Cinema e media: scenari del nuovo secolo
Il cinema e gli altri mediadopo l’11 settembre
Diversità culturale e globalizzazione
Il 2001 segna una data epocale nella storia dell’universo mediatico per due eventi di carattere eterogeneo e in qualche modo opposti: l’emanazione della Dichiarazione universale della diversità culturale da parte dell’UNESCO (l’organismo culturale delle Nazioni Unite) e l’attentato di al-Qā῾ida al World Trade Center di New York. Questi due avvenimenti, nonostante prendano vita in contesti diversi e diversamente si relazionino all’universo dei media, si presentano come indici di un’unica problematica, che investe le questioni centrali sulle quali si giocheranno la vita e la cultura di questo secolo: le strategie per la pace, i profili che il potere e la politica assumeranno a livello mondiale (il futuro della democrazia su scala planetaria); il ruolo dei media e delle reti nella politica e nella cultura della globalizzazione; il ruolo del pensiero nelle dinamiche evolutive della contemporaneità; il nesso tra la molteplicità delle culture e la salvaguardia delle risorse naturali del pianeta, condizione quest’ultima sempre più evidentemente necessaria per la vita stessa del genere umano sulla Terra; il ruolo decisivo che assumono, in queste dinamiche, l’industria e il mercato culturali; l’integrazione dei media, e in particolare dei media audiovisivi (dal cinema delle sale alla sua digitalizzazione, al cellulare e alla rete), e la loro evoluzione; il rapporto tra sviluppo settoriale e strategie globali.
L’UNESCO e la ‘diversità culturale’
Il dibattito sul concetto di eccezione culturale, poi sviluppatosi in quello più ampio di diversità culturale (ricco di pregnanza politica, oltre che umana e sociale), ha avuto origine nel secondo dopoguerra, e si è incentrato nelle sue diverse fasi sulla possibilità di sottrarre le produzioni artistiche nazionali all’applicazione dei principi del libero scambio nel mercato internazionale. L’eccezione culturale risulta tale rispetto al quadro normativo liberista che si è progressivamente definito con gli accordi culminati nella WTO (World Trade Organization) del 1995; in virtù di essa si è mirato ad assicurare la possibilità di protezione delle produzioni artistiche nazionali mediante pubblici finanziamenti, con scelte sempre ostacolate dagli Stati Uniti. Dal termine eccezione, legato a un’istanza difensiva, si è passati a quello più propositivo di diversità, e il dibattito su tale questione ha contribuito nel tempo a rendere più complesso il concetto di cultura coniugandolo con quello di identità (a salvaguardia delle culture particolari dei nuovi Stati indipendenti che si costituirono negli anni della guerra fredda e come resistenza all’effetto uniformatore delle tecnologie), quindi con quello di sviluppo (nel porre la questione dell’indipendenza economica dei Paesi più deboli), e stabilendo infine una forte connessione tra le nozioni di cultura, democrazia e tolleranza (anche all’interno di ciascun singolo Paese), con uno sguardo sempre attento ai problemi della coesistenza, resi oggi più vivi e complessi dalla cultura della globalizzazione.
Nel corso degli ultimi dieci anni l’UNESCO ha sollecitato la diffusione di politiche culturali che fossero capaci di rafforzare la coesione sociale all’interno di società che per tradizione sono o sono diventate multiculturali e multietniche. Ha promosso la protezione delle eredità culturali e della diversità di proprietà intellettuali e artistiche (copyright). Tra queste ultime appare centrale quella relativa all’arte cinematografica, come ha sottolineato il regista Wim Wenders nel 2007 in qualità di presidente dell’EFA (European Film Academy), a proposito dell’identità positivamente multiforme del cinema europeo, che si propone come autentico cinema delle diversità.
Ebbene, proprio nel 2001 gli Stati membri hanno adottato la Dichiarazione universale della diversità culturale, testo nel quale per la prima volta questa viene considerata «patrimonio comune dell’umanità» (vedendosi riconosciuto in tal modo un valore inalienabile, che si sottrae quindi alle leggi del libero mercato) e viene equiparata alla biodiversità in natura.
L’UNESCO ha quindi invitato i Paesi delle Nazioni Unite ad aderire alla Dichiarazione divulgandola e facendone argomento di dibattito in vista di una normativa internazionale di tutela della diversità culturale. I Paesi che hanno aderito, varando proprie costituzioni nazionali della diversità culturale, sono un’ampia maggioranza ed è importante sottolineare che tra quelli che non hanno aderito all’invito dell’UNESCO figurano gli Stati Uniti, mentre l’Europa si è schierata a favore, anche se con una posizione tiepida da parte della Gran Bretagna.
Due prospettive mediatiche
Il nuovo secolo si è aperto dunque all’insegna di un conflitto significativo, al tempo stesso culturale, economico e politico. Sul piano culturale, le due prospettive che si fronteggiano a livello planetario e che trovano un terreno privilegiato nell’universo dei media coincidono la prima con lo sforzo di tenere vive le peculiarità delle singole culture e la seconda con il ricorso sistematico all’opera di colonizzazione, normalmente attraverso l’uso della forza, per la realizzazione di un mercato globale dominato da pochi e onnipotenti operatori. Intorno a queste due prospettive contrastanti si giocherà in futuro il destino della vivibilità stessa del pianeta, perché a esse sono strettamente collegati i temi cruciali della biodiversità, dell’ecologia, delle fonti alternative di energia, dell’assetto geografico e climatico della Terra.
Inoltre, queste prospettive sono, come si è accennato, intrinsecamente mediatiche. Politologi e sociologi hanno messo infatti in evidenza, da un lato, l’apporto del sistema dei media nell’opera di formazione del consenso e colonizzazione economica e politica che definisce il mercato globale (N. Chomsky, E.S. Herman, Manufacturing consent. The political economy of the mass media, 1988; trad. it. 1998), dall’altro, come il modello della rete pervada interamente lo stesso sistema del mercato globale (J. Rifkin, The age of access. The new culture of hypercapitalism, 2000; trad. it. 2000). Secondo alcuni osservatori, peraltro, la globalizzazione è già entrata in una dimensione entropica la cui probabile conseguenza sarà il rilancio del gioco delle particolarità (N. Klein, The shock doctrine. The rise of disaster capitalism, 2007; trad. it. 2007). I fattori di questo gioco saranno sia quelli tradizionalmente ereditati dal passato, primi tra tutti gli Stati nazionali (con un ritorno del concetto di territorialità che recentemente alcuni teorici avevano eclissato), sia quelli in una certa misura formatisi proprio nel contesto della rete e della transnazionalità, primi fra tutti i grandi e piccoli operatori via Internet, come i siti, i blog, le communities. In ogni caso, ciò che gli studiosi sottolineano unanimemente è l’interrelazione tra l’insieme della politica e dell’economia contemporanee e l’universo dei media, com’è mostrato anche dall’altro grande evento che ha aperto il nuovo secolo, gli attentati dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers di New York. Evento che ha messo in gioco una molteplicità di punti di vista interpretativi: televisivo, cinematografico, di una teoria generale dei media, di una teoria socioeconomica della contemporaneità.
