cinema e lingua
Il rapporto tra cinema e lingua italiana è a doppio senso: la lingua scritta e parlata è stata variamente influenzata, nel lessico e nello stile, dal cinema, così come quest’ultimo, ovviamente, ha sempre dovuto confrontarsi con l’italiano scritto e parlato per mettere a punto una forma di comunicazione funzionale ed efficace, nel contempo credibile e piacevole, realistica e comprensibile a un vasto pubblico culturalmente e linguisticamente eterogeneo. Obiettivo tutt’altro che facile, data la storia linguistica dell’italiano, caratterizzata dalla frammentazione dialettale e dal tardivo conseguimento di un parlato medio nazionale.
Già nel periodo del muto il cinema italiano dovette affrontare qualche problema linguistico. Ancor prima dell’avvento delle didascalie sono noti alcuni casi di recitazione dal vivo di attori posti dietro lo schermo: nel 1907, a Venezia, il film di Almerico Roatto Biaso el luganegher venne recitato in dialetto veneziano con questa tecnica. La gran parte delle didascalie del cinema muto esasperò gli stilemi retorici dannunziani e lo stesso D’Annunzio prese parte alla realizzazione del film Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, tra i primi esempi di kolossal italiani dal successo mondiale. Cominciavano a farsi strada, peraltro, timidi esempi di stile più colloquiale, come in Assunta Spina (1915) di Gustavo Serena (Raffaelli 2001: 867), né mancavano didascalie dialettali, soprattutto nelle produzioni napoletane, molte delle quali destinate al vasto pubblico degli emigrati oltreoceano: è il caso delle pellicole di Elvira Notari, quali È piccirella e ’A Santanotte, del 1922.
Simili usi non tardarono a destare il risentimento dei puristi e le levate di scudi della censura (la cui commissione venne istituita nel 1913), i cui prodromi, anche in ambito cinematografico, vanno ricercati ben prima del fascismo, in epoca giolittiana (v. oltre, § 2). Numerose riserve suscitarono anche le prime traduzioni di film stranieri, sia per lo stile trascurato, sia per l’infedeltà nei confronti dell’originale.
È naturalmente con l’avvento del sonoro (1930: La canzone dell’amore, di Gennaro Righelli) che si dovettero affrontare i problemi più spinosi. I dialoghisti delle origini oscillarono tra il registro pienamente retorico, tipico dei film in costume e di propaganda, e le soluzioni di artefatta medietas del teatro borghese. A parte i film in dialetto (come 1860, di Alessandro Blasetti, 1934), sembra mancare, nel cinema italiano dei primi anni Trenta del Novecento, un parlato medio, come lamentò, nel 1938, l’acuto critico Paolo Milano, secondo il quale il parlato filmico dovrebbe essere
il più semplice, il più documentario, il più legato all’esistenza spicciola e quotidiana. Qualunque altro linguaggio più sostenuto, letterario o (come si suol dire) aulico, rischierebbe d’assumere un valore artistico proprio, a tutto scapito della visione filmica, in ibrido e sterile connubio [...]. Ora, sarebbe tempo che anche il dialoghista cinematografico si associasse con lena e buon diritto a un’opera che si prosegue da più di un secolo, alla quale hanno contribuito e Manzoni e Verga e Pirandello, e a cui lavorano più o meno inconsapevolmente giornalisti e padri di famiglia e uomini della strada: la creazione di una lingua italiana di tutti i giorni (Paolo Milano, in Rossi 2006: 545-547).
Di analogo avviso altri italianisti, filmologi e cineasti dell’epoca, quali Ettore Allodoli, Giacomo Debenedetti, Luigi Chiarini.
Non sono privi di una certa varietà di scelte stilistiche i dialoghi dei film brillanti del periodo fascista, soprattutto quelli cosiddetti dei telefoni bianchi, caratterizzati dal timido accoglimento di forme regionali e straniere (perlopiù a fini ironici) e dall’intento di imitare la fresca agilità delle commedie americane. Spiccano in tal senso i film di Mario Camerini, quali Gli uomini, che mascalzoni ... (1932), Darò un milione (1935), Il signor Max (1937) (Ruffin & D’Agostino 1997).
