CIELO D'ALCAMO
Il contrasto Rosa fresca aulentissima attribuito a C. apre il quarto fascicolo del ms. Vat. Lat. 3793 (V), dedicato al genere 'mediocre' (non necessariamente giullaresco), in posizione di eccellenza, ma anonimo e anepigrafo nella tavola antica del primo fascicolo. Secondo Panvini l'antigrafo di V riportava sicuramente un nome poi sparito nella copia. L'editore suggerisce che il compilatore di V trascrivesse dapprima le poesie destinate a un quaderno e solo dopo vi apponesse le rubriche che in un primo tempo pensava di far miniare. Abbandonato il progetto della miniatura, in un secondo tempo trascrisse egli stesso le rubriche avvalendosi dei suoi appunti e pertanto "la rubrica del n. 54 [che è il numero del Contrasto] fu saltata per dimenticanza" (Panvini, 1953, pp. 23-24 e 18). Tuttavia le recenti indagini sul manoscritto hanno dimostrato che il codice non deriva da ambiente notarile, come tradizionalmente si riteneva, ma da un ambiente mercantile, seppure di buona cultura volgare (Bologna, 1986, p. 516; Antonelli, 1992, p. 28), e di conseguenza è poco sostenibile l'ipotesi 'decorativa' proposta, per un compilatore che mirava più alla sostanza che alla piacevolezza delle forme (Giunta, 1995, p. 32). Alla congettura circa l'omissione "per dimenticanza" si dovrà comunque far ricorso, per altra via, una volta scartata l'ipotesi che l'Anonimo antologista fiorentino abbia voluto evitare l'accostamento di un 'siciliano' autentico rispetto ai due 'pugliesi' ("Giacomino Pulgliese" e "Rugieri Apulgliese") seguenti, dal momento che scrupoli del genere l'ordinatore di V non li dimostra in nessun'altra occasione, oppure che la pretesa natura 'giullaresca' del testo e le vicissitudini di trasmissione cui è soggetta tale tradizione abbiano causato l'anonimia. Il fascicolo del manoscritto, almeno nella prima parte, mescola componimenti di tono aulico-cortese e componimenti di tono giullaresco, in una mescolanza di registri che convivono in perfetta fusione nel Contrasto che apre il quaderno. Lo stesso V, infatti, sia nel caso di Ruggieri Apugliese, sia in quello della canzone del Castra, si mostra molto attento alle attribuzioni anche giullaresche, arrivando finanche a inventare l'autore, tale "messer Osmano", per il componimento nr. 89 (Antonelli, 1993, p. 49).
Solo nel Cinquecento Angelo Colocci nella tavola topografica posta a fine di V, a c. 104v, introdusse tra "Imperadore federigo" e "Giacomo Pugliese", preceduto dal segno di inserzione 〈, "Cielo 54". L'aggiunta, tracciata con inchiostro più scuro rispetto a quello usato per indicare i numeri relativi ai fogli in cui i poeti compaiono nel manoscritto, fu, dunque, probabilmente inserita sulla base di altra fonte, quando la tavola recante l'indicazione dei fogli era già stata completata, nel momento in cui vennero apposti i numeri alle liriche. Più o meno nello stesso momento, con inchiostro che parrebbe uguale (cf. Bologna, 1993, pp. 563-564) nel Vat. Lat. 4823, copia di V, a c. 67, lo stesso Colocci inserì in testa al componimento, oltre all'indicazione tenzone relativa al genere, l'annotazione "Cielo dalcamo", relativa alla paternità del testo. Sempre di mano dell'umanista sembrerebbe il cosiddetto 'notamento colocciano', ossia l'appunto scritto da Colocci nelle cc. 171-172 del ms. Vat. Lat. 4817 (pubblicato fotograficamente per la prima volta da Monaci, 1882-1885, nell'"Archivio Paleografico Italiano") che riafferma: "Io non trovo alcuno se non cielo dal camo, che tanto avanti scrivesse, quale noi chiameremo Celio", a cui segue una trascrizione della prima strofa del Contrasto, in quest'occasione denominato dialogo.
Messa da parte la forma "Ciullo"/"Ciulo", basata su un errore di lettura dell'Ubaldini nel secolo successivo a quello colocciano (D'Ovidio, 1932, pp. 210-212), "Cielo" è tradizionalmente inteso come forma toscanizzata del siciliano "Celi", ipocoristico di "Miceli" (Michele), frequente nei documenti antichi siciliani e diffuso come cognome o toponimo in Sicilia e Calabria (Bonfante, 1955, pp. 268-269; Caracausi, 1993, s.v.). Riguardo alla diversa lettura "dal camo" vs "d'Alcamo", ci pare che ormai la notazione "non possa intendersi se non come allusione alla città fra Trapani e Palermo" (Poeti del Duecento, 1960, p. 173). Il cognome derivato dal luogo d'origine attesterebbe che il poeta dimorava e operava altrove. Propongono argomenti contra De Bartholomaeis (1924, pp. 68-69) e Sanga (1992-1993), che segmentano "dal Camo" inteso come nome personale o nomignolo giullaresco in riferimento a particolarità della persona o dell'abbigliamento. Il termine "camus" nel latino tardo e medievale ha il significato di 'muserola, morso' come il termine "camo" nell'antico italiano, in cui è documentato (invero scarsamente) anche con il significato di 'sorta di panno' (Grande Dizionario della Lingua Italiana, Torino 1961-2002, s.v.). Alcuni tratti linguistici del Contrasto e l'invocazione al v. 126 di "santo Matteo", santo protettore di Salerno, hanno indotto Cesareo, mediante il trasferimento sul piano biografico di elementi interni al componimento, a congetturare un'origine continentale di Cielo, nativo di una qualche provincia del Napoletano, forse proprio di Salerno.
Si è già accennato al 'notamento colocciano' (Vat. Lat. 4817, cc. 171-172). Secondo Bologna (2001) la trascrizione della prima strofe del Contrasto nel Vat. Lat. 4817 ‒ un manoscritto-zibaldone, ancora tutto da riorganizzare anche cronologicamente ‒ deriva da un testo scritto e le divergenze di lezioni del notamento rispetto a V non sono dovute a mera distrazione dell'umanista ma al fatto che Colocci abbia avuto sott'occhio, dopo l'allestimento della copia da V, un codice diverso da quest'ultimo, seppure probabilmente collegato alla stessa linea di tradizione. Le diverse lezioni, pertanto, andrebbero considerate come vere e proprie varianti e il 'notamento' inserito nella tradizione manoscritta del Contrasto con la riapertura di una situazione unitestimoniale ormai da tempo passata in giudicato. Si resta, tuttavia, nell'ambito delle ipotesi di lavoro. Le citazioni colocciane, sia nel 'notamento', che in altri luoghi del Vat. Lat. 4817, possono essere considerate infatti anche frutto di uno dei fenomeni caratterizzanti della cosiddetta 'tradizione di memoria', ossia quello della lectio facilior, della tendenza alla lezione banalizzante, alla trivializzazione del testo.