La diretta televisiva e la videosfera
Se la diffusione capillare della televisione negli anni Sessanta aveva ridefinito il quadro degli studi sui media e il mondo contemporaneo, segnando una svolta di cui ancora oggi possiamo misurare la portata, negli ultimi venti anni gli osservatori hanno posto l’accento principalmente sulla dissoluzione dello spazio fisico e sul passaggio dalla visualizzazione alla virtualizzazione, che sarebbe proprio della videosfera (R. Debray, Vie et mort de l’image, 1992; trad. it. 1999). Concetto che, come suggerisce il nome, sottolinea l’avvento del video, in grado di soppiantare i mezzi tradizionali della ripresa cinematografica e della registrazione sonora grazie ad alcune caratteristiche specifiche: immagine e suono registrati sulla stessa pista, sviluppo rapido, costi ridotti e, soprattutto, possibilità della trasmissione istantanea a distanza, anche a livello planetario tramite il collegamento via satellite.
Con la videosfera si è così concretizzata la possibilità di tenere sotto controllo ogni angolo del pianeta, 24 ore su 24, e in diretta, creando un flusso di immagini-informazione che avvolge il mondo intero, finendo per costituirne una sorta di doppio immateriale (anche sulla base del dato tecnico dell’immagine video, che non è più materia, come nella fotografia e nel cinema, bensì segnale elettrico).
Ed è questo che l’evento insieme reale e mediatico dell’11 settembre ha rimesso in qualche modo in discussione (Cine ma tv, 2004). Per comprendere come ciò sia potuto accadere, si deve aggiungere che è proprio la possibilità tecnica della diretta ad aver consentito una progressiva rinegoziazione del rapporto tra il telespettatore e l’evento offertogli dal teleschermo. Nel corso degli ultimi decenni, infatti, si sono succedute quattro forme fondamentali di trasmissione in diretta (F. Colombo, Ombre sintetiche, 1990), caratterizzate da quattro diverse forme di rapporto tra il medium e l’evento ripreso: l’istantanea, cioè la diretta improvvisata, in cui l’evento mantiene comunque una sua peculiarità (come fu, nel 1981, nel caso della diretta televisiva di 18 ore da Vermicino, Roma, in cui venne seguita l’agonia e la tragica morte del piccolo Alfredino Rampi, caduto in un pozzo artesiano, che suscitò studi e commenti da parte di psicologi, sociologi ed esperti della comunicazione); la contemporanea, relativa agli eventi più prevedibili che i media possono facilmente seguire (come una partita di calcio); la predisposta, cioè la diretta da studio di pseudoeventi programmati in ogni particolare, che non hanno una vera e propria esistenza al di fuori della televisione (per es., i talk show); l’inevitabile, legata a eventi altamente spettacolari, e che si differenzia dal caso precedente per il fatto che la diretta non è più ragione dell’esistenza dell’evento esterno, perché esso ha già in sé i caratteri del prodotto televisivo (è il caso, per es., dell’inaugurazione delle Olimpiadi di Pechino del 2008).
L’evento dell’11 settembre ha costituito un cortocircuito all’interno di questo modello, un’inedita commistione tra l’evento mediatico del primo tipo e quello del quarto, rivelandosi evento imprevisto, unico ed eccessivo, vissuto al tempo stesso da una parte del pianeta come qualcosa di già visto, lungamente temuto, già iscritto nell’immaginario collettivo.
Disaster movies e rappresentazione della catastrofe
La copertura in diretta dell’11 settembre da parte dei media ha consentito a migliaia di telespettatori di seguire i fatti in tempo reale e insieme di narrativizzarli, cioè di recepirli trasponendoli nelle forme familiari di una fiction (Bourke 2005). In particolare, tanto i testimoni oculari diretti quanto gli spettatori televisivi degli attentati hanno commentato l’evento rievocando i termini di un immaginario cinematografico attinto dall’horror e dal film di genere catastrofico (disaster movie), un antecedente culturale che è servito come cornice simbolica di riferimento nonché come modalità cognitiva e orizzonte interpretativo. L’evento reale degli attentati è quindi diventato immediatamente un’icona, e la sua simbolizzazione è passata attraverso un immaginario mediatico che lo spettatore del 2001 aveva ben presente, grazie alle grandi narrazioni hollywoodiane offerte al pubblico negli anni immediatamente precedenti.
Il film catastrofico aveva infatti trovato un nuovo successo sui grandi schermi nel corso degli anni Novanta, grazie a film quali Independence day (1996) e Godzilla (1998), entrambi di Roland Emmerich, Titanic (1997) di James Cameron, Armageddon (1998; Armageddon – Giudizio finale) di Michael Bay o The matrix (1999; Matrix) di Andy e Larry Wachowski, offrendo, al di là delle sue molte implicazioni politiche in forma allegorica, enormi possibilità alle tecnologie digitali. Le produzioni americane mainstream di quel periodo dimostravano di proseguire sulla strada dell’esibizione della tecnologia che caratterizza il ‘film-concerto’, pirotecnico e immersivo, tipico del cinema postmoderno sviluppatosi, secondo Laurent Jullier (1997), a partire dall’uscita nelle sale di Star wars (1977; Guerre stellari) di George Lucas.
L’11 settembre rappresenta un inedito momento di saldatura di fiction e reality nell’immaginario collettivo e impone perciò una riflessione sulla videosfera affrancata da ogni metaforizzazione. La ‘realtà’ torna violentemente alla ribalta, con una carica di imprevedibilità-incontrollabilità che impedisce all’immagine mediatica che ne abbiamo di costituirsi come suo doppio: essa infatti ne sarà l’intensificazione e ne rappresenterà l’evidenza orrorifica ma non potrà più costituirne il doppio mediatico, perché il modello di quest’ultimo è il controllo, ed è proprio questo controllo a essere venuto meno.
Le interpretazioni postmoderne del mondo contemporaneo
L’attentato al World Trade Center, esistendo in quanto tale e quindi indipendentemente dalle sue rappresentazioni e interpretazioni, sancisce con prepotenza una sorta di ritorno della realtà, veicolato paradossalmente da quella rete del sistema mediatico che secondo molti studiosi, come si è visto, della realtà aveva comportato la ‘perdita’. Questo fatto ha avuto la sua ricaduta su una parte consistente delle riflessioni critiche, poiché ha obbligato a rimettere in discussione quel filone del pensiero postmoderno imperniato sulla nozione di smaterializzazione del reale, che aveva trovato nel campo dei media un terreno fertile di esercizio e di riscontro. Per molti l’11 settembre ha reso inefficaci formule apocalittiche come «sciopero degli eventi» (J. Baudrillard, L’illusion de la fin ou la grève des événements, 1992; trad. it. 1993) o «fine della storia» (F. Fukuyama, The end of history and the last man, 1992; trad. it. 1992), utilizzate per anni come strumenti per interpretare un mondo continuamente sul punto di collassare, percepito come in una sorta di eterno crepuscolo. A essere messa in discussione è stata quella cultura che aveva fondato i propri valori sull’indebolimento dell’esperienza e sulla sua destoricizzazione, sul primato del virtuale, sull’alleggerimento ontologico della realtà, sull’euforia per le possibilità offerte dal cosiddetto villaggio globale (che aveva indebolito le nozioni di luogo e di territorio) nonché sull’idea di liquefazione e moltiplicazione del concetto di identità.
