CIELO (lat. caelum [meno buona la grafia coelum]; fr. ciel; sp. cielo; ted. Himmel; ingl. sky)
Il cielo appare come una cupola azzurra appiattita, la cui base circolare riposi sull'orizzonte. Ci sembra così schiacciata che, se dividiamo a occhio in due parti uguali un arco verticale tra lo zenit e l'orizzonte, il punto medio è, in generale, a un' altezza angolare di circa 22°; invece di 45°, come sarebbe se la vòlta celeste apparisse emisferica. Nella fig.1, in cui HH rappresenta l'orizzonte, O l'osservatore e Z lo zenit, sono indicati i valori medî delle altezze stimate e le corrispondenti altezze vere. Questa illusione ottica deriva in parte dal fatto che noi apprezziamo differentemente le distanze sconosciute, secondo che la visuale è diretta orizzontalmente, o verso l'alto, o verso il basso. La forma della vòlta celeste non ci appare sempre la stessa con cielo sereno o coperto, di giorno o di notte, guardandola stando in piedi o sdraiati, trovandoci in pianura, in montagna o in navigazione. Questa apparenza spiega perché stimiamo esageratamente la quantità di cielo coperto da nubi, l'altezza di un monte, perché un alone con sole basso sembra ellittico, anziché circolare. Volgendo lo sguardo al cielo, dopo aver fissato per un momento il Sole, l'immagine complementare sembra più grande in vicinanza dell'orizzonte che guardando verso l'alto.
L'azzurro del cielo. - Il cielo senza nubi è in generale azzurro più carico nelle regioni zenitali, più sbiancato in basso, specialmente verso l'orizzonte. Da grandi altitudini l'azzurro del cielo appare più intenso e più scuro, tendente al violetto. Durante il crepuscolo (v.) alcune parti del cielo a oriente e a occidente assumono colori diversi, indaco, verde chiaro, giallo, aranciato, talvolta rosso, secondo le condizioni di umidità e il pulviscolo atmosferico.
Poiché di notte il cielo si oscura, non è certamente sorgente primaria di luce. Questa non può provenire che da una tenuissima materia, la quale, ricevendo i raggi solari, li rimandi in varie direzioni. Tale idea rimonta a Leonardo da Vinci, precursore anche in questo campo; ma, a parte la questione di sapere quale sia la tenuissima materia, si presenta un'obiezione. Come mai l'azzurro, mentre la Luna, i pianeti, le nuvole e lo stesso pulviscolo atmosferico rimandano tutti bianca la luce del Sole?
A complicare il problema, venne nel 1811 la scoperta fatta da Arago, che la luce del cielo sereno è parzialmente polarizzata.
Il problema entrò nella fase risolutiva con le celebri esperienze eseguite nel 1869 dal Tyndall, il quale prese a studiare in laboratorio il fenomeno, molto frequente, che porta il suo nome, e che consiste nella diffusione della luce da parte di piccolissimi corpi; va ricordato anche il Brücke, per qualche lavoro precedente. Per rendersi conto di ciò che è essenziale nel fenomeno, si può eseguire un'esperienza semplicissima. Un fascio di luce bianca traversi in una camera buia un tubo di vetro, ove si trova una soluzione diluita d'iposolfito sodico. Se la soluzione è limpida e trasparente, i raggi passano indisturbati e guardando lateralmente non si vede nulla. Versiamo ora un po' di acido per far precipitare finissime particelle di zolfo: la soluzione s'intorbida e diffonde la luce in tutti i sensi. Osservando in direzione normale al tubo, cioè ai raggi primarî, la luce appare azzurra e polarizzata. Trascorso un po' di tempo, quando le particelle di zolfo sono divenute più grosse, si ha ancora la diffusione di luce, ma cessa la colorazione azzurra e cessa la polarizzazione; è il caso banale del pulviscolo illuminato dai raggi solari. La teoria matematica della diffusione, come diffrazione su piccolissimi ostacoli, svolta due anni dopo (1871) da J. W. Strutt (Lord Rayleigh), stabilì l'importante legge che l'intensità della luce diffusa, a parità di altre condizioni, è inversamente proporzionale alla quarta potenza λ4 della lunghezza d'onda λ. Di qui la spiegazione della colorazione.
Restava a sapere quali fossero le particelle che operano la diffusione. Si dovette rinunziare a pensare al pulviscolo atmosferico o a ipotetiche goccioline minutissime di acqua sospese nell'aria, se non altro, per il fatto che l'azzurro è tanto più limpido e la polarizzazione è tanto più accentuata, quanto più si sale sui monti, ove l'aria è più libera dal pulviscolo, e quanto più il tempo è asciutto. Procedendo per esclusione, lord Rayleigh, accettando un suggerimento del Maxwell, si fermò sull'ipotesi che le particelle diffondenti fossero proprio le molecole dell'aria, che cioè si trattasse di diffusione "molecolare" della luce e su questa base stabilì nel 1899 la teoria matematica.
Occorre ricordare qui che il Tyndall nelle sue esperienze, per ottenere anche con aeriformi un cielo artificiale azzurro e polarizzato, aveva operato in modo che si formassero, per condensazione o per mezzo di reazioni chimiche, minutissime particelle solide o liquide, sospese agli aeriformi; e che, nell'aria filtrata, non aveva constatato nulla. Ma il Rayleigh non si lasciò sgomentare da questo precedente, e ammise che la diffusione della luce da parte delle singole molecole sia troppo piccola per riuscire osservabile sopra un piccolo numero e diventi cospicua operata su larga scala, nell'atmosfera. E l'accordo fra i calcoli e le misure fotometriche dell'azzurro del cielo gli diede ragione. Una conferma più diretta si ebbe nel 1915, quando Cabannes e Fabry, in condizioni sperimentali particolarmente felici, riuscirono a constatare l'effetto Tyndall-Rayleigh nei gas puri (v. J. Cabannes, op. cit. in bibl.).
Vediamo come si ottiene, mediante la teoria elettromagnetica, la legge della potenza λ4 e la spiegazione schematica della polarizzazione. Secondo le vedute moderne, ogni atomo contiene un certo numero di "elettroni", corpuscoli elettrici negativi; contiene pure un "nucleo" positivo, ma di esso non si tiene conto perché ha un'inerzia molto maggiore, la quale non gli permette di prendere parte attiva alle vibrazioni di cui ci occuperemo. L'ordine di grandezza d'una molecola è 3.10-8 cm., mentre λ per la luce visibile è in media 6.10-5 cm., cosicché il diametro d'una molecola è 2000 volte più piccolo di λ. Ciò significa che tutti gli elettroni di una stessa molecola si possono praticamente considerare come situati in un punto unico dell'onda luminosa.
Cominciamo con un solo elettrone E. Sia L la sorgente primaria di luce, p. es. un punto del Sole. L'elettrone, investito da un raggio monocromatico LE, cioè da un'onda elettromagnetica di frequenza
si mette a vibrare con la stessa frequenza, obbedendo alle sollecitazioni del campo elettrico dell'onda, onde lo spostamento s dalla posizione di equilibrio e l'accelerazione a saranno dati, in funzione del tempo t, da
Si noti la proporzionalità fra a e ν2. L'elettrone E diviene sorgente secondaria di luce, cioè genera onde elettromagnetiche. Il campo elettrico è proporzionale all'accelerazione da cui esso trae la sua origine, quindi a ν2; e poiché l'intensità luminosa è proporzionale al quadrato del campo elettrico, si vede che essa è proporzionale a ν2, ossia, per la (1), è inversamente proporzionale a λ4. Ciò posto consideriamo il vettore di Poynting, il quale è diretto secondo il raggio luminoso e ha per modulo, quando il campo elettrico h e il campo magnetico H dell'onda sono ortogonali fra loro (e ortogonali al raggio),
Il valor medio (nel tempo) Ò può essere assunto come misura dell'intensità luminosa.