A suffragare l'ipotesi di Bologna di un altro manoscritto recante il Contrasto visto o posseduto da Colocci, concorre, tuttavia, Bianchini (in corso di stampa), ma in altra direzione e lavorando su altri materiali, grazie all'esame condotto sul folto numero di annotazioni registrate da Colocci accanto al testo di Rosa fresca aulentissima nella copia tratta da V, annotazioni che apparirebbero effettuate sulla base della collazione con un manoscritto che riportava il testo del Contrasto con varianti minime rispetto all'antigrafo. Uno dei dati più interessanti è che Colocci non interviene, nella scrizione delle postille, per correggere possibili ipermetrie del verso, pur essendo particolarmente interessato al metro usato da C.: spesso, anzi, i suoi interventi creano vistosi scompensi metrici che meraviglierebbero se non si prendesse in considerazione l'ipotesi di una trascrizione meccanica di varianti da altro manoscritto (cf. Bianchini, in corso di stampa). È da notare, inoltre, che Colocci non corregge gli errori fatti dal copista nella trascrizione di V. Le varianti (se tali devono essere considerate e non correzioni di Colocci) riportate dalle postille colocciane nella copia di V presentano tratti molto meno toscanizzati rispetto all'antigrafo, che potrebbero far capo a una tradizione precedente allo stesso V o almeno più vicina all'originale (seppure è esistita una tradizione siciliana o almeno più sicilianeggiante di Rosa fresca aulentissima). Le postille alla prima strofa nella copia di V, se integrate nel testo, non forniscono comunque una redazione di Rosa frescaaulentissima uguale o simile a quella tràdita dal 'notamento'. Dunque occorrerebbe ipotizzare che Colocci per le due redazioni ‒ pubblicate entrambe già da Allacci separatamente nella raccolta di poeti antichi (Allacci, 1661, pp. 287 e 408) ‒ faccia riferimento a due manoscritti differenti: uno che recava le lezioni proposte nelle postille del Vat. Lat. 4823 e uno, che poteva essere testimone anche solo della prima strofa, trascritto nel 'notamento'. Poiché il 'notamento' è da considerarsi quasi sicuramente citazione a memoria, con la conseguente fenomenologia variantistica che tale prassi comporta, mentre le postille al Vat. Lat. 4823 nascerebbero da una collazione, sia pure meccanica, con un altro manoscritto, in linea teorica sarebbero queste ultime a possedere maggiori titoli per essere introdotte nella tradizione del Contrasto. Se non si può dire che l'acquisizione di questi frammenti giovi ai fini della restitutio textus (a norma lachmanniana), essi tuttavia costituiscono un indubbio guadagno per quel che attiene alla storia della tradizione del componimento.
Gli indizi utili sull'epoca della composizione del Contrasto sono interni al testo stesso (Poeti del Duecento, 1960, p. 173): per il termine a quo, soccorre il v. 22 ("Una difemsa mètoci di du mili'agostari") e per il termine ad quem il v. 24 ("Viva lo 'mperadore, grazi'a Deo!"). Il primo verso allude, infatti, alle Costituzioni di Melfi del 1231 e in particolare la Const. I, 16, De defensis imponendis, et quis eas imponere possit, secondo il quale una persona aggredita poteva difendersi invocando il nome dell'imperatore (cf. v. 24) e, se ciò non fosse bastato, stabilire essa stessa l'ammontare di un risarcimento (Kantorowicz, 1955, pp. 35-50); gli agostari, ovvero gli augustali, inoltre, erano monete d'oro battute a partire dalla stessa data. Il secondo verso segna un termine invalicabile nell'anno della morte di Federico II (1250).
Ogni ulteriore tentativo di determinare con maggiore precisione i rapporti con gli altri testi della corte federiciana può fare riferimento, nell'attuale stato delle conoscenze, con estrema cautela, solo all'ordinamento di V che, com'è noto, è certamente improntato a considerazioni storico-culturali, anche se non è facile determinare se all'interno delle varie sezioni del manoscritto il compilatore abbia operato secondo un criterio prevalentemente cronologico o cronologico-valutativo (Antonelli, 1999, p. 13), ossia, nel caso specifico, se il Contrasto di C. apra il quarto fascicolo in qualità di testo ritenuto di più alto rilievo e/o perché cronologicamente più antico rispetto ai seguenti.
Per via di congettura si è dato senso a un nome che tuttavia non compare in alcuna fonte documentaria antica, benché Colocci affermi che fu "celebre poeta dopo la ruina de gothi e scripse in lingua italiana o pur più restringendolo siciliana" (Vat. Lat. 4817, c. 171). Un passo, questo, che certamente riprende l'affermazione del De vulgari eloquentia, I, XII, 6. Colocci infatti annota di sua mano in V, sul bordo superiore della carta che tràdita Rosa fresca aulentissima, "Dante cita questa". La citazione dantesca: "si vulgare sicilianum accipere volumus secundum quod prodit a terrigenis mediocribus, ex ore quorum iudicium eliciendum videtur, prelationis honore minime dignum est, quia non sine quodam tempore profetur, ut puta ibi: Tragemi d'este focora, se t'este a boluntate", è anonima probabilmente per la notorietà del testo, così come anonime sono anche nello stesso capitolo quelle dei versi di Guido delle Colonne, Giacomo da Lentini, Rinaldo d'Aquino, esempi di volgare "illustre", mentre il Contrasto è contraddistinto dall'epiteto "mediocre". Anche se, per esemplare le caratteristiche del linguaggio mediocre, Dante è costretto a citare il terzo verso e non, come fa per gli altri poeti, i primi due versi del componimento, che sono improntati a un registro "alto".
Alla rappresentatività di Rosa fresca aulentissima del livello linguistico-culturale del ceto medio siciliano (i "mediocres") si è sovente correlata, in temini di categoria socioletteraria, l'appartenza di C. alla classe dei giullari. Nel testo del Contrasto, inoltre, il corteggiatore insistente viene apostrofato con il termine di canzoneri, inteso da alcuni editori come 'giullare', a sostegno di una forse troppo semplicistica identificazione tra autore e personaggio.