D’altra parte, l’elemento strategico su cui ha agito il nuovo terrorismo è stata proprio l’importanza giocata dalle immagini nella vita quotidiana di milioni di cittadini occidentali, che ha registrato una proliferazione di videocamere e schermi in tutti i luoghi della sfera pubblica e privata. E l’efficacia dell’attacco al World Trade Center è dipesa proprio dal fatto di aver riversato contro il mondo occidentale il meccanismo attraverso cui esso aveva cominciato a colonizzare il resto del pianeta: l’utilizzo dei media come strumento politico, che ha come correlato la ‘globalizzazione postmoderna dell’immagine’ e quella cosiddetta visual culture in cui «vedere è molto più che credere» (Mirzoeff 1999; trad it. 2002, p. 27).
La natura problematica dell’evento e la sua relazione con l’immaginario sono testimoniate dalla divergenza delle interpretazioni elaborate a ridosso del 2001, molte delle quali hanno preso in considerazione i nessi tra immaginario simbolico e reale, chiamando in gioco il cinema e la cultura mediatica di fine secolo. Slavoj Žižek (2002), in particolare, dedica pagine penetranti al rapporto tra gli attacchi terroristici e le forme dell’immaginario. L’effetto causato dalle immagini del World Trade Center non coincide con il classico ‘effetto di realtà’ che appartiene a ogni tipo di rappresentazione: al contrario, si è trattato di un ‘effetto d’irrealtà’ dovuto all’irruzione di un Reale che sembrava impossibile – proprio perché già visto sui grandi schermi – agli spettatori occidentali. Secondo questa interpretazione il capitalismo globale, dietro l’apparenza rassicurante della varietà, produce una sostanziale identità che soltanto un evento può minare alla base; quando accade, questo evento è vissuto come apparizione fantasmatica da tutti quei testimoni che sono incapaci di integrarlo in quella che considerano la loro ‘realtà’. Le immagini degli attentati sono state lungamente replicate dai media, ma l’idea di una forza mediatica di questo incubo materializzato, secondo Žižek, è una sorta di giustificazione data a posteriori. Si tratterebbe infatti, in un’ottica neolacaniana, della normale reazione a un evento traumatico difficile da elaborare: per la società americana è stata una lacerazione del tessuto simbolico, il «deserto del reale» emerso dopo l’improvviso collasso dell’illusione di un mondo ordinato secondo rappresentazioni collettive condivise e apparentemente solide.
Nei suoi ultimi scritti Jean Baudrillard ha riflettuto sulla nozione di evento in opposizione all’immagine di sintesi, vera e propria apoteosi del virtuale nella misura in cui con essa l’immagine si fa «operatore di visibilità» in cui l’incontro è soppresso in favore del pre-visto e pre-determinato. Il virtuale, in questo senso, tende a sopprimere l’evenemenziale, a controllarlo: la sua modalità fondamentale è quella della videocamera di sorveglianza dei sistemi di sicurezza (Baudrillard 2004). Il sistema dell’informazione, che è un sistema di sorveglianza, è così descrivibile come un modello di controllo in relazione al carattere accidentale degli eventi intesi come accadimenti singolari e imprevedibili. Secondo questo modello, pertanto, uno dei modi per forzare il sistema dell’informazione è proprio il recupero della radicalità di un evento.
Il grado zero di un’estetica del digitale
Se l’evento dell’11 settembre rappresenta un momento chiave di reintroduzione del reale nel quadro ‘smaterializzato’ della ‘mediasfera’, il ritorno ‘materico’ che segna la svolta del nuovo secolo è indicato in modo ancora più radicale da un altro fatto mediatico che ha colpito violentemente l’opinione pubblica internazionale: le decapitazioni di al-Qā῾ida trasmesse dall’emittente del Katar Al Jazeera e immesse in rete. Si tratta di immagini nate non per la diretta televisiva ma per una indefinita fruizione nel web. Per la loro forza esse, come la ripetizione del disastro delle Twin Towers, hanno la proprietà di sospendere il tempo, e funzionano quindi come una sorta di diretta epocale: si imprimono nella coscienza civile come memoria sempre riattualizzata per l’interpretazione di un intero periodo storico. Questa forza consiste nel fatto che qui è evidente il motivo della morte fisica del singolo individuo, di cui si evidenzia la fragilità e la soggezione all’altrui arbitrio. E questo motivo è ancor più chiaro che nell’attentato alle Twin Towers, dove è temperato dall’elemento simbolico e dalla stessa eccezionalità della performance mediatica.
Con una formula sintetica si può dire che le decapitazioni di al-Qā῾ida trasmesse da Al Jazeera (i due marchi uniti indicano bene l’inscindibilità del fatto materiale e di quello mediatico) rappresentano nel modo più compiuto, oggi, una sorta di grado zero dell’estetica del digitale (De Vincenti 2006), il livello da cui dobbiamo partire se vogliamo capire ciò che si gioca e si giocherà davvero nell’universo delle reti. Le decapitazioni, infatti, sono al tempo stesso il parossismo dell’attualità secondo il modello CNN, l’evidenza del potere della rete come massima veicolazione di un messaggio digitale di vasta risonanza, e la riconduzione del massimo di astrazione (il codice binario in cui si identifica ciò che chiamiamo digitale) al massimo di concretezza (l’uccisione fisica). Estetica del digitale che obbliga a quel ripensamento della videosfera volto a reintrodurre elementi di ‘realtà’ all’interno delle teorizzazioni basate sul primato del virtuale. Non perché la sua efficace rozzezza metta fuori gioco livelli più sofisticati d’intervento formale, cosa che peraltro non potrebbe mai accadere non fosse altro che per motivi di mercato (un esempio per tutti: le proiezioni del magistero di artisti come Steina e Woody Vasulka sul cinema degli effetti speciali, per le quali v. oltre Smaterializzazione delle immagini e nuove tecnologie: La sperimentazione delle arti elettroniche). Ma perché il suo metterci davanti alla materia e alla ‘carne’ ci ricorda che il terminale ultimo della videosfera è il singolo abitante di questo pianeta, siamo noi, con le nostre pulsioni, i nostri desideri, il nostro piacere e il nostro dolore, la nostra (e non di altri) vita biologica e spirituale.
In questo contesto merita di essere segnalato un altro ‘evento’ dalla considerevole forza mediatica, che può essere considerato come una sintesi tra la microstoria lanciata su rete delle decapitazioni e l’evento delle Twin Towers: la regia della cerimonia mediatica dell’inaugurazione delle Olimpiadi di Pechino del 2008, dispiegamento trionfalistico di storia nazionale, risorse umane e tecnologia, affidata al regista Zhang Yimou come inequivocabile propaganda del Paese che oggi presenta nel mondo il più alto tasso di crescita economica. La competenza informatica e la capacità di utilizzarla in una dimensione macroscopica e per usi civili fanno delle immagini di questa cerimonia (e di quelle degli atleti in gara nei giorni successivi, nonché di quelle della cerimonia di chiusura, anch’essa affidata al medesimo regista) l’opposto delle immagini degli schermi computerizzati dei caccia-bombardieri in azione nell’ex Iugoslavia negli anni Novanta e che, teletrasmesse dalla CNN, hanno contribuito non poco a ‘irrealizzare’ il conflitto riducendone la percezione a quella di un videogioco. In entrambi i casi, inoltre, si confrontavano i destini individuali con gli sciovinismi nazionali, le bandiere in nome delle quali il singolo, soldato o atleta, operava. Il confronto tra Pechino 2008 e i bombardamenti della ex Iugoslavia appare in tutta la sua significatività se guardiamo alle due direzioni, opposte, che vi assume la componente informatica: nelle immagini belliche della CNN l’irrealizzazione del conflitto, nelle immagini dei giochi olimpici lo scambio alla pari tra corpi e immaginario come crogiolo di sviluppo economico e conquista dei mercati.
