CIFUENTES de HEREDIA, Luca
Nacque a Medinaceli (prov. di Soria) nella Vecchia Castiglia intorno al 1530, da famiglia della piccola nobiltà terriera.
Da un processo di nobiltà svoltosi a Valladolid nel 1555 (a seguito del quale venne riconosciuta l'hidalguia a un Rodrigo de Cifuentes) si apprende che la famiglia era originaria della Nuova Castiglia (un Hemando de Cifuentes, vissuto tra la seconda metà del Quattrocento e i primi del Cinquecento, abitava a Brihuega, presso Guadalajara) e che vari membri di essa si spostarono andando in cerca di fortuna in altre città: il figlio di Hernando, Rodrigo, prese moglie a Pinto, presso Madrid, e vi si stabilì; suo figlie Rodrigo junior a sua volta si spostò verso il Nord, a Barçience, mentre un altro Garcia de Vera, andò ad abitare a Carpio, località nei pressi di Medina de Pomar. Non sappiamo quale grado di parentela vi fosse tra i predetti e Luca, ma doveva essere piuttosto stretto, poiché il documento è conservato tra le prove di nobiltà della famiglia Cifuentes (Arch. di Stato di Palermo, Archivio Trigona, n. provv. 66, cc. 312. ss.).
Non fa meraviglia quindi che il C., che devo aver dimostrato molto presto le sue doti intellettuali e la predisposizione per gli studi di diritto, abbia deciso di abbandonare la vita modesta di un piccolo centro agricolo per andare a studiare nella più celebre università dell'epoca, Bologna, certamente favorito dalle condizioni piuttosto agiate della famiglia. L'ambizione di far carriera e la spiccata attitudine a ricoprire posti di comando e di responsabilità sono testúnpniate dal fatto che già mentre è studente a Bologna, negli anni 1554-55, lo troviamo rettore della Università dei giuristi (cioè capo della corporazione degli scolari) e rettore del Collegio di Spagna del quale era ospite. I risultati conseguiti negli studi devono essere stati brillanti se per quegli stessi anni è elencato tra i "lettori legisti" nei Rotoli dell'università. Riceve il privilegio di dottorato in iure canonico et civili il 7-4 ott. 1556, ma il 2marzo 1557 è ancora a Bologna, sempre ospite del Collegio di S. Clemente nobilium scolarum Hispaniarum.
Non sappiamo se sulla decisione di abbràcciare la carriera di magistrato abbiano più influito le difficoltà incontrate a Bologna di inserirsi tra gli accademici o la certezza di una più rapida carriera in Sicilia, dove nella primavera di quello stesso anno era stato inviato come viceré un suo conterraneo, Juan de la Cerda, duca di - Medinaceli (di cui diverrà presto "creato", cioè uno dei collaboratori più fidati). Certo è che nell'aprile 1558 il Medir(aceli lo nomina 'uditore generale della gente di guerra forestiera, il magistrato. speciale cui era delegata la conoscenza di tutte le cause riguardanti i soldati spagnoli in Sicilia. Il 10 aprile il C. prende a Messina possesso dell'ufficio.
È di questo periodo il suo fidanzamento con Melchiorra Ingo e Imbarbara (figlia di Giovanni de Ingo, professore di diritto, e di Polissena Imbarbara, appartenente ad una delle più facoltose famiglie nobili palermitane) e la conseguente lite, che il di Castro definisce "sì rabbiosa", intentata dal C. a nome della suocera contro i possessori della baronia di Alia, nella speranza di assicurarsi i suoi diritti sulla stessa; diritti che Polissena Imbarbara aveva ereditato dopo la morte del.fratello Pietro. Nel 1545 però Alia erastata data in dote all'altra sorella, Fiordiligi, andata sposa a Filippo Crispo, barone di Prizzi, la quale nel 1551 acquista da Rinaldo Crispo, figlio del precedente proprietario, il diritto di ricompra della baronia stessa. Tale cessione viene in seguito annullata dalla Corte pretoriana di Palermo, che nel 1568 immette nel possesso della baronia i figli di Fiordiligi, Giovanni Crispo, barone di Prizzi, e Antonia, moglie del conservatore del R. Patrimonio Pietro Velásquez, quali donatari del suddetto Rinaldo Crispo. Per atto di transazione viene però riconosciuto a Fiordiligi il possesso vitalizio della baronia, che terrà fino al 1599, anno della sua morte. In verità la lite con il