Nonostante gli usi precedenti, non c’è dubbio che il dialetto diventi protagonista sul grande schermo con i film neorealistici, sebbene, a parte poche eccezioni come La terra trema (1948) di Luchino Visconti (recitato interamente da pescatori di Aci Trezza), più che di dialetti veri e propri sarebbe meglio parlare di italiani regionali, ovvero di quelle koinè intermedie tra gli usi locali (soprattutto nel lessico e nella fonetica) e la lingua nazionale. Veri e propri casi di ibridismo sono i dialoghi di molti film appartenenti ai generi detti del Neorealismo rosa e della Commedia all’italiana, nei quali forme dialettali tipiche, soprattutto romanesche (anvedi, aho, bona «avvenente», mannaggia, mo’ «ora»), sono incoerentemente inserite in un contesto tendenzialmente italofono, reso tanto più inverosimile nella pronuncia perfettamente sorvegliata dei doppiatori.
Si consideri ad es. il brano seguente: «Non le bastavo io, a mamma, che le volevo tanto bene? Dagli a fa’ figli. Guarda che disgraziati, che sono venuti fuori!» (Poveri, ma belli, 1957, di Dino Risi), nel quale forme credibilmente colloquiali o regionali come la dislocazione a destra (le bastavo io a mamma), il che polivalente, cioè con valore intermedio tra relativo e causale (che le volevo), e l’infinito tronco tipico del romanesco (fa’ «fare») si accostano a elementi del registro sorvegliato, inverosimili nella bocca di un popolano qual è il protagonista del film (almeno le e sono in luogo di je e so’).
Com’è noto, dalla fine degli anni Trenta agli anni Ottanta del Novecento il cinema italiano è stato quasi sempre postsincronizzato, cioè doppiato in studio, ora dai medesimi attori del film ora da doppiatori di professione. Questa tecnica serviva a eliminare la cattiva qualità del suono in presa diretta e a risolvere le incongruenze di film recitati frequentemente da attori non professionisti e basati, a differenza di quelli hollywoodiani, su sceneggiature spesso scritte come meri canovacci di supporto a una forte componente di improvvisazione, sulla scorta del grande teatro comico italiano. Quasi tutti i grandi interpreti del cinema brillante o farsesco, da Totò ad Aldo Fabrizi, dai De Filippo ad Anna Magnani, provengono infatti dal teatro di varietà e dall’avanspettacolo.
È molto difficile ricondurre la multiforme storia cinematografica italiana a pochi tipi linguistici. Almeno fino all’ultimo decennio del Novecento, tuttavia, il carattere più tipico dei dialoghi cinematografici sembra una certa tendenza all’attenuazione delle varietà e alla regolarità. Se si escludono pochissimi film integralmente dialettali (L’albero degli zoccoli, 1978, di Ermanno Olmi, in bergamasco arcaico; Maria Zef, 1981, di Vittorio Cottafavi, in friulano) e rari esempi di espressionismo (L’armata Brancaleone, 1966, e Brancaleone alle crociate, 1970, di Mario Monicelli; Totò; alcuni film di Lina Wertmüller, come Mimì metallurgico ferito nell’onore, 1972, Film d’amore e d’anarchia, 1973, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto, 1974; certi film plurilingui di Fellini e di Pasolini, e pochi altri), infatti, la maggior parte dei dialoghi filmici italiani è caratterizzata da battute brevi e facilmente intelligibili, che evitino le forme dialettali più complicate e che semplifichino il più possibile i nodi interpretativi per il grande pubblico. Il lessico è perlopiù basico e la morfosintassi regolare, con scarse infrazioni alla norma, eccezion fatta per certo accorto uso della focalizzazione, della dislocazione e dei pleonasmi pronominali (i soliti a me mi). La coesione, la coerenza e la sintesi dei periodi sono tendenzialmente elevate e avvicinano la lingua dei film più al polo dello scritto che a quello del parlato, con spiccata predilezione per l’uso di alcuni segnali discorsivi che sottolineano proprio la volontà di riprodurre i meccanismi dell’interazione verbale nelle sue forme meno slegate e informali (Rossi 2003: 100). Anche la composizione degli enunciati e dei turni dialogici spicca per l’estrema omologazione, come emerge chiaramente dal numero medio delle parole per frase, straordinariamente simile in film di epoca e genere assai differenti (Rossi 2006: 31-32).
