Alpes vince il suo compagno Pulnikov.
Il 12 giugno 1994 Pantani entra a Milano. Finisce il Giro al secondo posto, davanti a Miguel Induráin, a 2′51″ soltanto da Berzin. Intorno a lui esplode l'entusiasmo. Già in quei giorni, però, il suo ematocrito è fuori norma: il 23 maggio ha 54,5%, il 30 maggio 52%, il 13 giugno 58%. Nessuno ancora lo sa: quei valori saranno scoperti nel file di Conconi quattro anni dopo. Allora, invece, in un mondo di entusiasmi ingenui, le sue scalate appaiono figlie della prodezza, non della biochimica. Il 24 luglio 1994 Pantani sale sul podio del Tour, terzo, dietro a Miguel Induráin e a Ugrumov, ma il giorno dopo ha 57,4% di ematocrito. D'inverno il suo ematocrito scende a 40-41%. Nella stagione delle corse decolla.
Il 1° maggio 1995, a pochi giorni dal Giro, Pantani ha un incidente di strada a Sant'Arcangelo di Romagna e viene ricoverato d'urgenza all'ospedale di Rimini. La diagnosi è "trauma cranico non commotivo con ferita lacerata nella regione temporale destra. Contusioni al ginocchio destro. Contusioni alla regione sacrale. Escoriazioni varie". Quel giorno ha 57,6% di ematocrito: un valore non fisiologico. Dopo due giorni d'ospedale Pantani ritorna in sella, ma il ginocchio gli duole. Va a Brescia dal prof. Terragnoli: ha lesioni alla cartilagine rotulea e a un menisco. Ci vuole un periodo di riposo. Il Giro salta.
Pantani si ripresenta al Tour 1995 e regala due grandi recite. Il 12 luglio arriva solo sull'Alpe d'Huez, con 1′24″ sulla maglia gialla Induráin e su Zülle. Si ripete il 16 luglio a Guzet Neige, dove vince con 2′31″ su Madouas e Induráin. Il tifo va in delirio sulle salite. Intorno a lui un alone da leggenda. È un Tour tragico: il 18 luglio, nella discesa del Portet d'Aspet, Fabio Casartelli cade, batte la testa e perde la vita. Alla fine Induráin ottiene la sua quinta vittoria consecutiva al Tour. Ma Pantani conquista il tifo, anche se in classifica finisce al tredicesimo posto. Piace il suo modo plateale di lanciare il guanto di sfida. I suoi scatti accendono la strada. Il suo cuore a riposo ha 36-38 pulsazioni. Pantani ha, soprattutto, un recupero prodigioso.
L'8 ottobre 1995, nel Mondiale di Duitama, in Colombia, Pantani sale sul podio, terzo dietro a Olano e Induráin. Il 18 ottobre, però, nell'insidiosa discesa di Pino Torinese, cade in maniera rovinosa durante la Milano-Torino. Mentre fa una curva a sinistra a quasi 70 km/h trova una Nissan ferma in mezzo alla strada. Lo scontro è devastante. La scena è terribile. Corridori sopra l'asfalto e gemiti. Con Pantani sono volati a terra Secchiari, che si frattura il bacino, e Dall'Oglio, che ha il femore in pezzi. Anche Pantani resta ferito gravemente; viene ricoverato al centro traumatologico con la frattura di tibia e perone.
Pantani sembra perseguitato dalla sfortuna. Sulla strada mostra la fragilità di Coppi. A 15 anni era finito contro un pulmino fratturandosi il naso. Poi aveva subito un trauma cranico. E, ancora, si era fratturato la clavicola. Nel Giro del 1990 si era lussato la spalla. Poi si era rotto un metatarso finendo contro un muro. E il 1° maggio la caduta di Sant'Arcangelo lo aveva escluso dal Giro.
Al centro traumatologico di Torino Pantani ha 60,1% di ematocrito, dieci punti in più del limite consentito del 50%, e 20,8% di emoglobina. Valori ad alto rischio. Nel processo che seguirà il giudice monocratico, alcuni anni dopo, accerterà il doping con l'uso di EPO: Pantani riceverà una condanna a tre mesi per frode sportiva. In appello, poi, sarà assolto "perché il fatto non era previsto dalla legge come reato", ma il dispositivo della sentenza confermerà il doping. Pantani perde la stagione 1996 per quell'incidente. Nel Giro di quell'anno fa il cantante. Ha una bella voce. Mediaset gli affida la sigla di apertura della trasmissione. Intanto la Carrera lascia il ciclismo e Pantani passa alla Mercatone Uno: lascia Boifava per Pezzi. Farà decollare quel marchio. La vita gli regala una sorpresa. Pantani ha ancora le stampelle, ma frequenta le discoteche. In un locale sul lungomare di Cesenatico conosce una ragazza danese, Christina, che fa la cubista e studia all'Accademia di belle arti di Ravenna. Si innamorano.
In bicicletta Pantani torna in scena solo nel 1997. Il 24 maggio, al Giro, mentre a 80 km/h segue lo svizzero Felice Puttini nella discesa del Chiunzi, un gatto attraversa la strada. Puttini e Pantani cadono con Moos, Meier, Buenahora. Pantani si rialza, piange, riparte. La coscia gli fa male. Il prof. Tredici lo medica in corsa. Aiutato dai suoi uomini arriva al traguardo. Viene ricoverato all'ospedale di Cava de' Tirreni. La diagnosi è lacerazione del bicipite femorale sinistro. È costretto all'abbandono.
Pantani si rimette in tempo per il Tour e il 5 luglio parte da Rouen. Quando Ullrich va all'attacco nella decima tappa, Luchon-Andorra, Pantani finisce secondo a 1′08″. Sembra rinato. Il 19 luglio ritrova, due anni dopo, l'Alpe d'Huez. Appena usciti da Bourg d'Oisans, sul primo tornante, scatta. Ullrich non risponde e sale in progressione. Pantani va via imprendibile. Vince per distacco all'Alpe d'Huez con 47″ sulla maglia gialla Ullrich. Con 37′35″ stabilisce il nuovo record di quella scalata. Risale al terzo posto in classifica. Ma, il giorno dopo, si stacca e perde 3′06″ da Virenque a Courchevel. Il 21 luglio, però, scatta sul Col de Joux Plane e arriva solo a Morzine, con 1′17″ su Virenque e Ullrich. Nessuno resiste ai suoi scatti. Nella recita è splendido e plateale come un torero. Per lui un popolo di tifosi si muove, si appassiona, si mette la bandana, bivacca sulle salite, applaude. Pantani torna sul podio del Tour: terzo dietro a Ullrich e Virenque.
Manca a Pantani la grande vittoria. Nel Giro del 1998 la ottiene. Sin dalla partenza Pantani stuzzica gli avversari su ogni salita. Recita la sua parte sulla scena. Ma sulla salita di lago Laceno subisce l'attacco di Zülle. Pantani regala sempre anche il brivido: così nella discesa su Schio cade, ma, per una volta, non si fa male. E il giorno dopo, 30 maggio, arriva solo a Piancavallo con 13 secondi su Tonkov e Zülle. Il 31 maggio c'è la tappa a cronometro di Trieste (40 km). Ultimi a partire i primi tre della classifica: Tonkov, Pantani e Zülle. Quest'ultimo, in maglia rosa, insegue Pantani, che è partito tre minuti prima, lo prende di mira, lo raggiunge e lo salta senza degnarlo di uno sguardo. Zülle sembra padrone del Giro. Ma si trova davanti le Dolomiti. Lì, il 2 giugno, nel 'tappone' dolomitico Asiago - Selva di Val Gardena (215 km) e sei passi, Pantani attacca con Guerini, fa il vuoto. Zülle crolla. Quel giorno Pantani lascia la vittoria di tappa a Guerini, ma indossa la sua prima maglia rosa. Il giorno dopo arriva all'Alpe di Pampeago insieme a Tonkov, che lo precede di un solo secondo. Il 4 giugno, a monte Campione, in maglia rosa, stacca tutti. Solo Tonkov gli resiste bene a lungo. Pantani quel giorno si cala nella parte del Pirata. Ha la bandana in testa, l'orecchino al lobo dell'orecchio, un piccolo brillante sul naso, il teschio sulla sella. Quella salita è duello. Pantani scatta una, due, tre volte. Tonkov, irriducibile, risponde sempre. Ma, nel braccio di ferro finale, a meno di due chilometri dal traguardo, cede e finisce a 57 secondi da Pantani.
Tonkov spera di rovesciare la classifica nella tappa a cronometro. Invece a Lugano, il 6 giugno ‒ giorno in cui Forconi, suo gregario, viene trovato con ematocrito fuori norma ‒ Pantani vola contro il tempo, finisce terzo di giornata. Il 7 giugno entra a Milano da re. Vince il Giro con 1′33″ su Tonkov e 6′51″ su Guerini.
Poi Pantani va all'assalto del Tour con il cuore turbato dalla scomparsa di Luciano Pezzi, il suo mentore amato. È una corsa subito devastata dal caso Festina: sequestri di sostanze dopanti, arresti in corsa, fughe, denunce. Il 22 luglio Pantani infligge a Ullrich la prima parziale sconfitta a Plateau de Beille, dove lo lascia a 1′40″. È pronto ormai per la grande conquista. Il 27 luglio c'è la Grenoble - Les Deux Alpes (189 km) con il Galibier, una montagna mitica. Lì, a 5 km dalla vetta, attacca. Scollina con 2′56″ su Ullrich. È infreddolito. Deve fermarsi in discesa per infilarsi la mantellina. Riparte, si lascia raggiungere dai primi inseguitori e va con loro all'ultima salita. Mentre Ullrich, vinto dal freddo, cede, Pantani scatta irresistibile. Si libera di tutti. Vince arrivando solo. Ullrich perde 8′57″. Pantani lo spodesta della maglia gialla con un'impresa da favola. Il titolo dell'Équipe, giornale organizzatore, è "C'est un géant". Il direttore del Tour Jean-Marie Leblanc si sbilancia e dichiara: "Pantani ha salvato il Tour. Rappresenta la faccia pulita del ciclismo".
È la prima maglia gialla di Pantani. E la conquista con ampio margine: in classifica ha 5′56″ di vantaggio sul tedesco. Il giorno dopo arriva ad Albertville insieme a Ullrich, orgoglioso e renitente alla sconfitta, con 1′49″ sui primi inseguitori. È un Tour sofferto. La corsa è turbata da perquisizioni, indagini, arresti, polemiche. Anche la TVM finisce nell'occhio del ciclone. La tappa successiva viene annullata. Massi viene arrestato; gli spagnoli si ritirano.
Ma il Tour, mutilato, avanza come un grande serpente ferito, ma vivo. Sulla sua schiena il tifo vede un cavaliere di fiaba, Pantani, in maglia gialla. Invano Ullrich domina nella cronometro finale a Le Creusot: Pantani, brillante terzo, perde solo 2′35″. Vince il Tour con 3′21″ su Ullrich. Realizza la doppietta Giro-Tour come Coppi. Gimondi gli solleva il braccio sul podio degli Champs Elysées.
Pantani non è pago. È ormai affermato. Però pretende di più dalla sua performance. Il Giro d'Italia 1999 lo vede protagonista dopo la prima settimana di studio. Il 22 maggio vince al Gran Sasso, staccando di 23 secondi José María Jiménez, il migliore scalatore spagnolo, e indossa la maglia rosa. La cede subito a Jalabert nella tappa a cronometro di Ancona, per riconquistarla a Borgo San Dalmazzo. Lì passa primo e solo su una salita nuova, il Colle della Fauniera; poi, nella scia di Savoldelli, il Falco, protagonista nella discesa, ingaggia un bel duello con Gotti.
Il giorno dopo, 30 maggio 1999, sulla salita di Oropa, annichilisce il campo con uno show estremo. L'acme della sua carriera di attore. A 8 km dal traguardo è costretto a fermarsi per il salto della catena. Armeggia, perde tempo. Vede 49 corridori allontanarsi. Si rimette in sella, fatica in avvio di rincorsa, poi insegue con ferocia. Salta uno dopo l'altro i corridori che lo precedono. Piomba sull'ultimo, Laurent Jalabert, e lo salta. Vince con 21 secondi su Jalabert e 35 su Simoni. Un exploit addirittura eccessivo. "Meno male che mi sono scansato", è il commento ironico di Jalabert.
Pantani schiaccia la corsa. Il 3 giugno arriva primo all'Alpe di Pampeago con 1′07″ su Simoni e 1′27″ su Heras. Il 4 giunge solo a Madonna di Campiglio con 1′07″ su Jalabert. A due giorni dalla fine vanta quattro vittorie per distacco e ha la maglia rosa con vantaggi incolmabili: 5′38″ su Savoldelli, 6′22″ su Gotti. Ma il 5 giugno 1999, prima del 'tappone' del Mortirolo, Pantani, come tutti i primi dieci della classifica, viene sottoposto a un controllo a sorpresa.
Alle 7.25 del mattino Antonio Coccioni, giudice di gara internazionale, e i dottori Sala, Spinelli e Partenope bussano alla porta della sua stanza all'Hotel Touring di Madonna di Campiglio: "Si prepari. Tra dieci minuti dobbiamo farle il prelievo del sangue". Coccioni convoca il direttore sportivo Martinelli, che, per regolamento, deve presenziare al test. Il prelievo viene fatto dal dott. Partenope, il codice sulla provetta viene applicato. Nel quartiere dell'UCI i campioni dei corridori vengono analizzati con un apparecchio Coulter ACT-8. Uno dei dieci campioni dà valori fuori norma. Coccioni identifica il codice e sbianca in volto: si tratta della maglia rosa Pantani. Dopo cinque controlli, che danno lo stesso valore, vengono chiamati Martinelli e Rempi, medico della Mercatone. I controlli vengono ripetuti per altre tre volte. La macchina dà sempre lo stesso valore, per otto volte: 53% di ematocrito. Sottratto un punto di tolleranza, come da regolamento, resta un valore di 52%. La soglia limite è 50%. Pantani viene espulso dalla corsa e fermato per 15 giorni "a difesa della sua salute".