La televisione e la guerra per immagini
Con gli attentati dell’11 settembre 2001 la guerra è tornata a essere oggetto di discorso in forme del tutto nuove. La ‘guerra al terrorismo’, infatti, non prende di mira un popolo o uno Stato (pur avendo costruito a questo fine, per qualche tempo, l’icona sintetica di Usāma ibn Lādin): è una guerra permanente contro una cultura, contro una religione, una ‘guerra di guerre’ potenzialmente infinita. E il suo orizzonte sembra sempre più implicato con un altro tema che si è rivelato centrale in questi anni, ossia quello della sicurezza (Lyon 2003): le questioni belliche tendono, infatti, a definirsi come misure di sicurezza interna su scala planetaria, e il nemico è considerato allo stesso tempo illocalizzabile a livello planetario e ubiquo all’interno dello stesso corpo sociale.
La parte di realtà trasmessa dai media è stata al centro delle riflessioni mosse a proposito della copertura televisiva della guerra al terrorismo dichiarata all’indomani degli attentati al World Trade Center. La strategia mediatica complessiva utilizzata per questa e per la seconda guerra del Golfo è diversa dal suo diretto antecedente, ossia la strategia mediatica per la prima guerra del Golfo, prima guerra mostrata in diretta dalle televisioni. Si parlò in quell’occasione di ‘guerra postmoderna’ e di ‘guerra Nintendo’, perché la percezione che la CNN offriva ai telespettatori occidentali era simile a quella di un videogioco in cui si faceva sfoggio di tecnologia bellica e visuale, senza piani ravvicinati delle vittime né riferimenti alle azioni umane responsabili degli eventi mostrati. Quando, il 13 febbraio 1991, le televisioni fecero vedere i volti e fecero sentire le voci delle vittime, si parlò dell’incursione del ‘principio di realtà’ all’interno di una guerra che, nell’estasi visuale tesa a rivelare il meccanismo bellico nei dettagli, censurava i riferimenti alle reali conseguenze delle azioni militari (Robins 1996).
Per le guerre al terrorismo si è utilizzata una strategia mediatica diversa. Le immagini sono state mostrate per lo più dal punto di vista di una televisione embedded che, proprio perché direttamente sul campo, presentava indici di realismo sconosciuti ai telespettatori delle guerre precedenti. Con modalità diverse da quelle del passato, le immagini sono state ancora utilizzate come strumenti bellici di censura del reale e di propaganda: l’illusione di realtà nasconde infatti con naturalezza quanto l’informazione ufficiale intende celare (Nicholas Mirzoeff parla in proposito di «militarizzazione dell’immagine», 2004, p. 85). La tendenza generale verso la TV-realtà ha avuto dei riflessi anche sulle retoriche della propaganda bellica, che si sono spostate dalla smaterializzazione senza sguardo a una visione incarnata e soggettiva.
Traiettorie del cinema internazionale
L’elaborazione del lutto e la guerra nei film statunitensi
Il cinema di finzione hollywoodiano dei primi anni del secolo porta il segno dell’11 settembre, con film volti a un’elaborazione del lutto e realizzati per lo più in forme tradizionali. Un’eccezione è costituita dalla prima di queste opere in ordine di tempo, che appare anche fortemente segnata dalla volontà politica di comprendere l’accaduto: 11’09’’01 – September 11 (2002), firmato da Youssef Chahine, Amos Gitai, Alejandro González Iñárritu, Shōhei Imamura, Claude Lelouch, Ken Loach, Samira Makhmalbaf, Mira Nair, Idrissa Ouedraogo, Sean Penn e Danis Tanovic. Significativi di un atteggiamento non succube dell’establishment politico e cinematografico sono, per es., gli episodi di Loach e di Penn: il primo propone una dolorosa connessione, con dichiarate valenze politiche, tra il lutto statunitense e quello cileno dell’11 settembre 1973, data in cui venne effettuato il golpe di Pinochet contro il governo Allende; il secondo, che è stato interpretato da diversi critici come un atto antiamericano, risolve la tragedia delle Twin Towers in un provocatorio destino individuale da Kammerspielfilm. Di opposto tenore è invece World Trade Center (2006) di Oliver Stone, celebrazione delle risorse morali degli Stati Uniti dopo l’attentato. United 93 (2006) del documentarista inglese Paul Greengrass ricostruisce invece il volo del Boeing 757 che, dirottato da quattro terroristi, non colpì il bersaglio previsto (Washington) e precipitò in Pennsylvania dopo il disperato tentativo dei passeggeri di neutralizzare i sequestratori. Per arrivare a Reign over me (2007) di Mike Binder, che ripensa l’11 settembre in chiave privata, descrivendo l’impossibilità di riprendere una vita normale da parte di un uomo che nell’attentato ha perso la moglie e le figlie. E se Spike Lee sceglie di effettuare un riferimento esplicito ed esteriore rispetto alla tragedia in 25th hour (2002; La 25a ora), assai più interno alle dinamiche del film è quello realizzato da Wim Wenders in Land of plenty (2004; La terra dell’abbondanza); mentre riferimenti indiretti si trovano in film come The village (2004) di M. Night Shyamalan, fantastica metafora degli Stati Uniti dopo l’11 settembre, War of the worlds (2005; La guerra dei mondi) di Steven Spielberg, e Cloverfield (2008) di Matt Reeves.
Non distanti da queste elaborazioni del lutto sono i film che indicano la volontà statunitense di interrogarsi sulla verità di quelle che Noam Chomsky ha definito «guerre del presidente». Così, per es., il documentario di Errol Morris Standard operating procedure (2008), Orso d’argento a Berlino, basato su materiali di repertorio e su testimonianze relative ad Abū Ghraib; Redacted (2007) di Brian De Palma; In the valley of Elah (2007; Nella valle di Elah) di Paul Haggis, che presenta forti ambiguità in relazione alle responsabilità degli eventi della guerra in ῾Irāq sia sul fronte sia in patria; Lions for lambs (2007; Leoni per agnelli) di Robert Redford, sulla guerra in Afghānistān e la relativa politica statunitense. A questi titoli va aggiunta, inoltre, la docufiction britannica The road to Guantanamo (2006) di Michael Winterbottom e Mat Whitecross, storia di quattro amici arrestati per errore e portati nella base di Guantanamo. Echi dell’11 settembre sono rinvenibili anche nel cinema catastrofico, per es. in film come Flightplan (2005; Flightplan – Mistero in volo) di Robert Schwentke, Red eye (2005) di Wes Craven, Poseidon (2006) di Wolfgang Petersen, e The happening (2008; E venne il giorno) diretto da Shyamalan; e in famose serie televisive come, tra le altre, Six feet under, 24, Without a trace (Senza traccia), Battlestar Galactica, Lost.
