CIELO
Nell'ambito della cultura scientifica, teologica e letteraria del Medioevo il termine c. ricopre la medesima gamma di significati che gli conferisce l'attuale uso corrente: indicava - come oggi - la volta che sovrasta la terra (Onorio Augustodunense, Imago mundi, I, 83-84; PL, CLXXII, col. 141), la sede degli astri (Restoro d'Arezzo, La composizione del mondo, I, 18) e il paradiso (Par. III, v. 89). Tuttavia è necessario rilevare precise differenze che nascono quali conseguenze della diversità di alcuni presupposti culturali della civiltà medievale. Questi possono ridursi sostanzialmente a due: l'adozione del modello cosmologico tolemaico e la necessità di confrontare continuamente la visione scientifica del mondo con quella biblica e teologica del creato.A proposito di questo secondo aspetto si deve notare che la contrapposizione dei termini c. e terra, nell'esegesi di Gn. 1, 1, viene interpretata da più autori (Pietro Abelardo, Expositio in Hexaemeron; PL, CLXXVIII, col. 733; Teodorico di Chartres, Tractatus de sex dierum operibus, 2; Clarembaldo di Arras, Tractatulus super librum Genesis, 36) come una locuzione da riferirsi alla creazione dei quattro elementi, laddove c. indicherebbe quelli leggeri (aria, fuoco) e terra quelli pesanti (acqua, terra). Fra gli esponenti di spicco di questa linea di pensiero si deve annoverare s. Agostino, che, assai prima degli autori citati, dedicò ampio spazio all'analisi della forma e del moto del c. (De Genesi ad litt., II, 9-10; PL, XXXIV, coll. 270-272). Lo sforzo del filosofo fu infatti quello di dimostrare che le affermazioni scientifiche secondo cui il c. ha forma sferica non contrastano affatto con i dettati biblici ove il c. è descritto come una volta sospesa (per es. 2 Re 7, 2; Gb. 26, 11) o paragonato a una tenda (Sal. 104 [103], 2). Egli infatti spiega che "se il cielo non è una sfera, in quella sola parte in cui esso copre la Terra è una volta (camera); se invece il cielo è una sfera, esso è una volta da ogni parte" ed è evidente che, morfologicamente, sfera e tenda si equivalgono.La problematica sollevata da s. Agostino si giustifica anche in funzione di alcuni aspetti dell'iconografia del cielo. Non si può non ricordare infatti che sono pervenuti, sia pure in numero limitato, esempi paleocristiani e bizantini di rappresentazioni della figura del c. che lo mostrano come un uomo barbuto il quale tende al di sopra della sua testa un manto rigonfio di vento. Si rammenta in proposito il sarcofago di Giunio Basso (m. nel 369; Roma, Tesoro di S. Pietro) - ove il c., seguendo l'iconografia tardoimperiale dell'arco di Galerio a Salonicco (Grabar, 1979, trad. it. fig. 30), è posto al di sotto dei piedi di Cristo in trono (de Franciscis, 1959) -, nonché la miniatura di un ottateuco del sec. 12° (Roma, BAV, Vat. gr. 746, c. 192v) che illustra il Passaggio del mar Rosso (Morey, 1953). Appare evidente che la figura del c. è direttamente derivata da quella di Urano, che segue le medesime modalità iconografiche, come mostra l'immagine del Caelus scolpita immediatamente al di sotto dello scollo della corazza dell'Augusto di Prima Porta (Roma, Mus. Vaticani, Braccio Nuovo; Paribeni, 1966).Il passaggio di questa iconografia dal mondo pagano a quello cristiano va imputato al ricordato Sal. 104 [103], 2, che recita: "Egli distende i cieli come una tenda", secondo un'idea ampiamente accettata da Isaia (Is. 40, 22; 42, 5; 44, 24; 45, 12; 51, 13) ma che si trova ribadita anche in altri passi biblici (Gb. 9, 8; 26, 7; Ger. 10, 12; Zc. 12, 1). Particolarmente interessante appare poi l'immagine della Νύξ, variante femminile del Caelus romano, rappresentata con il manto trapunto di stelle, come appare nella scena miniata di un noto salterio