Quando viene informato dell'esclusione, Pantani ha uno scatto di rabbia e dà in escandescenze. Rompe un vetro con un pugno e si ferisce. Pantani e Martinelli parlano di complotto. Il magistrato allora apre un'inchiesta e sequestra le provette. Ordina una perizia di parte e l'esame del DNA. La perizia conferma il valore dell'ematocrito. L'esame del DNA stabilisce che si tratta proprio del sangue di Pantani. Per il giudice il complotto non esiste, c'è stata, invece, assunzione di EPO. Pantani è schiacciato dalle prove. Si sente vittima di un mondo ostile. Sprofonda nella cocaina. È un naufrago che lotta per restare a galla e non trova un relitto a cui aggrapparsi.
Il 13 maggio del 2000 Pantani si ripresenta al Giro, che parte da Roma. Nella Sala Clementina, in Vaticano, incontra Giovanni Paolo II e ne resta, per un istante, affascinato. Ma la corsa lo spinge via con le sue urgenze. In quel Giro Pantani non recita da protagonista. Però si ricostruisce un poco. Ritrova antiche sensazioni. Assiste il suo compagno di squadra Garzelli, gli porta addirittura le borracce sull'Izoard, e, quel giorno, 2 giugno, a un certo punto scatta e regala una prova di volo. Finisce secondo a Briançon. Un segnale di rinascita.
Va al Tour con speranza. Il 13 luglio 2000 gli viene incontro il Mont Ventoux, terribile e tragico. Trecentomila tifosi hanno conquistato la montagna. Armstrong, come un tiranno, governa la corsa in maglia gialla. Pantani, a otto chilometri dalla vetta, sembra cedere. Invece riemerge prodigiosamente dopo due chilometri. Rientra e scatta. Botero lo riprende. C'è in quel cedimento e in questa torsione tutta la fragilità dell'uomo, il senso disperato di una lotta per sopravvivere. Pantani scatta ancora: una, due, tre volte. Finalmente resta solo. Lì Armstrong allunga, lascia gli altri e lo raggiunge. Pantani lo guata. Sale tra le pietre dure. Non c'è volata. La maglia gialla Armstrong lo segue, senza cercare il sorpasso. Pantani, dopo 405 giorni, ritrova la vittoria.
Armstrong fa capire di aver regalato la vittoria a Pantani, che si risente. Ferito nell'orgoglio, polemizza. Il 16 luglio, domenica, c'è la Briançon-Courchevel (173 km) con il Galibier e la Madeleine. Pantani vola via sulla salita finale. Solo Armstrong lo insegue. Davanti i fuggitivi di un gruppo d'avanguardia vengono ripresi. Quando la maglia gialla ha un momento di difficoltà, Pantani va via. Raggiunge l'ultimo dei fuggitivi, rimasto davanti a lui, lo spagnolo Jiménez, lo salta e s'impone in solitudine. Sotto il traguardo ha 41 secondi su José María Jiménez, 50 su Heras e sulla maglia gialla Armstrong, mentre Ullrich perde oltre 3 minuti.
C'è un giorno di riposo. Per Pantani è un giorno di guerra. Armstrong è in testa alla classifica con oltre 7 minuti su Ullrich e Beloki. Pantani, a 9 minuti, vuol farlo saltare: un sogno visionario. Il 18 luglio, nel 'tappone' alpino, Pantani parte da lontano, a 129 km dal traguardo. Passa primo sul Col de Saisies, sul Col des Aravis e sul Col de la Colombière. Solo Escartin lo spalleggia un po'. Dietro di lui Armstrong e Ullrich mettono alla frusta i loro uomini. Di nuovo la caccia, dura, crudele, a perdifiato. Il volo di Pantani è lungo 82 km. Poi il crollo. Pantani si arrende, spossato. Dissenteria, si dirà. Il Col de Joux Plane, che avrebbe dovuto essere la rampa per il paradiso, diventa il precipizio in cui si inabissa. Pantani arriva a Morzine, sofferente nell'anima e nel corpo, con quasi 14 minuti di distacco. Intorno a lui, silenziosi e disarmati, i suoi uomini. Una pattuglia di vinti. Sfiduciato, Pantani si ritira. È l'ultimo assalto. Un'incompiuta fatale.
Il magistrato Raffaele Guariniello, intanto, apre contro di lui un procedimento per frode sportiva per i fatti legati all'incidente della Milano-Torino. L'orizzonte si fa cupo. Pantani si chiude in sé stesso. Il suo viaggio ai Giochi di Sydney ‒ per lui viene sacrificato Rebellin ‒ assomiglia a un tentativo di salvezza. Quando torna al Giro 2001, Pantani non è più capace dell'exploit. E, il 27 maggio, nella sua camera d'albergo a Montecatini, gli trovano una siringa di insulina. Pantani lascia la corsa. Viene squalificato per sei mesi. Non ha più voglia di combattere. Il tempo è ormai corto per lui. Intorno ha terra bruciata e lo spettro dei processi. Anche la fidanzata Christina lo lascia.
Pantani prova l'ultimo, coraggioso ritorno nel Giro del 2003. Corre pulito. Si difende bene sullo Zoncolan, ma la scena è ormai di Simoni. Sul Colle di Sampeyre una tempesta di neve e grandine si abbatte sul Giro. La discesa è scivolosa come una lastra di ghiaccio ed è sospesa sull'abisso. Pantani si lancia con Garzelli all'inseguimento di Simoni. Garzelli scivola e trascina anche Pantani nella caduta. Mentre Garzelli riparte subito, Pantani si siede sul ciglio della strada. Ha brividi di freddo e gli vengono coperte le spalle con un asciugamano. Resta immobile per 7 minuti. Poi si rialza e sussurra: "Riparto".
Il giorno dopo, 30 maggio 2003, va all'attacco per l'ultima volta. Teatro della scena è la salita della cascata del Toce. Pantani allunga a quattro chilometri dal traguardo. Ma il suo scatto non ferisce più. La maglia rosa Simoni prevale. Simoni, ricordando i duelli da dilettante con Pantani, dirà poi: "Mi faceva paura in salita quando scattava. Mi faceva paura anche il solo pensiero che fosse in gruppo". Quel ricordo gli si era risvegliato davanti all'improvviso. Ma, stavolta, si era ritrovato davanti un fantasma. Simoni vince la tappa e il Giro. Pantani finisce tredicesimo a 26′15″. Non accetta il cambio di scala. Si rode. Sprofonda. È un uomo solo ormai. Intorno a lui il crepuscolo. Parte per un viaggio a Cuba.
La vita lo colpisce con il suo pugno di ferro. Pantani scopre che il 7 dicembre 2003 il suo rivale di scalate José María Jiménez, 32 anni, un cavaliere delle montagne, il moschettiere coraggioso che gli aveva sbarrato la strada a Courchevel, è morto, in clinica, per cause legate all'uso di cocaina. Anche Pantani si trova lanciato in una discesa dove non può più frenare. Litiga, si isola, cade nella depressione, tenta inutilmente il recupero in una struttura specializzata. Il 14 febbraio 2004 Pantani muore a 34 anni per overdose di cocaina.
La sua tragedia atterrisce e commuove. Non è il primo eroe tragico in bicicletta. Il ciclismo ne ha avuti molti. René Pottier, il primo grande della montagna, impiccatosi per una delusione d'amore. Henri Pelissier, ucciso a colpi di pistola per gelosia dalla donna che amava. Fausto Coppi, il Grande Airone, trafitto da una zanzara. Tommy Simpson, il baronetto, caduto per doping sul Mont Ventoux. Roger Rivière, rovinato da un volo tragico, mentre inseguiva Nencini. Luis Ocaña, morto suicida dopo essersi scoperto gravemente malato.
Mentre, dietro le quinte, si consuma la tragedia di Pantani, la bicicletta continua a scintillare. Anche Michele Bartoli molte volte si è confrontato con la sfortuna. Il 18 ottobre 2003, al Giro di Lombardia, però, Bartoli prende in pugno la corsa in fondo alla discesa del Berbenno. Uno scatto secco e via, a 18 chilometri dall'arrivo. Solo il giovane Angelo Lopeboselli gli rimane nella scia e Bartoli lo batte facilmente in volata nell'arrivo di Bergamo. L'anno prima, il 20 ottobre 2002, si era imposto sullo stesso traguardo, bruciando allo sprint Rebellin e Camenzind. Una doppietta rara. Bartoli ha la capacità di risorgere. Il 12 maggio 2002 a Münster, durante il Giro d'Italia, si era fratturato il bacino. L'ultimo dei molti incidenti della carriera. I suoi tifosi lo chiamano il Guerriero.
Bartoli è un pisano brillante. Ha una vocazione: le classiche. È capace di vincere da solo e allo sprint. Preferisce le classiche più impegnative: Fiandre, Liegi-Bastogne-Liegi, Giro di Lombardia. Ha come gregario di fiducia un uomo di classe: Paolo Bettini.
Bartoli vince due Coppe del Mondo, nel 1997 e 1998, e sette grandi classiche: il Giro delle Fiandre 1996, la Liegi-Bastogne-Liegi nel 1997 e nel 1998, il Gran Premio di Zurigo 1998, l'Amstel Gold Race 2002 e i Giri di Lombardia 2002 e 2003. Il suo gregario Bettini fa prove di volo nel 2000 e vince la Liegi-Bastogne-Liegi. Due anni dopo, Bartoli passa alla Fassa Bortolo e si separa da Bettini. Questi, come il falco liberato dal falconiere, si aggiudica tre Coppe del Mondo di fila.
Il 22 marzo 2003 Bettini corona un sogno: vince la Milano-Sanremo su Celestino e Paolini. Bettini è un toscano di Cecina, piccolo e magro. È soprannominato il Grillo. Conquista l'oro olimpico ad Atene con una corsa capolavoro.
Il 23 marzo 2002 Mario Cipollini parte per la quattordicesima volta nella Milano-Sanremo. Ha 35 anni. Questa è una corsa stregata per lui. È già arrivato secondo per due volte, battuto da Furlan e da Zabel. Pedala per 287 km, inseguendo la sua ossessione. Via, dietro a Olano fuggitivo, protetto dalla sua guardia, braccando Bettini e Figueras, che scendono a rotta di collo dal Poggio. A 900 m dal traguardo i fuggitivi sono ripresi. La volata è un capolavoro di balistica e di precisione. Lì Cipollini si trasforma in missile: Trenti e Lombardi sono i primi due stadi. Nessuno gli può resistere. Vince Cipollini, finalmente, battendo lo statunitense Fred Rodriguez, lo svizzero Markus Zberg, il belga Jo Planckaert, ultimo di una famiglia di corridori, il campione del mondo Oscar Freire. Uno sprint regale.
Cipollini è nato a Lucca il 22 marzo 1967. Ha conquistato la sua prima corsa all'età di sei anni. Ha vinto sempre. Con splendore, più che con fatica. Sospinto dal talento, più che dal lavoro. Passa professionista nel 1989 e il 1° giugno di quell'anno il Giro d'Italia lo vede subito sfrecciare sul rettilineo di Mira, davanti a Rodriguez e Van Poppel. Potente, esplosivo, affascinante. Sempre inseguito dagli occhi erranti delle sue ammiratrici. Sempre respinto dalle montagne. In corsa una sola cosa accende la sua pupilla: il traguardo.
Così è Cipollini a superare il record di vittorie di Binda al Giro: il 19 maggio 2003 a Montecatini, battendo McEwen e Petacchi, conquista la sua quarantaduesima vittoria di tappa. Nella storia la classifica dei plurivincitori di tappa al Giro vede al primo posto Cipollini con 42 successi, seguito da Binda con 41; Guerra ne ha collezionati 31, Girardengo 30, Merckx 25; al sesto posto Saronni con 24 successi, seguito da Francesco Moser con 23, Coppi e De Vlaeminck con 22 e Bitossi con 21 affermazioni. Tuttavia Cipollini non può, per questo, essere considerato più forte di Binda. Binda vinceva anche i Giri d'Italia, passava per primo su tutti i colli, era migliore in tutto. A Cipollini, invece, riesce soltanto la volata. Al Tour de France del 1999 vince quattro tappe consecutive. Ha, però, bisogno del suo treno per esprimersi. Si ritira sempre al Tour, con ostinazione, con premeditazione, davanti alle montagne. I tifosi lo hanno chiamato Re Leone, ma troppo spesso del leone esibisce la criniera più che la forza. Eppure veste la maglia rosa, la maglia gialla e la maglia iridata. Nel Mondiale di Zolder 2002 stabilisce la media record di 46,583 km/h e fa lo stesso nella tappa di Blois del Tour 1999 con 50,335 km/h.
Cipollini è più veloce di Erik Zabel, il tedesco con cui ingaggia strepitosi duelli. Eppure Zabel lo piega nella Milano-Sanremo 2001. A differenza di Cipollini Zabel non si ritira mai. È un corridore vero. Conclude le grandi competizioni. Quando perde, si piazza. Solo Ãmil′ impedisce a Zabel di inanellare cinque vittorie consecutive nella Milano-Sanremo. Ne vince quattro, come Bartali, e per due volte è secondo. Solo Merckx, sette vittorie, e Girardengo, sei, hanno vinto più Milano-Sanremo di Zabel. Eppure prima di Zabel solo un tedesco, Rudi Altig nel 1968, con una volata da lontano in cui aveva battuto Grosskost e Durante, era riuscito a vincere questa grande classica.
Zabel è nato a Berlino il 7 luglio 1970, ma vive a Unna, presso Dortmund. È alto 1,76 m e pesa 67 kg. L'Italia gli porta fortuna. Vince la sua prima gara da professionista a Fiuggi nella Tirreno-Adriatico del 1993. Poi inanella altre duecento vittorie. Gareggia con ostinazione per tutta la stagione, sempre competitivo, sempre pronto alla lotta.
Nella battaglia tra Cipollini e Zabel, nel 2003, irrompe di prepotenza Alessandro Petacchi, un uomo capace di raggiungere punte di velocità di 71 km/h. In quella sola stagione Petacchi colleziona 30 successi, ma, soprattutto, vince 15 tappe dei grandi giri: 6 al Giro d'Italia, 4 al Tour e 5 alla Vuelta. Diventa il numero uno dello sprint su distanze al di sotto dei 250 km. Su percorsi più lunghi, invece, perde brillantezza, diventa vulnerabile, così viene sconfitto da Freire, Zabel e O'Grady nella Milano-Sanremo del 2004. Quell'anno al Giro vince nove tappe: nessuno era arrivato a tanto nel dopoguerra. Solo Binda, con 12 successi nel 1927, Guerra nel 1934 e Olmo nel 1936 con 10 vittorie hanno fatto meglio di lui nella storia del Giro. Nel 2004 a quelle conquistate nel Giro Petacchi aggiunge quattro vittorie di tappa nella Vuelta.