C. si era conclusa nel 1560, quando, in vista delle imminenti nozze con Melchiorra, questi aveva accettato dalla zia Fiordiligi, baronessa di Alia e Tortoresi, la dote dì 10.000 fiorini con la cessione degli interessi maturati e maturandi di un mutuo di onze 4147.27.10 fatto alla Corte con decorrenza 1° maggio 1560 e che fruttavano la rendita di onze 497 l'anno. I capitoli matrimoniali, sottoscritti dalle parti e consegnati al notaio Antonino Galasso il 19 novembre e quindi inseriti nel contratto di matrimonio del 28 genn. 1561, sottolineavano però che tale dotario veniva costituito a condizione che sia Polissena sia il C. si astenessero da ognì azione legale sulla baronia. Se il C. rinunciava per il momento al possesso di Alia era però troppo ambizioso per rinunciare ad ogni possibilità futura di fregiarsi dell'ambit, 3 titolo nobiliare; per cui, pur accettando le condizioni, si fa cedere dalla suocera tutti i diritti feudali successori, oltre alla metà di tutti i suoi beni. Viene così in possesso di un rilevante numero di proprietà immobiliari a Palermo e nei dintorni della città, di un trappeto a Ficarazzi, di un mulino e vari gazzmi fuori porta S. Giorgio, di campagne e vigneti. Egli stesso abita la casa, della moglie, uno dei più grandi palazzi della città (ancora oggi esistente) sito nel quartiere dell'Albergaria, contrada a San Giovanni dei Tartari, "nella strata maiori [oggi via Maqueda] chiamata la casa di Imbarbara", dove esercita anche l'ufficio di giudice e che nel 1562 eleggerà come locum auditorii et tribunalis per la decisione dei processi della visita. Non arriverà invece a vedere che finalmente, dopo la sua morte, la baronia di Alia sarebbe passata a una Cifuentes nella persona della figlia primogenita Francesca, nata nel 1576. Infatti solo nel 1596, a seguito di un'altra transazione fatta con Giovanna Villaraut, erede di Antonia e moglie di Vincenzo del Bosco, conte di Vicari, la baronia passerà a Melchiorra, vedova dei C., che in quello stesso anno l'assegnerà in dote alla figlia Francesca in occasione del suo matrimonio con Pietro Celestri, marchese di Santa Croce.
Dal 1558 è dunque uditore, generale, carica che lo obbliga ad andare spesso in giro per l'isola insieme con il suo maestro notaro Alonso del Truxillo. Dal 1° ag. 1559 il Medinacèli lo nomina.uditore generale dell'impresa d'Africa, da lui stesso voluta e Comandata. Lo troviamo pertanto al seguito dei viceré e dell'armata prima a Malta e poi, dal febbraio 1560, a Tripoli dove partecipa all'infelice giornata delle Gerbe.
Il 24 giugno 1561, alla notizia della nomina a reggente del Supremo Consiglio d'Italia di Giovanni Battista Seminara, il Medinaceli gli attribuisce l'ufficio di avvocato fiscale della Regia Gran Corte, che il Seminara avrebbe lasciato vacante. Nel dare la conferma Filippo II però, non sappiamo se al fine di limitare i poteri dell'ufficio o allo scopo di rendere più efficiente l'amministrazione della giustizia (nell'atmosfera di riforme che si concretizzeranno poi nel 1569), decide di dividere l'ufficio, confermando il C. nella carica di avvocato fiscale limitatamente alle cause criminali e nominando per gli affari civili Federico Campixano. La cedola reale (20 nov. 1561) viene esecutoriata solo il 14 apr. 1563 unitamente a un dispaccio del 31 luglio 1562 con cui il re dispone che l'incarico non venga dato prima dell'arrivo in Spagna del Seminara. Nell'ottobre 1561 infatti le galere su cui quest'ultimo si era imbarcato, comandate da Bernardo de Guimeran, si scontrarono con la flottiglia dei pirata barbaresco Dragut e il Seminara cadde prigioniero dei Turchi con il vescovo di Catania Nicola Maria Caracciolo che si recava al concilio di Trento. Praticamente durante l'assenza del Seminara e cioè dal luglio 1561 a tutto maggio 1562, il C. svolse le funzioni di avvocato fiscale; ma, poiché, ottenuto il riscatto, il Seminara rientrò in Sicilia rinunciando al posto di reggente (che nel frattempo ora stato assegnato a Vincenzo Percolla), il C., fu costretto a lasciare, suo malgrado, l'importante ufficio.