del sec.10° (Parigi, BN, gr. 139, c. 419v) che mostra il Passaggio del mar Rosso. È evidente che in tutti i casi elencati la figura del c. assolve alla funzione di rappresentazione allegorica del c. stesso, riutilizzando l'immagine della divinità pagana priva ormai di ogni componente teistica.Per Beda il Venerabile (672-735) la forma del c. è ormai un dato acquisito, giacché esso "è rotondo e dista ugualmente in ogni suo punto dal centro della Terra: tanto che da ogni luogo si nota la convessità e la centralità del cielo" (De natura rerum, 3-4; Garfagnini, 1978, p. 77). Questa definizione chiarisce senza ombra di dubbio che la curvatura era ritenuta effettiva e non apparente e che il c. stesso era considerato limitato.Con maggiore evidenza il concetto emerge da taluni passi di Onorio Augustodunense (Imago mundi, I, 1-3; PL, CLXXII, col. 121) ove il mundus, descritto in forma di uovo, ha il c. che lo racchiude tutto come un guscio; l'etere è paragonato all'albume, l'aria - più pesante - al tuorlo e la Terra a una goccia di grasso nel tuorlo stesso. Questo modello cosmologico si ritrova anche nel Liber Scivias di Ildegarda di Bingen (1098-1179), che descrive l'universo in forma d'uovo (Wiesbaden, Landesbibl., B, c. 14r). In questo senso il c. deve essere considerato come il limite fra ciò che è visibile e ciò che non lo è. Non per nulla Filone d'Alessandria poneva in relazione il termine οὐϱανόϚ 'cielo' con il sostantivo ὄϱοϚ 'confine' e l'aggettivo ὁϱατόϚ 'visibile' (De opificio mundi, X, 37). Così, nella visione di Cristo e dell'Ecclesia tra i ss. Pietro e Paolo scolpita in una delle specchiature della porta lignea della chiesa di S. Sabina a Roma (sec. 5°), è una sottile linea arcuata che divide l'empireo dal c. caratterizzato dalla presenza dei due luminari maggiori. Il c. è perciò visto come velum divisorio fra il mondo creato e il suo creatore, come mostra anche una delle miniature che illustrano le Omelie del monaco Giacomo Kokkinobaphos dove, nella Visione di Isaia, alle spalle dell'Eterno e della sua corte angelica si drappeggia ripiegata la tenda del c. (Roma, BAV, Vat. gr. 1162, c. 119v; sec. 12°).Per il medesimo motivo, nelle icone che rappresentano il Giudizio finale (per es. quella della scuola di Novgorod del sec. 15°; Mosca, Gosudarstvennaja Tretjakovskaja Gal.), ma anche nella pittura murale con lo stesso soggetto nella cappella di S. Silvestro del monastero dei Ss. Quattro Coronati a Roma, un angelo arrotola il c. su se stesso come si trattasse di un tappeto. Infine non si può non ricordare il Giudizio universale dipinto da Giotto nella cappella degli Scrovegni (1306 ca.), dove, sulla parte alta della parete d'ingresso, due angeli - da identificarsi come appartenenti al coro dei principati - ripiegano le due ali del c. lasciando intravedere l'empireo e le porte d'oro del paradiso, tempestate di gemme. D'altra parte l'utilizzo dell'oro e delle pietre preziose per caratterizzare l'empireo compariva già nel sec. 6° nella Topographia christiana di Cosma Indicopleuste (Roma, BAV, Vat. gr. 699, c. 89r; copia del sec. 9°).Per assimilazione perciò il c. è considerato anche la dimora di Jahvè (Sal. 11 [10], 4; 115 [113b], 16; Ravasi, 19863, I, p. 237; III, p. 378), la sede trascendente di Dio e per analogia il c. materiale riflette l'armonia della creazione divina, sicché la contemplazione delle sue meraviglie permette all'uomo di avvicinarsi al mistero di Dio (Filone d'Alessandria, De opificio mundi, XVII, 53-54). In questo senso Clemente Alessandrino (Strom., I, 4, 5; PG, VIII, coll. 715, 724-725) considera la pratica dell'astronomia come il mezzo per "avvicinarsi alla potenza del creatore" (Lilla, 1983a). Non per nulla la parola greca μαθηματιϰή, connessa per