Petacchi è nato a La Spezia il 3 gennaio 1971. Nei primi quattro anni da professionista, nel periodo 1996-99, vince una sola gara, una tappa al Giro di Malesia. Poi nel 2000, a 26 anni, incomincia la sua metamorfosi prodigiosa.
La saga degli scalatori al Giro non si esaurisce con Pantani. Gilberto Simoni vince il Giro nel 2001 e nel 2003. È il numero uno sulle montagne.
Simoni è nato il 25 agosto 1971 a Palù di Giovo in Val di Cembra, in Trentino. È figlio di Enrico e Lina, due contadini che coltivano viti. Palù di Giovo è anche il paese dei Moser: Aldo, Enzo e Francesco. Un paese di grande tradizione ciclistica. Simoni cresce lì, tra vigneti sospesi sopra porfidi rossi, contro il cielo, in cima a una salita temibile. Ha quattro fratelli, ma nessun ciclista in famiglia. Da piccolo manifesta una passione rara per la meccanica. Così, a sette anni, con rottami di vecchie biciclette ne assembla una accettabile. La vocazione del corridore lo sorprende a 13 anni, nel 1984, quando il suo paese esplode di gioia per le vittorie di Francesco Moser nel suo anno magico. Il suo modello, naturalmente, diventa Moser. A differenza di Moser, però, Simoni è uno scalatore puro. Sa anche essere veloce e imprevedibile. La vita lo ha temprato: ha dovuto superare la morte del papà e del fratello Mario.
Da junior s'impone nel Giro della Lunigiana battendo Rebellin. Da dilettante vince il Giro della Valle d'Aosta, il Giro del Friuli, il Giro d'Italia, il Campionato italiano. Ha un avvio difficile da professionista. Poi prende quota nel 1999, quando sale per la prima volta sul podio del Giro, terzo, dietro a Gotti e Savoldelli, ma davanti a Jalabert e Heras. Si ripete nel 2000, terzo dietro a Garzelli e Casagrande, imponendosi nella tappa di montagna che arriva a Bormio.
Vince il Giro del 2001 con 7′31″ su Olano. È un Giro devastato dallo scandalo di Sanremo, con l'irruzione dei Nas dei carabinieri e della Guardia di finanza, che smascherano gli arsenali del doping nelle stanze dei corridori. Il 9 giugno Simoni, nella ventesima tappa, Busto Arsizio - Arona, offre subito una prova di forza, arrivando solo al traguardo con 2′25″ di distacco su Savoldelli.
Simoni perde il Giro del 2002, messo fuori dalla corsa, proprio mentre sta per vincerla, per la positività alla cocaina di un mese prima, al Giro del Trentino (il caso delle caramelle alla coca: ma a Giro finito sarà scagionato). Ma vince il Giro del 2003 con superiorità netta. Domina sullo Zoncolan, travolge tutti all'Alpe di Pampeago e s'impone alla cascata del Toce. Vince il suo secondo Giro d'Italia con 7′06″ su Garzelli.
Nel Giro del 2004 Simoni, dopo aver vinto con bella sicurezza a Corno alle Scale e aver indossato la maglia rosa, viene spodestato dal suo giovane delfino Damiano Cunego e finisce terzo. Per la quinta volta è sul podio del Giro. Palù di Giovo lo festeggia lo stesso. Ha solo 550 abitanti ma può vantare 85 maglie rosa, così spartite: Francesco Moser 57, Aldo ed Enzo Moser 2 ciascuno, Simoni 24.
Il panorama internazionale si evolve. Negli anni Novanta insieme agli Stati Uniti si fa largo la Germania, con Ullrich nelle corse a tappe e Zabel nelle classiche. Il Belgio è forte di un guerriero indomabile, Johan Museeuw, micidiale nelle corse d'un giorno, irresistibile sul pavé.
Museeuw, nato a Varsenare, in Belgio, il 13 ottobre 1965, mette assieme 11 vittorie di gare di Coppa del Mondo: 3 Parigi-Roubaix, 3 Giri delle Fiandre, 2 Campionati di Zurigo, la Parigi-Tour, l'Amstel Gold Race e il Gran Premio d'Amburgo. Vince anche il Campionato del Mondo di Lugano 1996 e due Coppe del Mondo. È capace di una resurrezione portentosa dopo una caduta drammatica alla Parigi-Roubaix, nel 1998, che lo mette in pericolo di vita. Peccato che, a fine carriera, risulti coinvolto nel doping e per questo squalificato per 4 anni.
In Italia, sul finire del secolo, oltre a Cipollini, Bartoli e Bettini, altri due toscani lasciano un segno profondo nelle classiche: Ballerini e Tafi.
Già nel 1993 Franco Ballerini taglia il traguardo della Parigi-Roubaix a braccia alzate, certo di aver rimontato Duclos-Lassalle. Il giudice d'arrivo lo dichiara vincitore. Ma il photo finish è limpido: il vecchio, irriducibile Duclos-Lassalle gli ha resistito per una gomma, 8 millesimi di secondo. La delusione è tremenda. Due anni dopo Ballerini, per evitare i rischi della volata, attacca sul pavé a 32 km dal traguardo e consuma una rivincita splendida: arriva solo con 1′56″ di vantaggio. Sono gli anni in cui una squadra italiana, la Mapei, diretta da Giorgio Squinzi, domina la scena mondiale. Nella Parigi-Roubaix 1996 tre uomini Mapei fuggono a 90 km dal traguardo ed è l'ammiraglia a dettare l'ordine d'arrivo: primo Museeuw, secondo Bortolami, terzo Tafi.
Nel 1998 Ballerini regala il favoloso bis con un assolo di 42 km. Alle sue spalle, a 4′15″, si piazza Andrea Tafi da Fucecchio. Imparata bene la lezione, un anno dopo, Tafi colleziona anche il primo posto, vincendo in solitudine con 2′14″ di vantaggio: è la terza tripletta Mapei in quattro anni. Tafi, una vita da gregario, ha cambiato dimensione a trent'anni: il 19 ottobre 1996 aveva vinto il Giro di Lombardia con una corsa di selezione sul Colle del Gallo ed era arrivato solo a Bergamo con oltre 2 minuti di vantaggio.
Nell'aprile 2004 si segnala l'exploit di Davide Rebellin, che in sette giorni vince tre classiche. Vittorie sofferte, di misura, ma splendide proprio perché esprimono la sofferenza e lo spasmo. Il giorno 18 Rebellin vince l'Amstel Gold Race con 1″ su Boogerd, 18″ su Bettini, Di Luca e Van Petegem. Il 21 si aggiudica la Freccia Vallone con 3″ su Di Luca, 9″ su Kessler, 12″ su Scarponi, 16″ su Vinokurov. Il 25 è primo nella Liegi-Bastogne-Liegi con 2″ su Boogerd, 4″ su Vinokurov, 8″ su Sánchez.
Il ciclismo, nel terzo millennio, cerca strade diverse, personaggi nuovi. La Spagna regala, finalmente, mezzo secolo dopo Miguel Poblet, un uomo capace di vincere le corse d'un giorno: Oscar Freire s'impone in tre campionati del mondo nello spazio di cinque anni. Freire è nato a Torrelavega, vicino a Santander, come Vicente Trueba, il primo vincitore del Gran Premio della Montagna al Tour. Corre dall'età di 9 anni. Grazie al suo scatto folgorante, vince la Milano-Sanremo del 2004 bruciando nell'ultimo metro Erik Zabel, mentre O'Grady lascia giù dal podio Petacchi, solo quarto.
Invece lo scalatore Roberto Heras, che nel 1999 al Giro aveva vinto la tappa del Mortirolo all'Aprica, si afferma come leader delle corse a tappe, aggiudicandosi per tre volte la Vuelta.
L'Italia, però, è sempre alla ricerca dell'uomo forte, capace di imporsi nelle corse a tappe e di far rivivere il mito di Binda, Bartali, Coppi. Ecco due campioni del mondo under 23 conquistare la scena nel 2004. Prima Damiano Cunego fa suo il Giro d'Italia con un'autorità stupefacente: vince quattro tappe, spodesta il suo capitano Simoni, domina la corsa. Al Tour, invece, sui Pirenei, ecco Ivan Basso che risponde a un attacco di Armstrong, arriva con lui e vince a La Mongie. Poi sale sul podio di Parigi, terzo dietro Armstrong e Kloden.
Cunego, 23 anni, nel finale di stagione s'impone anche al Giro di Lombardia. Appare insieme uomo da grandi competizioni e da classiche. Prima di lui la doppietta Giro d'Italia - Giro di Lombardia era riuscita solo a Girardengo, Binda, Guerra, Bartali, Coppi e Merckx. Cunego è alto 1,69 m e pesa 59 kg. Ha 43 pulsazioni a riposo e 180 alla soglia, e una capacità polmonare di 6 litri. Ha un ematocrito naturalmente alto. Ha il gusto dello spettacolo. Davanti a lui la strada si allunga nel futuro.
Al Congresso dell'UCI di Parigi, nel 1920, l'Italia propone la creazione del campionato del mondo su strada. Viene deciso di varare il mondiale dilettanti. La prima edizione, a Copenaghen, nel 1921, è una corsa a cronometro di 120 km: vince lo svedese Gunnar Skold. Quando, nel 1923, viene introdotta la gara in linea ‒ 160 km sul percorso Zurigo-Basilea e ritorno ‒ scendono in campo anche gli italiani e vincono subito con Libero Ferrario.
È la prima di una serie di vittorie che vede per 22 volte vittoriosi i dilettanti italiani. Ecco la sequenza degli azzurri vincitori: Allegro Grandi nel 1928, Pietro Bertolazzo nel 1929, Giuseppe Martano nel 1930 e a Rocca di Papa nel 1932, Ivo Mancini nel 1935, Adolfo Leoni nel 1937, Alfio Ferrari nel 1947, Gianni Ghidini a Varese nel 1951, Luciano Ciancola nel 1952, Riccardo Filippi nel 1953, Sante Ranucci a Frascati nel 1955, Renato Bongioni a Salò nel 1962, Flaviano Vicentini nel 1963, Vittorio Marcelli nel 1968, Claudio Corti nel 1977, Gianni Giacomini nel 1979, Mirko Gualdi nel 1990; poi, dopo l'introduzione del campionato mondiale under 23, Giuliano Figueras nel 1996, Ivan Basso nel 1998, Leonardo Giordani a Verona nel 1999, Francesco Chicchi nel 2002.
Al Congresso di Parigi del 1926 l'UCI decide di allestire anche un campionato del mondo per professionisti. La prima si disputa il 21 luglio 1927 ad Adenau, sul difficile circuito del Nürburgring. I dilettanti gareggiano insieme ai professionisti, ma ci sono due diverse classifiche. L'UVI designa sei corridori per l'Italia: Binda, Girardengo, Piemontesi e Belloni per i professionisti, Orecchia e Grandi per i dilettanti. Si corre sul circuito automobilistico, già asfaltato, una successione di 'montagne russe' con una salita di 5 km, che è come la lama di un pugnale, con tratti al 12-15% di pendenza. Otto giri da 23 km. Girardengo ritorna dopo un anno di assenza per una caduta sulla pista di Firenze in cui si è fratturato il polso.
I nostri indossano la maglia azzurra con ricamato in oro il fascio littorio accanto allo stemma sabaudo. Al via 55 uomini. Gli azzurri montano un mozzo Torpedo a freno contropedale per un motivo semplice: la ditta che lo produce ha assicurato loro un premio di 20.000 lire in caso di vittoria. Via alle 10.15. Al sesto giro è uno scatto di Girardengo nel tratto più duro della salita a fare la selezione. Restano tre azzurri ‒ Girardengo, Binda, Piemontesi ‒ con due dilettanti, il francese Brossy e il tedesco Rudolf Wolke. Al penultimo giro in quel tratto micidiale scatta Binda. Girardengo è l'ultimo a cedere. Lo tiene per un po'. È un braccio di ferro storico. Poi Binda vola via sotto la pioggia. Girardengo, costretto a mettere piede a terra e a spingere la bicicletta a mano sull'ultima salita, finisce a 7′15″. Piange, dice, per il dolore al polso, ma è la sconfitta che lo fa soffrire di più. Terzo è Piemontesi a 10′51″. Quarto Belloni a 11′36″. Quinto è un belga di 19 anni, Jean Aerts, nuovo campione del mondo dei dilettanti: otto anni dopo conquisterà anche la maglia iridata dei professionisti.
La rivalità Binda-Girardengo conosce momenti di fiamma. Dopo il Giro 1928 dominato da Binda, Girardengo sorprende il rivale nella Milano-Modena, una cronometro di 186 km: lo batte con 3′16″ di vantaggio. La rivalità è all'acme il 16 agosto ai Mondiali di Budapest. Binda e Girardengo si marcano. Lasciano scappare Van Hevel e Ronsse. Alla fine, ormai fuori dalla lotta per la vittoria, si ritirano. Il belga Georges Ronsse vince il titolo mondiale arrivando solo al traguardo con 17′33″ di vantaggio. La stampa attacca con violenza Binda e Girardengo, "pessimi combattenti e cattivi italiani". L'UVI li squalifica per sei mesi, pena poi ridotta a 30 giorni.
Binda fallisce il bis anche l'anno dopo, il 16 agosto 1929, a Zurigo. Attacca e resta solo in salita, ma viene frenato da un passaggio a livello chiuso in fondo alla discesa. Viene ripreso. Va però tranquillo allo sprint. La volata è a cinque. C'è anche l'azzurro Frascarelli e Binda è il più veloce. Ma il rettilineo d'arrivo è sempre un sentiero nella foresta. Nasconde insidie. Binda parte, prende la testa, ma viene superato dal belga Ronsse e dal lussemburghese Frantz. Uno spreco incredibile per un uomo veloce come lui.