Tale tendenza alla medietà e alla semplificazione è tanto più evidente nei film per le ampie platee, piuttosto che nella cinematografia d’autore, per definizione più vincolata all’ispirazione dei creatori che ai gusti del pubblico, e decisamente più marcata nei film trasposti da opere letterarie, maggioritari rispetto ai film su soggetto originale, e in quelli adattati da una lingua straniera, ben più numerosi, nelle sale italiane, rispetto a quelli nazionali. I fenomeni delle pratiche di glossa (vale a dire l’inserimento di una parola o di una frase che agevoli la comprensione di una battuta di dialogo) e dell’adattamento dei cosiddetti frames o riferimenti socioculturali (per es. cambiando i titoli di opere d’arte citati nell’originale) dimostrano tali atteggiamenti, peraltro pienamente comprensibili nell’ottica di un mezzo di comunicazione di massa come il cinema, la cui sopravvivenza è garantita dal pieno rispetto delle esigenze di un pubblico socialmente e culturalmente eterogeneo, per il quale più che la verità, anche linguistica, conta «l’impressione di verità» (Rossi 2003: 97) e, dunque, la rappresentazione di un mondo, anche acustico, riconoscibile e accettabile secondo certe convenzioni, mai troppo straniante né troppo complicato da comprendere.
Si aggiunga inoltre che il cinema, oltre a essere un mezzo di massa, è un mezzo audiovisivo, nato cioè dall’integrazione di codici scritti (soggetto e sceneggiatura) e orali (recitazione e doppiaggio), di parole, musiche, rumori e immagini, e per di più nasce come lavoro d’équipe (dagli sceneggiatori al regista, dagli attori al montatore, dal produttore ai doppiatori, ecc.) e dunque inevitabilmente soggetto ai fenomeni della contaminazione, dell’ibridazione e dell’attenuazione delle varietà.
Notevole è stato il ruolo del cinema straniero, soprattutto americano, doppiato in italiano, per via di uno stile medio pienamente riconoscibile nella sua artificiosità, fatto di un’estrema velocità dialogica, intrisa di forme familiari quando non (più di recente) triviali, forestierismi e calchi, il tutto inverosimilmente pronunciato senza la minima deflessione dallo standard fonetico e inserito in un contesto morfosintattico da libro di scuola (➔ doppiaggio e lingua). I rari regionalismi nel cinema doppiato sono quasi tutti d’area meridionale, soprattutto siciliana, e, dal Padrino (The Godfather, 1972, di Francis Ford Coppola, film che ha propagato le accezioni mafiose di termini come padrino e famiglia, oltreché la minaccia «un’offerta che non si può rifiutare») in poi, sono divenuti moneta corrente del genere malavitoso. Quest’ultimo filone ha influenzato anche tanto cinema italiano successivo, instaurando nel grande pubblico tutta una serie di stereotipi etnofobici, tra i quali la famigerata equazione siciliano = mafia.
Il cinema italiano del decennio 2000-2010 sembra caratterizzato da una maggiore varietà di forme e contenuti e dal ricorso sempre più frequente ai dialetti, anche quelli finora meno sfruttati dallo spettacolo, e alle lingue straniere. Per originali commistioni di lingue e dialetti si pensi a film come Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, o L’orchestra di piazza Vittorio (2006) di Agostino Ferrente. Oltre a quest’ultimo film, per la presenza di lingue orientali nel cinema italiano recente si vedano Private (2004) di Saverio Costanzo, Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005) di Marco Tullio Giordana, La stella che non c’è (2006) di Gianni Amelio.
Con il plurilinguismo il cinema italiano, del resto, ha sempre giocato, sebbene nei decenni precedenti ciò avvenisse perlopiù sul versante comico-farsesco, come mostrano gli spericolati giochi verbali di Totò (Totò a colori, 1952, di Steno e Monicelli, Totò, Peppino e ... la malafemmina, 1956, di Camillo Mastrocinque; Totò Peppino e ... la dolce vita, 1961, di Sergio Corbucci) e le gustose mescidanze angloitaliane di Alberto Sordi (Un americano a Roma, 1954, di Steno; Bello onesto emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata, 1971, di Luigi Zampa).
Il recupero di dialetti poco usurati dal cinema riguarda, per es., il barese dei film di Alessandro Piva (Lacapagira, 2000; Mio cognato, 2003) o il salentino di quelli di Edoardo Whinspeare (Pizzicata, 1996; Sangue vivo, 2000). Ma anche varietà da sempre care al cinema italiano vengono da qualche anno rappresentate nelle loro forme meno ibridate e stereotipate, come il napoletano, da L’amore molesto (1995) di Mario Martone, a Gomorra (2008) di Matteo Garrone, o il romanesco, da Ultrà (1991) di Ricky Tognazzi, a Romanzo criminale (2005) di Michele Placido. Notevole la recente fortuna delle varietà toscane (Roberto Benigni, Paolo Virzì, Leonardo Pieraccioni), tradizionalmente evitate nella lingua dello spettacolo comico, perché erroneamente ritenute identiche all’italiano letterario. Tale recupero e anche rifunzionalizzazione (talora in direzione gergale) dei dialetti riflette l’attuale situazione linguistica italiana, di un paese, cioè, giunto ormai da qualche decennio alla piena competenza attiva dell’italiano parlato, che può dunque tornare a guardare senza vergogna alle proprie realtà locali.
