Il rapporto fra la superpotenza del 20° secolo, gli Stati Uniti, e la grande potenza del 21° secolo, la Cina, sta assumendo le caratteristiche di un vero direttorio (G2), o si tratta del rapporto bilaterale fra due ‘Grandi’ (2G), condannati a cooperare ma non in grado di garantire nuovi equilibri internazionali? Nel primo caso, avremmo un ordine oligarchico, co-egemonico; il legame fra le due economie prevarrebbe su tutto. Nel secondo, il sistema internazionale manterrebbe caratteristiche anarchiche, e gli elementi conflittuali della relazione fra i Grandi tenderebbero a prevalere. Partiamo dal dato essenziale. La relazione fra Stati Uniti e Cina è cruciale non solo in virtù dei numeri (la prima e la seconda economia mondiale, la superpotenza militare e quella demografica), ma anche perché ci troviamo, all’inizio del 21° secolo, a un cambiamento di ciclo, con una Cina in ascesa relativa e con un’America in relativo declino. Gli Stati Uniti di oggi ricordano agli studiosi anglosassoni la traiettoria dell’Impero britannico, mentre la Cina, dopo un secolo e mezzo di marginalità, sembra avere recuperato la posizione centrale di cui godeva quale ‘Impero di Mezzo’. Il problema è che la storia delle relazioni internazionali indica che i cambiamenti di ciclo – caratterizzati dall’ascesa di una nuova potenza, che sfida l’ordine costituito – sono spesso cambiamenti conflittuali. Nel caso Cina-America, l’interazione economica è così stretta da creare, almeno a breve termine, un forte interesse reciproco a cooperare. Lo scenario di una nuova ‘guerra fredda’ sull’asse transpacifico sembra per ora da escludere. A undici anni dal proprio ingresso nel Wto (2001), la Cina ha riserve finanziarie che sfiorano i 3200 miliardi di dollari e che ne fanno il principale creditore estero degli Stati Uniti. Gli Usa non possono permettersi una frattura, ma neanche Pechino, che deve difendere i propri investimenti in dollari e che ha negli Stati Uniti un mercato di esportazione decisivo. D’altra parte, la crisi finanziaria del 2008 ha dimostrato che questa relazione squilibrata – la relazione fra una Cina che esporta a basso costo senza consumare e un’America che vive sopra ai propri mezzi senza risparmiare – è giunta all’esaurimento. La Cina, come prevede il nuovo Piano quinquennale, deve spostare la crescita verso la domanda interna; l’America deve aumentare il risparmio e le esportazioni. Ciò determina tensioni che si esprimono nella polemica americana sulla sotto-valutazione dello yuan e in quella cinese sulla necessità di arrivare a un sistema monetario internazionale non più interamente centrato sul dollaro. Se si consoliderà il G2, Pechino e Washington riusciranno a gestire insieme la transizione graduale verso un sistema monetario ‘multipolare’, che veda accanto al dollaro e all’euro anche una moneta internazionale di riserva della Cina. Altrimenti, le pressioni protezionistiche e il nazionalismo economico aumenteranno sia nel Congresso americano che nella leadership cinese nazionalista e confuciana, prima ancora che comunista. E la rivalità diventerà anche una rivalità di modelli: fra l’impianto dirigista del capitalismo di stato cinese e il ‘Washington Consensus’, a lungo dominante nelle relazioni economiche internazionali. Sul piano geopolitico, il G2 sembra già destinato a fallire. Dall’avvio dei rapporti diplomatici bilaterali, negli anni Settanta del secolo scorso, Stati Uniti e Cina hanno dovuto gestire la diversità di posizioni rispetto a Taiwan; oggi, la com-petizione per l’influenza si è allargata all’Asia orientale. Per vari decenni, una Cina interamente dedicata al proprio sviluppo economico ha accettato il dominio militare americano nel Pacifico come un modo indiretto per tenere sotto controllo le velleità del Giappone e della Corea del Sud. Questa logica di ‘basso profilo’ sembra ormai superata: una serie di indicatori – spese militari, rafforzamento della Marina, rivendicazione di interessi vitali nel Mar Cinese Meridionale, influenza di settori dell’Esercito sulla politica asiatica della Cina – sembrano confermare che Pechino aspira a diventare la potenza dominante in Asia orientale, escludendo, più a lungo termine, gli Stati Uniti. Oppure ridimensionandone il peso. La questione coreana indica i limiti della cooperazione possibile: la Cina ha interesse a controllare le aspirazioni nucleari del regime di Kim Jong Un, ma anche ad evitare una riunificazione tra le due Coree che porti truppe americane alle proprie frontiere. In sintesi, come qualunque potenza in ascesa, la Cina punta ormai a trasferire la propria forza economica in influenza politica. In relazione all’Asia orientale, si tratta di una rivendicazione di potenza abbastanza classica; altrove – in Africa e in America Latina – l’espansione cinese è soprattutto trainata dalle priorità economiche (acquisizione di materie prime e di energia), dalla ricerca di infrastrutture commerciali (anche nel Mediterraneo), e da una forza finanziaria che permette di sostenerla. Solo nei prossimi anni si vedrà quanto il soft power cinese possa soppiantare nel tempo la vecchia influenza americana, fondata sul ‘privilegio’ del dollaro, sulle alleanze militari, sulla superiorità tecnologica e sui valori democratici. Fra aspettative eccessive in un G2 e fattori di tensione fra i 2G, Stati Uniti e Cina tenderanno, probabilmente, alla ricerca di un compromesso pragmatico ma limitato. Sul breve termine, è questo lo scenario che ha maggiori possibilità di realizzarsi. Il condominio che l’Europa teme non nascerà. Ma se l’Europa non riuscirà a creare le premesse per far parte di chi decide, invece di chi subisce, resterà al tempo stesso vulnerabile e periferica rispetto a un sistema globale con l’asse spostato verso il Pacifico.