Dopo il 1989, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra fredda, sembrava ormai generalmente accettata l’idea che le regole del ‘Washington Consensus’, un insieme di raccomandazioni di politica economica della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, rappresentassero per i paesi in via di sviluppo la ricetta più sicura per garantire la crescita economica e uscire da una condizione di povertà diffusa. Le prescrizioni di queste istituzioni internazionali prevedevano la liberalizzazione immediata e senza eccezioni del commercio con l’estero e dei flussi di capitale, nonché l’adozione del modello capitalista basato sulla proprietà privata e sul libero mercato. Il ‘Washington Consensus’ si reggeva sul presupposto liberale in base al quale un simile modello di sviluppo avrebbe non solo apportato prosperità economica in seno alla società, ma anche favorito la creazione di una classe media, in grado poi di reclamare maggiori diritti politici e aperture democratiche. Nei primi anni Novanta, il binomio libero mercato-democrazia si presentava ormai, con la fine del comunismo, come l’unico paradigma ideologico plausibile. Tuttavia, l’applicazione indiscriminata di tali regole ha prodotto risultati contrastanti, causando in molti casi (come per esempio in Russia e in Argentina), dopo la prima metà degli anni Novanta, gravi crisi valutarie, lunghi periodi di stagnazione e recessione, fino al totale collasso di interi sistemi economici, con costi sociali elevatissimi.
Attorno all’espressione ‘Beijing Consensus’, coniata provocatoriamente nel 2004 dall’economista Joshua Cooper Ramo, si raccoglie oggi un nutrito dibattito che vede nella straordinaria crescita economica cinese un possibile modello di sviluppo alternativo al modello liberal-democratico, in cui alla parziale adozione di regole di mercato si combinerebbe, dal punto di vista politico, un governo di tipo autoritario e la repressione del dissenso.
La delusione nei confronti dei dettami di Washington, accusata di un’eccessiva intransigenza che non tiene in giusto conto le rispettive differenze sociali e culturali dei singoli paesi, insieme all’encomiabile performance economica cinese negli ultimi trent’anni, che ha permesso a centinaia di milioni di individui di emergere da uno stato di povertà assoluta, hanno avvicinato molti paesi al ‘Beijing Consensus’. Il prestigio della Cina, agli occhi della leadership di molti stati africani, asiatici e dell’America Latina, si è accresciuto enormemente, e oggi essi guardano sempre più a Pechino come ad un valido partner strategico, cercando di trarre dall’esperienza cinese percorsi di sviluppo applicabili alla propria realtà sociale e più compatibili con sistemi politici spesso autoritari e anti-democratici.