Il C. era comunque già avviato a ricoprire gli incarichi più delicati non soltanto nel campo dell'amministratione della giustizia. Nel marzo 1562, mentre svolgeva le funzioni di avvocato fiscale, fu incaricato di compilare una relazione sulle preminenze della monarchia che avrebbe dovuto essere inviata al conte di Luna, ambasciatore al concilio di Trento, affinché potesse combattere gli attacchi degli oppositori della giurisdizione dell'Apostolica Legazia di Sicilia. Sappiamo anche che mentre era uditore generale il Medinaceli lo inviò a Corte, dove rimase oltre quattordici mesi, per affari di una certa importanza (Arch. di Stato di Palermo, Cancell., reg. 420, c. 183v). Il 10 giugno 1562 venne nominato, insieme con Francesco Colle, giudice delegato per la decisione, sia in primo grado che in appello, di tutti quei processi non ancora risolti contro gli ufficiali del Regno che erano stati sottoposti a visita da Diego de Cordova. Lavorò per la visita dal 16 giugno al 13 settembre di quell'anno, data di arrivo nell'isola del nuovo visitatore marchese di Oriolo. Il 19 febbr. 1563 lasciò la carica di uditore generale e nel novembre venne nominato giudice della Gran Corte per il biennio 1564-66. Ma i cinque anni spesi al.servizio dell'esercito gli hanno conferito una certa esperienza nella trattazione delle cause dei militari, tanto che nell'aprile 1565, il viceré don Garcia de Toledo, appena giunto in Sicilia, lo vuole con sé a Malta e alla Goletta dove si sarebbe recato con ventinove galere cariche di soldatesca allo scopo di rinforzare quella piazzafórte in, vista di un imminente assalto dei Turchi.
Pur avendo acquistato la cittadinanza siciliana per ductionem uxoris, il C. è sempre considerato uno spagnolo e come tale sempre indicato dai cronisti e dagli storici nei brevi cenni a lui dedicati (anche la grafia del nome è assai incerta: Cifontes, Fuente, de la Fonte). Lo stesso può dirsi per la corte di Madrid che nel maggio 1566, in seguito alla morte di Masi de Medicis, lo nomina, non ancora quarantenne, reggente spagnolo per la Sicilia nel Supremo Consiglio d'Italia, la massima carica cui potesse aspirare un funzionario. Per sei anni sarà quindi chiamato a trattare a corte, insieme con il suo collega "regnicolo" (Vincenzo Percolla prima e Agostino Gisulfo dopo) tutti gli affari più importanti interessanti l'amministrazione del Regno di Sicilia (nel Consiglio ciascuna delle tre province, Napoli, Sicilia e Milano, era rappresentata da un reggente "naturale" e da uno spagnolo). Partì dalla Sicilia alla volta di Madrid il 7 sett. 1566. È stata forse questa circostanza - certamente anomala per un reggente spagnolo - ad indurre in errore il di Castro, che lo dà invece successore del Percolla.
Anche se costretto a vivere lontano, il C. non perde comunque i contatti con la Sicilia, che rimane sempre il centro dei suoi personali interessi. Il 28 sett. 1568 è a Palermo dove partecipa alla cerimonia per le esequie del principe don Carlos; mentre approfittando della vicinanza alla corte, non perde l'occasione per assicurarsi nuove fonti di reddito e di potere nell'isola: nel 1571 si fa assegnate il lucroso ufficio di viceportulano di Termini, che controllava l'esportazione di grano e cereali da quel caricatore; l'ufficio (già appartenuto a Federico Bonafide, che ne era stato privato in seguito alla visita di Oriolo) nel 1583 sarà ceduto dal C. a Leonardo Curlo. L'anno dopo gli viene assegnato l'ufficio di camerlengo del Regno di Sicilia, che, benché onorifico, fruttava però il diritto di sigillo. Infine non si lascia sfuggire il posto di maggiore prestigio nell'amministrazione giudiziaria del Regno: quello di presidente dei tribunale della Regia Gran Corte, vacante per la morte di Vincenzo Percolla, che ne era stato il primo titolare. La nomina è del 3 sett. 1572. Il 15 novembre arriva a Palermo con due galere, il 21 gli viene esecutoriata la cedola di nomina e il 23 dello stesso mese - come racconta il Paruta - "con sontuosa cavalcata pigliao possesso" dell'ufficio.