Indichiamo con O il punto dove sta l'osservatore e scomponiamo il raggio eccitante LE, che investe l'elettrone E, in due: raggio 1 con oscillazioni elettriche normali al piano LEO e raggio 2 con oscillazioni (ancora normali al raggio eccitante, ma) nel piano LEO. Siccome h varia con legge del tipo h = h0 cos 2πνt, il valor medio di R1 = (c/4 π) h02 cos2 2νπt, in quanto la media di sen2 o cos2 durante un periodo è 1/2, risulta Ò1 = ch02/8π. Lo stesso valore avrà Ò2, perché nella luce "naturale" come è quella del Sole, le intensità dei raggi componenti devono risultare eguali. Sommandole si ha l'intensità totale del raggio primario
Veniamo ora al raggio secondario EO. La proporzionalità su ricordata fra l'accelerazione dell'elettrone E e il campo dell'onda generata è espressa dalla formula di elettrodinamica
dove r = EO, e = carica elettronica, e l'indice n sta a indicare che dell'accelerazione a va presa la componente normale al raggio EO.
Il campo eccitante 1 provoca un'accelerazione nella stessa direzione 1; intendendo con s spostamenti nella detta direzione, avremo per (2), (4), (6)
e come media nel tempo
Il campo eccitante 2 produce a sua volta un'accelerazione nella direzione 2; intendendo questa volta con s spostamenti in detta direzione e ponendo ϕ = LEO, avremo
In virtù dell'osservazione fatta sopra, sulla piccolezza della molecola, tutti gli altri elettroni che appartengono a essa vibreranno in sincronismo. Al posto di an nella (6), dovremo sostituire Σan = − 4πν2 (Σs0) • cos 2πνt, cosicché per rappresentare l'azione di una molecola basterà che in (71), (72) al posto di s0 si metta Σs0; ovvero al posto di es0 si metta Σe s0.
Per passare poi dall'azione di una molecola all'azione complessiva di tutto un volume, osserviamo che le distanze molecolari alla pressione ordinaria sono paragonabili alla lunghezza d'onda e diventano ancora maggiori nelle alte regioni dell'atmosfera, ove la pressione è minore; quindi gli elettroni delle diverse molecole si trovano in punti diversi dell'onda e non vibrano in sincronismo. Le molecole si dovranno considerare come sorgenti di luce staccate e si dovranno sommare le loro intensità. Indicando con n l'affollamento, cioè il numero di molecole contenute in 1 cmc., l'azione di questo volume si otterrà dunque sostituendo nelle (71), (72) al posto di (e s0)2 l'espressione n (Σ e s0)2.
La sommatoria si può calcolare facilmente, in base al suo significato fisico. Se si applica ad un gas un campo elettrostatico h0, il gas si comporta come un dielettrico di costante k = 1 * 4πχ e presenta una polarizzazione di intensità χh0 = (k − 1) h0/4π. Essa è dovuta allo spostamento che hanno subito i corpuscoli elettrici, ed è appunto misurata dal momento elettrico che si viene cosi a produrre; momento che è Σ es0 per una molecola, n Σ es0 per il volume 1. Si ha dunque
da cui
Il campo h0 si può eliminare mediante la (5); quanto alla costante dielettrica k, si può ritenere qui valida la relazione di Maxwell k = μ2, che la collega all'indice di rifrazione μ, cosicché si ha
Questa è l'espressione che deve essere messa in (71), (72) al posto di (e s0)2, per avere le intensità parziali dovute alla luce diffusa da 1 cmc. Si ottiene cosi, tenendo conto della (1),
La somma dà l'intensità totale della luce diffusa, a prescindere dallo stato di polarizzazione,
L'affollamento n si può esprimere mediante il numero di Avogadro N, che ha un significato universale, giacché indica quante molecole contiene i grammo-molecola di qualsiasi sostanza. Sviluppando ancora i calcoli, per passare dalla luce diffusa da 1 cmc. all'azione integrale lungo tutto un raggio E O diretto dall'atmosfera all'osservatore, si giunge appunto a una formula che collega N con l'intensità della luce del cielo. Misurando questa (fra gli altri, se ne è occupato in Italia il Pacini), si può determinare il numero di Avogadro N e confrontare con i valori ottenuti per altre vie. Tenuto conto di varie circostanze, la verifica si può considerare come oltremodo soddisfacente; così l'azzurro del cielo viene a costituire una delle più belle prove dell'esistenza delle molecole, cioè della discontinuità della materia.
Il confronto fra (81), (82) dà immediatamente ragione della polarizzazione, ove si osservi che le intensità componenti Òs,1, i, Òs,2 non sono uguali, ma differiscono per il fattore cos2 ϕ.
L'intensità maggiore spetta ad Òs,1, formata da vibrazioni le quali si compiono normalmente al piano LEO che passa per il Sole L e per la visuale OE secondo cui si guarda il cielo. Quando l'angolo ϕ è 90°, la componente Òs,2 si annulla del tutto e rimane solo la Òs,1 ciò significherebbe che la luce del cielo, osservata in direzione normale ai raggi solari, è completamente polarizzata. Questa conclusione però è verificata solo in parte dall'esperienza; infatti guardando a 90° dai raggi solari si constata, è vero, la massima polarizzazione, ma essa non è completa, cioè Òs,2 non si annulla. Inoltre, dirigendo la visuale verso le regioni del cielo vicinissime al Sole (ϕ ≅ 0), si dovrebbe avere Òs,1 = Òs,2, e però la luce del cielo non dovrebbe apparire polarizzata; si constata invece che in piccola parte è ancora polarizzata. Per contrapposto, sono stati trovati nel cielo, e precisamente lungo il piano verticale passante per il Sole, tre punti in cui manca la polarizzazione. Essi sono: il punto neutro di Arago ϕ ≅ 160°; il punto neutro di Babinet ϕ ≅ 20°, e il punto neutro di Brewster ϕ ≅ − 20°, quest'ultimo difficile a osservarsi. Le distanze angolari indicate non sono costanti, ma possono variare dentro un ambito di 5° o più, e di pari passo varia tutto lo stato di polarizzazione. Le variazioni possono essere regolari, seco1ido l'altezza del Sole, le macchie solari ecc., o irregolari in corrispondenza di fenomeni astronomici o terrestri eccezionali. Così, in seguito ad un'eruzione (Kitmaï, vulcano dell'Alaska, 1912) in cui vennero lanciate in abbondanza tenuissime polveri, si constatò che diminuiva la percentuale di luce polarizzata e nel medesimo tempo variava la posizione dei punti neutri. Durante l'eclisse totale del 1905 fu constatato (Piltschikoff) che nel piano verticale passante per il Sole, per ϕ = 90° (dove si ha di solito la massima polarizzazione), questa veniva del tutto a cessare durante l'eclisse.
Tutto induce a ritenere che la diffusione molecolare della luce, secondo l'impostazione matematica riportata sopra, resti la base per spiegare l'azzurro del cielo e la sua polarizzazione, ma che ad essa si sovrappongano altri fattori i quali complicano il fenomeno. Si può pensare a una diffusione secondaria (Soret), in quanto la luce diffratta da una prima molecola può colpirne una seconda; ovvero a una specie di riflessione (Exner) se la luce diffratta, invece d'una molecola incontra particelle più grosse.
La conoscenza completa del fenomeno si potrà avere solo quando sarà meglio conosciuta l'atmosfera, la quale presenta parecchie incognite nella propagazione delle onde Hertziane e dei suoni, nelle zone di silenzio, ecc.; non v'ha dubbio d'altra parte che allorché questo ulteriore passo sarà compiuto, l'umanità avrà un mezzo di più per seguire e prevedere quei fenomeni meteorologici e aereologici, che hanno un interesse pratico notevole per la navigazione aerea, le comunicazioni radiotelegrafiche e l'agricoltura.