Non mancano, d’altro canto, esempi di consapevole esclusione del dialetto da trame ben radicate su un contesto geografico-sociale, nelle quali tutto lascerebbe supporre scelte linguisticamente marginali: Fame chimica (2003) di Antonio Bocola e Paolo Vari; Il seme della discordia (2008) di Pappi Corsicato. Si registrano anche casi di rarefazione della parola, fin quasi ad arrivare al muto: Ratataplan (1979) e Ho fatto splash (1980) di Maurizio Nichetti, Ballando ballando (1984) di Ettore Scola, Il sogno della farfalla (1994) di Marco Bellocchio, che fanno da contrappunto all’iperparlato di tanto altro cinema, perlopiù generazionale e comico (Troisi, Moretti, Verdone). Anche nei livelli stilistici l’escursione è massima, finanche negli stessi autori: si va da raffinate soluzioni letterarie (Il principe di Homburg, 1997, di Marco Bellocchio) all’esibizione del turpiloquio fino alla blasfemia (L’ora di religione, 2002, dello stesso Bellocchio; Anche libero va bene, 2006, di Kim Rossi Stuart).
Oltre al numeroso contingente di tecnicismi cinematografici, italiani e stranieri, presto entrati nell’uso comune (cfr. § 2), l’influenza più consistente del cinema nei confronti della lingua italiana riguarda soprattutto parole e locuzioni, diventate ormai proverbiali, tratte da titoli o battute di film famosi, spesso rilanciate dai giornali e dalla televisione: alba tragica (Le jour se lève, 1939, di Marcel Carné); al di sopra di ogni sospetto (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970, di Elio Petri); alien (1979, di Ridley Scott); anni di piombo (Die Bleierne Zeit, 1981, di Margarethe von Trotta); l’armata Brancaleone (1966, di Monicelli); l’attimo fuggente (Dead poets society, 1989, di Peter Weir); brutti, sporchi e cattivi (1976, di Scola); bulli e pupe (Guys and dolls, 1955, di Joseph L. Mankiewicz); day after (1983, di Nicholas Meyer); divorzio all’italiana (1961, di Pietro Germi); (non) essere nata/o ieri (Born yesterday, 1950, di George Cukor); fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, 1960, di Jean-Luc Godard); giochi proibiti (Jeux interdits, 1952, di René Clément); gioventù bruciata (Rebel without a cause, 1955, di Nicholas Ray); giungla d’asfalto (The asphalt jungle, 1950, di John Huston); la grande abbuffata (1973, di Marco Ferreri); incontri ravvicinati (Close encounters of the third kind, 1977, di Steven Spielberg); inferno di cristallo (The towering inferno, 1974, di John Guillermin); luci della ribalta (Limelight, 1952, di Charlie Chaplin); matrimonio all’italiana (1964, di De Sica); mezzogiorno di fuoco (High noon, 1952, di Fred Zinnemann); nove settimane e mezzo (Nine 1/2 weeks, 1986, di Adrian Lyne); picchiatello (È arrivata la felicità - Mr. Deeds goes to town, 1936, di Frank Capra); proposta indecente (Indecent proposal, 1993, di Lyne); quarto potere «la stampa» (Quarto potere - Citizen Kane, 1941, di Orson Welles); quinto potere «la televisione» (Quinto potere - Network, 1976, di Sidney Lumet, titolo italiano a sua volta costruito sulla base del precedente); scandalo al sole (A summer place, 1959, di Delmer Daves); scene da un matrimonio (Scener ur ett äktenskap, 1973, di Ingmar Bergman); sedotta e abbandonata (1964, di Germi); i soliti ignoti (1958, di Monicelli); via col vento e la sua battuta conclusiva: «Domani è un altro giorno» (Gone with the wind, 1939, di Victor Fleming); Viale del tramonto (Sunset boulevard, 1950, di Billy Wilder), e moltissimi altri.
Anche qualora non inventati dal cinema, certi termini si sono imposti proprio grazie a film famosi: paisà «compaesano», detto dai soldati americani agli alleati italiani nella seconda guerra mondiale (dall’omonimo film di Roberto Rossellini, 1946); sciuscià «lustrascarpe», dall’ingl. shoeshine (dall’omonimo film di Vittorio De Sica, 1946). O pensiamo al modo di dire arrivano i nostri, esclamazione saliente di tanti film western (altro anglicismo d’ambito cinematografico penetrato in italiano), oppure a neologismi quali zombi e replicante, la cui circolazione nella lingua comune è dovuta, rispettivamente, ai film di George A. Romero (per es. Zombi, 1979) e a Blade runner, 1982, di Ridley Scott; oppure all’uso gergale e giornalistico di eccellente («di personaggio in vista, o di eventi che lo riguardano»), dovuto a Cadaveri eccellenti, 1976, di Francesco Rosi.