Si è a lungo dibattuto se C. fosse un giullare capace di orecchiare temi e linguaggio della poesia aulica, o un poeta colto abile a 'rifare' temi e lessico della poesia giullaresca o popolare. Le diverse interpretazioni partono dalla constatazione di un dualismo linguistico e stilistico nel modo di esprimersi dei personaggi, che alternano linguaggio cortese e linguaggio popolare. Vi sono studiosi più propensi a rilevare nel componimento un'impronta genuinamente popolare o 'giullaresca', altri, invece, tesi a rintracciare nel testo la presenza di elementi colti, al punto di inserire l'autore all'interno della cerchia dei poeti di corte di Federico II (Monteverdi, 1954, p. 119). La sottolineatura della qualità giullaresca del Contrasto è dovuta anzitutto a De Bartholomaeis e, con maggiore cautela, a Pagliaro. C. è, invece, con ogni probabilità poeta colto secondo D'Ovidio, Ugolini, Elwert, Monteverdi, Folena, Antonelli (con più cautela e sfumature di dubbio), Bianchini. Le precise identificazioni di intertestualità indicate da quest'ultima con Giacomo da Lentini (cf. il v. 4 del Contrasto: "per te non ajo abento notte e dia" e il v. 44 di Poi non mi val merzé né ben servire: "non aggio abento" e la rima dei vv. 4-5 madonna mia: notte e dia che riprende la rima dei vv. 51-54 di Amando lungiamente) e Giacomino Pugliese (cf. l'ultima strofe del Contrasto e i vv. 78-79 del discordo Donna, per vostro amore) vanno senz'altro a favore della tesi monteverdiana, poiché permettono di connotare meglio e in senso parodico il linguaggio letterario adoperato da C., che utilizza ed elabora con abilità motivi già codificati e cristallizzati nella lirica 'alta' (Bianchini, 1996, pp. 118-121). Gli stessi doppi sensi indicati da Antonelli (1993; v. 74 bolta sottana; v. 76 manganiello; v. 77 castiello; v. 95 animella; vv. 102, 145, 155 arma), confermati da una lunga tradizione classica e mediolatina, riportano l'autore del Contrasto all'interno di una tradizione colta. Del resto già in alcuni testi ritenuti dalla critica in qualche modo antecedenti del Contrasto, la pastorella di Marcabru, L'autrier jost'una sebissa, e il contrasto bilingue di Raimbaut de Vaqueiras Domna, tant vos ai preiada (anche se non si tratta di rapporti diretti, intertestuali, ma di un discorso di genere) è presente, anzi è elemento portante, quell'alternanza sapiente di manierato formulario cortese e di rusticità popolare. Mentre nella 'pastorella' provenzale il poeta è portatore della civiltà cavalleresca e la pastorella dell'istintiva diffidenza e riottosità dell'ambiente rustico-plebeo, così come nel contrasto bilingue elaborato da Raimbaut de Vaqueiras emerge immediatamente l'opposizione tra le finezze pseudocortesi proferite dal giullare provenzale e la grossolanità della popolana, restia di fronte alle galanterie di maniera del jujar, nel Contrasto l'alternanza tra squisitezza parodica e rusticità plebea attraversa in egual misura ambedue i personaggi. Ossia i due registri stilistici non coincidono più dicotomicamente con l'uno o l'altro dei due antagonisti, ma si alternano nella sapiente tessitura dei giochi verbali del corteggiatore e della corteggiata. Così come è presto evidente che i due personaggi tentano di apparire quello che non sono nella realtà e che sotto le lusinghe dell'uno e le ripulse dell'altra si cela il medesimo desiderio sessuale. Le difese e le ritrosie della giovane cadono una dopo l'altra: dal rifiuto si passa all'assenso condizionato dalla richiesta di matrimonio fatta al padre, poi solo dal giuramento sui Vangeli, con il coup de théâtre dei Vangeli rubati in chiesa ed esibiti a sorpresa dal giovane che, improvvisamente, da sbeffeggiato canzoneri diventa meo sire. La battuta finale "[...] a voi m'arenno / a lo .lletto ne gimo a la bon'ora", in cui il cedimento della donna si esprime con crudo realismo, senza sottintesi, orienta definitivamente in chiave parodica a ritroso tutto l'armamentario prima di-spiegato di dichiarazioni solenni e di metafore cortesi sciorinate a fini di persuasione amorosa. Il Contrasto, al pari di tali testi, sembra collocarsi in ambito parodico-allusivo di stile mediocre ma non giullaresco.
Vanno di conseguenza condivise le caute interpretazioni proposte da Cesare Segre e da Roberto Antonelli. Il primo scrive che "il poeta fa la parodia d'un giullare; o forse, un giullare particolarmente dotato fa la parodia di se stesso" (1963, p. 385), il secondo si chiede dubitativamente se si tratti di "testo giullaresco o testo colto di tonalità volutamente mediocre" (1993, p. 49).
All'interno della produzione letteraria della Scuola siciliana il Contrasto rappresenta uno sviluppo senza fratture di quella linea comica, dialogica e mimica che è implicita in Giacomino Pugliese, autorizzando così un collegamento trasversale tra generi lirico-narrativi e contrasto. Un antecedente al componimento cielino, infatti, costituiscono i dialoghi di amanti nelle canzoni oggettive di Federico e di Giacomino stesso, caratterizzate da una tendenza verso il parlato che incrina la superficie cortese e da una stilizzazione psicologica che utilizza tratti gioiosi e caricaturali. In esse la tematica popolaresca si intreccia con la tradizione letteraria 'comica', provenzale e latina, delle pastorelle, dei contrasti accademici, delle altercationes, delle disputationes, degli improperia di scuola.
In realtà, al di là di un'ascrizione perentoria di C. alla categoria di poeta o di giullare, il vero problema è quello di definire il grado di conoscenza della cultura e dello stile cortese da parte dell'autore del Contrasto, così come del pubblico a cui il componimento si rivolge. Non si dimentichi che il testo, tràdito nell'importante silloge fiorentina, veniva recepito dagli stessi lettori di Giacomo da Lentini e di Guido delle Colonne, "accettato per i suoi caratteri parodici ma forse anche per il suo grado di riuscita stilistica e qualitativa" (Varvaro, 1987, p. 97). C. si rivela poeta comunque consapevole dei moduli della poesia siciliana aulica che parodizza specialmente nelle dichiarazioni appassionate del protagonista maschile. Non a caso in questo testo è stata indicata la prima testimonianza dell'"espressionismo vernacolare che durerà fino all'età barocca" (Poeti del Duecento, 1960, p. 175, ripreso da Segre, 1963, pp. 384-385) secondo una continuità diacronica che potremmo definire diastratica in quanto duratura sia nella tradizione letteraria 'alta', sia in quella orale e popolare, con effetti non trascurabili nella diffusione di un modello linguistico alternativo di ampia circolazione interregionale. Anche sotto questo aspetto la lirica siciliana stabilisce un primato e segna il debutto del genere comico-realistico destinato a percorrere diversi secoli della letteratura italiana.