via della radice μαθ- del verbo μανθάνω 'imparare' al concetto di discenza, indica oltre alla matematica, come è ovvio, anche l'astronomia. In altri termini, coloro che osservavano il c. ne imparavano i segreti. Bisogna però precisare che sia nel mondo antico sia in quello medievale la disciplina astronomica era strettamente legata a quella astrologica, tanto che non di rado esse furono considerate un'unica cosa (per es. Dante, Convivio II, III, 3; Capasso, Tabbarroni, 1970). Nata come pratica priva di ogni implicazione mantica per la previsione degli eventi astrali, come le eclissi, ma anche metereologici o tellurici (si veda per es. Filone d'Alessandria, De opificio mundi, XXXVIII, 113), l'astrologia assunse valore vaticinante con il pensiero pitagorico a contatto con le conoscenze babilonesi e caldaiche (Boll, Bezold, Gundel, 1918; Rougier, 1935).La posizione del cristianesimo nei confronti dell'astrologia fu dapprima di completo rifiuto, giacché si temeva che l'attenzione alle divinità astrali potesse ledere la concezione monoteistica, per cui s. Paolo non esitò a considerarle demoni (1 Cor. 10, 20; ma anche Sal. 96 [95], 4-5). Del resto il concilio di Laodicea (seconda metà sec. 4°) faceva esplicito divieto ai prelati di essere tanto astronomi quanto astrologi (Mansi, II, col. 570). Tuttavia alcuni passi veterotestamentari che consideravano implicita la positività delle stelle (Gn. 1, 14; Gdc. 5, 20), la presenza della stella dei Magi nel vangelo (Mt. 2, 1-10), oltre all'assimilazione degli astri con la corte celeste (per es. Gb. 38, 6-7; Bar. 3, 34-35) e alle riflessioni esegetiche precedentemente citate, indussero a impostare il problema in termini del tutto differenti. La speculazione origeniana introdusse nell'ambito cristiano quelle riflessioni neoplatoniche secondo le quali gli astri venivano considerati segni (σημεῖασημαντιϰόν) e non cause del destino umano, cosicché l'astrologia cessò di essere scienza della predestinazione (εἱμαϱμένη) e svelò invece la prescienza divina (πϱόγνωσιϚ τοῦ Θεοῦ), secondo la disposizione degli astri (Bouché-Leclercq, 1899). Questi ultimi infatti vennero considerati animati (ἔμθυχοι) e razionali (Origene, De principiis, I, VII, 2ss.; PG, XI, col. 171ss.). Sebbene avversato fin dall'epoca di Giustiniano (Fritz, 1931), quest'ultimo aspetto finì per porre i presupposti - che pure si riallacciavano al pensiero aristotelico - grazie ai quali s. Tommaso prima (Super librum de causis expositio, 5) e Dante poi (Convivio II, IV, 2) poterono affermare che a muovere gli astri sono le 'intelligenze separate', ossia gli angeli, secondo una concezione che ha numerosi ed espliciti riscontri figurativi (per es. Roma, BAV, Vat. gr. 699, c. 115v), come quello che mostra un codice della prima metà del sec. 14° ove compare l'angelo di Marte (Roma, BAV, Reg. lat. 1283, c. 26v; Bussagli, 1991, p. 212).Il manoscritto appena ricordato costituisce un esempio eloquente dell'interazione culturale fra il mondo occidentale e quello islamico nell'ambito della tematica astrologica. La presenza della moriogenesi del segno zodiacale - come per es. quella dello Scorpione (c. 7v) -, ossia della pratica per cui si soleva attribuire a ognuno dei gradi del segno la reggenza di costellazioni fantastiche che poco hanno a che vedere con l'osservazione diretta del c., indica una precisa filiazione culturale. Questa deriva dalle conoscenze astronomiche e astrologiche raccolte nell'Introductorium maius ad astrologiam (Kitāb al-madkhal al-kabīr ῾alā ῾ilm aḥkām al-nujūm) di Abū Ma'shar - più noto in Occidente come Albumasar - scritto a Baghdad nell'848 e tradotto in latino prima da Giovanni di Siviglia nel 1133 e poi da Ermanno di Carinzia nel 1140 (Lemay, 1962, pp. XXVIII-XXIX). Va