Gli stessi personaggi dei film di successo, perlopiù americani, vengono spesso usati come antonomasie: Rocky, Rambo, Conan, King Kong, ma anche i nostrani Fantozzi e Fracchia. In Italia, spetta a Federico Fellini il primato dei prestiti alla lingua comune (e addirittura, caso pressoché unico, anche a qualche lingua straniera): amarcord «ricordo personale, rievocazione nostalgica del passato», dal romagnolo io mi ricordo (dal film Amarcord, 1973); bidone «imbroglio, raggiro» (attestato fin dal 1942, ma propagato dall’omonimo film felliniano del 1955); dolcevita (La dolce vita, 1960); paparazzo «fotografo alla continua ricerca di divi in situazioni compromettenti» (cognome di un fotografo nel medesimo film), vitellone «giovane ozioso e fatuo» (I vitelloni, 1953). A Totò si deve il nuovo conio pinzillacchera «cosa da nulla», e anche la fortuna goduta, negli anni Cinquanta-Sessanta del secolo, dalle espressioni fa Capri, fa fino e simili, oltreché la divulgazione di cultismi o burocratismi, tutti con finalità ludico-parodica, quali a prescindere, eziandio, fa d’uopo, laonde.
Pur quando non si tratta di prestiti propriamente detti, è indubbia la funzione del cinema come propulsore, presso tutti gli italiani, almeno a partire dal secondo dopoguerra, di un italiano più agile e sciolto, più variegato (con escursioni dalla lingua letteraria ai dialetti) rispetto a quello scritto e tendenzialmente allineato sui caratteri dell’italiano regionale romano, ancorché raramente irrispettoso della norma.
Dimostrano la romanità dei prestiti filmici molti termini uscenti in -aro anziché in -aio: mondezzaro, pallonaro, pataccaro, peracottaro; ma anche altre parole, talora d’origine meridionale o gergale ma comunque esportate in italiano da Roma, attraverso i film, quali abbioccarsi, beccamorto, borgata, bruscolini, burino, bustarella, caciara, cafone, dritto, fasullo, fesso, inghippo, lagna, locandina, mondezza, puzzone, racchio, scafare, scapicollarsi, scippo, scostumato, sfondone, spupazzare, zeppo, ecc.
Il grande schermo ha insomma anticipato la televisione nel ruolo di prima scuola di lingua degli italiani (Rossi 2007: 16-18). In questa sua funzione, il cinema straniero doppiato ha avuto sicuramente un maggiore influsso, sia per numero di spettatori, sia soprattutto per la già osservata tendenza alla standardizzazione. Deposta ormai da anni ogni attitudine didattica, il cinema ribadisce quella di rispecchiamento (e raramente di deformazione) di una realtà linguistica mai così variegata, dove ai vecchi dialetti si affiancano i nuovi gerghi e sulla tradizionale influenza dell’italiano scolastico ma anche dell’inglese, si innestano interessanti fenomeni di interferenza linguistica con le parlate degli immigrati asiatici, nordafricani e dall’Europa nordorientale e preoccupanti casi di analfabetismo di ritorno.
Raffaelli, Sergio (1992), La lingua filmata. Didascalie e dialoghi nel cinema italiano, Firenze, Le Lettere.
Raffaelli, Sergio (2001), La parola e la lingua, in Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, Torino, Einaudi, 5 voll., vol. 5° (Teorie, strumenti, memorie), pp. 855-907.
Raffaelli, Sergio (2003), Lessico cinematografico, in Enciclopedia del cinema, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 7 voll., vol. 3°, pp. 523-526.
Rossi, Alessandra (2003), La lingua del cinema, in La lingua italiana e i mass media, a cura di I. Bonomi, A. Masini & S. Morgana, Roma, Carocci, pp. 93-126.
Rossi, Fabio (2006), Il linguaggio cinematografico, Roma, Aracne.
Rossi, Fabio (2007), Lingua italiana e cinema, Roma, Carocci.
Ruffin, Valentina & D’Agostino, Patrizia (1997), Dialoghi di regime. La lingua del cinema degli anni Trenta, Roma, Bulzoni.