Binda, però, non sbaglia due volte. La quarta edizione dei Campionati del Mondo si disputa a Liegi il 30 agosto 1930. Georges Ronsse, che corre in casa, cerca la tripletta. Binda investe un cane e cade a 25 km dal traguardo. Riprende, scatta e fa la selezione. Solo Ronsse gli resiste. Una sfida a due, grande e memorabile. La strada è tutta per Ronsse. Binda, stavolta, non lancia lo sprint. La volata è un lungo memorabile surplace, rotto alla fine dall'irruzione di Guerra, Stopel e Grandi. È Guerra ad attaccare con impeto. Ronsse, costretto a rispondere, para, ma Binda, che lo segue senza tregua, lo infila di prepotenza. Guerra è secondo, mentre Ronsse sale per la terza volta consecutiva sul podio. L'ultimo chilometro è stato di una bellezza incredibile. Un confronto tra l'intelligenza lucida (Binda), la furia generosa (Guerra), la passione spasmodica (Ronsse).
L'UCI decide di far disputare il Campionato del Mondo a cronometro sui 172 km a Copenaghen. Guerra, la Locomotiva umana, il 26 agosto 1931 domina. Binda, ultimo a partire, è ancora secondo a due terzi di gara, ma quando capisce di non poter difendere la maglia iridata si lascia andare e finisce sesto, staccato di 8′42″. Così Guerra lascia il secondo, il francese Le Drogo, a 4′37″. Un vantaggio abissale, che dà la dimensione della sua forza.
Binda si riscatta l'anno dopo, il 31 agosto 1932, a Roma. Si corre sul circuito dei Castelli Romani. Binda scatta con Bertoni, varesino come lui, sulla salita di Rocca di Papa, al terzo e ultimo passaggio e si presenta sul traguardo scortato a circa 100 metri dal fedele gregario. Realizza così una favolosa tripletta.
Bisogna attendere 21 anni per una nuova vittoria italiana. Per gli azzurri delusioni brucianti. Come quando Karel Kaers, un uomo da kermesse, brucia Guerra a Lipsia 1934. Come a Valkenburg 1948, quando Coppi e Bartali, marcandosi, si annullano e poi si ritirano. Come a Varese 1951, quando, in una volata a otto, due uomini veloci come Magni e Bevilacqua si fanno battere da Kübler.
È Fausto Coppi, il 30 agosto 1953, a spezzare il digiuno con un'impresa da favola. Si corre sul circuito di Lugano: 18 giri di 15 km. Coppi scatta sulla Crespera, al tredicesimo giro. Si trascina a lungo a ruota il temibile belga Derycke. Poi, al penultimo passaggio sulla Crespera, si libera di lui e giunge solo con 6′16″ di vantaggio sul belga.
Due belgi, velocisti formidabili, lasciano un'impronta forte nella storia del mondiale: Rik Van Steenbergen, che vince per tre volte, e Rik Van Looy, autore di una doppietta e per due volte secondo.
Il 31 agosto 1958 Ercole Baldini vince dopo una fuga incredibile, durata 247 km. Quando Louison Bobet scatta, con l'olandese Voorting e Nencini, Coppi suggerisce a Baldini di inserirsi. Baldini esegue. Poi, a 50 km dal traguardo, fugge solo per i vigneti della Champagne e, al termine di una cavalcata fantastica, vince a Reims con 2′09″ su Bobet e 3′47″ su Darrigade e Vito Favero.
Dieci anni dopo, il 1° settembre 1968, nell'era di Merckx, l'Italia intera assiste al volo solitario di Vittorio Adorni sul circuito dei Tre Monti a Imola. Un anello di 15 km da ripetere 18 volte. A Imola Adorni corre sulle sue strade e, alla Faema, è compagno di squadra di Merckx, campione uscente e favorito della prova. Intelligentemente lo anticipa e va in fuga al quarto giro con sei compagni: mancano 230 km al traguardo. Merckx e Gimondi si controllano e la fuga va. All'ottavo giro il vantaggio è già di 7′20″. Tra i fuggitivi c'è il veloce Van Looy. Adorni decide di agire per tempo. Al tredicesimo giro scatta in salita sul Frassinetto a 85 km dal traguardo e resta solo. Trasforma il campionato del mondo in una cavalcata fantastica. Vince su Van Springel con 9′50″, il vantaggio più ampio nel dopoguerra della storia dei mondiali. Per il commissario tecnico Mario Ricci è un trionfo: cinque italiani finiscono tra i primi sei. Dancelli è terzo, seguito da Bitossi, Taccone, Gimondi.
Una grande vittoria, preceduta da sconfitte che bruciano. Michele Gismondi era stato battuto da Darrigade a Zanvoort nel 1959, Nino Defilippis da Van Looy a Berna nel 1961. Lo stesso Adorni, quattro anni prima, era stato rimontato e battuto dall'olandese Jan Janssen in una volata a tre a Sallanches. Gianni Motta per due volte era andato vicino alla vittoria: ad Adenau, nel 1966, era scattato a 8 km dal traguardo e solo Anquetil, Poulidor e Zilioli lo avevano seguito. Poi anche Rudi Altig si era portato sotto. Motta era il favorito della volata. Ma Altig aveva sorpreso tutti all'ultimo chilometro. A Heerlen, nel 1967, aveva attaccato dopo pochi minuti di corsa a 260 km dall'arrivo e Merckx, che lo aveva seguito, non aveva mancato quel traguardo. E, nel 1971, a Mendrisio, un grande Gimondi era arrivato insieme a Merckx scatenato ed era finito secondo.
L'arcobaleno è effimero e splendido. Bisogna essere abili e fortunati per coglierlo. Il 6 agosto 1972 Gap (Savoia) regala il dramma di Franco Bitossi, un artista generoso e geniale in corsa. Nel finale scatta Guimard. Bitossi lo segue, poi parte a sua volta, a meno di 2 chilometri dal traguardo con un allungo perfetto da finisseur. Accumula un vantaggio consistente. Ma si pianta a 200 metri dall'arrivo, mentre alle sue spalle come un frangente irresistibile avanza il gruppo, tirato da Merckx. Bitossi sembra in crisi. Si sposta al centro della strada. Si volta. Sono là. Resiste con la forza della disperazione all'impeto di Merckx, ma da quella scia esce una freccia azzurra, Marino Basso. Un lampo crudele trafigge Bitossi proprio sul traguardo: vince Basso, Merckx è sconfitto.
Anche Van Looy, nel 1963 a Renaix, era stato trafitto dalla ruota amica di Beheyt. Basso è un grande opportunista e uno scattista micidiale. Negli ultimi 50 metri è un ghepardo. Ha vinto molte altre volte così.
L'anno dopo, il 2 settembre 1973, Felice Gimondi regala la più sorprendente vittoria battendo i velocissimi Maertens e Merckx, oltre a Ocaña, in una volata a quattro a Barcellona. Si tratta di un capolavoro. Il commissario tecnico Defilippis si espone a molte polemiche e lascia a casa Motta. Il circuito, 14,5 km, presenta una salita al 7%, da ripetere 17 volte. La corsa è dura. A fare la selezione è il formidabile Merckx: scatta all'undicesimo giro. Gimondi risponde per primo, seguito poi da Ocaña, Perurena, Battaglin, Zoetemelk e Maertens. Merckx scatta ancora a quattro giri dalla fine. Lo segue come un'ombra Maertens. Gimondi e Ocaña si riportano sotto. Quattro al comando. Merckx prova per due volte, invano. Maertens tira la volata a Merckx, ma scatta troppo forte e Merckx, stanco, non lo segue. Gimondi lo rimonta e rimonta anche Maertens, che però reagisce. Gimondi, con l'esperienza, si appoggia con il gomito al fiammingo e vince di misura. I belgi presentano reclamo inutilmente.
La sconfitta non piega Merckx, che nel 1974 regala una stagione da favola: vince Giro d'Italia, Giro della Svizzera, Tour, e a Montreal ottiene la terza vittoria nel Mondiale professionisti.
Poi, per tre volte nello spazio di due anni, Francesco Moser si erge a protagonista e arriva con un solo compagno a giocarsi la vittoria mondiale. Il 5 settembre 1976, a Ostuni, attacca sulla rampa di Cisternino, solo Zoetemelk lo segue, ma resta passivo. Merckx si scatena all'inseguimento, poi lancia avanti Maertens, seguito da Tino Conti. Restano in quattro al comando. Moser scatta di nuovo. Solo Maertens gli resiste e lo trafigge in volata.
Il 4 settembre 1977 Francesco Moser si riscatta a San Cristóbal, in Venezuela, in occasione del primo mondiale sudamericano. Moser attacca in salita e solo il tedesco Dietrich Thurau lo segue. Thurau, 22 anni, è un talento puro. Quaranta giorni prima si è piazzato primo all'esordio al Tour, dopo aver vinto 5 tappe e portato la maglia gialla per 17 giorni. È un gran passista. I due volano. Accumulano tre minuti di vantaggio sul gruppo. Moser però fora a 5 chilometri e mezzo dal traguardo, ma non lo dà a vedere, avverte il commissario tecnico Martini a segni, si ferma e cambia bicicletta in pochi secondi. Riprende il tedesco, che non si è accorto della foratura, in un chilometro e lo piega allo sprint. Ultimo al traguardo è Eddy Merckx, al passo d'addio.
Moser è una furia. È ancora primattore il 27 agosto 1978, ad Adenau. Quel giorno Saronni va in fuga con Hinault e Knetemann, viene però ripreso dai belgi. All'ultimo giro Moser attacca in salita, lo segue Raas. Moser rifiata e riparte. Questa volta è Knetemann ad agganciarsi. Vanno insieme al traguardo. Knetemann si dice sfinito. Moser fa la volata lunga, l'olandese lo segue e lo supera all'ultimo metro con il colpo di reni. Una grande beffa. Poi due vittorie mancate. A Valkenburg 1979, nella volata a sei, Raas e Thurau, con un'evidente sbandata, fanno cadere Battaglin in rimonta e l'olandese vince il titolo. A Praga 1981 Maertens rinasce per superare Saronni in rimonta. A Sallanches 1980 splendido secondo posto di Baronchelli, ultimo a cedere al grande Hinault.
Il 5 settembre 1982 si gareggia a Goodwood, nel Sussex. Un circuito facile, ma con arrivo in salita. Beppe Saronni, che cerca la rivincita di Praga, regala la più favolosa volata della storia mondiale. Parte a 800 m dal traguardo sulla strada in salita. È uno scatto da ghepardo che non concede scampo a nessuno. Saronni vince con 5 secondi su LeMond e 7 su Kelly.
LeMond si riscatta l'anno dopo ad Altenrhein, dove Argentin cede mentre è in fuga con l'americano. Argentin diventa la punta di lancia azzurra. Ma perde anche il Mondiale del Montello 1985, sulle strade di casa, sorpreso da un allungo di Zoetemelk a 2 km dal traguardo. L'anno dopo, però, mette la sua firma sul primo Mondiale negli Stati Uniti. Si corre il 6 settembre 1986 a Colorado Springs, in quota: 17 giri; al dodicesimo parte la fuga buona: Argentin c'è. Il francese Charly Mottet attacca, Argentin replica. Restano in due. Sull'ultima salitella Argentin stacca Mottet, che rientra in discesa. Non ha storia lo sprint: Argentin dispone facilmente del rivale.
L'anno dopo, il 6 settembre 1987, però, perde l'occasione del bis a Villach, in Austria. Marca l'irlandese Kelly. Quando il gruppo di testa si spezza, resta con Kelly nel secondo troncone. Quando parte, stacca Kelly e gli altri, piomba sui battistrada, via via li supera tutti, tranne uno: l'altro irlandese Stephen Roche.
Maurizio Fondriest s'impone il 28 agosto 1988 a Renaix in una volata a tre spasmodica. Fondriest aveva seguito il vallone Criquielion, scattato al penultimo giro. Nel finale con un allungo stupendo Bauer li raggiunge e cerca di saltarli. Criquielion reagisce, Bauer lo stringe alle transenne. Fondriest è terzo e vede, davanti a lui, la collisione tra Criquielion e Bauer a 75 m dall'arrivo. Il belga cade e Fondriest, incredulo, salta il canadese, poi squalificato, e vince nettamente.
Bugno realizza la doppietta all'inizio degli anni Novanta. A Stoccarda, il 25 agosto 1991, dopo che Fondriest, in fuga con Madiot, è stato ripreso a 9 km dal traguardo, scatta Rué, Bugno lo va a prendere con il suo rapporto micidiale, rilancia l'azione, a fatica tornano sotto Induráin e Rooks, poi anche il colombiano Mejía si riaggancia. La volata non ha storia, però Bugno alza troppo presto le mani sul traguardo e per poco non viene infilato dall'olandese Rooks: è necessario l'esame del photo finish.
Il 6 settembre 1992 Bugno vince ancora a Benidorm, a casa di Induráin, che ha appena fatto la doppietta Giro-Tour. Quel giorno è Induráin ad attaccare, spalleggiato da Chiappucci. Bugno replica. Ha un momento di smarrimento nel finale, dove lo salva Perini, che lo riporta avanti. Poi, nella volata, Bugno s'impone a Jalabert e Konyãev in uno sprint di 17 uomini. Una doppietta memorabile.
Poi ci sono mondiali amari per gli azzurri. Con Bugno fermo per la positività alla caffeina, Chiappucci viene sorpreso da Luc Leblanc ad Agrigento 1994. Pantani sale sul podio di Duitama 1995, ma dietro agli spagnoli Olano e Induráin. Falliscono anche gli assalti di Bartoli, terzo a Lugano 1996 e a Valkenburg 1998. Fallisce Bettini, secondo a Lisbona 2001. Finché, il 13 ottobre 2002, non si gareggia a Zolder sul circuito automobilistico.
Mario Cipollini è il velocista migliore del mondo. Il commissario tecnico Ballerini punta sulla volata e allestisce una squadra per lui. Tutti per uno. Gli azzurri tengono alta l'andatura per evitare fughe e arrivare allo sprint. La corsa non sfugge mai al loro controllo. Poi Scirea, Petacchi, Lombardi proiettano un Cipollini ciclonico sul traguardo: McEwen e Zabel sono battuti. Quella di Cipollini è la sedicesima vittoria azzurra nel campionato del mondo.
Il mondiale regala anche la metamorfosi. Gli spagnoli, a parte Miguel Poblet, non avevano mai avuto un uomo da classiche. Lo trovano in Oscar Freire, che, grazie allo scatto folgorante, vince per tre volte il campionato del mondo come Binda, Van Steenbergen e Merckx: per due volte veste la maglia iridata a Verona.
La bicicletta, quando nasce, è uno strumento per acrobati. Il suo circo è la pista. Toulouse-Lautrec dipinge i pistards alla stessa maniera dei clowns. La pista conosce un successo strepitoso alla fine degli anni Ottanta.