infatti rilevato che, anche nell'ambito islamico, astronomia (῾ilm al-nujūm) e astrologia (῾ilm aḥkām al-nujūm 'scienza del giudizio degli astri') erano considerate due facce della stessa medaglia (Murdoch, 1984, p. 254). Le conoscenze della disciplina astrologica erano pervenute ad Abū Ma'shar da una parte, probabilmente, attraverso una traduzione persiana degli scritti di Teucro Babilonese (sec. 1° a.C.) - la cui sphaera barbarica andava ad arricchire la già nota sphaera graecanica, mappa del c. dei Greci - dall'altra grazie alla conoscenza della sphaera indica - che pure a Teucro si riferiva - sistematizzata nel Bṛhajjataka di Varahamihira, astrologo e astronomo vissuto a Ujjani (India) presso la corte di Vikramaditya (Warburg, 1932; Saxl, 1985). Su questa base, tra l'altro, Abū Ma'shar nel Kitāb Mawālid al-rijāl wa᾽l-nisā᾽ (Libro delle nascite degli uomini e delle donne) fissò le regole della divinazione genetlialogica (Fahd, 1966, pp. 482-483). In questo senso non è azzardato affermare che la lettura del c. in ambito medievale diviene, in primis, un fatto eminentemente culturale che tende a costruire un sistema di previsione astrologica, basato sulle tradizioni codificate più che sull'esperienza astronomica vera e propria.Nato nell'ambiente di Toledo, all'epoca di Alfonso X il Saggio (1221-1284), il codice citato (Roma, BAV, Reg. lat. 1283) potrebbe aver influito (Saxl, 1927; Warburg, 1932) su l'Astrolabium planum di Pietro d'Abano, modello a sua volta per gli affreschi giotteschi del palazzo della Ragione a Padova (1307-1308). Sebbene questa opinione non venga da tutti condivisa (Federici Vescovini, 1986, pp. 55, 57), resta il fatto che il codice vaticano si pone come una delle prime testimonianze iconografiche della penetrazione in Occidente della teoria dei decani (che governavano ognuno dieci gradi per ogni segno zodiacale e cioè tre decani per segno) e dei paranatellonta (ossia quelle costellazioni, o parti di esse, che 'sorgono insieme' sull'ellittica zodiacale).L'insieme delle riflessioni sul c. e sugli astri (v.) produsse comunque, nonostante le speculazioni talora contraddittorie delle diverse scuole, un modello cosmologico pressoché unico e invariabilmente accettato - sia pure con aggiustamenti e modifiche - fino alla rivoluzione copernicana. Il motivo di tanta coerenza deve essere ricondotto all'assunzione come propria della concezione aristotelico-tolemaica (Kuhn, 1957, trad. it. pp. 35-36). La cultura greca costituiva infatti il più importante punto di riferimento, come dimostra il fatto che il Medioevo latino recuperò - attraverso testi quali il commento al Somnium Scipionis di Cicerone, scritto da Macrobio, e il De institutione musicae di Severino Boezio - il concetto di armonia delle sfere che faceva capo alla speculazione pitagorica e platonica (Repubblica, 617b), come pure mostra un manoscritto del 1383 dell'opera di Macrobio (Oxford, Bodl. Lib., Canon lat. 257, c. 1v). Così ancora in un codice del sec. 12° che raccoglie schemi mnemonico-esplicativi che si riferiscono anche ai testi sopra ricordati (Oxford, Bodl. Lib., Digby 23, cc. 51v e 52) si trovano affiancati il modello cosmologico tolemaico e gli intervalli musicali di tonus, dyapason, dyapente, dyatessaron applicati ai pianeti (Murdoch, 1984, pp. 360-364; Bussagli, 1991, pp. 272-285).Allo stesso modo il rapporto tra macro e microcosmo porta in sé la matrice culturale greca (Lilla, 1983b). Con la contemplazione del c. infatti si finì per stabilire una serie di relazioni fra il cosmo, visto come Cristo pantocratore che, a sua volta, riassorbe l'idea di macrantropo (per es. Ildegarda di Bingen, Liber divinorum operum, Lucca, Bibl. Statale, 1942, c. 9r; Piero di Puccio, Cristo