Il Contrasto è composto da trentadue strofe pentastiche di tre alessandrini monorimi con primo emistichio sdrucciolo e secondo emistichio piano, seguiti da un distico di endecasillabi a rima baciata. La regolarità sillabica, la maestria nell'uso del metro prescelto, ricollegabile sia ad ambienti giullareschi sia clericali dotti, confermano l'allontanamento del poeta da un ambito immediatamente ed esclusivamente giullaresco. L'indicazione di D'Ovidio (1910), secondo la quale la struttura dei primi tre versi della strofa potrebbe riprendere la forma ritmica del tetrametro giambico catalettico, e la scoperta da parte di Becker di un inno latino dei secc. XI-XII, In nativitate Domini, ricollegabile alla stessa struttura metrica del Contrasto, aprono, infatti, la via ai riferimenti dotti. Lo stesso schema si ritroverà, con la quartina al posto del tristico di alessandrini, nel Liber balneorum e nel Regimen sanitatis napoletani, testi divulgativi, ma non giullareschi.
Tuttavia la tradizione che dipende dal Contrasto o che è a esso riferibile è sempre all'interno o ai margini del genere giullaresco, come documentano Sabatini e Coluccia, per i quali il Contrasto costituisce un modello di riferimento per un filone di lirica popolare meridionale che affiora pienamente nel tardo Trecento. L'obiezione potrebbe essere convincente se non fosse nota la facilità con cui temi e metri di origine 'alta' vengono spesso recepiti e diffusi a livello popolare. Alla fine del Trecento la tradizione manoscritta ci testimonia sul continente l'esistenza di forme poetiche e musicali, popolari e popolareggianti, appartenenti al genere 'contrasto', che ebbero grande fortuna particolarmente a Napoli. Si tratta delle cosiddette ciciliane, napolitane o calavresi (etichette che indicano genericamente la provenienza meridionale dei testi) che godettero di un prestigio ampio e duraturo difficilmente spiegabile con un'esportazione coeva del solo Contrasto dall'area siciliana, in quel tempo marginalizzata e in piena crisi politica e culturale. È ipotesi più credibile che l'esportazione del Contrasto nel continente venisse a rafforzare una tradizione di testi consimili per noi perduti per sempre.
Come ciciliana è rubricato il componimento Lèvati dalla mia porta, conservato dal Magliabechiano VII 1040 della Biblioteca Nazionale di Firenze, c. 55, che presenta la stessa fronte tristica del Contrasto di C., chiusa da un settenario unisonante invece che dal di-stico di endecasillabi baciati. Notevoli e innegabili coincidenze connettono questo testo al Contrasto cielino. Precisi riecheggiamenti verbali sono rintracciabili nei momenti tematici essenziali comuni ai due componimenti, in numero tale da poter escludere l'ipotesi riduttiva di semplici somiglianze topiche (Coluccia, 1975, p. 69). L'utilizzazione, infine, di lessemi di tradizione e registro letterario accanto agli ovvi meridionalismi fonetici, morfosintattici, lessicali connota la fattura non ingenua del testo e ci riporta al cosciente dualismo dei registri linguistici e situazionali di Rosa fresca aulentissima.
Il metro adoperato, certamente non lirico, risulta un unicum che rende bene il ritmo mosso e vario della petitio amoris nel distendersi dei tre alessandrini monorimi a cui seguono i due endecasillabi a rima baciata che racchiudono invariabilmente la battuta fulminante o il motto proverbiale. Il serrato duello verbale tra l'innamorato e la sua bella è segnato da una marca sintattica che è una delle costanti più tipiche del genere contrasto, ossia l'uso del periodo ipotetico a collegare le battute l'una all'altra attraverso la successione "proposizione-sua prospettata realizzazione-conseguenza" (Arveda, 1992, p. 3). Alla fine di ogni strofe, nella sede degli endecasillabi, viene proposto un nuovo motivo che trova risposta negli alessandrini immediatamente seguenti della strofa successiva e così via, secondo lo schema illustre delle coblas capfinidas, ma anche secondo un andamento teatrale di botta e risposta.
Non sembra impossibile, infatti, per la sua carica mimica da 'opera buffa', che il Contrasto potesse essere destinato a una messa in scena sulle piazze, secondo quanto proponeva De Bartholomaeis (1952); segni di oralità e recitazione sono stati rilevati al v. 112 "istrani' mi so', càrama, enfra esta bona jente", dove il corteggiatore allude agli ascoltatori con una formula giullaresca, bona jente, per indicare gli spettatori (cf. l'inizio dei Proverbia que dicuntur super natura feminarum); al v. 137 "lèvati suso e vatene", che presuppone che l'uomo sia inginocchiato; ai vv. 142 e 153, rispettivamente "Inanti prenni e scànnami, to' esto cortello novo" e "Sovr'esto libro jùroti mai non ti vengno meno", che sembrano implicare un gesto e la presenza di un oggetto. Non sappiamo se il mimo era o fingeva di essere destinato alla recitazione. Resta una straordinaria impressione di freschezza e genuinità che hanno attirato l'attenzione e favorito l'utilizzazione nel teatro contemporaneo da parte di un attore-regista-autore come Dario Fo (1997, pp. 5-23). Gli effetti scenici, comunque, sono tutti affidati alla parola, anche quando questa trova il suo complemento nel gesto melodrammatico o nell'oggetto di scena quale il coltello che viene esibito al momento opportuno per impressionare la donna di fronte all'ipotesi del suicidio o il Vangelo tirato fuori a sorpresa per consacrare con il giuramento la sua resa.