Bibl.: Lord Rayleigh (Strutt), in Philosophical Magazine, 1871, 1881, 1899; G. Zettwach, Ricerche sul bleu del cielo, Spoleto 1901; D. Pacini, Il blu del cielo e la costante di Avogadro, in R. Uff. centrale di meteor. e geod., XXXVI (1915); J. Cabannes, La diffusion moléculaire de la lumière, Parigi 1929.
Le carte celesti. - Sono le rappresentazioni cartografiche del cielo stellato su di una superficie piana, in cui i segni individuanti i singoli oggetti celesti sono accompagnati da figure rappresentative delle costellazioni, o dalla rappresentazione, secondo i diversi sistemi di proiezione, dei meridiani e paralleli, in guisa che sia possibile rilevare le coordinate stellari. Fino a poco fa tutte le carte celesti erano ottenute, segnando le immagini delle singole stelle nella posizione corrispondente alle loro coordinate; ora, quando si tratta di carte celesti corrispondenti a porzioni ristrette della vòlta celeste, si fa uso delle immagini ottenute con la fotografia. Esempî bellissimi di carte celesti si hanno, oltre che nelle collezioni citate alla voce atlante celeste, nelle 24 carte edite dalla Akademie der Wissenchaften di Berlino, nelle cartes écliptiques dell'Osservatorio di Parigi, nelle carte fotografiche del cielo australe edite dall'Osservatorio del Capo (v. sotto).
Bibl.: J. W. Woolgar, Descriptive list of ancient and modern celestial maps from careful examination, Lewes 1848.
La fotografia del cielo. - Già il Daguerre tentò fotografie di oggetti celesti; nel 1851 alla sua lastra d'argento subentra quella di vetro a pellicola di collodio; nel 1857 l'americano Bond con un obiettivo comune fotografa Alcor e Mizar (stelle visibili ad occhio nudo); nel 1860 il p. Secchi ottiene immagini fotografiche delle protuberanze solari; nel 1865 il fisico americano Rutherfurd costruisce lenti acromatiche per i raggi chimici che impressionano la lastra e fotografa stelle di 9ª grandezza.
Sin qui l'infanzia del metodo: la storia della fotografia celeste comincia con la scoperta dell'emulsione secca al bromuro d'argento (Maddox, 1871), tanto superiore per sensibilità, per gli stiramenti minimi, per la possibilità di conservazione. Ai rapidi progressi della tecnica fotografica, corroborati da quelli della tecnica ottica e spettroscopica, corrispose un'applicazione sempre più vasta e precisa della fotografia celeste. I suoi servigi, se sono indispensabili nel campo astrofisico, sono non meno apprezzabilí nel campo astrometrico, cioè delle determinazioni di posizionì celesti. Evidenti sono i vantaggi dei metodi fotografici su quelli visuali nelle osservazioni astronomiche: la lastra, sia di una plaga di cielo, sia della superficie lunare, sia di uno spettro stellare, è un documento che resta, immune da errori soggettivi; se non da quelli di natura fisica (stiramenti o difetti di emulsione) e strumentali, comuni questi ultimi alle osservazioni visuali, documenti che si possono studiare quando e dove si voglia. L'emulsione fotografica, usata con mezzi ottici adeguati, può notevolmente superare la capacità visiva dell'occhio, parimenti armato, essa inoltre presenta - caratteristica fondamentale - una sensibilità diversa da quella dell'occhio, rispetto ai colori: questo è più sensibile val giallo e al rosso, la gelatina comune è più sensibile al blu e al violetto e riesce pertanto di prezioso ausilio alla visione umana; oggetti emananti radiazioni invisibili per noi furono scoperti così fotograficamente (per es., la nebulosa America dal Wolf). L'osservazione visuale non può fermarsi che su di un oggetto o su di un particolare per volta; la lastra ne fissa nello stesso tempo anche in numero enorme, con risparmio incalcolabile di tempo; la visione umana non s'avvantaggia, anzi si esaurisce con la durata dell'attenzione; l'impressione fotografica s'intensifica con la posa: l'integrazione della luce col tempo accresce la penetrazione del cannocchiale fotografico Senza confronto poi la fotografia supera qualsiasi abilità di disegnatore nel ritrarre, ad esempio, particolari della superficie lunare o aspetti di comete e nebulose. Brevi ore permettono di raccogliere un materiale fotografico, da utilizzarsi poi indipendentemente dalle condizioni atmosferiche, quale richiederebbe molte notti di osservazioni dirette. Per contrapposto la fotografia celeste è più esigente in fatto di trasparenza e tranquillità dell'aria: se anche le osservazioni visuali sono danneggiate dalle rapide variazioni di equilibrio termico e dall'intermittente intorbidarsi dell'atmosfera, l'occhio dell'astronomo riesce per lo più a cogliere le posizioni medie e gli aspetti migliori fra l'oscillazione e il cambiare delle immagini e sospende il lavoro negl'intervalli più sfavorevoli, mentre la gelatina sensibile tutto registra con danno della precisione e della nitidezza. Comune ai due metodi la necessità dell'acromatismo del sistema ottico, diversa solo la regione dello spettro in cui l'acromatismo è richiesto.
Vediamo ora partitamente le applicazioni, gli strumenti, le conquiste della fotografia celeste, accennando prima al campo astrofisico poi a quello astrometrico, e non mancando di notare che anche nel primo si richiedono spesso misure di grande precisione.
Il Sole fu il primo degli oggetti celesti fotografato, per il quale occorre in generale ridurre l'eccesso di luce. Lo studio fotografico del Sole (fatto ad es. a Monte Wilson, a Meudon e, in Italia, ad Arcetri e Catania) comprende quello ordinario dei particolari e dei fenomeni visibili e quello spettroscopico, l'analisi cioè della sua luce mediante la fotografia del suo spettro; tanto le fotografie ordinarie quanto quelle spettrali si estendono anche oltre il disco apparente del Sole, nei dintorni del suo bordo per le ricerche relative alle protuberanze e alla corona. Alla difficoltà proveniente dall'enorme luce si ovvia negli eliografi (come sono chiamati gli strumenti di fotografia solare) riducendola con varî accorgimenti e con pose brevissime, al di sotto del millesimo di secondo, mediante otturatori rapidissimi a fessura; alla difficoltà di studiare ad es. la corona, prima accessibile all'osservazione solo nei brevi istanti d'eclisse totale, si è ovviato fotografando con la luce di una sola linea dello spettro (p. es. l'H e la K del calcio), il che permette, non solo l'osservazione della corona in qualsiasi momento, ma lo studio più approfondito di tutta la superficie solare. Per arrivare a tanto occorrevano: un mezzo ottico di grande dispersione, artifici meccanici per isolare, nell'ampio spettro così ottenuto, la linea voluta, e infine lastre sensibili alla luce prescelta. La dispersione si ottenne con combinazioni di prismi o di reticoli del Rowland, l'isolamento con fessure opportunamente disposte; d'altro lato si seppero preparare le lastre sensibili p. es. anche al rosso delle linee H e K. Nacque così, per suggerimento del Janssen e per opera dello Hale (1889) lo spettroeliografo. Siffatti strumenti si modificarono e si perfezionarono in varî tipi: se ne hanno ora di montati orizzontalmente (Monte Wilson e Meudon) e verticalmente (Monte Wilson e Arcetri), detti allora torri solari (fig. 2). In tutti questi studî l'immagine del Sole è costantemente diretta secondo l'asse ottico dell'eliografo o dello spettroeliografo da un conveniente sistema mobile di specchi, detto eliostato o celostato (v.).