cosmogratore, Pisa, Camposanto, 1390-1391), le stelle e il corpo umano, come eloquentemente mostra la miniatura di un codice del sec. 14° (Londra, BL, Sloane 282, c. 18r), secondo una concezione che affonda le radici anche nel pensiero e nelle mitologie gnostiche e mazdaiche (Bouché-Leclercq, 1899; Saxl, 1927). In questo modo infatti si offriva un'interpretazione 'scientifica' di Gn. 1, 27, giacché la creazione dell'uomo a immagine e somiglianza di Dio andava intesa proprio in relazione a una congruenza di valori e di struttura fra il cosmo, pervaso dall'intelletto universale divino, e il corpo dell'uomo guidato dall'intelletto universale, come sottolineava Filone d'Alessandria (De opificio mundi, XXIII, 69-71; Quis rerum divinarum heres sit, XXXI, 155). Il confronto serrato con le Scritture costituisce dunque l'approccio privilegiato per ogni interpretazione cosmologica. Proprio per questo uno dei problemi più dibattuti del Medioevo fu quello delle acque sopracelesti. La materia del contendere era posta da Gn. 1, 6, in quanto la separazione delle acque per mezzo del firmamento (ebraico samaim; gr. στεϱέωμα), identificato con il c. già nell'ambito dello stesso testo biblico (Gn. 1, 8), poneva non poche questioni ermeneutiche. Queste infatti scaturivano dal contrasto fra fides e ratio, laddove l'affermazione scritturistica precisa e circostanziata si scontrava con quanto era possibile ricavare dall'evidenza dell'osservazione empirica (Garfagnini, 1978, p. 55).Al di là della posizione di s. Agostino, che, per quanto si industriasse in modo non del tutto convinto in argomentazioni fisiche e cosmologiche, concludeva a questo proposito che non è lecito dubitare dell'autorità della Scrittura (De Genesi ad litt., II, 5; PL, XXXIV, col. 267), quelle degli altri autori si basavano su considerazioni che volevano essere 'scientifiche' per giustificare la veridicità del passo biblico in questione. Le ipotesi che si alternavano nella disquisizione esegetica sono puntualmente riassunte nell'opera dello pseudo-Beda (De mundi coelestis terrestrisque compositione; PL, XC, col. 983). Esse infatti vanno dall'idea che la superficie esterna del c. presentasse protuberanze e cavità come quelle della Terra, sicché era in queste ultime che venivano contenute le acque sopracelesti, a quella che considerava tali acque vapori come le nubi, all'altra che le voleva ghiacciate e rapprese per via della lontananza dal calore del Sole, sull'esterno della sfera celeste. A riprova si invocava la natura fredda di Saturno, l'astro più lontano del sistema tolemaico. Infine come ultima ratio si ricorreva all'onnipotenza divina.Nell'ambito di questo panorama due sono le posizioni degne di menzione: quella di Giovanni Scoto Eriugena (810-877) e quella di Guglielmo di Conches (1080 ca.-post 1154). Se quest'ultimo infatti, dopo attenta disamina, negava decisamente la presenza delle acque sopracelesti (Philosophia mundi, II, 3; PL, CLXXII, col. 58), Scoto Eriugena pensava che le acque inferiori dovessero intendersi come gli elementi di questo mondo visibile, mentre le acque superiori indicassero le cause spirituali di tutto ciò che è visibile, da identificarsi con le virtù celesti, ossia con gli angeli, anche in funzione di Sal. 148, 4, che lo stesso Eriugena cita (De divisione naturae, III, 36; PL, CXXII, col. 694). La problematica qui esposta non solo ebbe un certo riscontro nelle arti figurative - per es. nel Cristo creatore (in quanto Lógos) della Bibbia moralizzata del sec. 13° (Vienna, Öst. Nat. Bibl., 2554, c. 1v) o nel ciclo musivo del sec. 12° della Cappella Palatina di Palermo, sulla parete meridionale della navata centrale, dove il cosmo è circondato dalle acque sopracelesti - ma, sia pure all'interno della