La lingua del Contrasto è fondamentalmente siciliana come attestano le numerose rime di é con i e di ó con u e i conguagli di e ed i finali atone in rima (ai vv. 21-22-23, 36-37-38, 89-90, 111-112-113, 121-122-123, 129-130, 151-152-153, 159-160), anche se con tratti genericamente meridionali come l'assimilazione di -ND- (vv. 9-10 monno-aritonno, v. 49 arenno, v. 51 arènneti, v. 67 adomànnimi, v. 70 comannamente, v. 114 canno, v. 150 prenni, vv. 156-157-158 incenno-difenno-arenno) in compresenza con forme prive di assimilazione; il betacismo iniziale e intervocalico (v. 3 bolontate, v. 16 boglio, v. 71 bale, v. 74 bolta, v. 89 bolio, v. 4 abento, v. 6 trabàgliati, v. 8 abere, v. 123 trobàrati) in compresenza con forme prive di betacismo; i dittonghi metafonetici (vv. 76-77 manganiello-castiello ma in rima con zitello); il plurale in -ora (v. 3 fòcora, v. 41 schiàntora); la formazione del condizionale dal piuccheperfetto indicativo latino (vv. 9, 30, 119 pòteri, v. 12 pèrdera, v. 23 toccara, v. 48 tagliàrami, v. 83 mòssera, v. 103 chiamàrano, v. 122 mìsera, coesistenti con forme come v. 7 potresti, v. 46 caderia, v. 102 anderia); il possessivo enclitico (v. 17 pàremo, v. 23 pàdreto, v. 71 vìtama, v. 104 càsata, v. 112 càrama), la cui occorrenza è probabilmente incrementata da necessità prosodiche. Non sono esclusivi del siciliano nemmeno il trattamento del nesso PL- (v. 60 chiù, v. 80 chiaci), così come le forme pronominali meve (vv. 6, 65 ecc.) e teve (vv. 44, 47) e le forme verbali este (vv. 3, 59, 90), aio (vv. 4, 51 ecc.), saccio, pozzo (v. 131). Tutto ciò a conferma della tesi continiana di "una mediazione (scritta) continentale o più d'una (troppo varia vi è l'estensione del betacismo e del dittongo), forse di Napoli o Roma, fra la Sicilia e Firenze" (Poeti del Duecento, 1960, p. 175). Questi tratti dialettali siciliani e meridionali sono stati conservati nella silloge vaticana più che in tutti gli altri testi, forse perché sono stati sentiti come valori espressivi e mimici intimamente integrati alla natura del testo. Secondo Monteverdi, infatti, le venature meridionali extrasiciliane sarebbero state ricercate e volute dall'autore per creare un dialetto fittizio in opposizione alla lingua letteraria siciliana aulica, una sorta di "sayagués" o "estilo pastoril" che Lucas Fernandez e Juan del Encina mettevano in bocca ai pastori nelle loro egloghe drammatiche nel teatro spagnolo del Cinquecento (Monteverdi, 1954, pp. 117-118) o come la lingua rustica portoghese, letterariamente stilizzata, delle opere teatrali di Gil Vicente, che non corrispondeva mai a una parlata precisa e territorialmente circoscritta, o ancora, per restare in Italia, come il mugellano dei poeti nenciali della cerchia di Lorenzo il Magnifico, che accoglie elementi estranei a quel dialetto (Folena, 1965, p. 330).
Ampio, tuttavia, il dibattito degli studiosi intorno alla localizzazione del Contrasto. Mentre Vigo (1871) rilevava nel testo la presenza di elementi linguistici pugliesi, seguito da Caix, D'Ovidio, pur riconoscendo un'origine sicuramente siciliana del componimento, vi coglieva un'impronta salernitana. Si deve, tuttavia, a Ugolini un'analisi sistematica dei tratti siciliani alla ricerca di una possibile localizzazione del testo che egli ritiene composto in un volgare siciliano sudorientale, puntando in particolare su Scicli, nel Ragusano, in base a un'argomentazione che si vale di elementi linguistici e contenutistici, come la menzione al v. 126 di s. Matteo, ritenuto dallo studioso santo patrono di Scicli. Da Pagliaro invece viene proposta una localizzazione messinese, soprattutto sulla base di una presunta regolarità dell'assimilazione del nesso -ND-, per ciò stesso non attribuibile alle vicende della trasmissione del testo, secondo la sua congettura avvenuta probabilmente oralmente attraverso l'opera di diffusione di giullari calabresi che, data l'affinità tra i due dialetti, non ne avrebbe sviato la fisionomia fondamentale. Ma secondo Rohlfs e Varvaro l'assimilazione non pare attestata nel siciliano antico e nessuna rima garantisce che -nn- non sia grafia di copisti della penisola né che, come afferma Ugolini, la conservazione di nd nei manoscritti antico-siciliani sia un fatto meramente grafico (1940, p. 170). In ogni caso è difficile, trattandosi di una koiné letteraria, rintracciare e definire in essa la fisionomia reale di un determinato volgare. Così come il marchigiano del Castra non aveva una rispondenza effettiva nella realtà in quanto era, e voleva essere, una parodia della realtà, anche il presunto 'pugliese', 'sciclitano', 'salernitano', o, più verosimilmente, 'siciliano' adoperato da C. dovette avere anch'esso un carattere fortemente fittizio. Si dovrebbe, pertanto, con maggiore cautela fare riferimento a una base linguistica largamente meridionale all'interno della quale si manifestano caratteri che rinviano non a un "pretto siciliano" (Bonfante, 1955, p. 259) ma a fenomeni che, in concorrenza con altri, potranno trovare maggiore o minore diffusione e affermazione nel costituirsi del dialetto siciliano.
Molto elevata la presenza di francesismi di tipo diverso (fonetici, morfologici, semantici) e secondo diversi gradi espressivi, più numerosi, in proporzione, dei provenzalismi che costellano, invece, la lirica siciliana aulica.
Proprio l'alto tasso dei gallicismi costituirebbe un ulteriore apporto alla tesi della sicilianità di fondo della lingua del Contrasto, essendo più consistente in Sicilia, rispetto alle altre aree meridionali, la presenza di tratti gallo-romanzi. Bonfante (1955), a completamento del repertorio delle occorrenze compilato da Rizzo Palma (1953), segnala ottantacinque francesismi. Monteverdi (1954, p. 175) li distingue in due gruppi: quelli che rientrano nell'uso letterario generale e si riscontrano anche nella lirica degli altri poeti della Scuola siciliana (come v. 2 pulzelle, v. 8 asembrare, v. 16 atalenti, v. 49 magione, v. 94 arimembrare, v. 130 disdotto, vv. 144 e 154 talento, v. 139 faglia, v. 140 baglia) e quelli specifici del Contrasto, che ostentano sfacciatamente il loro esotismo, spesso in posizione di risalto in rima (come v. 40 gueri, v. 51 col viso cleri, v. 52 mostero e confleri, v. 67 mare e mon peri, v. 158 minespreso). Questi ultimi vengono utilizzati, come rileva sempre Monteverdi (ibid.), nel sapiente gioco dei contrasti e scarti ricercati dal poeta tra elementi dialettali e letterari, nostrani ed esotici. Il corteggiatore al v. 51: "Se tu consore arènneti, donna col viso cleri" passa da un idiotismo di pronunzia (arènneti) al crudo francesismo (col viso cleri), così come la giovane al v. 67: "che tu vadi adomànnimi a mia mare e a mon peri" si eleva da un medesimo volgarismo (adomànnimi) a un esotismo della stessa specie (mon peri). Alle forme nobili e gallicizzanti con cui la donna indica suo padre, il corteggiatore al v. 23 intenzionalmente contrappone la forma di registro colloquiale pàdreto, quasi per abbassare di livello quel genitore che la figlia appella in modo ricercato.