Il mercato globale: l’Oriente
Se una parte della produzione statunitense è fortemente legata alla rielaborazione dei tragici fatti dell’11 settembre e della guerra, rimane innegabile la pervasività del modello hollywoodiano in un mercato globalizzato come quello attuale. Ciò appare tanto più evidente in rapporto al cinema orientale e alla maniera in cui è stato riassorbito, per es., un immaginario come quello del cinema tradizionale cinese di cappa e spada (wuxiapian) con il film Wo hu cang long, noto con il titolo Crouching tiger, hidden dragon (2000; La tigre e il dragone) di Ang Lee. Il film ha aperto la strada nel mercato occidentale a un genere coinvolgente e spettacolare che, grazie all’utilizzo del digitale in postproduzione, ha trovato una nuova vitalità con prodotti di successo quali Yingxiong (2002; Hero) e Shi mian maifu (2004; La foresta dei pugnali volanti), entrambi diretti da Zhang Yimou. Hollywood stessa, d’altra parte, ha ampiamente sfruttato il potenziale esotico riconducibile all’immaginario orientale, realizzando film di successo come The last samurai (2003; L’ultimo samurai) di Edward Zwick, coprodotto da Stati Uniti, Nuova Zelanda e Giappone, o Memoirs of a geisha (2005; Memorie di una geisha), coproduzione cinese-statunitense diretta da Rob Marshall.
Fin dagli anni Novanta il cinema orientale aveva cominciato a diffondersi in maniera massiccia nei circuiti commerciali occidentali, cessando di essere un prodotto fruibile esclusivamente nei festival e nei cineclub. La dialettica tra film d’arte e film commerciali (che si accompagna spesso a quella tra cultura locale e cultura globale) continua a caratterizzare anche in questo inizio secolo la produzione cinematografica orientale. Queste due linee oscillano tra il prodotto esportabile in quanto assimilabile, di cui Hollywood tende ad appropriarsi chiamando cineasti orientali a dirigere film negli Stati Uniti o realizzando remake di opere di particolare successo (è il caso, per es., dell’horror giapponese); e il prodotto che circola invece caratterizzandosi come film locale, radicale e ‘d’autore’, la cui ragione d’essere affonda spesso le radici nella cultura del Paese d’origine.
In realtà entrambi i filoni presentano elementi forti riconducibili alle culture nazionali. Ma un prodotto fortemente connotato in tal senso può circolare nel mercato globale e diventare esportabile soltanto nel caso in cui i suoi elementi siano riassorbiti e tradotti in termini di immaginario a fini spettacolari. D’altra parte, molto cinema d’autore orientale (ma anche, in questo caso, mediorientale) circola in Occidente nella misura in cui riecheggia in modo riconoscibile la lezione dei maggiori registi europei moderni: come se una certa verginità dello sguardo non fosse più possibile in Paesi carichi di tradizione cinematografica come quelli europei.
Gli esponenti più interessanti di molte cinematografie orientali, a ogni modo, appartengono all’una come all’altra linea: è una dialettica evidente in Cina, in Tsui Hark (Chat gim, 2005, Seven swords) e Jia Zhangke (Sanxia haoren, 2006, Still life); in Corea, in Park Chan-Wook (Oldboy, 2003) e Kim Ki Duk (Bin-jip, 2004, Ferro 3 – La casa vuota); a Hong Kong, in Johnnie To (Hak se wui, noto con il titolo Election, 2005) e Wong Kar-Wai (Huayang nianhua, 2000, In the mood for love); in Giappone, in Nakata Hideo (Ringu, 1998) e Kitano Takeshi (Dolls, 2002); a Taiwan, in Ang Lee (Se, jie, 2007, Lussuria) e Tsai Ming-liang (Tian bian yi duo yun, 2005, Il gusto dell’anguria); ma anche in India, dove tra i vari prodotti dell’industria di ‘Bollywood’ (la maggiore del mondo, anche se meno competitiva di quella hollywoodiana sul piano globale) spiccano i film più internazionali di Mira Nair (Monsoon wedding, 2001).
Verso un’identità del cinema europeo?
Il cinema europeo ha invece elaborato in questi anni un progetto cinematografico di ricerca di una propria identità forte, pensata tuttavia in relazione a quella statunitense, soprattutto dal momento in cui nuove realtà politiche e culturali sono emerse dall’ombra. Si è registrato innanzitutto un allargamento degli orizzonti, con i consensi tributati da più parti ai rappresentanti delle nuove cinematografie nazionali. È questo in particolare il caso di molti film provenienti dall’Europa dell’Est che si sono affacciati alla ribalta dei festival e delle sale: la Romania (4 luni, 3 saptamâni si 2 zile, 2007, 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, di Cristian Mungiu), la Repubblica Ceca (Želary, 2003, di Ondřej Trojan), l’Ungheria (Kontroll, 2003, di Nimród Antal), la Bosnia (Grbavica, 2006, Il segreto di Esma, di Jasmila Zbanic), la Turchia (Gegen die Wand, 2003, La sposa turca, film prodotto in Germania e diretto dal regista turco Fatih Akin).
Più in generale, il Vecchio continente sembra teso alla ricerca di una propria fisionomia nel contesto del nuovo scenario globale, candidandosi come modello alternativo rispetto a quello hollywoodiano. Si tratta di una ricerca che non procede verso una direzione univoca, ma che tuttavia presenta alcune linee principali. C’è, innanzitutto, un cinema che tende a sostituirsi a quello altamente spettacolare statunitense, con film che ne ripetono sostanzialmente i modelli e le strutture. Si pensi alla linea ‘mimetica’ francese che fa capo a Jean-Jacques Annaud: è il caso di Luc Besson (Le cinquième élément, 1997, Il quinto elemento; Arthur et les Minimoys, 2006, Arthur e il popolo dei Minimei) o di Mathieu Kassovitz (Les rivières pourpres, 2000, I fiumi di porpora); ma anche alla linea ‘alternativa’ (che ha un esempio forte in Le fabuleux destin d’Amélie Poulain, 2001, Il favoloso mondo di Amelie, film di Jean-Pierre Jeunet che all’epoca della sua uscita sembrò incarnare il modello per una via europea verso il grande mercato), in grado di competere con i blockbusters americani pur mantenendo riconoscibili alcuni tratti delle proprie origini europee. Una tendenza affine è riscontrabile in Spagna, dove la ricerca commerciale comporta la riscoperta del cinema di genere (per es., [Rec], 2007, di Jaume Balagueró), ma non impedisce la realizzazione di film di raro spessore come Mar adentro (2004; Mare dentro) di Alejandro Amenábar, o The secret life of words (2005; La vita segreta delle parole) di Isabel Coixet. La rivisitazione delle storie nazionali costituisce un’altra importante strategia del recupero della propria identità: è il caso della Germania, che ha raccontato la propria macrostoria in film come Good bye Lenin! (2003) di Wolfgang Becker, Der Untergang (2004; La caduta) di Oliver Hirschbiegel, Heimat 3 (2004) di Edgar Reitz, Der Baader Meinhof Komplex (2008; La banda Baader Meinhof) di Uli Edel; o della Gran Bretagna (con le microstorie di Billy Elliot, 2000, di Stephen Daldry; The Magdalene sisters, 2002, Magdalene, di Peter Mullan; e di Vera Drake, 2004, Il segreto di Vera Drake, di Mike Leigh). L’attenzione per il sociale e l’attualità è un altro tratto forte del cinema europeo, una tradizione cinematografica che continua a offrire esempi di grande interesse. È il caso, per citare alcuni casi eclatanti, di autori quali l’inglese Michael Winterbottom (In this world, 2002, Cose di questo mondo), i belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne (L’enfant, 2005; Le silence de Lorna, 2008, Il matrimonio di Lorna), il francese Laurent Cantet (Vers le sud, 2005, Verso il sud), lo svedese Lukas Moodysson (Lilja 4-Ever, 2002), lo spagnolo Fernando León de Aranoa (Los lunes al sol, 2002, I lunedì al sole), il finlandese Aki Kaurismäki (Mies vailla menneisyyttä, 2002, L’uomo senza passato).