costruzione aristotelico-tolemaica, determinò modelli di universo differenziati. La giustapposizione esemplificativa di Singer (1959, trad. it. p. 159) a riguardo è particolarmente esplicita. Il modello cosmologico di Mōšeh ben Maymūm (1135-1204), filosofo e teologo ebreo di Córdova noto ai Latini come Maimonides, sistemando l'acqua intorno al globo terrestre e ripetendone la collocazione con aria e fuoco al di sopra del firmamento, riproponeva la successione stoica dei quattro elementi in zone concentriche e proprio per questo spostava le sfere planetarie al di sopra di quella del fuoco (Cumont, 1949, p. 209). Il modello cosmologico dantesco al contrario non prese affatto in considerazione il problema delle acque sopracelesti.Nell'ambito delle cosmologie medievali un posto a sé stante va assegnato alla speculazione di Roberto Grossatesta (1168-1253) che "partendo dal concetto di una materia prima assolutamente pura ed indeterminata che comprende in sé la spiritualità e la corporeità [...] immaginò che l'universo traesse la propria sfericità e compiutezza da un processo di rarefazione e condensazione della luce 'prima forma corporea'" (Garfagnini, 1978, p. 207). L'insegnamento di Grossatesta e quello del suo discepolo Ruggero Bacone (1214-1292) contribuirono indubbiamente alla crisi dell'aristotelismo, che in Italia ebbe un esponente di spicco in Biagio Pelacani da Parma, attivo in varie città d'Italia e d'Europa fra il 1361 e il 1416 (Federici Vescovini, 1979, pp. 299-320).La problematica della luce, questa volta puramente spirituale, ritorna anche nell'accezione in cui la parola c. assume valore di paradiso. Derivato dall'avestico pairidaeza 'parco recintato' il termine paradiso (ebraico pardes; gr. παϱάδεισοϚ) porta con sé l'idea di giardino e luogo di gradevole refrigerio. Direttamente connessa con Gn. 2, 5-15, questa concezione ebbe riscontri figurativi in opere come i mosaici della Cupola della Roccia a Gerusalemme, ma anche nelle immagini dei cervi che si abbeverano (per es. Ravenna, mausoleo di Galla Placidia), legate a Sal. 42 [41], 2, o in immagini più complesse come il mosaico dell'abside di S. Giovanni in Laterano, purtroppo malamente restaurato nel secolo scorso (Tomei, 1991, pp. 342-343). La collocazione del paradiso (v.) nel c. - da porre in relazione con Sal. 93 [92], 4; Mt. 2, 3; 4, 17, ma pure con Ap. 21, 1-2 - è condivisa tanto da Basilio il Grande, che sovrappone i concetti di paradiso e c. (Hom. I in Hexaemeron, V; PG, XXIX, col. 14), quanto da s. Agostino, che pone la sede dei beati nel summum coelum (De Genesi ad litt., XII, 35; PL, XXXIV, col. 483). Origene invece appare più preciso e circostanziato, dal momento che afferma che il paradiso è al di sopra del firmamento (De principiis, II, III; PG, XI, coll. 195-198) e che è un mondo di pura luce. In questo modo il paradiso veniva in qualche modo messo in relazione con il modello cosmologico tolemaico, esattamente come fece in seguito Dante, che lo collocò al di là dell'empireo (Mc Dannell, Lang, 1988, trad. it. pp. 112-113).La commistione figurativa fra il concetto di paradiso-giardino e quello di paradiso-c. appare evidente nel ricchissimo mosaico romano di S. Maria Maggiore, portato a termine da Jacopo Torriti per papa Niccolò IV nel 1296 (Tomei, 1991, p. 344). Qui infatti, nonostante il fatto che il tema dominante sia costituito dall'Incoronazione della Vergine, si fondono (per via della decorazione fitomorfica a girali, della presenza del fiume e dei cervi che si abbeverano, nonché della gloria delle schiere angeliche intorno al trono divino posto nel c. segnato dalle stelle e dai due luminari maggiori) le due tradizioni iconografiche.
Bibl.:
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