Anche quella del Contrasto, in definitiva, seppure segnata da tracce vistose dell'origine locale in misura superiore rispetto alla lingua aulica e curiale degli altri Siciliani, è una lingua letteraria, largamente meridionale, 'siciliana' nel senso più ampio, dantesco, che ebbe già quest'aggettivo.
Il dualismo linguistico rispetto al siciliano illustre si riflette, come si è detto, nel dualismo stilistico di modi cortesi e di modi realistici o comici. È sufficiente confrontare il primo e il terzo verso del Contrasto per intendere immediatamente la strategia retorica adottata da C. per costruire il suo componimento. Si trapassa, infatti, dall'apostrofe di registro aulicheggiante ‒ sebbene non sprovvista di una carica anfibologica, messa in rilievo recentemente da Rea (2002), con la quale il personaggio maschile avvia il discorso seduttivo ‒ alla colloquialità della richiesta del terzo verso ("tragemi d'este focora, se t'este a bolontate"), non a caso segnalato da Dante come esempio di stile mediocre territorialmente limitato e marcato da tratti vernacolari. La metafora della rosa, ripresa al v. 13 nel sintagma rosa fresca de l'orto, con maggiore allusività al doppio senso erotico, rafforzato dall'accenno all'orto, che comporta l'inevitabile richiamo al biblico hortus deliciarum che, a sua volta, scoprirà più apertamente il gioco allusivo nel jardino dei vv. 83-85, ritorna al v. 44 come rosainvidïata 'desiderata', secondo il gioco della ripresa a distanza della metafora che percorre tutto il componimento. Nei vv. 83-85 ("di quaci non mi mòsera se non ai' de lo frutto, / lo quale stäo ne lo tuo jardino: / disïolo la sera e lo matino [non mi muoverò di qua se non otterrò quel frutto che sta nel tuo giardino: lo desidero dalla sera al mattino]"), anche se il frutto sostituisce la rosa, è palese il rinvio all'esordio di cui conferma l'allusività erotica che qui "finalmente rompe il velo di ogni reticenza e si impone sulla finzione cortese" (Rea, 2002, p. 621). La fonte della metafora che è ripresa anche nella risposta della donna stessa (vv. 86-88: "Di quel frutto non àbbero conti, né cabalieri, / molto lo disïarono marchesi e justizieri, / avere no' nde pòttero: gìro 'nde molto feri [Di quel frutto non ebbero conti né cavalieri, molto lo desiderarono marchesi e giudici, non lo poterono avere: se ne andarono molto adirati]"), è senza dubbio il Cantico dei Cantici, ma qui l'utilizzazione del luogo biblico è insieme indice di una degradazione del testo sacro e di un'ormai consolidata fruizione dei suoi simboli non solo nella lirica 'alta' dove il topos botanico secondo il quale il frutto sta per l'amore è diffusissimo, ma anche nell'ambito di un lessico triviale.
Nel novero delle metafore inclinanti sul versante cortese rientra, ad esempio, l'immagine dell'innamorato preso come pesce all'amo (v. 135: "sì m'ài preso como lo pesce a l'amo [così m'hai preso come il pesce all'amo]"), che Contini segnala in Percivalle Doria, Amor m'ha priso, v. 18: "Amor m'ha preso come il pesce a l'amo", nel Mare amoroso, vv. 6-10 e, con variante, in Dante da Maiano, Angelica figuraumile e piana, vv. 25-26: "Merzé ch'eo moro, lasso, / come pesce per lasso", ma presente anche in ambito antico francese e occitanico. Lo stesso motivo ricorre nei Proverbia, v. 736: "con lo qual prende li omini con' fa lo pese l'amo" (Concordanze della lingua poetica italiana delle origini, a cura di d'A.S. Avalle, Milano 1992, ms. S). Qual è la direzione della ripresa? È stato C. a utilizzare i Proverbia, o l'anonimo autore si rifà al Contrasto, forse ben conosciuto? Ogni ipotesi si rivela fragile perché le date finora proposte per il Contrasto sono vaghe (1231-1250) e anche il poemetto misogino è ancora in attesa di una cronologia precisa.
Sul versante realistico si colloca la vivace metafora marinaresca dei vv. 93-94: "Se vento è in proda e gìrasi e giungioti a le prai, / a rimembrare t'äo 'ste parole [Se il vento è verso prua e si gira (diviene favorevole) e ti raggiungo sulla spiaggia, / ti ricorderò queste parole]", a cui si può collegare l'adynaton del v. 7: "Lo mar potresti arompere, avanti a semenare [Potresti arare il mare, prima di seminare]". Dittologie sinonimiche di ambito cortese, ad esempio: al v. 12 "lo solaccio e 'l diporto", al v. 121 "donna cortese e fina", al v. 138 "di bon cor t'amo e fino"; formule liriche di sapore occitanico: al v. 51 "donna col viso cleri", al v. 55 "al meo dimino", al v. 64 "tanto cortese", al v. 115 "da quello jorno so' feruto" si alternano con frasi di tradizione idiomatica o proverbiali: al v. 10 "avanti li cavelli m'aritonno [piuttosto mi taglio i capelli, mi faccio suora]", ai vv. 31-32 "Molte sono le femine c'ànno dura la testa, / e l'omo com parabole l'adìmina e amonesta [Molte sono le femmine che hanno dura la testa e l'uomo con le parole le domina e ammonisce]", al v. 34 "Femina d'omo non si può tenere [Femmina non può fare a meno dell'uomo]", al v. 72 "ca de le tuo parabole fatto n'ò ponti e scale [delle tue parole non tengo alcun conto]", al v. 108 "bėllo mi soffero perdici la persone [non m'importerebbe che tu ci perdessi la vita]", al v. 143 "esto fatto far pòtesi inanti scalfi un uovo [questo fatto si può fare prima che tu cuocia un uovo]". Altra espressione di sapore proverbiale è quella al v. 73: "Penne penzasti mettere, sonti cadute l'ale [pensasti di avere le penne, ti sono cadute le ali]", tesa a sminuire la comica e inopportuna altezzosità della donna, forse con riferimento alla nota favoletta di Fedro, Graculus superbus et pavo, che si adatterebbe alla donna la quale ha cercato di spacciarsi come di alta estrazione, o anche al mito di Icaro. Proverbi e motti popolari che sembrano ammiccare a un pubblico aristocratico inseriti felicemente in un tessuto che non presenta smagliature, anche quando si verificano repentini cambiamenti come il passaggio dal plurale al singolare (vv. 31-34) o il brusco mutamento dei pronomi allocutivi. L'alternanza tra i due allocutivi nel distico di endecasillabi della prima strofe, ai vv. 4-5: "per te non ajo abento notte e dia, / pemzando pur di voi, madonna mia [a causa tua non trovo riposo notte e giorno, pensando solo a voi, madonna mia]", contrappone in posizione di contiguità i due usi. È probabile, come propone Arveda (1992, p. CIII), che il passaggio dal tu al voi avvenga per attrazione da parte dell'appellativo 'alto' madonna mia, un unicum nel testo. Si ha nuovamente alternanza ravvicinata ai vv. 157 e 158, alla fine del componimento, questa volta nella battuta femminile anch'essa improntata a un linguaggio di tipo cortese e con possibile attrazione nei confronti dell'apostrofe Meo sire. Lo stesso gioco di continua mescolanza dei due registri, aulico e popolareggiante, si trovava nel contrasto Domna, tant vos ai preiada, dove le strofe maschili, in occitano e di tono volutamente cortese, sono tutte col voi, mentre le battute femminili, in genovese e 'popolari', cominciano col voi ma si concludono nell'ultima strofa genovese e nella tornada con il tu.