Analoghi sistemi dispersivi fotografici - gli spettrografi - sono usati con immenso profitto nello studio spettroscopico stellare, di cui diremo più oltre. Di pari passo si andrà perfezionando la speciale tecnica fotografica, la quale, con filtri di luce ed emulsioni adatte e sempre più rapide permette di fotografare con i raggi di ogni regione dello spettro, anche dell'estremo rosso, quasi invisibili all'occhio.
Per la fotografia lunare si richiedono pose assai più lunghe strumenti di distanza focale piuttosto lunga e schermi gialli. Anche per la Luna è notevole la differenza fra la visione diretta e la sensibilità della lastra, talché spesso la fotografia rende particolari che sfuggono all'occhio e aspetti di luce e d'ombra diversi da quelli che appaiono all'occhio. Grande l'economia di tempo che nello studio della superficie lunare ha portato la fotografia: J. F. Schmidt impiegò 34 anni a disegnare il suo atlante lunare di 25 carte, ognuna delle quali si può ora, in buone condizioni, ottenere con un secondo di posa. Bellissime carte fotografiche lunari sono quelle degli osservatorî di Lick e di Parigi.
Difficile e non molto redditizia la fotografia delle superficie planetarie, che richiede forti ingrandimenti, incompatibili con la fermezza e nitidezza dell'immagine; l'osservazione visuale non è ancora sostituibile.
Le fotografie lunari e planetarie s'avvantaggiano molto da processi di rinforzo e d'ingrandimento. Da pose con bastevole ingrandimento si sono potute determinare con precisione le posizioni di satelliti relativamente al loro pianeta; e si è ricorso alla registrazione fotografica (ed anche cinematografica) delle eclissi, collegata con quella precisa degl'istanti e alla registrazione analoga delle occultazioni di stelle dietro la Luna.
Tornando al campo astrofisico puro, dobbiamo segnalare le applicazioni fotografiche della spettroscopia e della fotometria stellare. Già si è accennato all'uso degli spettografi: la messe di risultati che essi forniscono è imponente per quantità, varietà e importanza; dalle fotografie, fatte direttamente o su schermi fosforescenti, di spettri individuali di stelle o di gruppi di spettri, si deducono le proprietà fisiche caratteristiche di temperatura, di composizione chimica, d'intensità di radiazione secondo le varie lunghezze d'onda, si possono trarre conclusioni circa lo stadio evolutivo stellare, lo stato atomico alla superficie delle stelle e in taluni casi dedurre lo splendore assoluto delle stelle stesse e quindi la loro distanza (paragonandolo con quello apparente), in altri casi un criterio rivelatore delle loro variabilità. Dallo spostamento delle linee spettrali (che richiede misurazioni delicate dello spettro fotografato) per il fenomeno Doppler si deducono inoltre le velocità di avvicinamento o di allontanamento rispetto alla Terra (velocità radiali) delle stelle, la velocità di rotazione del Sole e di qualche pianeta e di rivoluzione delle binarie spettroscopiche. Molte di queste ricerche e di questi risultati sono possibili anche per le nebulose, le stelle nuove e le comete. Lavori di spettroscopia siderale si compiono in Italia a Merate e a Teramo. Gran parte del materiale su cui si fondano le conoscenze fisiche delle singole stelle e del mondo siderale e da cui derivano le conquiste veramente meravigliose in questo campo è dovuto alla fotografia spettrale. Importantissimo pure il contributo reso dalla fotografia alla fotometria: dai piccoli dischi neri che la luce delle stelle imprime sulla gelatina d'una lastra è possibile, o misurandone il diametro o misurandone fotometricamente l'opacità, dedurre lo splendore o grandezza apparente delle stelle; è evidente che il metodo fotografico debba essere immensamente più redditizio di quello visuale di stima o di misura con i varî fotometri. Data però la più volte ricordata diversa sensibilità dell'emulsione al bromuro rispetto ai raggi delle varie regioni dello spettro in confronto all'occhio, le misure fotometriche fatte con i due metodi differiranno necessariamente: sulla lastra comune appariranno più luminose che all'occhio le stelle bluastre, meno luminose quelle gialle e rosse.
La differenza che si ottiene sottraendo dalla grandezza fotografica quella visuale si chiama indice di colore ed è un dato prezioso, dal quale risultano la definizione scientifica del colore della stella e la stima della sua temperatura superficiale. È da notare poi - perché si tratta di un'altra applicazione della fotografia - che anche le grandezze visuali si possono ottenere automaticamente con pose fotografiche mediante filtri colorati ed emulsioni adatte e si chiamano allora grandezze foto-visuali.
La fotografia spettrale e fotometrica, impiegata su vasta scala, e utilizzata anche con i cerchi meridiani, ha permesso la classificazione spettrale e fotometrica di centinaia di migliaia di stelle, come nei cataloghi fotometrici di Potsdam e di Greenwich e ancor più nel Draper Catalogue di Harvard, che dà l'indicazione spettrale e le grandezze fotografiche e fotovisuali di oltre 225 mila stelle, sino alla 11ª grandezza. La fotografia serve anche alla scoperta e allo studio delle variabili, non solo fornendo in pose successive, distanziate in tempo a seconda del periodo supposto o noto della variazione di luce delle stelle, serie di immagini da misurarsi fotometricamente, ma ancora secondo altri metodi e criterî. Migliaia di variabili a lungo periodo, ad es., sono state scoperte da Harvard con sole due pose distanziate; giustapponendo le due lastre, positiva l'una e negativa l'altra, gelatina contro gelatina, le immagini così sovrapposte che presentavano certe evidenti differenze di aspetto dall'uniformità della maggioranza, rivelavano il carattere di variabilità delle corrispondenti stelle. Così la presenza di certi raggi brillanti negli spettri fotografati costituisce un altro indizio quasi sicuro di variabilità a lungo periodo.
Sin qui le applicazioni prevalentemente astrofisiche; non meno vaste e feconde quelle astrometriche, che potrebbero riassumersi nella rappresentazione fotografica e nel rilievo, mediante misure, del cielo stellato e del mondo nebulare.
Lo strumento principale destinato a questi scopi è il refrattore fotografico, che è in generale un vero e proprio strumento di misura dell'astrofotografia, che può sostituire gli equatoriali visuali muniti di micrometro, gli eliometri della vecchia astronomia e financo parecchi, se non i maggiori, circoli meridiani, strumenti classici dell'astrometria. La caratteristica essenziale del refrattore fotografico, oltre che nella cassetta per la lastra al posto dell'oculare, sta nel sistema ottico speciale, appropriato alla fotografia ed acromatico per i raggi chimici, e nel cannocchiale visuale accoppiato, con l'asse ottico parallelo a quello fotografico. Esso permette, mediante puntata alla stella corrispondente al centro della lastra, di attendere, visualmente, alla sorveglianza e rettifica continua del movimento di orologeria dello strumento durante la posa, allo scopo che esso segua fedelmente il moto diurno, cosicché i raggi delle immagini stellari incidano sempre negli stessi punti della lastra e perciò risultino puntiformi le corrispondenti immagini fotografiche. Nei migliori di tali strumenti due cannocchiali fotografici sono accoppiati per avere un controllo dei particolari dal confronto delle due corrispondenti lastre gemelle. Il rapporto medio fra apertura e distanza focale degli obbiettivi fotografici celesti è intorno a 1/10, mentre per quelli visuali è fra 1/15 e 1/20. Quando però si tratti di fotografare plaghe vaste con una sola lastra, tale rapporto non si presta più; in tal caso erano prima usati obiettivi fotografici normali di rapporto fra 1/5 e 1/3; ora, con grande vantaggio di precisione anche nel rilievo delle regioni eccentriche del campo, sono stati costruiti obiettivi speciali, con tre o più lenti (Triplet) di una nuova qualità di vetro. D'altro canto invece, quando si richiede un più forte ingrandimento, al quale corrisponderà un campo piccolo (p. es. nelle misure fotografiche di stelle doppie), si può ricorrere anche all'applicazione della cassetta fotografica a refrattori visuali, servendosi allora di lastre sensibili al giallo ed eventualmente di filtri trasparenti a questo colore.
