Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Cimabue è il protagonista del rinnovamento della pittura italiana. Con lui la “maniera greca” dello stile bizantino cede il passo a una nuova naturalezza, e a un’inedita attenzione alla raffigurazione dello spazio. Le sue opere, realizzate in un arco cronologico che va dal 1265 circa al 1302, anno della sua morte, segnano l’inizio di una tradizione autonoma, e si pongono come immediato precedente per Giotto.
In Oriente, nel corso del Medioevo, la pittura ellenistica basata sulla macchia di colore, che punta a un’illusione di naturalezza e mimetismo, lascia il posto a una stesura pittorica che segue un sistema più schematico, tripartito. Alla tonalità media si affiancano due o tre sfumature più chiare e altrettante più scure, stese in modo secco e distinte l’una dall’altra: le “prime linee in un campo di colore”, come le chiama Giorgio Vasari, quasi lo scheletro di un dipinto non terminato. Non si rappresenta ma si presenta: per motivi teologici l’immagine deve essere un simbolo, e le figure umane si riducono a forme semplici, allusive, come un manichino che scompone e ricompone la realtà, ““con le giunture chiaramente segnate e i movimenti un po’ meccanizzati”” (Otto Demus); i panneggi non cadono fluidi, ma rigidi e come inamidati, non seguono le linee anatomiche del corpo ma si svolgono secondo secche geometrie, regolati da un andamento grafico lineare e decorativo.
Questa “maniera greca” si diffonde dall’Oriente in ampie zone dell’ovest d’Europa, dove viene apprezzata per la riconoscibilità immediata, iconica e corrispondente a un’idea di autorevolezza religiosa (non si dimentichi che quasi tutte le immagini sacre, miracolose, vengono dall’area bizantina) e per la facile riproducibilità, basata su regole pittoriche semplici (la grammatica) e su modelli repertoriali rifruibili (il vocabolario); a ciò si aggiunge la qualità tecnica, di gran lunga superiore alla pittura occidentale. La sua storia nelle zone d’origine è caratterizzata da una scarsa tendenza all’evoluzione; in Italia, dopo aver dominato per buona parte del Duecento, anche grazie agli scambi che si hanno dopo la caduta di Costantinopoli (1204) e la nascita dell’Impero Latino d’Oriente, si arresta con la generazione di Cimabue.
Non è un caso che Vasari ponga proprio lui all’origine dell’arte italiana, individuando nella sua opera una svolta ancora oggi accettata nella periodizzazione della produzione artistica. Cimabue allora come precursore della rivoluzione di Giotto, primo esponente di quel distacco che fa scaturire la pittura moderna.
Fra XIX e inizi del XX secolo qualcuno ha pensato che Cimabue non fosse mai esistito, ma costituisse solo un nome di comodo creato dalla storiografia artistica per definire il fenomeno di progressivo allontanamento dalla “maniera greca” più rigida, che si esplica in forme diverse ma parallele anche in alcune aree interne al mondo bizantino.
In realtà, i documenti che parlano di lui esistono, anche se la loro scarsità ha reso difficile un discorso biografico. Il suo ruolo viene evidenziato in un notissimo passo del Purgatorio dantesco (XI, 94-96), in cui è preso a esempio della transitorietà della fama, a favore appunto di Giotto. Della sua vita conosciamo solo due fatti, oltre alla nascita fiorentina.
Il primo è la presenza a Roma nel 1272, grazie a un’attestazione peraltro abbastanza incidentale e non collegata a fatti artistici. L’altro è un soggiorno a Pisa per due commissioni contemporanee: un mosaico per l’abside del Duomo, per il quale riceve numerosi pagamenti dal settembre 1301 al febbraio 1302, e un polittico (probabilmente non eseguito) per l’ospedale di Santa Chiara, che gli viene richiesto a inizio novembre 1301; proprio in quella città toscana il pittore è citato come defunto già il 19 marzo 1302. Nato forse tra 1230 e 1240, Cimabue è dunque attivo per molto tempo, ma di lui rimangono poche opere, che gli studi, nel corso del tempo, hanno faticato a datare sia in senso relativo, nel loro ordine, sia in assoluto; a esse si può aggiungere qualche notizia di lavori non più esistenti, specie a Firenze.