Arthur August Zimmermann, lo Yankee volante, è il primo campione del mondo della velocità, a Chicago nel 1893. Oggi viene considerato il più rapido sprinter di tutti i tempi. Corre col rapporto 17x7, che sviluppa solo 5,33 m, alla frequenza altissima di 187 pedalate al minuto, eppure sul chilometro segna 1′09,2″, un record che resiste per vent'anni. Dopo ogni vittoria si veste con eleganza. In testa si mette il cilindro.
Marshall Walter Taylor, di Indianapolis, uno sprinter leggendario, è il solo campione ciclista nero, capace di imporsi in una società profondamente razzista. Infatti, la League of American Wheelmen, che dirige il ciclismo negli Stati Uniti, aveva bandito i neri dalle gare dilettanti nel 1894. Taylor cresce gareggiando con i neri. Escluso dalle gare a Indianapolis, disprezzato e irriso, passa professionista e lì si afferma in virtù del suo straordinario talento e, anche, della sua diversità. Gli stati del Sud gli negano l'accesso ai velodromi, ma le sue tournées in Europa e Australia hanno un successo incredibile. Sposa Daisy, una bianca. Chiama Sydney la figlia che nasce durante una tournée in Australia. Devoto battista, si rifiuta di scendere in gara di domenica, il giorno del Signore.
Roma, nel 1902, scopre la Stella del Nord, il danese Thorwald Ellegaard, un velocista superbo. Nel primo Campionato del Mondo disputato in Italia, nel velodromo di Porta Salaria, davanti al re Vittorio Emanuele III Ellegaard batte l'olandese Meyers e il genovese Pietro Bixio, primo italiano sul podio della velocità. Ellegaard per sei volte conquista il titolo mondiale.
Nel 1906, a Ginevra, il mantovano Francesco Verri ‒ tre medaglie d'oro ai Giochi Olimpici intercalari di Atene ‒ diventa anche il primo dilettante italiano campione del mondo. Vince la gara di velocità con una splendida rimonta in finale sui francesi Delage e Rondelli, coalizzati contro di lui.
Molti i grandi della pista: l'americano Frank Kramer, dal colpo di reni folgorante, l'olandese Peter Moeskops, un gigante capace di vincere cinque titoli mondiali professionisti, il francese Lucien Michard e l'uomo che mette fine al suo regno, Joseph Scherens, un belga del Brabante. Scherens, soprannominato il Gatto, è capace di vincere sette titoli mondiali: il primo a Roma nel 1932, l'ultimo 15 anni dopo, a Parigi. Ai Mondiali di Milano, disputati al Vigorelli nel 1939, Scherens affronta l'olandese Van Vliet in finale, ma cade per colpa dell'avversario e sviene. La giuria infligge un'ammenda a Van Vliet e decide di rinviare le due prove per il titolo. Non furono mai disputate. Il 29 agosto l'UCI decide la sospensione dei campionati per un motivo più grave: la seconda guerra mondiale.
Il popolo dei velocisti è vario, chiassoso, anche tragico. Albert Richter, campione del mondo della velocità dilettanti a Roma 1932, finisce torturato a morte dalla Gestapo. Toni Merkens, campione del mondo e olimpico, muore combattendo i russi sul fronte di Stalingrado. Toto Gerardin, invece, viene allietato dai sorrisi di Edith Piaf. Reginald Harris è protagonista di una resurrezione incredibile: nel 1940, ventenne, guidando un carro armato nel deserto di el-Alamein, viene centrato dall'artiglieria tedesca. Ferito gravemente, è l'unico a salvarsi dell'equipaggio. Pelle dura, torna in sella. Ghella lo batte nella finale olimpica di Londra, ma poi Harris diventa lo Sparviero di Manchester e inanella quattro titoli mondiali. Mette fine alla sua era Antonio Maspes.
Maspes è dotato di un talento senza eguali. Ha una punta di velocità irresistibile e un'abilità tattica assoluta. È nato il 14 gennaio 1932 a Milano. Da ragazzo porta i panni lavati a San Vittore. Trucca il certificato di nascita per vincere il primo titolo italiano. Ama le moto e il poker. Un giorno va al Vigorelli attirato dal rumore delle motociclette degli stayers e resta affascinato. Diventa il miglior velocista della storia. Vince sette titoli mondiali professionisti: doma sprinters come Harris, Plattner, Derksen, Rousseau, Gaiardoni, Baensch. Nella finale di Zurigo 1961 impone a Michel Rousseau un surplace di 25′05″ e poi lo batte con un favoloso 10,80″ negli ultimi 200 m.
Lo sprint italiano conosce una stagione splendida. Sacchi, Morettini, Ogna, Gasparella, Sante Gaiardoni, un velocista di potenza impressionante, e, poi, Beghetto, Bianchetto, Pettenella, Borghetti sono i protagonisti di un'età dell'oro irripetibile.
Poi lo sprint cambia pelle. Resistono solo i francesi, con il grande Daniel Morelon, mentre s'impongono gli australiani, il giapponese Koichi Nakano, dieci titoli mondiali consecutivi, e gli sprinters dell'Est. È un'era nuova, crepuscolare. Sulla scena irrompono gli atleti costruiti più che nati come tali. Il talento è sopraffatto dalla potenza. La fantasia subisce la legge della forza.
La pista, per gli inseguitori, possiede il fascino del duello: quello sparo che spezza un silenzio di cristallo e, poi, il riflesso istantaneo; la torsione dei corpi; la bicicletta che geme nel roteare delle leve; le doghe della pista che sfrecciano sempre più veloci sotto la ruota; i pneumatici che miagolano per l'attrito; il frinire delle ruote; il canto della catena. La sfida uomo contro uomo nell'inseguimento incanta: Coppi contro Patterson, Rivière contro Anquetil, Boardman contro Obree, battaglie che splendono.
Eppure l'inseguimento compare solo nel dopoguerra ai campionati del mondo. L'olandese Gerrit Peters è il primo a vestire la maglia iridata a Zurigo 1946. Il secondo è Fausto Coppi che s'impone a Parigi su Toni Bevilacqua. Le sfide tra Coppi, Schulte, Koblet e Bevilacqua appassionano. La specialità decolla.
L'inseguimento è molto amato dagli italiani, anche dagli assi, visto che l'esercizio è utile per le gare su strada. Lo onorano alcuni degli stilisti più eleganti della storia come Coppi, Koblet, Rivière, Anquetil, Baldini, Moser. In vent'anni, dal 1947 al 1966, gli azzurri vincono 10 titoli mondiali su 20: Coppi e Bevilacqua 2, Guido Messina e Leandro Faggin 3. Poi la scuola sfiorisce. Solo Francesco Moser a Monteroni, nel 1976, riesce a conquistare l'oro nella specialità.
Tra i dilettanti la scuola azzurra si esaurisce già negli anni Cinquanta. Un crollo netto, visto che nei primi dodici anni, dal 1946 al 1957, gli azzurri conquistano 7 ori con Benfenati, Messina (2), De Rossi, Faggin, Baldini e Simonigh. Poi il predominio passa ai britannici, ai francesi, ai tedeschi, agli australiani.
Mentre inseguitori e velocisti azzurri hanno fatto la storia, il mezzofondo non è molto amato in Italia. I grandi assi sono i belgi Victor Linart, detto il Sioux, negli anni Venti, Adolf Verschueren negli anni Cinquanta e, soprattutto, lo spagnolo Guillermo Timoner nella sua ventennale carriera tra il 1946 e il 1966. Eppure prima Elia Frosio, nel 1946 e nel 1949, poi Bruno Vicino per tre volte, infine, ormai al crepuscolo, Giovanni Renosto nel 1989 e Walter Brugna nel 1990 riescono ad arrivare all'oro mondiale. Poi, nel 1995, la specialità viene abolita.
Per cercare di ravvivare l'interesse per la pista vengono introdotte nuove specialità: il keirin (due ori di Golinelli nel 1988 e 1989), l'indivuale a punti (due ori di Martinello nel 1995 e 1997), la velocità olimpica open, l'americana (due ori di Martinello-Villa nel 1995 e 1996), lo scratch. Anche il calendario olimpico viene rivoluzionato. Ma l'età dell'oro della pista è passata.
L'ultimo grande artista è Silvio Martinello, padovano di Tencarola, un corridore eclettico, oro olimpico nella corsa a punti, cinque volte campione del mondo (anche con il quartetto dei dilettanti nel 1985 a Bassano). Martinello è stato capace di portare la maglia rosa al Giro e di vincere 28 Sei giorni, più di tutti in Italia. Il re delle Sei giorni resta però il belga Patrick Sercu, che ne ha vinte 88, tra cui, per quattro volte, quella di Milano. Sercu, campione olimpico del chilometro, tre titoli mondiali nella velocità, si sdoppiava: d'inverno la pista, d'estate la strada. È riuscito a vincere 14 tappe al Giro e 6 al Tour, dove ha indossato la maglia gialla. Nella classifica dei plurivincitori delle Sei giorni precede l'australiano Clark, 74 successi, e gli olandesi Pijnen, 72, e Post, 65.
Anche le Sei giorni decadono. Eppure rimane la nostalgia. Buffalo e il Parc des Princes, il Madison Square Garden e il Vigorelli restano nella memoria come luoghi mitici. Conchiglie magiche dove sbocciano la corsa e il brivido, l'avventura rapinosa e la passione. Templi dove il suiveur sta al fianco di Toulouse-Lautrec e Tristan Bernard, di Beniamino Gigli e Hemingway. Perché la pista è eleganza e brivido, talento e audacia.
Il Giro del 1924 presenta, tra le novità, una donna fra i corridori, suscitando stupore e curiosità. In realtà non si tratta di un evento eccezionale, perché già nella Parigi-Rouen del 1869, la prima vera corsa su strada, sei donne si schierano al via e una di loro, un'inglese camuffata sotto il nome di Miss America, porta a termine la gara piazzandosi ventinovesima. Se il vincitore James Moore arriva al traguardo alle 18.10, Miss America vi giunge solo all'alba del giorno dopo (alle 6.20), perché si è fermata a Pont-de-l'Arche (16 km da Rouen) per la notte.
La storia ci tramanda i nomi di altre donne in bicicletta, come Miss Victoria che a Firenze si esibisce in velocipede già nel 1872 e Alessandrina Maffi che corre nella Milano-Salsomaggiore del 1894. A New York nel 1895 si disputa una Sei giorni per cicliste, mentre rimangono celebri le sfide all'Arena e al Trotter di Milano fra la belga Hélène Dutrieux (poi pilota famosa), la fioraia Adelina Vigo e le attrici Rina di Montefalco e Lina Cavalieri. A Torino, in piazza d'Armi e al Parco del Valentino, gareggiano Giuseppina Carignano, Anna Gilardini, Maria Milano (che chiede invano di partecipare al Giro d'Italia) e l'emiliana Alfonsina Morini Strada, che parteciperà al Grand Prix di San Pietroburgo del 1909 ricevendo una medaglia dallo zar Nicola II e dalla zarina Alessandra.
Sebbene, tramontata la belle époque, alle donne non sia più concesso lo stesso spazio, Morini insiste, gareggia e arriva al traguardo del Giro di Lombardia nel 1917. Riprova in quello del 1918, corre a Bologna, Torino, Milano e Parigi. Nel 1924 arriva il suo momento di gloria. A causa dello sciopero degli assi, il direttore della Gazzetta dello sport Emilio Colombo, per catturare l'attenzione del pubblico, accetta la sua partecipazione al Giro d'Italia. Bersaglio della curiosità dei tifosi, con il susseguirsi delle tappe, diventa sempre più famosa. L'interesse per lei è così grande che le viene consentito di continuare il Giro fuori corsa, nonostante sia arrivata fuori tempo massimo a Perugia (nell'ottava tappa), per la rottura del manubrio, sostituito con un manico di scopa. Quando arriva a Milano viene portata in trionfo.
Soltanto negli anni Cinquanta il ciclismo femminile trova la sua affermazione. La lussemburghese Elsy Jacobs, nel 1958, conquista il primo titolo mondiale su strada. Belghe, britanniche, sovietiche, olandesi e statunitensi la fanno da padrone, ma le italiane lottano con punte di qualità ‒ Morena Tartagni (tre volte sul podio ai mondiali), Luigina Bissoli, la primatista dell'ora Maria Cressari (41,471 km nel 1972 a Città del Messico), Roberta Bonanomi, Imelda Chiappa, Michela Fanini ‒ pur raggiungendo i vertici solo con Maria Canins e Fabiana Luperini.
Canins, azzurra dello sci di fondo, più volte nazionale, più volte vincitrice della Marcialonga, esordisce in bicicletta a 35 anni. Priva di sprint, è formidabile in montagna; così vince due Tour de France, nel 1985 e 1986, sgominando Jeannie Longo, e per tre volte è seconda. Si aggiudica anche il primo Giro d'Italia nel 1988. Sale per quattro volte sul podio individuale ai mondiali e conquista l'oro nella cronosquadre a Renaix 1988. Vince dieci titoli italiani: sei su strada e quattro a cronometro. S'impone nel Giro del Colorado 1982, nel Giro di Norvegia 1985 e 1986, nel Tour de l'Aude 1987. Gareggia fino a 45 anni.
Dopo di lei sboccia Luperini, una toscana di Pontedera, che domina nel quadriennio 1995-98, vincendo quattro Giri e tre Tour, demolendo le avversarie sulle grandi montagne. L'unica italiana, però, a vincere un campionato del mondo su strada è Alessandra Cappellotto (di Thiene) che s'impone a San Sebastián, in Spagna, nel 1997.
La francese Longo ‒ quattordici titoli mondiali (5 in linea, 5 a cronometro, 4 su pista), tre successi al Tour, l'oro olimpico su strada ‒ è la figura dominante nel panorama femminile di fine secolo. Ma anche la statunitense Rebecca Twigg, l'olandese Leontien Van Moorsel, la svedese Susanne Ljundskog e la spagnola Joane Somarriba trovano un posto di primo piano nella storia.
L'America è terra di pionieri. Così nel Far West la bicicletta lascia l'asfalto. Conquista i monti, i boschi, il terreno selvaggio. La bicicletta classica si trasforma in mountain bike e conosce un nuovo clamoroso boom.