Da qualche tempo è stata applicata la camera fotografica anche ai telescopî riflettori: il loro rapporto di apertura è intorno a 1/5; la loro lunghezza focale può però essere aumentata se si muniscono del dispositivo Cassegrain; il sistema ottico a specchio jha il vantaggio di essere perfettamente acromatico e di non assorbire, come quelli rifrangenti (lenti), la luce violetta, che sappiamo esser quella di maggior efficacia chimica sulla gelatina; la sua luminosità è dunque superiore a quella dei refrattori; per contro è limitato il campo di presa e più sensibile che nei sistemi rifrangenti la variazione di lunghezza focale con la temperatura. Incidentalmente si può ricordare che siffatti strumenti riflettori, muniti del sistema dispersivo fotografico (spettrografo), stanno rendendo grandi servigi nel campo della spettroscopia; tra i maggiori riflettori sono quelli di Lick e di Monte Wilson negli Stati Uniti, di Victoria nel Canada; in Italia abbiamo quello di Merate.
Nel lavoro che si compie con gli equatoriali fotografici (i più potenti fra i quali fissano immagini di stelle sino alla 21ª grandezza, cioè un milione di volte meno luminose delle più deboli visibili a occhio nudo) possiamo distinguere, sebbene la distinzione sia tutt'altro che netta, la parte che riguarda la rappresentazione del cielo, compresa la scoperta di oggetti nuovi, da quella che è essenzialmente deduzione di posizioni celesti, con materiale, misure e procedimenti di alta precisione: spesso questa seconda parte non è che il rilievo accurato e l'elaborazione critica della prima.
L'esempio tipico che può caratterizzare questi due aspetti della fotografia celeste intesa nel senso più comune della parola è quello della grande carta del cielo, opera di lunga lena e di collaborazione internazionale, dovuta all'iniziativa, presa nel 1887 dai fratelli Henry e dall'ammiraglio Marchez, direttore dell'osservatorio di Parigi. L'impresa è duplice. 18 osservatorî sparsi nel mondo (tra cui due in Italia: la specola vaticana e quella di Catania) da un lato apprestano, con pose di 40m circa la carta fotografica vera e propria di tutto il cielo, contenente le stelle sino alla 14ª grandezza, cioè circa 30 milioni di stelle; dall'altro apprestano, in una serie di volumi, il catalogo delle esatte posizioni di tutte le stelle sino All'11ª (cioè da 3 a 4 milioni), ricavate, queste posizioni, dalla misura di un'altra analoga serie di fotografie con pose di soli 3 o 5 minuti. Ciascuno dei 22 mila fogli della carta del cielo, corrispondenti ad altrettante lastre e quadrati, ha il lato che vale 2° di circolo massimo celeste. Se questi ultimi possono utilmente servire di consultazione e di guida agli osservatori già sin d'ora, il catalogo delle posizioni darà tutto il suo frutto quando esse potranno essere confrontate con quelle determinate a distanza di alcuni decennî e il frutto sarà la deduzione dei moti proprî individuali di un numero enorme di stelle, oltre che delle eventuali variazioni di splendore. Altre carte fotografiche celesti sono quelle del cielo australe, pubblicate dall'osservatorio del Capo, comprendenti quasi mezzo milione di stelle, sino alla 10ª gr., quelle di Franklin Adams, edite in 206 fogli dalla Società Reale Astron. di Londra, e le carte Wolf-Palisa della regione eclittica.
La fotografia celeste, oltre che a queste vaste rappresentazioni del cielo, si presta allo studio e alla scoperta di singoli particolari: a centinaia di migliaia essa ha portato il numero delle nebulose spirali conosciute e ha permesso, con l'ausilio della spettografia, l'investigazione approfondita sulla struttura, sui moti e persino sulla distanza di alcune di esse, dopo che si è riusciti a risolverle in stelle coi giganteschi riflettori americani (per es., il 100 pollici di Monte Wilson). Così essa ha accresciuto le nostre conoscenze sulle nebulose planetarie e diffuse e sugli ammassi stellari.
Nel dominio del sistema solare la fotografia, all'infuori delle ricerche astrofisiche già accennate, attende con singolare successo alla ricerca e alla determinazione di posizioni di comete e di piccoli pianeti, costituenti lo sciame compreso in massima parte fra Marte e Giove: per tal modo il numero delle comete, anche molto deboli, che ogni anno si scoprono, è andato crescendo, e quelle periodiche attese più facilmente si rintracciano e i piccoli pianeti, dopo il 1891, anno in cui il Wolf di Heidelberg introdusse la ricerca fotografica, sono cresciuti da circa 300 ad oltre 1200 e sono accuratamente e con grande risparmio di tempo seguiti nel loro corso col metodo fotografico (Heidelberg, Uccle, Simes, Barcellona, Torino, Algeri, Johannesburg, Tokio, ecc.). Siffatti oggetti rivelano la loro presenza per lo spostamento loro fra le stelle, dovuto al moto orbitale. Anche la recente scoperta di Plutone è dovuta alla fotografia.
Un cenno infine sulle applicazioni fotografiche aventi carattere di determinazioni delicate di posizione e quindi anche di movimento sulla sfera celeste; per esse occorrono strumenti ausiliarî di misura, corrispondenti alle graduazioni dei cerchi munite di microscopî e ai micrometri dei cannocchiali visuali.
Lo strumento principale di misura fotografica è il macromicrometro, che permette, mediante microscopî micrometrici il rilievo esatto delle posizioni sulle lastre; da queste si deducono le coordinate celesti, con procedimenti di calcolo più o meno laboriosi a seconda della precisione desiderata e raggiungibile. Anche per le fotografie di spettri sono necessarie misurazioni analoghe, ma, evidentemente, secondo una sola direzione.
Altri strumenti ausiliarî sono: lo stereocomparatore di Pulfrich che, permettendo il confronto stereoscopico di due lastre della stessa regione, fa rilevare, con un effetto visivo di distacco dal piano in cui appaiono tutte le altre stelle, quelle che, nell'intervallo di tempo fra la prima e la seconda posa, si fossero spostate; e il microscopio Blink, in cui il confronto analogo di due lastre è ottenuto facendo apparire, con rapida alternanza, dinnanzi all'occhio, le immagini delle due lastre, per modo che le stelle, che nell'intervallo fra le due pose non han mutato posto in cielo, si sovrappongano nella visione, per l'effetto fisiologico della persistenza delle immagini e appaiano perciò ferme, mentre un tremolio facilmente percepibile rivela le stelle che si sono mosse. Con questi ultimi due apparecchi sono stati trovati migliaia dei cosiddetti moti proprî (vale a dire le componenti angolari dei moti spaziali stellari le quali appaiono trasversalmente alla linea visuale come spostamenti, sempre piccoli, sulla vòlta celeste). Col macromicrometro si determinano poi misura e direzione di tali spostamenti, dati questi che, accoppiati alle posizioni stellari fornite dallo stesso strumento, costituiscono, come si è detto, l'essenza dei molti cataloghi stellari fotografici di cui ora disponiamo, mentre di per sé stessi i moti proprî contribuiscono alla conoscenza dei movimenti siderali, cioè delle correnti stellari e del moto del sistema solare nello spazio. Ogni buona lastra, di sufficiente ingrandimento, può, con i procedimenti accennati di misura, fornire posizioni celesti, e per questa via la lastra che rivela un astro nuovo ne dà anche la posizione più o meno precisa; e una serie di poche pose, se abbastanza distanziate in tempo, basta a fornire il corso apparente per il corrispondente intervallo, permettendone il calcolo dell'orbita, quando si tratti di comete e di pianeti.