Cimabue parte dunque dalla “maniera greca”: Vasari lo dice addirittura allievo di “maestri greci” chiamati a Firenze per l’assenza all’epoca in città di bravi artisti; una bella favola che semplifica il complesso fenomeno della diffusione dell’arte bizantina in Italia, che in Toscana ha un apice a Pisa, luogo di arrivo privilegiato, via mare, di artisti e di opere.
La croce dipinta di San Domenico ad Arezzo, prima opera nota di Cimabue, può essere considerata infatti una derivazione dalle realizzazioni di pittori pisani come Giunta. In quest’opera la matrice neogreca si scioglie in una sensibilità pittorica che è stata definita di “divisionismo chiaroscurale”. Le rigidità sono ancora forti, l’impostazione iconografica della figura patiens, vista nel momento della sua sofferenza, è quella tradizionale, ma il colore, e alcune soluzioni tecniche, mostrano un cambiamento. L’opera si data forse alla metà degli anni Sessanta, una decina di anni dopo il crocefisso che proprio Giunta Pisano aveva dipinto a Bologna per la Basilica di San Domenico.
Sulla cronologia e le opere del periodo successivo regna grande incertezza. Nel corso del soggiorno romano, Cimabue trova motivi di aggiornamento sia nell’ambito della curia papale, dove manufatti bizantini erano presenti in gran numero, sia nel contatto con i complessi e le rovine monumentali della città antica, i mirabilia urbis Romae. I dipinti del Sancta Sanctorum in Laterano, eseguiti tra 1278 e 1280, mostrano già, nella loro cifra stilistica, l’influenza dell’artista.
Prima del 1280 si data il ritorno di Cimabue a Firenze e la realizzazione della seconda croce dipinta, quella per Santa Croce, oggi in condizioni disastrose nonostante i restauri seguiti all’alluvione del 1966. Nel cambiamento di stile, il Cristo ““non dà più l’impressione di essere scomponibile in vari pezzi nettamente delimitati [...] la pelle acquista la trasparenza e il luccichio della seta”” (Luciano Bellosi), grazie a un chiaroscuro perfettamente modulato. L’icona diventa uomo. Il perizoma non è più un drappo coprente, decorato da inserti dorati, ma un velo sottile, che si modella sulle forme anatomiche.
La Madonna in maestà, eseguita all’inizio del nono decennio per la chiesa pisana dei Francescani (oggi a Parigi, Louvre), mostra analoghe qualità nelle figura della Madonna, in quella del Bambino e negli angeli, con volti definiti per chiaroscuri tratteggiati; il panneggio definisce le masse sottostanti; il trono ligneo è una vera novità, nella foggia e nell’accurata definizione della carpenteria a intaglio e del tessuto della testata. Le difficoltà spaziali sono ancora evidenti: alla volontà di suggerire una terza dimensione ben chiara nella collocazione in tralice della Vergine, si accompagnano sei figure angeliche che si incolonnano verso l’alto a coppie pressoché identiche, come nella tradizione modulare bizantina.
Tra il 1280 e il 1290 Cimabue pare aprirsi all’influenza di pittori più giovani. La Maestà della chiesa di Santa Maria dei Servi a Bologna, caratterizzata da un panneggio più oscillante e decorativo, mostra rapporti con Duccio (cui è stata in parte anche riferita. La nuova attenzione per la fisicità dei corpi e per gli effetti di trasparenza viene invece fatta risalire ai debutti di Giotto, che probabilmente esordisce nella cerchia, se non proprio nella bottega, dello stesso Cimabue, come secondo alcuni dimostrerebbe una compartecipazione dei due alla Madonna col Bambino di Castelfiorentino.