Il cinema italiano – anch’esso teso, a partire dagli anni Novanta, alla ricerca di una nuova identità – presenta casi esemplari per ognuna delle linee sopra citate. È tornato alla ricerca delle realtà dimenticate, riscoprendo il paesaggio della provincia (Respiro, 2002, di Emanuele Crialese) e delle regioni dimenticate (Ballo a tre passi, 2003, di Salvatore Mereu), i dialetti (Lacapagira, 2000, di Alessandro Piva), le periferie urbane (Saimir, 2004, di Francesco Munzi); si è occupato in maniera non banale dell’attualità politica (Il caimano, 2006, di Nanni Moretti) e sociale (Tornando a casa, 2001, di Vincenzo Marra); è tornato a raccontare la sua storia (La meglio gioventù, 2003, di Marco Tullio Giordana), ha tentato di elaborare modelli esportabili all’estero (L’ultimo bacio, 2001, di Gabriele Muccino) e ha riscoperto i generi (AD Project, 2006, di Eros Puglielli) tentando a volte di realizzare un connubio di sguardi (Il passato è una terra straniera, 2008, di Daniele Vicari). Elementi di genere sono presenti anche in due dei maggiori autori italiani di inizio secolo, Matteo Garrone (Gomorra, 2008) e Paolo Sorrentino (Il divo, 2008), entrambi premiati al Festival di Cannes.
Smaterializzazione delle immagini e nuove tecnologie
Il modello hollywoodiano della new economy
Le reti e la smaterializzazione dei beni da un lato, e dall’altro lo spazio geografico e la vita reale sono le coordinate su cui si giocano non solo le principali elaborazioni teoriche contemporanee sul mondo dei media ma anche quelle più generali di economia e di sociologia della cultura. Tra queste un ruolo di rilievo è giocato dalle tesi di Jeremy Rifkin (The age of access, 2000; trad it. 2000), secondo cui il processo di smaterializzazione dei beni è collocato all’origine di una profonda modifica dell’organizzazione del mercato del lavoro a livello internazionale (e conseguentemente del quadro dei diritti), ormai ispirato a un modello duttile, adeguato al commercio elettronico. E non è un caso, osserva Rifkin, che l’industria hollywoodiana sia stata la prima a ristrutturarsi in forma adeguata all’odierno concetto di rete, e che i diversi settori del mercato tendano a strutturarsi sul suo modello, caratterizzato dalla produzione e dal commercio di ‘esperienze’ («mondi simulati e stati emotivi alterati») piuttosto che di prodotti materiali o servizi.
Il «diritto all’accesso» diventa così il motivo ispiratore del quadro attuale dei diritti, dove persiste il diritto a una ‘vita piena’ e la libertà dell’individuo è ancora centrale, mentre spetta allo Stato il compito di garantire gli accessi che permettono ai singoli di comunicare e interagire tra loro a ogni livello della vita reale, economico e culturale. In questa prospettiva il settore della cultura, formato da istituzioni, associazioni civiche, organizzazioni solidaristiche e organizzazioni non governative, presenta in molti Paesi del mondo un’importanza strategica anche dal punto di vista strettamente economico. La sfida, nell’era delle reti, sarà la partecipazione e il ruolo politico, culturale ed economico dei singoli e delle comunità territoriali. Lo ‘spazio geografico’ torna dunque prepotentemente alla ribalta e la vita reale, la concretezza della materia, non è affatto annullata, perché «i legami più profondi tra gli uomini non possono che formarsi e consolidarsi nello spazio geografico» (J. Rifkin, The age of access, 2000; trad. it. 2000, p. 336). Dovrà dunque nascere una nuova politica, capace sia di assicurare un’ecologia bilanciata tra economia globale (basata su valori d’uso) e interessi delle culture locali, in primo luogo l’interesse alla conservazione e allo sviluppo della propria identità culturale (valore intrinseco); sia di assicurare livelli adeguati di conservazione delle risorse del pianeta e di salvaguardia della biodiversità. Un ruolo centrale sarà svolto dalla creatività libera, matura e socializzante che Rifkin trova nel «gioco», come «categoria fondamentale del comportamento umano, senza la quale la civiltà non esisterebbe» (p. 346).
Il nuovo posto del cinema nel sistema dei media
A definire il processo di smaterializzazione delle immagini concorre in modo decisivo l’avvento delle nuove tecnologie digitali applicate al cinema e più in generale all’audiovisivo. Al fenomeno sono infatti interessate tutte le immagini, visive e sonore, che agiscono nella ‘videosfera’: il cinema, la televisione, le arti elettroniche, la radio, la rete.
Fin dagli anni Novanta, il cinema sembra tendere sempre più a tecniche di elaborazione dell’immagine sostanzialmente pittoriche, e sembra allontanarsi sempre più dalla sua originaria base fotografica e dunque dal suo statuto di arte dell’indice e della registrazione. Il cosiddetto cinema digitale, infatti, trova il suo perno nella fase della postproduzione più che in quella delle riprese: il lavoro fondamentale è quello dell’integrazione tra i materiali girati da un lato, e le correzioni e gli effetti visivi dall’altro. La direttrice è duplice: di norma gli effetti tendono a farsi invisibili per risultare compatibili con le esigenze narrative e con la materia dell’immagine fotografica, secondo una linea che ha un capostipite in Forrest gump (1994) di Robert Zemeckis; altrettanto spesso però gli effetti sono esibiti come tali, e la ricostruzione del reale è sempre più pervasiva, con un ritorno forte della componente mostrativa e attrazionale del cinema delle origini, anche a discapito della verosimiglianza narrativa e fotografica. Un caso limite è quello del film di animazione, che rinuncia del tutto alla base fotografica e che oggi, grazie all’utilizzo della grafica computerizzata in 3-D, impiegata per la prima volta in Toy story (1995; Toy story – Il mondo dei giocattoli) di John Lasseter, ha trovato nuove possibilità nella produzione di lungometraggi interamente animati. In entrambi i casi il lavoro consentito dalle nuove tecnologie è oggetto di interesse anche per il grande pubblico, come testimonia il proliferare dei backstages e dei making of che sempre più accompagnano i film nelle loro edizioni in DVD: gli effetti sollecitano i sensi degli spettatori nel buio della sala, ma anche la loro curiosità a margine della proiezione.