La fotografia è stata usata anche per una delle più delicate e difficili misure astronomiche: la misura trigonometrica delle parallassi, che è quanto dire delle distanze stellari, le quali possono dedursi dallo spostamento apparente delle stelle - se sufficientemente vicine - per effetto del moto della Terra intorno al Sole. La fotografia è riuscita a mettere in evidenza e a rendere misurabili, con sufficiente grado di precisione, tali spostamenti dell'ordine di alcuni centesimi di secondo d'arco, come è riuscita a rivelarci qualche stella vicina quasi od anche più di α Centauri, creduta sino a poco tempo fa la prossima fra tutte; come è riuscita infine a fornire, con analoghi caratteri di esattezza, una delle prove sperimentali della teoria di Einstein, quella della flessione dei raggi stellari passanti assai prossimamente al Sole: e ciò col confronto micrometrico di lastre prese della regione attorno ad esso durante la totalità di alcune delle ultime eclissi solari, con quelle della stessa regione, prese di notte.
Si è anche intrapreso a sostituire la fotografia all'osservazione visuale dei passaggi stellari attraverso i fili del micrometro dei cannocchiali, con la registrazione automatica sulla lastra, per la determinazione di una delle coordinate celesti: l'ascensione retta.
Nomi benemeriti nella tecnica degli strumenti fotografici astronomici (refrattori e riflettori, lenti e specchi per essi) sono quelli dei fratelli Henry tra gl'iniziatori, e poi quelli di Merz, Repsold, Zeiss, Clark, Cooke, Ritchey, Warner e Swasey.
V. tavv. XLVII-L.
Il cielo nella mitologia e nella religione.
Presso i popoli primitivi il cielo è concepito per lo più come una grande massa di materia liquida (oleosa) sostenuta da una vòlta di sostanza solida trasparente (quarzo, cristallo). Questo mondo sopraterreno è più o meno simile alla terra: ha i suoi abitanti (dei, spiriti, anime dei morti), la sua fauna e la sua flora, villaggi, pianure, fiumi e montagne, nonché eventualmente un altro suo cielo (per amplificazione, più cieli sovrapposti, donde le concezioni cosmografiche più complesse dei 3 o 7 o 9 cieli concentrici, delle sfere planetarie, ecc). La Via Lattea è spesso concepita come un gran fiume che attraversa il cielo (Kamilaroi, Dieri, Arunta e Loritja in Australia; così anche nel Giappone, cfr. Kojiki, I), o come un grande tronco d'albero bipartito (Dinca del Sūdān, Tlingit del Canada) o anche altrimenti, per es., come la traccia delle orme lasciate da un eroe che camminò sulla neve del cielo (Eschimesi, Tlingit); oppure come il fumo che si leva da un'erba celeste cui alcune donne appiccano il fuoco per dare un segnale di orientamento e di direzione alle anime dei morti (Queensland settentrionale). Una concezione non più primitiva, assai diffusa presso i popoli civili dell'antichità, è quella del cielo come tenda o manto trapunto di stelle disteso sopra la terra (R. Eisler, Weltenmantel und Himmelszelt, Monaco 1910). Comunque, presso i popoli primitivi il cielo è generalmente concepito come assai vicino alla terra.
I Thai (Indocina) credono che il cielo fosse da principio così vicino alla terra che si poteva toccarlo. I Khasi (Assam) pensano che cielo e terra fossero in origine assai vicini l'uno all'altra. Gli Arunta (Australia centrale) credono che il cielo sia sorretto da pali e temono che possa un giorno o l'altro cadere. Presso i Dieri (Australia centrale) si racconta che in origine il cielo era come una cortina di nubi densissime poggianti sugli alberi e che era abitato da strani mostri i quali scendevano spesso sulla terra; una volta, per la caduta di alcuni alberi che fungevano da pilastri, si formò nella vòlta una grande apertura, che poi andò successivamente allargandosi finché diventò il cielo quale è ora, e i mostri che in quel momento si trovavano sulla terra non poterono più risalire. Presso i Ngami e i Karanguru (Dieri), due eroi, avendo preso un kanguro, lo scorticano, ne fissano la pelle al suolo con quattro cavicchi alle quattro estremità, indi spingono in su la pelle nel mezzo, e così formano il cielo.
Il sollevamento del cielo, da principio aderente alla terra, è un motivo assai diffuso e assai variamente trattato, specialmente nelle mitologie dell'Oceania.
A Mangaia (Is. Cook) si parla del cielo poggiante in origine su larghe foglie della pianta teve distese come mani aperte; nelle Samoa sono certe piante che spingono un po' in su il cielo prima che un gigante riesca a innalzarlo del tutto; all'isola Saint-Francis (Australia) e all'isola Niue (gruppo delle Isole Ellice) è un serpente che separa il cielo dalla terra e, stando eretto, lo solleva. Altrove, i Mantra (penisola di Malacca) concepiscono il cielo attuale come un gran vaso sospeso sopra la terra mercé una corda, e credono che da principio esso fosse così basso e vicino alla terra, che uno dei primi uomini vi urtava contro nel sollevare il suo pestello per sgusciare il riso, e che perciò lo sollevasse con le mani. Gli Ashanti (Nigeria) dicono che il cielo, originariamente vicinissimo alla terra, si ritrasse in alto perché una donna nel pestar tuberi lo colpiva continuamente col pestello. Secondo gli Ewè (Nigeria) il cielo in origine era così vicino alla terra che quando gli uomini facevano fuoco, il fumo andava negli occhi al dio del Cielo (Mavu), e per questo egli si ritrasse in su.
Il motivo del sollevamento del cielo assume una forma speciale nel mito dell'amplesso primordiale di Cielo e Terra e della loro separazione più o meno violenta. Questo mito è ampiamente trattato nelle mitologie polinesiane, e specialmente in quella dei Maori della Nuova Zelanda, dove esso assume una forma poetica di grande vigore fantastico e ricca di elementi sentimentali: Rangi e Papa, il Cielo e la Terra, avvinti in un amplesso cosmico perpetuo, sono separati in modo violento dai loro figli stanchi di brancolare nelle tenebre; a questa azione partecipano specialmente Tangaroa, il dio del mare, Tane-mahuta, il dio delle foreste, e Tumata-nenga il dio degli uomini, mentre Tawhiri-matea, il dio dei venti, resta fedele al suo padre celeste; ancor oggi gli antichi coniugi lamentano la loro separazione, e i sospiri esalati dalla Terra sono le nebbie fumanti che salgono su dalle valli o stanno addensate sulle vette dei monti, mentre le gocce della rugiada sono le lagrime versate dal Cielo nel silenzio delle notti solitarie (G. Grey, Polynesian Mythology, 2ª ed., Auckland 1885, p. 9). Il binomio cosmico Cielo-Terra è comune alle mitologie della Micronesia e dell'Indonesia avendo forse, per queste regioni, il suo centro d'irradiazione nell'India antica, dove già nel Ṛg-Veda figura il binomio di Dyaus e Pṛthivī (secondo l'Aitareya Brāhmana, IV, 2,27, Dyaus e Pṛthivī congiunti in origine, furono poi separati); ma si trova anche nell'America Settentrionale (California meridionale, ecc.), nell'Africa (Negri) e anche nell'Egitto antico (la dea del cielo Nut e il dio della terra Keb separati da Shu).