La bicicletta, in verità, ha già lasciato la strada. Le competizioni di ciclocross si disputano da mezzo secolo. Nel dopoguerra acquistano la dignità che viene dalla maglia iridata.
Jean Robic, detto Testadivetro, nel 1950 vince il primo Campionato del Mondo di ciclocross al Bois de Vincennes. In quella prima edizione gli italiani sono rappresentati da Sforacchi, quinto, e da Malabrocca, la maglia nera del Giro. I ciclocrossisti sono ancora ciclisti, che si preparano d'inverno alla stagione su strada. Il primo vero grande specialista è un azzurro, Renato Longo, che colleziona cinque titoli mondiali.
Il ciclocross però non sfonda presso il grande pubblico. Resta marginale. È solo una buona palestra per tenere allenati i muscoli d'inverno. Così lo praticano anche gli stradisti come Robic, appunto, Rolf Wolfshol, i due fratelli De Vlaeminck, Panizza, Bitossi, Van der Poel. I fuoriclasse del ciclocross ‒ il francese André Dufraisse, Renato Longo, Eric De Vlaeminck, Albert Zweifel ‒ vivono nella penombra. In Italia gli uomini forti si contano sulle dita di una mano: oltre a Longo, Amerigo Severini, Vito Di Tano, due titoli mondiali dilettanti, Daniele Pontoni, campione del mondo a Monaco 1997.
Il ciclocross è sì una ricerca del verde, della natura, ma è una natura brutta, invernale: la bicicletta affoga nel fango, tra alberi spogli, in un ambiente ostile. In America, invece, si cerca la natura bella e il sole, i prati in fiore e i sentieri, il brivido della discesa e il fascino della foresta. Laggiù, negli anni Settanta, parecchie forze spingono i ciclisti a lasciare l'asfalto. Fiorisce il fenomeno della mountain bike.
Tutto nasce negli anni Sessanta nella penisola di Marin County, che occupa la parte settentrionale della baia di San Francisco, in California. Lì un gruppo di anticonformisti incomincia a divertirsi nel lanciarsi in bicicletta giù dai sentieri di montagna. Si chiamano Canyon Gang, dal Madrone Canyon sul Mount Tamalpais (794 m), il più alto della regione. Nel 1969 disputano la prima gara. Organizzati nel Vélo Club Tamalpais usano costose biciclette europee. Ma nel 1973 uno di loro, Joe Breeze, vent'anni, trova a Santa Cruz una vecchia Schwinn Excelsior del 1937, la compra per cinque dollari, poi la adatta nel suo negozio di biciclette di Sausalito. Un altro, Charlie Kelly, che scorrazza per la California con una rock band, i Sons of Champlin, trova in una fattoria nei dintorni di Redding un mucchio di rottami di vecchie biciclette. Una miniera prodigiosa. Lì il suo amico Gary Fisher, nel 1974, trova una Schwinn Excelsior del 1934: è solida, pesante e, soprattutto, la catena è molto più alta dal suolo, particolare importante per chi deve andare su rocce e tronchi. Permette l'uso di pedivelle più lunghe per una spinta migliore. Fisher la lavora, ci mette altri pezzi vecchi e, poi, scandalizzando i puristi, aggiunge anche un cambio a cinque velocità.
Il gruppo, ciascuno con biciclette adattate, trova un vecchio sentiero sulla Pine Mountain a nord del Mount Tam, e lì, nel 1976, dodici pionieri si buttano giù, a distanza di due minuti l'uno dall'altro, su un tracciato di 2,2 miglia e disputano quella che può essere considerata la prima corsa di mountain bike: la vince Joe Burrowes, un pompiere di San Francisco.
La competizione stimola la ricerca. Nasce subito la prima rudimentale industria della mountain bike. Fisher e Kelly aprono un negozio a San Anselmo (California) e fondano una ditta, la MountainBikes. Ma non c'è solo la California. Nel 1976 a Crested Butte, in Colorado, un gruppo di pompieri si cimenta nella traversata del Pearl Pass, alto 12.700 piedi, da Crested Butte ad Aspen, 42 miglia, usando altre mountain bike: l'impresa finisce sui giornali. Così al via del secondo Pearl Pass Tour nel 1978 ci sono anche i bikers di Marin County. Dall'incrocio di esperienze, si sviluppa un'industria innovativa, che negli anni Ottanta decolla e presto diventa la nuova frontiera di ricerca per la bicicletta.
La mountain bike fa passi da gigante. Conquista l'Europa. Le prime mountain bike compaiono in Italia nel 1983. Due anni dopo il mensile Airone inventa, con Cinelli, il Rampichino, che diventa la mountain bike per antonomasia. Nel 1989 nasce la Coppa del Mondo. L'anno dopo si disputa il primo Mondiale. Il successo di mercato è clamoroso. Nel 1993 negli USA vengono vendute 8,4 milioni di mountain bike, oltre il 95% dell'intero mercato delle biciclette. I tempi sono ormai maturi e, proprio in quell'anno, la mountain bike conquista l'accesso nel programma olimpico. Esordisce ad Atlanta 1996, a sei anni dal primo campionato del mondo. È il segno di un successo rapido e impetuoso.
Alla base di molte vittorie nel campionato del mondo e di parecchi successi al Tour de France c'è una mente che non pedala. È il cervello che dirige la corsa dall'esterno: il commissario tecnico. Non è un uomo, ma un generale. Fa esercizio di alta strategia. Sceglie, sprona, dirige. Promuove e boccia. Ed è spesso il bersaglio delle polemiche, quando perde la guerra.
Non c'è il commissario tecnico nelle prime grandi vittorie italiane all'estero. Questa figura importante compare solo sul finire degli anni Trenta e si afferma nel dopoguerra, quando diventa decisiva. È lì che, nel mare della corsa, compare l'ammiraglia. Quando, nel 1930, c'è il primo Tour per squadre nazionali il commissario tecnico non esiste. È Alfredo Binda a reclutare i corridori al Giro d'Italia, che segue per alcune tappe da vero selezionatore. È Binda il riferimento in corsa, fiancheggiato da un'eminenza grigia che lo consiglia tappa per tappa, il direttore della Gazzetta dello sport Emilio Colombo.
Non c'è il commissario tecnico nelle prime quattro grandi vittorie mondiali di Binda e Guerra. Sono i dirigenti a fare la squadra, seguendo le indicazioni di Binda. È Binda, per esempio, a ridurre a riserva, per due volte, il veloce Michele Mara, anche quando, nel 1932, s'impone nella gara di selezione.
Il primo vero commissario tecnico azzurro è Costante Girardengo. Piace al regime fascista. È amico dei figli di Mussolini. Compare a fianco di Bartali nel Tour del 1937. È l'anno in cui entra in scena e si afferma la figura del direttore sportivo. Henri Desgrange, per esempio, sceglie per guidare i francesi Jean Leulliot, un giovane collaboratore de L'Auto, già campione universitario su strada, un uomo appassionato e competente. Girardengo non è solo al primo assalto: è spalleggiato dal generale Antonelli, da Ambrosini e Orlandini, dirigenti e giornalisti. Girardengo viene dalle corse. È un uomo intelligente e astuto, che conosce i corridori e la strada.
Fallisce il primo tentativo solo per la drammatica caduta di Bartali in maglia gialla. Ma l'anno dopo guida Bartali alla grande vittoria nel Tour del 1938. Girardengo, quella volta, non concede nulla allo spettacolo. Sceglie il terreno d'azione: la montagna. E lì Bartali stravince. Girardengo governa bene la squadra: la fa ruotare intorno a Bartali con abilità e malizia. Stabilisce, per esempio, che Vicini segua Bartali e in caso di foratura lo sopravanzi per fargli da punto d'appoggio. Infatti, quando dopo il Vars Bartali fu appiedato da una foratura, Vicini saltò su Clemens e Bartali, dopo aver cambiato tubolare, li raggiunse, poi li saltò, vinse la tappa e il Tour. In caso di crollo Vicini sarebbe rimasto in corsa per la vittoria.
L'era di Girardengo si chiude presto. Nel 1939 l'Italia non va al Tour e i Mondiali su strada di Varese non si disputano a causa della guerra. Il responsabile tecnico dei dilettanti, in quegli anni, è Adriano Rodoni, che diventerà presidente dell'UCI e dell'UVI. È lui a scegliere il quartetto di Varese 1939: Magni, Fondi, Pedevilla e Ronconi, con Bevilacqua come riserva. Quando Rodoni passa alla politica, lo sostituisce Alfredo Binda. Nel 1940 Binda è il commissario che segue la squadra nazionale nella Monaco-Milano, una gara in tre tappe voluta dal regime.
Nell'immediato dopoguerra Learco Guerra diventa commissario tecnico e, nel 1946, vince con Giulio Bresci la Ronde de France, una corsa che sostituisce e anticipa il ritorno del Tour. Guerra è un talent scout di successo. Sarà lui a scoprire Koblet e a portarlo alla vittoria al Giro, la prima di un corridore straniero. Poi lancerà anche Adorni.
Ma, quando nel 1947 il Tour ritorna, è un giornalista della Gazzetta dello sport, Guido Giardini, a guidare una squadra mista, formata da corridori venuti dall'Italia (le punte sono Ronconi e Cottur) e da italiani di Francia (con Tacca e Brambilla leader). Giardini ha competenza, ma non autorità. Così gli azzurri, ostacolati da un ambiente molto ostile, perdono nell'ultima tappa un Tour già vinto.
È un ruolo pesante quello del responsabile tecnico. Nel 1948 c'è da gestire la convivenza impossibile tra Coppi e Bartali. Il presidente federale Adriano Rodoni sceglie Alfredo Binda, grande campione e uomo autorevole. Binda guida Bartali nella grande vittoria al Tour. Al campionato del mondo, però, comanda la squadra Lugari, dirigente bravo ma troppo debole per gestire due galli nel pieno della lotta per la supremazia. La rivalità è più forte dell'autorità del tecnico; Coppi e Bartali non combattono, si controllano, si ritirano: conoscono la 'vergogna di Valkenburg'. L'anno dopo, per evitare che quello scandalo si ripeta, Alfredo Binda chiama Coppi e Bartali per tempo e li impegna a collaborare, stipulando il famoso 'patto di Chiavari'. Così Fausto Coppi vince il Tour all'esordio.
Binda è un uomo di classe. Ha intelligenza ed equilibrio. Riesce a gestire la convivenza di tre uomini di grande orgoglio e personalità: Coppi, Bartali e Magni. Vince quattro Tour con Coppi (due), Bartali e Nencini. Conquista due campionati del mondo con Coppi e Baldini. Compie dei capolavori di arte diplomatica, come quando riesce a convincere Coppi a continuare nel Tour del 1949 e, poi, lo porta alla vittoria. Sorvola sopra gli sgarbi con sapienza. È anche un tattico. Dopo la vittoria di Coppi al Tour del 1952 confida: "Ho dichiarato alla partenza che non ci sono capitani, ben conoscendo Bartali e Magni. Non potevo dire loro che avrebbero dovuto passare la ruota a Coppi, perché non ero certo che lo avrebbero fatto. Ho troppa esperienza per allarmare caratteri così suscettibili". Ma è con Binda sull'ammiraglia che Bartali e Coppi si scambiano la borraccia e lo fanno più volte. Dalla macchina con cui segue il Tour de France Binda incita i corridori con il megafono, la testa nella polvere e nel vento, gli occhi accesi dall'emozione. Binda è forte della sua leggenda. Può avere il coraggio delle scelte. Così lascia a casa Bartali nel Mondiale di Lugano e con Coppi lo vince.
Quando, per una volta, cede alle pressioni dei dirigenti federali e inserisce Bevilacqua, chiesto a gran voce dalla piazza dopo la splendida vittoria mondiale nell'inseguimento contro Koblet al Vigorelli, Coppi si ammala e non gareggia nel Mondiale di Varese. "Nessuno mi toglie dalla testa che quella febbre sia stata una febbre tanto intelligente e ragionevole da capitare proprio al momento giusto", è il commento elegante di Binda, venato di amarezza, dopo la gara: presenta la sue dimissioni, che Rodoni respinge. Binda sa anche decidere senza rimpianti. Come quando al Tour libera Coppi nella tappa di Aosta. Una scelta che toglie a Bartali la maglia gialla. Quella volta offre una spiegazione semplice: "Le mie decisioni sono quelle dell'arbitro, vanno prese in pochi secondi". Binda ha la lucidità per farlo, con intelligenza e anche con garbo. Quando il Tour, nel 1962, rinuncia alle squadre nazionali, Binda lascia.
C'è la breve parentesi di Covolo. Poi tocca a Fiorenzo Magni, il Leone delle Fiandre, un decisionista più che un mediatore. Non riesce a guidare alla vittoria la sua pattuglia di giovani puledri scalpitanti. Allora viene riscoperto Mario Ricci, che era stato un corridore capace di vincere due volte il Giro di Lombardia, un campione duttile e generoso, un uomo prezioso e intelligente. Ricci esordisce nel 1968 con la vittoria più bella: l'assolo di Adorni a Imola. Le sue nazionali sono costruite con saggezza, con una linea tattica non equivoca. In cinque anni Ricci è confortato da due vittorie. Nel 1972 coglie l'iride con Marino Basso, che brucia negli ultimi metri Bitossi.
Anche Nino Defilippis ha un esordio vincente. Ha il coraggio di escludere Motta nel 1973 e di puntare tutto su Gimondi nella sfida contro Merckx: così, a Barcellona, vince un Campionato del Mondo ritenuto impossibile. Quella decisione sofferta lo mette al centro delle polemiche, ma poi la strada dimostra che si tratta della scelta giusta. Defilippis è un uomo schietto, impulsivo, un improvvisatore di genio, che rifiuta la diplomazia: così dura solo due anni. Poi, nel 1975, viene scelto per quel ruolo delicato Alfredo Martini, che inizia una lunga era.
Martini è figlio di un mondo duro. La madre, Regina, ha un parto difficile, così Martini nasce a Firenze il 18 febbraio 1928 e non nella casa di Calenzano, come tutti gli altri figli. Gli mettono nome Alfredo in ricordo di un fratello maggiore, che morì per una malattia ai bronchi. Già a dodici anni lavora come apprendista meccanico alla Pignone. Pedala subito. Papà gli compra la prima bicicletta, una Francioni color argento con il manubrio da corsa, già all'età di sette anni. E si tratta di un grande sacrificio. Martini sui pedali cresce. La bicicletta gli apre un mondo fantastico. A sedici anni vince la prima corsa a Scandicci, battendo un certo Fiorenzo Magni. Sono tempi duri e per pagargli le trasferte i suoi tifosi di Sesto Fiorentino fanno la colletta: 50 centesimi a testa, così raccolgono le 5 lire per il viaggio. Quando si allena, Martini incontra sulla strada Cinelli, Bini, il mitico Linari oppure Gino Bartali. La Toscana è il centro del ciclismo italiano.