È ormai arrivato al culmine della carriera, ma la sua ambizione non si placa. Egli si fa assegnare dal presidente del Regno Carlo d'Aragona duca di Terranova, suo amico (assieme alla nuora, marchesa di Avola, sarà il padrino di battesimo della figlia Francesca), alcuni appartamenti del sontuoso palazzo dello Steri, già sede dei re aragonesi e poi dei vicerè, per trasferirvi gli uffici della Gran corte e per sua abitazione privata. Qui può riorganizzare H tribunale rendendolo più fimzionale e conferendogli maggiore prestigio ed autorità: i locali destinati alle udienze e alle riunioni dei giudici civili vengono separati da quelli destinati alla conferenza dei giudici criminali; locali appositi vengono attrezzati ed adibiti rispettivamente alla tortura, ai "damuselli" (camere di sicurezza), afl'archivio segreto, alla tesoreria e alla biblioteca pubblica della Corte, cui il C. pare abbia dedicato particolare cura arricchendola notevolmente con l'acquisto di opere antiche e moderne: nel 1580 i soli libri "antichi" forniti dal noto libraio tipografo palermitano G. F. Carrara, che aveva anche curato la costruzione delle librerie, superavano il migliaio. La presidenza della Gran Corte è un grosso centro di potere: sono pertanto inevitabili gli attriti tra il titolare della carica e le altre forze politiche. È espressione di aperta ostilità la sentenza del 1579 con cui il tribunale del Regio Patrimonio, accogliendo le richieste del castellano dello Steri, lo condannò a pagare 30 onze l'anno di pigione. E benché il C. non avesse mai accettato tale decisione, chiaramente lesiva del prestigio della Gran Corte e suo personale, il viceré Colonna, pur essendogli amico, fu costretto ad ordinare alla tesoreria di trattenergli quella somma dal salario. La tensione tra i due tribunali trapela in varie occasioni. I cronisti del tempo riferiscono che alla mostra dei cavalli e pedoni fatta in Palermo nel piano di S. Erasmo il 26 febbr. 1575, mentre quasi tutti i più alti magistrati, compreso lo stesso presidente del Regno, parteciparono alle esercitazioni vestiti a guerra, il C. vi assistette con l'intera Gran Corte indossando le cappe "per non cedere al Patrimonio". Questione di precedenza molto significativa per l'epoca.
Occupando una posizione chiave nel sistema giudiziario siciliano, al presidente del supremo tribunale venivano affidati incarichi vari e tra i più disparati. Dopo l'impresa di Lepanto lo troviamo - a Messina dove si occupa degli approvvigionamenti dell'armata e indaga sull'attività del segretario Juán de Soto coinvolto nell'affare delle'galere (1573); l'anno dopo è incaricato dello spoglio del vescovato di Agrigento; nel 1580 gli viene affidata la causa di reintegrazione dell'abbazia del Parco e, nel 1582, la causa relativa alla marchesa di Giuliana, che dovrà decidere insieme con i presidenti del Patrimonio, del Concistoro e con il consultore. Nel 1581 viene inviato a Malta insieme con Pompeo Colonna e lo stratigoto Diego Osorio per far cessare i moti avvenuti in quell'isola, che avevano portato alla cacciata del gran maestro Jean de la Cassière da parte dei cavalieri dell'Ordine. In seguito a questa missione ricevette la croce di cavaliere di Malta, alla quale dovette però rinunciare avendo Filippo Il ritenuto incompatibile tale titolo con la carica da lui ricoperta.
Pur essendo per temperamento piuttosto incline a una vita di studio, tuttavia per il posto che occupa e per l'epoca in cui vive il C. non può sottrarsi alla politica partigiana dei tempi ed è costretto ad entrare nelle consorterie che arriveranno a monopolizzare la vita pubblica dell'isola. La sua ascesa e gli anni della sua maggiore potenza coincidono infatti con il periodo di violenti contrasti e di lotte di giurisdizione tra il potere laico e l'Inquisizione, che raggiungono il culmine con l'arrivo in Sicilia del viceré Marc'Antonio Colonna (1577), di cui il C. diventa il principale collaboratore.