La concezione del cielo come un altro mondo abitato (divino) e la sua relativa vicinanza alla terra sono un presupposto dei numerosi miti e leggende che narrano di rapporti e comunicazioni fra gli abitanti dell'uno e dell'altra, siano esseri celesti che scendono a visitare i terreni, siano esseri umani, anche viventi, che salgono al cielo. Grande è la varietà dei motivi: l'arcobaleno come ponte tra il cielo e la terra (il ponte di Cinvat, passato dalla mitologia iranica nella religione di Zarathustra; cfr. il ponte Bifröst nella mitologia germanica) o come nastro o fune per arrampicarsi (altrimenti l'arcobaleno è concepito come un serpente: cfr. A. R. Radcliffe-Brown, The rainbow-serpent myth of Australia, in Journal of the R. Anthropol. Instit., LVI, 1926, p. 19 segg.); l'orizzonte come linea di confine dove cielo e terra si toccano e si può passare dall'uno all'altra; l'albero che cresce fino al cielo trasportando su chi vi è salito, ecc. Presso i popoli primitivi sono specialmente i fattucchieri (shamani, ecc.) che hanno la facoltà di salire al cielo e poi ridiscendere. Un motivo dei più caratteristici è quello della catena di frecce: l'eroe della leggenda lancia delle frecce in alto; una si conficca nella vòlta celeste, poi una seconda va a conficcarsi precisamente nella cocca della prima, poi una terza esattamente nella seconda, e così via, fino a formare una lunga catena di frecce (cfr. R. Pettazzoni, The chain of arrows, in Folk-lore, XXXV, 1924, p. 151 segg.; cfr. Studi e mater. di st. d. relig., IV, 1928, p. 310), sulla quale aggrappandosi l'eroe, e con lui eventualmente qualche altra persona, sale al cielo. Questo motivo si riscontra specialmente nell'America Settentrionale (costa nord-occidentale del Pacifico, California), ma anche nell'America Meridionale (Tupi, Guarayos), Melanesia (Nuove Ebridi), Australia (Narrinyeri), Penisola di Malacca (Semang). E si trova ricorrente presso alcune popolazioni primitive dell'Africa anche il motivo mitico della scalata al cielo.
L'essere celeste. - Anche la nozione e la credenza in un essere celeste, cioè nel Cielo personificato, si trovano già presso i popoli etnologicamente più antichi.
A parte i Pigmei africani, per i quali conviene aspettare che sia meglio accertata l'esistenza di esseri celesti indipendenti da quelli delle circostanti popolazioni (bantu, negre o nilotiche), sono esseri celesti: Kari ("il Tuono"), Ta Pedn, Keto dei Semang (Penisola di Malacca); Puluga ("il Tuono"?) degli Andamanesi; Mungangaua ("padre nostro") dei Kurnai, Baiame dei Kamilaroi e affini, Daramulun dei Yuin, Bunjil dei Kulin, Nurrundere dei Narrinyeri, Mirirul (mirīr "cielo") degli Illawarra, Koin dei Gringai, ecc., tutti nell'Australia sud-est, nonché Altjira degli Arunta e Tukura dei Loritja (Australia centrale); Gamab dei Bergdama, Khu dei Khun e di altri Boscimani occidentali, Thora e Kaang dei Boscimani orientali, nell'Africa del Sud; Watauinewa dei Yamana (Yahgan), Kholas degli Alakaluf, Temaukel dei Selknam (Ona), nella Terra del Fuoco; Maret Chmakniam dei Botocudo (Brasile); Gudatrigakwitl ("il vecchio lassù") dei Wiyot, Ts'enes ("il Tonante") dei Kato, Ehlaumel ("il Tuono") dei Yuki costieri, Olelbis ("colui che siede lassù") dei Wintun settentrionali, Marumda (Madumda) dei Pomo orientali (cfr. l'"Uomo del tuono", dei Pomo settentrionali), tutti nella California nord-centrale.
Passando a popoli "primitivi" di civiltà meno arcaica, abbiamo: 1) in Africa: a) presso i Negri, nella Nigeria We, Wende, Wennam, Weni, Wuni dei Kassuna, Mossi, Nankana, ecc., Amma o Amba degli Habbe, Achidong dei Bornu, Pwa dei Bachama, Nyame dei Mumbake, Nan, Nen, Nyan degli Angas, Yerkun, ecc.; Awondo dei Munchi; lungo la costa di Guinea, Onyame degli Ashanti, Nyongmo dei Ga, Mavu degli Ewè, Uvolovu degli Akposo, Buku degli Ana, Olorun dei Yoruba, Osa degli Ado, Abassi degli Ibibio, Obashi degli Ekoi. b) Presso i Bantu: Nzame o Nsameb dei Fan (Congo francese), Nsambi dei Bafioti, Bavili, ecc. (Loango), Nzambi, Nyambe, Nzakomba in tutto il bacino del Congo (Bacongo, Bobanghi, Boloki, ecc.), talora in alternativa con Libanza (Boloki, Bopoto); nel Sud-Africa Ndyambi degli Herero, Kalunga degli Ovambo e Bapindii; nell'Africa orientale: Tilo dei Tonga, di nuovo Nzambi, Niambe, ecc. nella Rhodesia settentrionale e nell'alto Zambesi, in alternativa con Leza Lesa (Ba-Ila, Ba-Kaonde, ecc.); nella regione del Lago Niassa Mulungu dei Nyanja e Way, Chiuta dei Tonga, Mbamba o Kiara dei Kondo; nel Tanganica Nguluwi dei Wakulwe, Nguruhi dei Wahehe, Leza dei Wawemba e Warungu, Kyumbi dei Wapare; nel Kilimangiaro Ruwa dei Wagiagga e Imana dei Barundi e Banyaruanda; nella regione del Lago Vittoria (Uganda) Katonda dei Baganda e Basoga, Rugaba dei Kiziba, Ruhanga dei Banyankole e Banyoro; nel Kenya Mulungu o Engai dei Kikuyu e Chuka, ecc. c) Presso i Nilotici: Ngai dei Masai, Nasaye-Nysaie dei Kavirondo (Jaluo), Ued dei Dorobo, Rubanga degli Alur, Dengdit dei Dinca, Jok, Juok dei Lango e Scilluk. - 2) In Indonesia: Lowalangi a Nias, Tamei Tingei in Borneo centrale, Upu Langi a Ceram, Upu lanito ad Amboin, ecc. (generalmente in associazione con la Terra madre). - 3) In Melanesia: Agunua nell'isola S. Cristoforo (Isole Salomone), Ndengei, nelle isole Figi. 4) In Micronesia: Yelafaz, Lugeleng, Aluelap nelle Caroline, Uelip nelle Marshall (associazione con la Terra madre). - In Polinesia: Rangi e Tangaroa (binomio di Rangi "Cielo" e Papa "Terra" nella Nuova Zelanda). - 5) Nell'America del Nord: presso gli Eschimesi Asiak degli Ammassalik (Groenlandia), Sila presso gli Eschimesi centrali; sulla costa nord-ovest (Pacifico), Laxha dei Tsimshian, Nascakiyehl dei Tlingit, Sins sganagwa degli Haida; presso gli Athaba Vuttoere dei Carriers (Dene), Yadilqil hastqin dei Navaho; Tirawa presso i Pawnee (Caddo) e varî esseri supremi designati come Wakanda, Wakantanka, ecc., presso popolazioni Sioux (Winnebago, Iowa, Dakota, ecc.); Kichi Manitu e altri esseri di nome analogo presso gli Ogibway Sauk, Fox, Lenape, Micmac e altre popolazioni algonchine; Ahone-Oki degli Huron (Irochesi); Awonawilona dei Zuñi (Pueblos). - 6) In Asia (ed Europa): Tengri dei Turco-Mongoli, Num dei Samoiedi, Inmar dei Votiachi, Jumala dei Finni, ecc.
Anche nelle religioni di antichi popoli civili troviamo la figura preminente di un essere celeste: nell'antico Messico Tonacatecutli, nell'antico Perù Viracocha; T'ien ("Cielo") o Shang-ti ("l'imperatore dell'alto") nella Cina antica e moderna (cfr. Siang-tei in Corea, Troi nell'Annam, ecc.); nell'Oriente antico Dyaus e Varuṇa degli Indoarî, il dio della vòlta celeste (Erod., I, 131) degli Irani, Teèup degli Hittiti, Anu dei Babilonesi; nell'Europa antica Zeus dei Greci, Juppiter dei Romani, Tiu-Tyr dei Germani, Perun degli Slavi, Perkunas dei Lituani (fino all'età moderna), Tinia degli Etruschi, forse anche il Sardus Pater dei Protosardi. Per il cielo nella religione greca v. urano.