Martini veste la maglia azzurra nel 1940 per la Monaco-Milano. Poi c'è la guerra che divide. Fiorenzo Magni si schiera con i fascisti, Martini invece porta i rifornimenti sul monte Porello ai partigiani di Aligi, un capo leggendario. Sono divisioni che la bicicletta, elegante, scavalca. Sarà la testimonianza di Martini a salvare Fiorenzo Magni nel processo che subisce per collaborazionismo. Martini è un uomo generoso, che conosce l'amicizia. Nel 1946, a 25 anni, firma il suo primo contratto da professionista con la Wilier Triestina ed è nono nel primo Giro d'Italia. È un corridore forte, intelligente e prezioso, capace di finire terzo, dietro a Coppi e Bartali, nella mitica Cuneo-Pinerolo, la tappa più grande della storia, ma anche di salire sul podio al Giro del 1950, dietro a Koblet e Bartali, e al Giro della Svizzera del 1951, dietro a Kübler e Koblet. Martini prova anche la gioia rara di indossare la maglia rosa al Giro.
È un uomo socievole. Ha rispetto e misura. Sa piegarsi senza ostilità al ruolo di gregario. Ha anche cultura ‒ legge molto ‒ e una grande abilità diplomatica. È un tessitore gentile. Binda, nel 1949, lo chiama e gli dice: "Ho pensato a te per il Tour. Tu, con il tuo modo di fare, potresti essere prezioso per quei due là". Quei due sono Bartali e Coppi, che si guatano armati. C'è bisogno di moderatori, di saggi. Così Martini è a fianco di Coppi nelle due vittoriose cavalcate al Tour del 1949 e del 1952. Veste la maglia azzurra in due campionati del mondo.
Appassionato e intelligente, dopo aver misurato la strada per vent'anni sui pedali, sale sull'ammiraglia. Nel 1971 compie un capolavoro: porta uno svedese, Gosta Pettersson, alla vittoria nel Giro d'Italia. Nel 1975 diventa commissario tecnico della squadra nazionale ed è così bravo da mantenere la carica più di ogni altro nella storia del ciclismo: 23 anni. Seguito come un'ombra da Franco Vita, inseparabile compagno di viaggio, ottiene più di tutti: 6 titoli mondiali e 20 medaglie.
Certo, anche Martini conosce vigilie difficili. A San Cristóbal Baronchelli, andando contro mano, finisce contro un'auto e va all'ospedale. Ad Agrigento l'ambiente è turbato prima dalla caduta poi dalla positività di Bugno. In ogni vigilia c'è stress, tensione. Martini però domina i dubbi, distribuisce i ruoli con sapienza e sensibilità. Supera anche sconfitte amare. Come quando Moser viene trafitto da Knetemann. Come quando Raas e Thurau fanno volare in terra Battaglin a Valkenburg. Come quando Saronni si fa infilare da Maertens a Praga per un errore da dilettante: "Se avesse tenuto le mani nella parte bassa del manubrio, avrebbe vinto. Tenne le mani in alto. Non poté fare il colpo di reni e perse per pochi centimetri", racconterà Martini vent'anni dopo. Come al Montello, quando tutti aspettano Argentin e arriva il vecchio Zoetemelk. Come a Utsonomiya, in Giappone, quando Bugno finisce a 8 secondi dall'iride senza capire quella grande possibilità. Come a Lugano, dove l'impulsivo Tafi scompagina il piano della squadra.
Martini conosce anche la disfatta. Come ad Altenrhein, quando crolla Argentin. Però non si scompone, non si straccia le vesti. Cerca spiegazioni e le trova. Poi, a chi sbaglia, propone il riscatto.
Regala vittorie memorabili. Prima con Francesco Moser, irriducibile e travolgente. Poi la volata capolavoro di Saronni. Quindi il guizzo di Argentin. Poi la vittoria di Fondriest, che scopre un varco improvviso sulla strada. E i due mondiali di Bugno, sofferti, misteriosi e stupendi. Martini sa mediare e sa, con la freccia giusta, centrare il bersaglio.
Nel 1997 Martini lascia a 76 anni. Si trasforma nel mentore prima di Antonio Fusi, poi di Franco Ballerini, che diventa commissario tecnico nel 2001. Ballerini, progettando squadre mirate al percorso di gara, a Zolder vara una formazione che è di fatto un lungo treno per Cipollini. Trasforma la corsa in una grande volata. Cipollini la domina. Ma non si tratta di uno sprint di pochi secondi. È una volata che dura 5 ore e 20 minuti. Una cavalcata travolgente a oltre 46 km/h.
Binda e Martini, due grandi. Ma ci sono altri 'maghi', che lavorano sui giovani. Costruiscono il futuro. Gente che regala all'Italia decine e decine di medaglie d'oro, che fa sentire in tutto il mondo agli emigranti gli echi dell'Inno di Mameli. Vittorie memorabili, costruite con il talento e la passione.
Rientrano in questo gruppo di persone Guido Costa, Giovanni Proietti, Elio Rimedio. Tre uomini di carisma e di passione. Guido Costa è nato a Tunisi il 13 ottobre 1913. Fa il corridore nel Nord Africa: vince il Giro della Tripolitania e quello della Libia. Sfiora la convocazione ai Giochi di Los Angeles nel 1932. Quando, nel 1949, rientra in Italia, diventa responsabile tecnico della pista. Dura vent'anni: dal 1950 al 1969. È un uomo di poche parole, ma parla con gli occhi. L'Africa gli ha dato qualcosa di misterioso, di affascinante. È un tecnico d'avanguardia, un osservatore attento e sapiente. Porta la scienza sulla pista. È il vero eroe dell'exploit dei Giochi di Roma, quando con quattro medaglie d'oro all'avvio della manifestazione ‒ Gaiardoni nella velocità e nei 1000 m con partenza da fermo, Beghetto-Bianchetto nel tandem e il quartetto Arienti-Testa-Vallotto-Vigna nell'inseguimento ‒ accende il tifo e trascina tutta la squadra verso una grande prestazione.
Costa è un grande preparatore di inseguitori. Regala all'Italia le vittorie di Messina e Faggin, De Rossi e Simonigh, lancia Toni Bevilacqua nel suo attacco vittorioso contro Hugo Koblet. Ma crea velocisti da favola come Sacchi, Morettini, Ogna, Pettenella, Gaiardoni, Beghetto e Bianchetto, e lega il suo nome soprattutto al leggendario Antonio Maspes.
Giovanni Proietti è nato a Roma il 26 maggio 1905. Ha un passato da corridore senza gloria. Anticipa Costa sulla pista. È lui a lanciare il diciassettenne Guido Messina nell'inseguimento e il torinese Mario Ghella nella velocità, e a conquistare le medaglie dei Giochi di Londra. Proietti è un trascinatore. Un personaggio pittoresco e popolare. Alto, massiccio e sanguigno, porta occhialoni neri e un fazzoletto di seta al collo e scaglia insulti in dialetto romanesco. È l'opposto di Guido Costa. Intransigente e paterno, possessivo e altruista, trova il suo ambiente sulla strada. Ha una personalità forte. Polemizza con le società. Vuole i corridori in esclusiva. È il vero fondatore del Club Italia. Vara squadre compatte, dove vige il "tutti per uno, uno per tutti". Incute timore. Durante la Ruota d'oro, per esempio, quando vede Romeo Venturelli che batte la fiacca, si ferma, raccoglie un mazzo di ortiche e gliele agita dietro le gambe. Venturelli vince la Ruota d'oro.
Questo istrione, dal 1951 al 1955, riesce a vincere quattro titoli mondiali con Ghidini, Ciancola, Filippi e Ranucci e a Frascati conquista tutti e tre i gradini del podio. Usa il bastone e la carota. È capace di far sì che in gara i suoi uomini si superino. Proietti riesce a trasformare in leone un tipo pigro e bonario come Ercole Baldini e lo fa entrare nella storia.
Nel 1959 Proietti cede il posto a Elio Rimedio, un romano di 39 anni che, durante la guerra, era stato fatto prigioniero in Egitto. Rimedio è uno studioso del ciclismo. Un uomo cordiale, competente, appassionato. È Rimedio a guidare le prime squadre italiane al Tour de l'Avenir, a pilotare al successo De Rosso, Gimondi, Denti. Gimondi lo ha considerato come un padre. Rimedio porta al successo mondiale Bongioni, Vicentini, Marcelli e, per tre volte, il quartetto della 100 km a squadre. Vince l'oro olimpico nella 100 km a squadre di Roma e, poi, la prova individuale su strada con Zanin a Tokyo e con Vianelli a Città del Messico.
Girardengo si fa chiamare commendatore dai gregari. Ma può farlo. Anch'egli, nel Giro del 1913, aveva fatto il gregario, e non di Ganna o Galetti, gli assi, ma di Carlo Oriani, un uomo forte che aveva però vinto una volta sola: un solo successo, sia pure importante, il Giro di Lombardia. Girardengo, del resto, si alza dal letto prima dei gregari. Poi li sveglia e li sprona: "Andiamo a fare un giretto verso Voltri, proviamo la salita del Sassello, facciamo 200 chilometrini…". Ottiene un gemito di risposta: "Lei, commendatore, li chiama chilometrini, ma sono sempre di mille metri l'uno". Girardengo è un capitano vero, che incute rispetto nei suoi compagni. Non è il solo campione ad aver incominciato da gregario. Bottecchia è gregario di Henri Pélissier, quando costruisce la sua leggenda al Tour.
Gregario deriva dal latino grex, gregge. È l'uomo che fa vita di gruppo. I francesi usano un termine più altero: domestique, servitore; gli spagnoli lo chiamano aguador, portatore d'acqua. In realtà è un confidente, un amico, ancorché marginale, spesso dimenticato.
Gianni Rodari scrive la Filastrocca del gregario: "Corridore proletario, / che ai campioni di mestiere / deve fare il cameriere, / e sul piatto, senza gloria, / serve loro la vittoria. / Al traguardo quando arriva, / non ha applausi, non evviva. / Col salario che si piglia / fa campare la famiglia / e da vecchio poi si acquista / un negozio di ciclista".
Nel Tour del 1949, nella tappa di St.-Malo, quando Fausto Coppi, avvilito, pedala come un automa sull'orlo del ritiro, Mario Ricci lo fa sfogare. Coppi, sconsolato, gli parla: "Potevo essere a casa, sotto una grande quercia, al fresco, con una bella birra. Invece sono qui sotto il sole e sto perdendo il Tour". Ricci gli presta attenzione, lo ascolta, gli dà corda. E Coppi, un po' alla volta, si tira su. Si sente a suo agio accanto a quell'amico comprensivo. Poi Ettore Milano lo incalza e lo responsabilizza: "Fausto, se ti ritiri, io non ho i soldi per sposarmi". Coppi riflette. Sa che Milano deve sposare la figlia di Cavanna. Coppi si sente obbligato a continuare. E, con una torsione magnifica, vince quel Tour, che aveva già perduto.
Campione e gregario conducono vite parallele. Mentre il campione studia le altimetrie, il gregario studia altre mappe. "Conoscevamo tutte le fontane d'Italia. Una volta ne trovai una dietro una casa cantoniera e Ortelli, stupito, mi chiese: 'Ma come fai?'. Gli ho risposto: 'Ho le antenne'", racconterà Milano cinquant'anni dopo. Milano è un tipo ciarliero. Carrea ama il silenzio. Coppi lo guida con lo sguardo. Sulle salite Carrea si mette in testa e tira, con Coppi a ruota. È il primo stadio di un razzo al decollo. Ha sempre coscienza del proprio ruolo. Così, anche il 4 luglio 1952 al Tour, quando indossa la maglia gialla nella tappa dell'Alpe d'Huez, stupisce la Francia e si ferma a una fontana a riempire borracce per il suo capitano Coppi.
A volte la strada regala ai gregari la metamorfosi gloriosa. Vasco Bergamaschi, detto Singapore, uomo di Guerra, vince il Giro del 1935. Carlo Clerici, che Koblet usa per sconfiggere Coppi, s'impone in quello del 1954. La storia del Giro è popolata di gregari. Gregari che spingono, che soffrono, che piangono. Gregari che lottano per la maglia nera. Gregari che si raccontano in televisione. Testimoni della corsa. Gregari che muoiono. Come Ponsin, Santisteban, Ravasio al Giro d'Italia. Come Cepeda o Casartelli al Tour. Gregari che trasmutano, come Cerami, come Chiappucci, ed evadono dal proprio ruolo. Gregari che non vincono mai, come Perini, come Mazzacurati, come Bruseghin. Samaritani di strada come Pezzi.
Anche i gregari sono passati alla leggenda. Corrieri, che con Bartali ha visitato tutti i santuari del mondo, Carrea e Milano con Coppi, Barbotin con Bobet, Ernzer con Gaul, Masciarelli con Moser, Piasecki e Lang con Saronni, Bernaudeau con Hinault, Perini con Bugno, Ghirotto con Chiappucci, Bruseghin e Velo con Petacchi, Hincapie con Armstrong. Uomini di fede assoluta.
Al Mondiale di Zolder, nel 2002, tutti gli azzurri recitano da gregari di Cipollini. Ma prima non è stato così. Nel Campionato del Mondo di Liegi, Binda, che soffre il gran caldo, si ferma, entra in un'osteria, acquista una bottiglia di acqua minerale, la scola e poi deve penare per rientrare, anche se alla fine vince il titolo mondiale. Allora la corsa era uomo contro uomo. Oggi al gregario si richiede la specializzazione. C'è il passista per controllare la tappa, il gregario scalatore, il 'tiravolate'. Uomini puntuali, fedeli.