In questi anni la Sicilia è divisa tra due correnti: una formata dai maggiori esponenti della classe dirigente che fa capo al viceré, e una composta dagli avversari del Colonna, da molti rappresentanti della nobiltà siciliana e capeggiata dagli inquisitori, prima Gasco e poi Haedo e Peña. Anche in Spagna la corrente anticolonnese è molto forte, annoverando personaggi assai potenti come l'almirante di Castiglia e lo stesso Granvelle. Nel tribunale della Gran Corte il viceré vide il caposaldo della difesa delle istituzioni civili e del suo prestigio personale nei confronti della politica inquisitoriale, volta a far prevalere la propria. giurisdizione su quella laica. Il C., come capo del sistema giudiziario, divenne allora il suo naturale alleato, ma inevitabilmente anche il suo complice - qualche volta con l'ernanazione di sentenze non troppo imparziali - in tante imprese architettate da Marc'Antonio e dal fratello di lui Pompeo che in Gran Corte, forte del suo nome, pare riuscisse a prevalere sullo stesso presidente. Ad esempio, non si fece scrupolo di partecipare alla corsa all'accaparramento degli uffici, uno degli aspetti caratteristici della corrotta amministrazione dei periodo: nel 1578 si fece assegnare dal Colonna l'ufficio di maestro notaro del tribunale del Concistoro e del tribunale della Real Monarchia, già posseduto da Pietro Castaldo.
Per questo suo ruolo di collaboratore, oltre a divenire anch`egli bersaglio degli inquisitori, il C. sarà uno dei principali obiettivi della visita condotta da Gregorio Bravo, inviato in Sicilia nel 1583 con lo scopo ufficiale di sottoporre a indagine l'operato dei pubblici ufficiali, ma con quello recondito di indagare sull'amministrazione del Colonna, che le accuse degli inquisitori, scritte in lettere di fuoco a Filippo II, presentavano come uomo di così illimitata ambizione da aspirare addirittura a farsi re di Sicilia. Le minuziose indagini sull'operato dei più diretti collaboratori del viceré, come Pompeo Colonna, il C., l'avvocato fiscale G. F. Rao, il segretario Pedro Cisneros, costituirono pertanto i maggiori e più clamorosi processi condotti dal visitatore.
Questi processi presero l'avvio dalle rivelazioni fatte dal Cisneros, già segretario del viceré Colonna e poi, caduto in disgrazia, processato e condannato a morte per falsità dalla Gran Corte. Ma il visitatore, presente all'emanazione della sentenza, intuendo che l'eliminazione dell'imputato fosse imposta da ben altri motivi, vietò che fosse giustiziato, commutandogli la condanna a morte in rele gazione. Dopo questa intromissione del visitatore, per non rendere pubblico lo scandalo il C. e il viceré avevano cercato di correre ai ripari, promettendo al Cisneros la grazia se nella visita avesse deposto nel senso da essi desiderato.
Altro affare in cui fu coinvolto il C. è quello del generale delle galere Juán Osorio, che per la sua carica aveva vecchie questioni di rivalità con il Colonna. Questo spiega il processo intentato contro di lui in Gran Corte e la successiva condanna sotto la speciosa accusa di avere utilizzato le galere regie per i suoi trasporti privati e di avere fatto fuggire un condannato dal carcere di Matagrifone. Nel 1582, per motivi di suspicione, Filippo II tolse la causa d'appello al viceré e ne investì come giudici delegati il C., il presidente del concistoro Ramondetta e il consultore Taboada. Ma scoperta la complicità del C. con il Colonna e la parzialità e l'ostilità nei confronti dell'imputato (pare che il C. avesse corrotto testi con minacce per farli deporre contro l'Osorio), il re rimise il processo di appello al visitatore Bravo, assieme al Taboada e al giudice della Monarchia Grado. Dalle difese dell'Osorio viene alla luce ancora l'attività "turpe y fea" di personaggi molto in vista e apparentemente al di sopra di ogni sospetto, come il C., il Rao, il procuratore fiscale De Franchis e tutti i giudici della Gran Corte, che, legati da una sinistra solidarietà, con minacce, astuzie, violenze e falsità d'ogni genere riuscivano a portare a compimento diabolici disegni: si ricorda il tentato omicidio di Juán Osorio perpetrato da fra' Flaminio da Napoli, dell'Ordine di Malta, che risulterà mandatario del Colonna, e la condanna alla.mutilazione della mano del notaio Francesco Michulla, accusato di falso ai danni di Eufrosina Corbera, baronessa di Miserendino, ma forse vittima di una congiura e condannato per reati che non aveva commesso, essendo la Corbera, come si sa, amante del Colonna.