In questa fase si inserisce la complessa questione degli affreschi della Basilica superiore di San Francesco ad Assisi. Datati dapprima alla fine degli anni Settanta, sono stati posticipati di un decennio dalla critica, che ha trovato una collocazione storica del tutto logica, poi confermata dalle fonti, sotto il pontificato di Niccolò IV, primo papa francescano nonché patrocinatore dell’inizio dei lavori di decorazione pittorica della chiesa (dopo una prima campagna, interrotta, di maestri provenienti da oltralpe).
La proposta ha portato a considerare l’intero ciclo – simbolo stesso del rinnovamento della pittura italiana di fine Duecento – in modo compatto, in cui tempi di lavoro e rapporti di bottega si avvicinano, mentre in passato l’attività di Cimabue veniva separata di vent’anni da quella di Giotto. Quest’ultimo è infatti attivo nella stessa sede in contiguità fisica con Cimabue, lavorando nella parte bassa delle pareti della navata, a date che a loro volta sono state anticipate dagli ultimi ai primi anni Novanta. L’inizio degli interventi si colloca nella zona terminale della chiesa, dove a Cimabue spettano le Storie angeliche (transetto sinistro), quelle apostoliche (transetto destro), le Storie della Vergine (abside), e l’immensa volta coi Quattro evangelisti. Da qui si passa nello spazio della navata, in cui il pittore e la sua bottega - in cui c’è chi vuol vedere attivo anche qui Duccio - decorano i sottarchi della quarta campata e la relativa volta (interessata, come l’altra, dal crollo del terremoto del 26 settembre 1997), per poi interrompere l’impresa e cederla a maestranze romane capeggiate da Jacopo Torriti. Saranno queste ultime a traghettare i lavori alla loro fase giottesca.
Molti sono i motivi di interesse stilistico del ciclo di Cimabue: echi di cultura classica e delle rinascenze medioevali, un nuovo interesse per la rappresentazione dello spazio nella strepitosa serie di mensole e degli altri elementi architettonici delle fasce decorative, i prodromi del vedutismo delle quattro Parti del mondo che affiancano gli evangelisti, una mutata sensibilità nei confronti dei prototipi bizantini. Purtroppo molti problemi materiali, in un periodo evidentemente sperimentale per un pittore che vuole adeguare la tecnica alle novità stilistiche, hanno nel tempo degradato i dipinti, col viraggio in nero della biacca di piombo che ha creato l’effetto “negativo fotografico”, la caduta di molti pigmenti a secco, e la perdita di altri effetti quali i fondi a foglia d’oro. Un nuovo senso drammatico e di realtà umana, che si lega alla spiritualità francescana, è comunque evidente in molti episodi, soprattutto nelle due Crocefissioni e nella Caduta di Babilonia.
Successiva ad Assisi è la Maestà, ora agli Uffizi (già a Firenze in Santa Trinità). Impressiona qui la sperimentazione spaziale, con nuovi scorci degli angeli e il tentativo di tridimensionalizzazione della base del trono, in cui compaiono affacciati gli espressivi busti di quattro profeti. L’attitudine meditativa della Vergine si confronta bene col mosaico pisano raffigurante san Giovanni Evangelista, unica tappa documentata di Cimabue e sua ultima opera.
Si possono ricordare infine il dittico di cui in origine facevano parte la Madonna e angeli della National Gallery di Londra e la Flagellazione della collezione Frick a New York, la dibattuta partecipazione ai mosaici del Battistero di Firenze, e due ulteriori dipinti ad Assisi: una Madonna col Bambino e angeli ad affresco, nella Basilica inferiore, e una tavola con San Francesco, ora in Santa Maria degli Angeli, molto deperita e ridipinta.