Sempre al più volte citato contrasto bilingue di Raimbaut de Vaqueiras ci si può richiamare, con cautela, per il v. 92 ("bella, non dispregiàremi s'avanti non m'assai [bella, non disprezzarmi se prima non mi provi]"), in riferimento alla strofa di chiusura assegnata al trovatore: "Domna, en estraing cossire / m'avez mes et en esmai; / mas enqerạus preiarai / que voillaz q'eu vos essai, / si cum Provenzals o fai / qant es pojatz [Donna, in insolito affanno e pena m'avete messo; ma ancora vi pregherò che vogliate ch'io vi provi come un provenzale sa fare all'amore, quando è alla monta]" (trad. Brugnolo, 1983, p. 17). In ambedue i testi, infatti, l'uomo rivolge alla donna sdegnata la preghiera di arrivare a un 'assaggio'; è comune ai due componimenti il termine assai / essai, usato in accezione chiaramente oscena e in posizione 'forte', ossia in rima; l'epiteto esordiale, rispettivamente bella e domna, ha la stessa funzione semantica, anche se gli appellativi appartengono a registri diversi (Bianchini, 1996, pp. 79-81). Si presenta ricca e varia, infatti, la gamma delle allocuzioni nel Contrasto: amica bella (1), bella (4), càrama (3), donna (3), madonna (1), rosa (3), villana (1), vìtama (4). C. cambia continuamente tecnica di approccio misurando e alternando i registri: il vocativo rosa, sempre accompagnato da notazioni determinative (rosa fresca aulentissima, rosa fresca de l'orto, rosa jnvidïata), è omaggio galante; bella suona più confidenziale e scanzonato, sottolineando i momenti in cui l'amante cerca di imporsi alla donna (in particolare vv. 25, 35 e 92); donna, in un caso mia donna, e madonna fanno parte del linguaggio più tipicamente cortese. Di registro più basso vìtama, càrama e amica.
L'allusività erotica percorre tutto il Contrasto in parallelo con l'esplicitazione della natura e delle intenzioni del protagonista maschile. Numerosi sono i termini leggibili in chiave sessuale. Riguardo all'animella del v. 95 ("ca dentr'a 'sta animella assai mi dole! [che dentro questa animella assai mi duole]"), Antonelli (1993, pp. 55-57) ne segnala il doppio senso citando come supporto Avalle che, in sede seminariale, rimandava per l'uso ad "animula", conservata nell'iscrizione di un lupanare di Pompei: "Fortunate, animula dulcis. Perfututor scripsit qui novit" (Corpus Inscriptionum Latinarum, Suppl. IV, Berolini 1909, p. 518). Conseguente, secondo lo studioso, la risposta equivoca della donna nella strofa successiva, ai vv. 99-100 ("Non ti degnara porgere la mano / per quant'avere à 'l papa e lo soldano [Non mi degnerei di porgerti la mano, per quanto avere ha il Papa o il Soldano]"), e il relativo ammiccamento al pubblico. Anche arma, ai vv. 102, 145 e 155, potrebbe indicare ambiguamente il sesso maschile. Del resto, la risposta stessa della donna al v. 146 ("Ben sazzo, l'arma dòleti, com'omo ch'ave arsura [Ben lo so, l'anima ti duole come quando si è assetati]") sembrerebbe confermare il doppio senso, dal momento che paragona il dolore dell'innamorato al bisogno tutto fisico del bere (arsura indica l'aridità della gola provocata dalla sete o dalla febbre, una sensazione fisica, non un sentimento).
In questa serie di "pesanti, e peraltro sottili, e sistematici doppi sensi" (Antonelli, 1993, p. 53) rientrano anche tutti i termini relativi alle metafore guerresche come al v. 75 bolta sottana, al v. 76 manganiello, al v. 77 castiello. L'espressione bolta sottana, che ricorre nei Proverbia que dicuntur super natura feminarum, è annotata da Contini come 'atto sessuale' e quanto a manganiello, in coppia con castiello, metafora diffusa del sesso femminile, allude certamente al sesso maschile. Antonelli, come si è già ricordato, individua e indica precisi referenti letterari, ma i doppi sensi citati dovevano far parte della cultura dei personaggi che li usavano consapevolmente così come di quella del pubblico eterogeneo a cui il Contrasto è rivolto.
Anche il verbo aggiungere 'congiungersi' è unione prima di anime al v. 15 ("poniamo che s'ajunga il nostro amore [facciamo sì che il nostro amore si congiunga]") e infine, dichiaratamente, di corpi al v. 125: "con teco m'ajo aggiungere a peccare [con te mi congiungerò per peccare]" (Pasquini, 1970, p. 127), dove è interessante sottolineare la valutazione morale che si sovrappone al 'congiungersi'.
L'abilità tecnica e letteraria di C., come si è più volte sottolineato, consiste proprio nella capacità di gestire diversi sistemi culturali e giocare con diversi registri linguistici e stilistici simultaneamente.