Non vi è dubbio che la Gran Corte, capeggiata dal C., si trasformò in un centro di potere di stampo tipicamente mafioso. Tipici i mezzi usati per combattere i suoi avversari e imporre la sua potenza. Per gettare discredito sul visitatore il C. fece mettere in giro la voce che quello avesse fatto scarcerare un certo Juán Crema detenuto nelle carceri di Palermo; accusa risultata poi falsa. D'altra parte troppe fonti lo accusano di avere messo in atto minacce per corrompere testi e pressioni per piegare gli altri giudici. Brutte accuse quelle avanzate dal giudice dissidente G. B. Zara nelle sue lettere al visitatore Bravo, che oggi si conservano (Arch. gen. de Simancas, Visitas, leg. 186/6): ce lo rappresenta come un prepotente che alla testa dei suoi giudici vuole piegare tutti alla sua volontà. In effetti, per quanto non avesse voto nel consiglio, la preminenza della sua posizione e il fatto che l'ufficio fosse vitalizio faceva sì che la sua volontà fosse seguita da tutti gli altri giudici. Abbiamo diversi esempi di magistrati sottoposti a processo o sospesi dall'ufficio per essersi opposti ai suoi voleri: nel 1577 vengono condannati e sospesi dalla carica i giudici criminali Carlo Fontanetta e Francesco Rizzari, accusati di avere omesso atti d'ufficio; l'anno. dopo viene carcerato il giudice Blasi Mangano; il 15 nov. 1579 è la volta dell'avvocato fiscale Pietro Ferro che viene privato dell'ufficio per avere favorito la legittimazione della figlia naturale del principe di Butera: non ci vuol molto ad accorgersì che è un pretesto per eliminarlo dalla scena e mettere al suo posto il diabolico Giovan Francesco Rao, che diventerà così per un decennio il suo più diretto collaboratore e che poi gli succederà nella carica di presidente. Nel gennaio 1590 viene ammazzato il sollecitatore fiscale Giuseppe Rayola: eliminazione voluta dal C., d'intesa con il Rao, o, come qualcuno credette, architettata dal conte di Mussomeli?.
È certo che sapore di lotta tra clan mafiosi, più che di un'operazione di polizia giudiziaria, ha l'episodio della cattura del famoso bandito Rizzo di Saponara, che pure costituì, la gloria di Marc'Antonio Colonna e del Cifuentes. Per venticinque anni il bandito aveva potuto svolgere impunemente la sua attività criminosa in Sicilia e a Napoli perché protetto dai baroni. Ma la rottura di qualche equilibrio impose la necessità di avere delle prove per distruggere i nemici. Da qui l'impegno di assicurare alla giustizia il Rizzo - anche a prezzo di lunghe trattative diplomatiche col granduca di Toscana, dove si era rifugiato - per avere in mano un teste chiave che "si andava alla corda averia chiamato molti" (Paruta). Il bandito però fu avvelenato prima di essere sbarcato a Palermo.
Certo le indagini condotte dal visitatore sul suo conto arrecarono un danno morale al C., il quale dovette attraversare momenti di sconforto, come trapela dalla sua richiesta del posto di reggente avanzata nel 1584, proprio nel periodo cruciale della visita di Bravo. Le conseguenze dell'inchiesta furono comunque per lui meno gravose di quanto non lasciassero immaginare i sedici capi d'accusa contestatigli dal visitatore. Il Consiglio d'Italia lo assolse della metà di essi, mentre lo ritenne colpevole di negligenze nell'ufficio per avere favorito con spirito di parte persone indegne dando loro incarichi di giustizia e per avere fatto carcerare un giudice non disposto a piegarsi al suo volere; e per avere intascato 500 scudi in cambio di un indulto. Per questo dispose che gli venisse dato un rimprovero formale, "reprehensión", da parte del viceré.
Superata la visita e scomparso il Colonna, gli ultimi anni della vita del C. trascorrono in un'atmosfera più tranquilla. Nel 1585 riceve la cittadinanza onoraria di Catania. Il patrimonio portatogli in dote dalla moglie viene aumentato con l'acquisto di case e terreni nella piana dei Colli. Qui sorgeva la "conigliera" di don Pietro de Luna, duca di Bivona, che il C. abbellirà e trasformerà in un delizioso luogo di villeggiatura. Narrano i diaristi che nei famosi giardini del C. il viceré conte di Albadalista si trattenne tutto il giorno (era il 3 ag. 1585) quando, giunto da Napoli per prendere possesso della carica, si preparava a fare il suo ingresso solenne in Palermo.
Il C. morì a Palermo il 2 marzo 1590 e fu seppellito nella chiesa di S. Maria degli Angeli, lasciando due figlie ancora fanciulle, Francesca di cui si è detto, e Polissena che andrà sposa a Mario de Gregorio, presidente del tribunale del Concistoro.
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