Coerentemente con questa linea evolutiva, la storia del cinema cessa di costituire l’argomento privilegiato degli studi sugli audiovisivi, per diventare un capitolo all’interno degli studi sui nuovi media. Territorio, quest’ultimo, ancora arduo da definire ma che sempre più riconosce nel cinema un luogo d’indagine privilegiato, dal momento che, come dimostra David N. Rodowick (2007), i nuovi media sono stati pensati partendo da una metafora cinematografica. D’altra parte, gli studi che rileggono oggi il fatto cinematografico in una prospettiva socio-culturale evidenziano il forte legame del cinema anteriore al digitale con il Novecento, nonché la sua capacità di cogliere e «mettere in forma» le questioni fondamentali del proprio tempo (Casetti 2005; Aumont 2007).
Quella dei rapporti tra il cinema e le possibilità offerte dalle nuove tecnologie digitali è una questione posta in forme diverse e ancora, tutto sommato, limitate. L’oggetto cui ci si riferisce quando si utilizza il sintagma cinema digitale è ancora sfuggente, variamente interpretabile e, in ogni caso, lungi dall’aver raggiunto uno sviluppo tale da renderlo univocamente riconoscibile, anche a un livello puramente intuitivo. I tentativi di sistematizzare i fenomeni dandone una descrizione sintetica sono però molti, e alcuni di essi – per quanto discussi e non universalmente riconosciuti – hanno raggiunto presto una discreta fortuna critica, nei Film Studies come nei Media Studies.
Jay D. Bolter e Richard Grusin (1999), per es., considerano il cinema all’interno del generale processo di rimediazione che caratterizza da sempre le interrelazioni tra i vari mezzi di comunicazione. Nella prospettiva dei due studiosi la settima arte ha risposto alla comparsa dei nuovi media incorporando l’attrazione dei media digitali interattivi all’interno di film pur sempre dotati di una struttura narrativa lineare; in questo modo gli effetti speciali dei blockbusters contemporanei possono essere letti come delle rimediazioni di film narrativi tradizionali, che consentono al cinema di riaffermare la propria posizione nella nostra cultura di fronte alla ‘minaccia’ dei media digitali. Questo processo si inserirebbe nella più generale «doppia logica della rimediazione» che caratterizza la cultura contemporanea, divisa tra un bisogno di immediatezza trasparente (cioè la tendenza all’annullamento del medium) e un’uguale urgenza di ipermediazione (cioè l’esibizione del medium): all’interno di questa logica i nuovi media rimodellano i vecchi e, allo stesso tempo, i vecchi devono necessariamente ripensarsi di fronte alle possibilità prospettate dai nuovi.
Il cinema digitale è considerato in una prospettiva ampliata anche da Lev Manovich, che ribadisce l’importanza dei nuovi media nel ridefinire gli orizzonti del cinema stesso. Nel suo The language of the new media (2001) lo studioso elenca i caratteri della nuova immagine che, come si è detto, tende a rendere obsoleta la classica distinzione tecnica tra cinema fotografico e cinema di animazione. Nel cinema digitale infatti, che si tratti di una grande produzione industriale o di un video amatoriale: 1) è possibile sostituire la ripresa con l’utilizzo di software di animazione in 3-D; 2) la realtà filmata, una volta digitalizzata, è per il computer un materiale al pari di quelli virtuali; 3) la ripresa dal vivo è materiale grezzo da lavorare per la composizione, l’animazione e il morphing, con la conseguente creazione di un realismo definibile come «qualcosa che è pensato per sembrare possibile, per quanto sia irreale» (trad. it. 2002, p. 371); 4) il montaggio e la creazione di effetti speciali non sono più attività rigidamente separate; 5) ne deriva l’equazione «cinema digitale=ripresa dal vivo + pittura + elaborazione delle immagini + montaggio + animazione computerizzata a due dimensioni + animazione computerizzata a 3-D» (p.371). Il cinema insomma non appartiene più esclusivamente a un contesto fotografico, nella misura in cui si è aperto in forme inedite a un contesto di tipo pittorico o comunque precinematografico.
Questi discorsi si riferiscono in particolare al cinema hollywoodiano dei blockbusters, in cui si effettua un utilizzo massiccio delle nuove possibilità tecnologiche in prodotti che continuano tuttavia a collocarsi nell’ambito di un modo di rappresentazione classico, seppure intensificato e ‘acceso’ nelle sue componenti sensibili (Bordwell 2006). A fianco di questa linea di sviluppo del cinema mainstream, esistono importanti tendenze del cinema contemporaneo che si servono del digitale in un senso opposto, non subordinato alle esigenze pirotecniche della diegesi, secondo una modalità che spesso è interpretata dagli studiosi come vera e propria reazione all’altra linea, altamente spettacolare e legata all’informatizzazione della postproduzione. Si tratta, per es., della modalità del digitale ‘leggero’ che ha trovato nel manifesto del collettivo Dogme 95 una prima compiuta teorizzazione, e in film come Dogme 1 – Festen (1998; Festen – Festa in famiglia) di Thomas Vinterberg o Dogme 2 – Idioterne (1998; Gli idioti) di Lars von Trier, girati in DV (Digital Video) con videocamere Sony, due tra i più interessanti e significativi esempi di realizzazione. L’utilizzo del digitale è legato tuttavia anche alle forme di una sperimentazione diversa che a tratti, per l’interesse portato sull’immagine al di là di qualsiasi subordinazione al modello narrativo classico, si avvicina alle esperienze della videoarte e dell’installazione. Si pensi a un film impossibile da realizzare senza l’alta definizione HD-24 P e la registrazione su hard disk come Russkij kovčeg (2002; Arca russa) di Aleksandr N. Sokurov; alla funzionalità del dispositivo in Ten (2002; Dieci) di Abbas Kiarostami; alle possibilità offerte dal digitale all’estetica barocca del film, uscito in tre episodi, The Tulse Luper suitcases (2003-04) di Peter Greenaway; o alla bassa definizione utilizzata in senso espressivo in Inland empire (2006; Inland empire – L’impero della mente) di David Lynch.
Il cinema on demand e il ‘cinema mobile’
Anche le principali innovazioni nel campo della distribuzione e della fruizione dei film sono legate all’interconnessione tra il cinema e le nuove tecnologie. La fortissima propensione dei giovani per i videogame, che assorbono la quasi totalità del loro tempo libero, spinge l’industria del cinema a collegarsi con le aziende del settore high-tech, mediante accordi economici che aprono molteplici prospettive.