Al via della prima Parigi-Roubaix, nel 1896, si schiera Maurice de Vlaminck, vent'anni, pittore. Fa il ciclista professionista per quattro anni. Guadagna 300-400 franchi per settimana, molto di più di quello che ricava vendendo le sue tele. Diventerà il padre dei Fauves. La bicicletta affascina. Nei primi Tour entra nei quadri di Monet e Seurat. Derain parla di bicicletta con Picasso, Modigliani, de Vlaminck, Apollinaire. La bicicletta appartiene alla storia del disegno e della pittura. Il primo Giro esplora subito i paesaggi sfumati di Leonardo da Vinci ed era stato proprio Leonardo il primo artista a disegnare una bicicletta.
La bicicletta, agli inizi, è snob e così la vede Claude Monet nel ritratto di Jean Manet. Zandomeneghi fa pedalare le fanciulle in fiore. Ma la matita di Toulouse-Lautrec nel Vélodrome Buffalo, di cui Tristan Bernard è direttore, fissa già l'inquietudine della pista. E de Vlaminck vede il velocipede come strumento della rivincita di classe: "Le pauvre a la possibilité, sur la route, de laisser sur place le millionaire". La forza dell'uomo sconfigge il denaro.
Poi la bicicletta entra in altre rivoluzioni. Il futurismo nasce a Milano nel 1909 con il Giro d'Italia. Alleva il mito della velocità, partendo dalla bicicletta. Irrompe in un mondo in gran parte contadino, antico e statico, ed esprime, invece, tensione, movimento, voglia di modernità. Umberto Boccioni nel Dinamismo di un ciclista rende il brivido della velocità. Giacomo Balla studia La velocità astratta. Mario Sironi nei quadri Il ciclista e Gli stayers esprime la fatica: il corridore diventa un'ombra senza volto, un fantasma. È l'era delle sfide titaniche, della fatica brutale.
I pittori sono attirati dalla bicicletta, così elegante, così sottile, ma anche dai significati che porta. La bicicletta è un veicolo. Si muove. Va. Fortunato Depero, per esempio, ci regala Il ciclista con il numero 18, il Chirottero metropolitano, Il ciclista attraversa la città. La bicicletta, però, a volte si ferma ed ecco Man on a bicycle di George Segal, un uomo ridotto a manichino di gesso. La bicicletta è trasgressiva. Alberto Savinio mette sopra la canna un nudo di donna con testa d'uccello e dipinge il manubrio a testa di toro. La Jeune fille à la bicyclette di Man Ray esprime puro erotismo. La bicicletta è tragica come nel Portrait of George Dyer di Francis Bacon: va verso un destino terribile. La bicicletta unisce. Ecco allora Les loisirs di Ferdinand Léger, che esprime l'evasione a pedali di una famiglia della banlieu parigina. O la Famiglia in bicicletta di Ernesto Treccani.
Dipingono la bicicletta Picasso e Dalí, Magritte e De Pisis. Il pittore Anselmo Bucci, del gruppo Novecento, illustra il Giro del 1940, che vede il decollo di Coppi. Emilio Tadini fa volare la bicicletta nello stile di Chagall in La fiaba del Giro, proprio come Mark Kostabi. Ugo Nespolo fa sfrecciare la maglia rosa. Aligi Sassu, corridore praticante, che ama Binda, comincia a dipingere Ciclisti a 19 anni e continua fino alla fine della sua vita. La bicicletta nell'arte trasmuta. Oppure si corrompe. Ecco il Bicycloid di Rauschenberg, la Bicyclette ensevelie, sepolta in un parco parigino, di Claes Oldenburg e la bicicletta di Keith Haring. Ecco La coda del pavone di Alessandro Pistoletto, una bicicletta trasformata con gli stracci colorati in uccello. E, poi, i pezzi di bicicletta. La ruota di Marcel Duchamp è famosa. Come La testa di toro di Picasso, composta assemblando una sella e un manubrio di bicicletta.
Mark Twain pedala su un grand-bi Colt nel 1885 e mette a repentaglio sé stesso e i suoi amici. Lev Tolstoj impara a 67 anni a cavalcare la bicicletta nella quiete di Jasnaja Poljana. Jack London pedala con ostinazione. Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes, s'interroga sulla morte per tubercolosi della moglie Touie, che egli ha esposto spesso al vento nelle passeggiate con il suo triciclo Excelsior. Émile Zola, nelle sue fughe in velocipede a Medan, si sente come "un géant de la route". Perfino Lenin pratica il ciclismo.
Edmondo De Amicis, autore di Cuore, all'inizio del Novecento scrive di ciclismo su La Stampa sportiva. Scrivono della bicicletta Pascoli ed Edmond Rostand, Gozzano e Montale, Moretti e Dino Campana, Caproni e Giudici, Tozzi e Sereni, Marotta e Comisso, Zavattini, Cancogni, Arpino, Bufalino e Delfini, Compagnone e Tomizza. Hemingway racconta di Bottecchia, ma anche di William Campbell, un pistard drogato. Roland Barthes, che non perde un Tour, presenta il Mont Ventoux come un Moloch cui bisogna offrire sacrifici.
L'arte abita le corse e, a volte, viene vilipesa. Nella seconda tappa del Giro del 1927 si presenta a bordo di una fiammante Isotta Fraschini un uomo nuovo: Orio Vergani. È l'inviato del Corriere della sera. Lo guida un autista in livrea e guanti bianchi. Le curve del Penice, però, sono troppo secche e l'Isotta Fraschini è costretta a fare manovre. I corridori, sporchi di polvere, stremati dalla fatica estrema, sopraggiungono e, trovando la strada sbarrata, coprono d'insulti Vergani, che, da allora, decide di seguire il Giro con un'ora di vantaggio sulla corsa. Per trent'anni Vergani diventa il grande cantore del Giro.
Al Giro del 1932 ecco Achille Campanile, inviato della Gazzetta del popolo di Torino. Porta in corsa il sorriso e l'ironia. Campanile iscrive al Giro sé stesso e il suo servitore Battista. I suoi eroi sono isolati senza speranza a cui regala nomi fiammeggianti: Liguori, il Giaguaro di Barra; Perna, il Puma di Cercola; Improta, il Leopardo di San Giovanni a Teduccio; Ranieri, l'Armadillo di Bari; Riccò, il Canguro delle Puglie.
La bicicletta seduce. È visione. Anche la cultura ne subisce il fascino. Il giovane Piero Chiara, al Giro del 1933, a Udine, viene ammesso nella stanza di Binda, che, sdraiato sul letto, sbriga la corrispondenza, e gli pare di essere nella tenda di Tamerlano. Manlio Cancogni, tifoso di Bartali, quando vede Coppi, scrive: "L'apparizione di Coppi ci aveva tolto il fiato. Togliere il fiato è un modo di dire convenzionale; ma nel caso rispondeva perfettamente alla realtà".
Inviato al Giro d'Italia per il Corriere della sera, Dino Buzzati, il 19 maggio 1949, regala ai suoi lettori una confidenza sapida: "Ho corso anch'io infine da ragazzo a cavallo di una bicicletta a cui avevo tolto i parafanghi, perché assomigliasse un poco a quella dei campioni; e mi ricordo che una sera tallonai per ben due interi giri del parco la ruota, giuro, di Alfonsina Strada, che alla fine mi fece scoppiare lasciandomi scornato; tanto più che, lei saettando via, fui abbrancato da un vigile urbano per la multa (eccesso di velocità: e a quei tempi ammontava alla enormità di lire venti)".
Pier Paolo Pasolini, al 'Processo alla tappa' di Zavoli, rivela: "Il ciclismo è uno sport che amo moltissimo e lo amo da vent'anni, da quando ero ragazzino". Il suo corridore preferito è Severino Canavesi, soprannominato Peso Nebbia. Pasolini, giovane, si muove in bicicletta per insegnare, fare politica. Nel 1940, a 18 anni, va in bicicletta da Bologna a Casarsa, passando per Venezia e San Vito di Cadore.
Anche al Sud la bicicletta freme. Gesualdo Bufalino confida: "Una Wolsit dal sellino fuori sesto e dai freni senza vigore fu il difficile sogno di ogni sabato pomeriggio. Si prendeva a nolo da 'Suchidda', per quattro soldi ogni quarto d'ora. Giusto il tempo di scendere a precipizio fino alla stazione e di risalire poi, se si sopravviveva, pigiando forte coi tacchi sui pedali, fra i sardonici incitamenti dei coetanei pedoni: 'Viddanu pitalìa', 'Contadino pedala'".
Nel dopoguerra l'Italia delle lettere scopre il Giro. Nel 1947 compaiono in corsa inviati straordinari: Vasco Pratolini per Il Nuovo Corriere di Firenze e Paese sera di Roma, Alfonso Gatto per L'Unità, Indro Montanelli per il Corriere della sera. Inviato al Giro d'Italia, Alfonso Gatto, il poeta, dichiara solennemente: "Io sono per la strada, per gli uomini di fondo, per gli scalatori". Ma, a Pescara, invano Fausto Coppi cerca d'insegnargli ad andare in bicicletta. Così, alla fine di quel giorno memorabile, rassegnato, Gatto conclude: "Cadrò, cadrò sempre fino all'ultimo giorno della mia vita, ma sognando di volare".
Giovanni Mosca diventa un suiveur del Giro. Oriani, Panzini, Serra, Maurice Leblanc ‒ creatore di Arsenio Lupin ‒, Soldati, Roghi, Raschi, Fossati, Gianoli, Blondin, Cordelli ci hanno regalato belle pagine sulla bicicletta. Nel 1955 Anna Maria Ortese chiede un passaggio a Vasco Pratolini e insieme con lui si addentra nella polvere del Giro. È, con la Dama Bianca e Janine, una delle donne pioniere del Giro.
I corridori hanno straordinari compagni di strada. Dino Buzzati, nel 1949, con la sua penna magica tiene vivo Bartali dopo la batosta subita a opera di Coppi nel 'tappone' dolomitico: "Non compiangetelo, non fatene un eroe crepuscolare; non mandategli messaggi di conforto. Non ne ha bisogno. E se qualcuno di voi, soffrendo le mortificazioni dell'età, pensa di trovare in Bartali il conforto di un riscontro, si disilluda. Il signor Gino Bartali non è vecchio, né scoraggiato, né triste. Ed è troppo sicuro di sé per mendicare scuse. Stamane uno gli ha chiesto: 'Mi dica, ieri lei ha forato due o tre volte?' Lui ha risposto: 'Forato? Noi non si fora mai'".
Quando Coppi atterra Bartali nella Cuneo-Pinerolo, Buzzati dà alla corsa la dimensione omerica: "Quando oggi, su per le strade dell'Izoard, vedemmo Bartali che da solo inseguiva a rabbiose pedalate, tutto lordo di fango, gli angoli della bocca piegati in giù per la sofferenza dell'anima e del corpo ‒ e Coppi era già passato da un pezzo, ormai stava arrampicando su per le estreme balze del valico ‒ allora rinacque in noi, dopo trent'anni, un sentimento mai dimenticato. Trent'anni fa, vogliamo dire, quando noi si seppe che Ettore era stato ucciso da Achille".
Ma la strada è anche laboratorio linguistico. Nella polvere le parole acquistano significati nuovi. Quando Gianni Brera al Tour del 1949 chiama 'ammiraglia', in quanto centrale nella corsa, la macchina di Binda che dirige Coppi e Bartali, il termine diventa di uso generale.
La bicicletta appartiene alla storia del cinema. In Italia il pioniere è Luca Comerio con i suoi documentari: Il secondo Giro ciclistico d'Italia e Corsa ciclistica femminile sono del 1910.
I primi registi ne sottolineano la vis comica. La bicicletta è un ingrediente di successo per la gag nei film comici, come in Robinet si allena al Giro d'Italia (1912) oppure in Un grullo in bicicletta (1932).
Presto anche i campioni entrano nei film. Comincia Costante Girardengo in Sansone e la ladra di atleti (1919) di Amedeo Mustacchi, il primo film a soggetto sportivo nella storia del cinema italiano. Coppi, Bartali, Magni, Bobet fanno le comparse nel film Totò al Giro d'Italia (1948) di Mario Mattoli.
La bicicletta è centrale nel celebre À nous la liberté di René Clair (1931), in Fiorenzo il terzo uomo di Stefano Canzio con Aldo Fabrizi e Renato Rascel (1951), nel Giorno di festa di Jacques Tati (1949) e in Pour un maillot jaune di Claude Lelouch (1965). Entra in molti film sulla Resistenza. Per non parlare del capolavoro di Vittorio De Sica Ladri di biciclette (1948).
Giovanni Gerbi, eroe già dei cantastorie dell'inizio del 20° secolo, offre a Paolo Conte il pretesto per la sua rumba Diavolo rosso; ma Conte ci regala anche Bartali (1979). Conte non era ancora nato ai tempi di Gerbi, era un bambino quando vinceva Bartali. Compone sulla suggestione del racconto magico. Inventa. E per quel "naso triste come una salita" Bartali si offende non poco. Gino Paoli, invece, Coppi l'ha visto e la sua canzone Coppi ha lo splendore del ricordo: "Un omino con le ruote / contro tutto il mondo / Un omino con le ruote / contro l'Izoard".
Girardengo è cantato da Francesco De Gregori nella ballata Il bandito e il campione, che ricorda l'amicizia con Sante Pollastri: Pollastri, novese come Girardengo, salvò la pelle. Invece il bandito milanese Bezzi no: Enzo Jannacci lo canta in Hanno ammazzato il Mario in bicicletta, musica di Fiorenzo Carpi, parole di Dario Fo.
Ai tempi in cui la benzina era scarsa risale la romagnola Burdela in bizicleta (ragazza in bicicletta). Caterina Caselli si ispira alle biciclette bianche di Amsterdam quando canta "andremo in tutto il mondo, poi, su biciclette bianche". C'è la Bici blu di Jannacci, La bicyclette di Yves Montand, Gir'in giro dei Cetra e Bellezza in bicicletta di D'Anzi e Marchesi.
È un 'ciclomane' Paolo Belli, che canta Ladri di biciclette (1989). Francesco Baccini celebra Eddy Merckx in Sotto questo sole (1997). Enrico Ruggeri canta Gimondi e il cannibale (2000), mentre Lucio Dalla in Sono in fuga (2003) celebra la sfida dell'uomo solo contro la montagna.
La bicicletta canta in molti ritmi. A tempo di samba in Pedala, pedala di Casadei, Muccioli, Pedullà, oppure di valzer lento in Les bicyclettes de Belsize di Reed e Mason. Via via fino alla bellissima Bicycle race di Freddie Mercury dei Queen, dove la parola bicycle compare cento volte.
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