Il carattere di esseri celesti non è sempre egualmente perspicuo per tutte le figure sopra elencate. In alcune ha prevalso qualche altro aspetto, sia solare, sia lunare, sia meteorico. La fondamentale natura uranica si rivela - oltre che talvolta nel nome, quando esso accenna chiaramente al cielo (Laxha, T 'ien, Tengri, Dyaus, Zeus, ecc.) oppure alla pioggia (Ngai, Dengdit) o ad altro fenomeno celeste - generalmente nell'intimo costante rapporto con gli aspetti del cielo, con gli svariati fenomeni meteorici e con i principali corpi celesti. Il tratto più comune è la residenza nel cielo: ivi l'essere celeste dimora; le stelle sono i fuochi del suo accampamento, o la moltitudine dei suoi armenti; la Via Lattea è un gran tronco d'albero vicino alla sua abitazione. Le stelle sono pure concepite come occhi dell'essere celeste disseminati per il cielo (cfr. il mito di Argo). Una stella cadente è uno di questi occhi che si avvicina alla terra per veder meglio. Le comete sono segnali mandati dall'essere celeste.
Il mutare dei cieli, lo scolorarsi e l'imbrunire, la variopinta vicenda cromatica perennemente addotta dalle ore del giorno e della notte, tutto questo si riflette nella figura dell'essere celeste: quando egli chiude gli occhi, si fa buio, e quando li apre, albeggia (Ndengei); la luce è l'olio con cui egli unge il suo corpo smisurato (Mavu); l'azzurro del firmamento è un velo ond'egli si copre la faccia (Mavu); le nubi variopinte sono un velo che stende sul suo viso (Nyongmo), oppure sono parti di lui stesso (Awonavilona). L'aurora australe è un incendio suscitato dall'essere celeste (Munganngaua).
La serenità degli spazî trascoloranti, la solennità dei silenzî notturni rappresentano l'aspetto statico del cielo, al quale corrispondono i lunghi ozî dell'essere celeste nella celeste dimora. D'altro lato certi suoi atti grandiosi, impetuosi e violenti riflettono il cielo nel suo aspetto dinamico. Il segno principale dell'attività dell'essere celeste è la pioggia, fonte di tutta la vita; da lui dipende la siccità e la sua cessazione. Egli ha la facoltà di fare il bel tempo e il mal tempo. E autore delle tempeste, degli uragani, delle inondazioni e del diluvio. Quando il tempo minaccia, si ricorre a lui perché allontani il temporale. Anche la neve è mandata dall'essere celeste (Laxha, Sins sganagwa).
L'arcobaleno è pure opera sua: esso è concepito come un suo segnale, oppure come il suo arco o come un serpente che sta sotto il suo sedile, o personalmente come un figlio suo.
Il vento è il respiro dell'essere celeste. Il tuono è la sua voce (oppure è prodotto da lui in altro modo qualsiasi). Il fulmine è un tronco d'albero infiammato o un tizzone acceso o un'arma o altro che egli scaglia sulla terra. Il lampo è il dardeggiare dei suoi occhi. La rugiada sono le sue lagrime. La nebbia è il fumo della sua pipa. L'essere celeste è fornito di altri attributi che si riconducono alla fondamentale sua natura uranica, anche se a prima vista pare che non abbiano nulla a vedere col cielo. L'essere celeste è spesso concepito come creatore; egli è autore dei fenomeni più grandiosi e tremendi che si producono nel cielo; è autore della pioggia, che dà vita a la natura; di qui, per facile estensione, poté essere pensato come autore, potenziale o effettivo, di tutte le cose (dove però è da tener conto delle interferenze con un'altra figura caratteristica delle mitologie primitive, quella del demiurgo-primo uomo).
Dall'immensità della vòlta del firmamento deriva a tale essere celeste l'attributo dell'onnipresenza; dalla sua immanenza perenne, quello della "eternità" (concepita come durata indefinita immune da morte); dalla sua smisurata vastità (a chi sta lassù nulla può sfuggire di quanto avviene sulla terra), quello dell'onniveggenza. Dall'onniveggenza e dall'onnipresenza deriva la sua onniscienza. Tale onniveggenza-onniscienza si applica essenzialmente alle azioni degli uomini, alla loro condotta, e ha per suo complemento integrale l'esercizio d'una sanzione punitiva. Infatti l'essere celeste è generalmente giudice e vindice delle azioni umane, punitore dello spergiuro, custode dell'osservanza dei patti (perciò è invocato come testimone nei giuramenti, nella conclusione dei trattati, ecc.). Che anche questo carattere etico abbia radice nella fondamentale natura uranica si rileva dal fatto che la sanzione punitiva è esercitata dall'essere celeste assai spesso con mezzi meteorici (maltempo, fulmini, siccità, uragani, diluvio).
Un essere dotato di questi attributi è naturalmente destinato a occupare il primo posto nella credenza religiosa dei primitivi. Infatti nelle religioni di questi popoli l'essere celeste è generalmente l'essere supremo (in via eccezionale, talvolta la terra - per es. in Nigeria - tal'altra l'essere lunare o l'essere solare tiene il posto di essere supremo). Il problema degli esseri supremi nei popoli primitivi che, sollevato da Andrea Lang nel 1898 (The Making of Religion, 3ª ed., 1909), è ora al primo piano della scienza delle religioni (W. Schmidt, Der Ursprung der Gottsidee, 2ª ediz., Münster i. W. 1926 segg.), trova una soluzione in quanto gli esseri supremi si risolvono in esseri celesti. Una teoria, che diremo razionalistica considera gli esseri supremi dei primitivi primariamente come dei fattori e autori universali (Allmakers, Lang; Urheber, Söderblom; Schöpfergötter, W. Schmidt), concepiti da un pensiero logico per spiegare l'origine delle cose e del mondo; ad essa si oppone una teoria che li considera come personificazioni del cielo - nella varietà dei suoi fenomeni - e quindi come prodotti di un pensiero mitico (R. Pettazzoni).
La grande importanza di queste figure per la storia delle religioni sta nei loro sviluppi ulteriori. Infatti si constata che generalmente nelle religioni politeistiche il Dio principale è un Dio del cielo (fa eccezione, per es., la Terra Madre nell'antica civiltà egeo-cretese anatolica; nell'antico Egitto Nut, personificazione femminile del cielo, non è la divinità suprema, ma nessun'altra divinità è dichiaratamente suprema). Anche per una religione monoteistica, lo zoroastrismo, pare che il Dio unico, Ahura Mazda, risale all'antico iddio del cielo del politeismo iranico (Erodoto, I, 131). Quindi il problema si pone da alcuni anche riguardo il monoteismo (v.).
Bibl.: R. Pettazzoni, Dio: Formazione e sviluppo del monoteismo nella storia delle religioni, I: L'essere celeste nelle credenze dei popoli primitivi, Roma 1922; id., La formation du monothéisme, in Revue de l'histoire des religions, LXXXVIII (1923), pp. 193-229; id., Monotheismus und Pœytheismus in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, IV, Tubinga, 2ª ed. 1930, pp. 185-191; id., Allwissende höchste Wesen bei primitivsten Völkern, in Archiv. für Religionswiss, 1930; J. R. Swanton, in American Anthropologist, n. s., XIX (1917), p. 466 segg.; J. G. Frazer, The Worship of Nature, I, Londra 1926; H. T. Fischer, Het heilig huwelijk van hemel en aarde, utrecht 1929.