La spiccia ellissi del v. 147 ("Esto fatto non pòtesi per null'altra misura [Questo fatto non si può fare in nessun altro modo]") si fronteggia con palesi riprese da liriche aulicheggianti, come avviene ai vv. 156-158: "Meo sire, poi juràstimi, eo tutta quanta incenno / sono a la tua presenzia, da voi non mi difenno [Mio sire, dal momento che hai giurato, io tutta quanta m'infiammo. / Sono in tua presenza, da voi non mi difendo]", che si collegano ai vv. 78-79 del discordo di Giacomino Pugliese, Donna, per vostro amore: "Tutto 'ncendo pur vegendo; / fina donna, a voi m'arendo". Sia C. che Giacomino procedono utilizzando gli stessi termini e gli stessi rimanti: "Tutto 'ncendo" richiama "eo tutta quanta incenno", "a voi m'arendo" è ripreso da "a voi m'arenno", "fine donna" trova il suo corrispettivo in "meo sire", e Giacomino per due volte nel discordo si rivolge alla donna chiamandola fiore de l'orto, una volta in rima con deporto, come nel Contrasto (Bianchini, 1996, pp. 121-122). Occorre tuttavia precisare che la recente scoperta in calce a un documento emanato tra il 1234 e il 1235 da Enrico VII, figlio di Federico II e re di Germania, della trascrizione delle prime quattro strofe della canzone Resplendiente stella de albur del poeta (Brunetti, 2000) sembrerebbe collocare parte della produzione di Giacomino al di là o almeno a ridosso del termine a quo del Contrasto, rendendo incerta la direzione delle riprese.
La variatio morfologica ai vv. 7 e 9 "lo mar potresti arompere" / "avere me non poteri" che sottolinea maliziosamente l'opposizione potresti / nonpoteri, il gioco tra i quasi omografi vv. 8 e 9 abere e avere, le iperboli del desiderio amoroso sembrano disegnare una danza di avvicinamento attraverso la schermaglia che intercorre tra la finta ritrosa e il dongiovanni da taverna (De Sanctis, 1955, p. 48) in una celebrazione "comica e iperbolica dell'istinto e del calcolo che si mescolano inestricabilmente nel giuoco d'Amore" (Folena, 1965, p. 335), una parodia dell'"Amor omnia vincit", officiato sul versante aulico della Scuola siciliana.
La parola è al centro del componimento di C. non solo, ovviamente, perché strumento della poesia, mezzo che attira e chiama in causa il lettore/ascoltatore, ma anche come esemplificazione della retorica applicata all'amore che quasi "traduce in una situazione pseudoindividuale la precettistica della richiesta d'amore" secondo i modelli di richieste amorose maschili e di dinieghi femminili proposti dal De amore di Andrea Cappellano e secondo quanto contempla la definizione di tencione, certo posteriore al Contrasto ma che ad esso si attaglia perfettamente, esposta nella Rettorica di Brunetto Latini: "uno amante chiamando merzé alla sua donna dice parole e ragioni molte, ed ella si difende in suo dire ed inforza le sue ragioni ed indebolisce quelle del pregatore" (Bruni, 1990, p. 265). Non solo nel Contrasto l'amante "dice parole e ragioni molte" e la donna "si difende in suo dire", ma i due personaggi sottolineano continuamente l'atto del parlare, con rilievi a carattere autodissacratorio grazie ai quali essi sembrano prendere le distanze dalla situazione "creando un gioco di prospettive di una modernità sorprendente" (Arveda, 1992, p. 4).
Accenni alla retorica amorosa e alla sua forza di persuasione sono sparsi per tutto il Contrasto. Il corteggiatore è pienamente convinto del potere della parola che può rendere docili le femine: "Molte sono le femine c'ànno dura la testa, / e l'omo com parabole l'adìmina e amonesta [Molte sono le femmine che hanno dura la testa e l'uomo con le parole le domina e ammonisce]" (vv. 31-32), dove va sottolineato l'uso del più concreto femina in luogo dell'aulicismo donna, e la ragazza prontamente ribatte "Aquìstati riposa, canzoneri, / le tue parole a me non piacion gueri [Datti pace, canterino, a me le tue parole non piacciono affatto]" (v. 40). Ancora al v. 72 ("ca de le tuo parabole fatto n'ò ponti e scale [delle tue parole non tengo alcun conto]") l'innamorato, stanco di tante promesse non mantenute, esprime la sua sfiducia nelle parabole della donna. La quale risponde mostrando tutto il di-sprezzo che si riserva a chi parla troppo e vanamente (v. 78: "prezzo le tuo parabole meno che d'un zitello [stimo le tue parole meno di quelle di un bambino]"); e ancora, al v. 94 risuona quasi minaccioso un avvertimento dell'uomo ("arimembrare t'ao este parole [ti ricorderò queste parole]"), mentre al v. 109 ("ca meve se' venuto a sormonare [poiché mi sei venuto ad abbindolare con le tue parole]") la donna prende le distanze dall'intero discorso del corteggiatore, ossia dal dispiegamento degli argomenti amorosi messi in opera dal pretendente nella petitio. Sempre alle parabole fa riferimento la scandalizzata reazione femminile del v. 128: "e cotale parabole non udi' dire anch'eo [finora non udii mai tali parole]") all'esplicita e spregiudicata proposta dell'uomo:"con teco m'aio agiungiere a pecare [con te mi congiungerò per peccare]" (v. 125).
Anche nella strofe conclusiva la resa della donna è subordinata ancora una volta alla 'parola', quella del giuramento richiesto ai vv. 147-148: "Esto fatto nom pòtessi per null'altra misura: / se non à' le Vangielie, che mo' ti dico: iura [questo fatto non si può fare in nessun altro modo, se non hai il Vangelo affinché io ti dico 'Giura']", dopo il quale finalmente parola e azione diventano tutt'uno (vv. 156 e 159: "Meo sire, poi iuràstimi, eo tutta quanta incienno […] A lȯlletto ne gimo a la bon'ora [mio signore, poiché hai giurato, io tutta quanta m'infiammo [...] Andiamocene a letto finalmente]").
Fonti e Bibl.: la prima stampa del Contrasto è in L. Allacci, Poeti antichi raccolti da codici manoscritti della Biblioteca Vaticana e Barberina, Napoli 1661, pp. 287, 408-416. Fondamentali le edizioni a cura di A. D'Ancona, Il Contrasto di Cielo dal Camo, in Studj sulla letteratura italiana de' primi secoli, Milano 18912, pp. 241-460; F. D'Ovidio, Il contrasto di Cielo Dalcamo, in appendice a Id., Versificazione italiana e arte poetica medioevale, ivi 1910 (poi in Id., Opere, IX, Napoli 1932, pp. 169-335); tra le più recenti: A. Pagliaro, Poesia giullaresca e poesia popolare, Bari 1958, pp. 193-232; Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, I, Milano-Napoli 1960, pp. 173-185; B. Panvini, Le Rime della Scuola siciliana, I, Firenze 1962, pp. 169-176; F. Jensen, The Poetry of the Sicilian School, New York-London 1986, pp. 136-147, 237-246; G. 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