La prima è costituita dal cosiddetto cinema on demand, cinema su richiesta. Le case cinematografiche aprono al noleggio dei film via Internet, e predispongono cataloghi sempre più adeguati come numero e qualità dei prodotti. Il pubblico, da parte sua, tende a differenziarsi: a una base di utenti generici che cercano prodotti di largo consumo, tende ad affiancarsi un’utenza più selettiva, per es. con la creazione di communities on line di appassionati di un genere cinematografico o perfino di un singolo regista. Il noleggio è a basso costo e la visione avviene in forme anch’esse differenziate: lo scaricamento (download) del film noleggiato può avvenire su computer o anche direttamente sul televisore, grazie a dispositivi che le maggiori aziende high-tech producono in forma sempre più sofisticata. Negli Stati Uniti, che costituiscono il mercato più avanzato, i decodificatori sono prodotti o importati da più aziende (Apple, che lavora anche in alta definizione; Tivo; Vudu; Netflix; Sony, che permette, come Microsoft, di utilizzare per la vendita e il noleggio dei film una playstation, e che ha un modello di televisore collegabile direttamente a Internet) e i cataloghi si trovano su più portali (per es., Amazon, e in futuro Blockbuster); l’offerta prevede l’acquisto a basso costo o il noleggio, a circa un terzo del prezzo d’acquisto; la scelta è tra alcune migliaia di titoli (100.000 con Netflix). In Italia, a parte i portali dedicati Film is Now e Cine1.it (quest’ultimo, finanziato dalla pubblicità, permette di vedere film gratis), i protagonisti sono gli operatori telefonici, con la IPTv (Internet Protocol Television): Fastweb, Telecom Italia, Tiscali, Wind permettono attraverso un set top box collegabile a Internet e al televisore di scegliere ogni mese in cataloghi ancora di modesta estensione, ma che potrebbero in futuro ampliarsi considerevolmente, in dipendenza della disponibilità della banda larga.
Altro scenario futuribile è costituito dal cosiddetto cinema mobile, caratterizzato dalla fruizione su cellulare, inteso anch’esso a rispondere alle caratteristiche della nuova utenza giovanile, sempre più attiva e desiderosa della massima agilità e libertà di scelta. È un campo dalle notevoli possibilità (anche se per ora con un’offerta piuttosto limitata), su cui i primi a muoversi sono stati Apple negli Stati Uniti e H3G in Italia. Quest’ultimo lavora su reti mobili UMTS e su DVB-H (versione mobile del digitale terrestre). I cellulari adatti sono stati per alcuni anni solo quelli asiatici, ma recentemente sono scese in campo anche note aziende occidentali, come, per es., Nokia. Le difficoltà di sviluppo di questo mercato sono essenzialmente legate all’elevato costo delle licenze, che nel nostro Paese è dovuto anche al relativo ritardo delle dinamiche di trasformazione dell’utenza.
La sperimentazione delle arti elettroniche
L’integrazione tra cinema e nuovi media favorita dalle nuove tecnologie è stata accompagnata e anche in parte anticipata dalle arti elettroniche (o videoarte), in particolare dagli artisti che hanno praticato l’intermedialità (Gazzano 2006). Nel primo decennio del nuovo secolo il fenomeno presenta due aspetti complementari: da un lato, il ricorso all’immagine in movimento e più specificatamente al video diventa uno dei motivi dominanti nel territorio delle arti figurative; dall’altro, il cinema sembra localizzare l’apporto della videoarte in territori molto contenuti e in qualche modo paralleli alla propria storia. Con la conseguenza che ciò che per le arti figurative appare come un’apertura necessaria (per garantire vitalità a quelle arti in uno scenario di fruizione e di mercato profondamente mutati) e al tempo stesso coraggiosa (perché mette in discussione gli stessi capisaldi linguistici di quel tipo di figurazione, spingendo peraltro all’estremo l’utilizzazione di materiali che per quelle arti non sono di lunga tradizione), per il cinema appare piuttosto come una sorta di rimosso da recuperare solo in casi estremi e di chiara utilità (per es., nell’applicazione di momenti tecnologicamente alti delle arti elettroniche al cinema mainstream; in proposito valga per tutti l’esempio, peraltro non recente, del travaso di competenze e di tecnici dalla factory di Steina e Woody Vasulka al cinema degli effetti speciali).
In ogni caso, si può osservare la presenza di una zona di confine tra cinema e arti elettroniche (Raymond Bellour parla in proposito di «entre-images»; L’entre-images. Photo, cinéma, video, 1990), che a tratti appare molto ampia e che è segnata da personalità che proprio in questo inizio di secolo (che ha visto la scomparsa di Nam June Paik, uno dei grandi padri della videoarte) si sono imposte all’attenzione internazionale. Tralasciando i rapporti storici tra le forme contigue dello sperimentalismo audiovisivo (per es., quello della videoarte con il cinema sperimentale e underground statunitense), così come i cineasti che si sono in un modo o nell’altro recentemente cimentati con video e videoinstallazioni (come, per fare qualche esempio, Kiarostami, Chantal Akerman, Atom Egoyan, Amos Gitai), nonché alcune datate e significative incursioni di frontiera nel territorio di un cinema che già ‘sente’ la videoinstallazione, di grandi artisti figurativi (Andy Warhol, Screen test 1-4, 1965-66, codiretti con Ronald Tavel; Outer and inner space, 1966) o del teatro (Samuel Beckett, che collaborò alla rilettura cinematografica del suo testo teatrale Comédie, per l’omonimo film diretto da Marin Karmitz, Jean Ravel e Jean-Marie Serreau nel 1966), vanno almeno ricordati i nomi di alcuni degli artisti che, pur iscrivendosi nel territorio della videoarte, potrebbero a buon motivo essere ‘rivendicati’ dal cinema (talvolta anche per il supporto che, prima di essere elettronico, è pellicolare): la finlandese Eija-Liisa Ahtila (Lohdutusseremonia, noto come Consolation service, 2000; Rakkaus on aarre, noto come Love is a treasure, 2002; The hour of prayer, 2005), l’iraniana Shirin Neshat (Turbulent, 1998), il sudafricano William Kentridge (Stereoscope, 1999; Journey to the Moon; 2003, Day for night and seven fragments for Georges Méliès, 2003), l’italiano Francesco Vezzoli (Trailer for a remake of Gore Vidal’s Caligula, 2005; Democrazy, 2007), il cinese Yang Fudong (Seven intellectuals in bamboo forest, 2003-2007, film in 35 mm trasferito su dvd, in cinque parti), il francese Robert Cahen (Sanaa, passages en noir, 2007). Senza dimenticare che uno dei maestri della videoarte, l’italiano Gianni Toti (1924-2007), proveniva da un passato di cineasta, oltre che di critico, scrittore e poeta. Sono solo alcune punte di diamante fortemente ‘cinematografiche’ di questo territorio, che in epoca di digitale sembra intrattenere più ancora che nel passato rapporti stretti con la settima arte, come dimostra, sebbene in maniera indiretta, anche il fatto che, dopo un periodo di apertura sperimentale alla digitalizzazione, si delinea attualmente, proprio da parte dei videoartisti, un ‘ritorno’ alla (relativa) matericità dell’elettronica.
Al limite della qualità apertamente cinematografica degli autori citati troviamo peraltro un buon numero di videoartisti, oltre a casi come quello del tedesco Felix Gmelin, che sempre più si rivolge al cinema facendolo dialogare con la pittura. Ne citiamo quattro, la cui importanza è oggi universalmente riconosciuta: gli statunitensi Matthew Barney (Hoist, capitolo del film collettivo Destricted, 2006) e Bill Viola (Ocean without a shore, 2007), la svizzera Pipilotti Rist (Homo sapiens sapiens, 2005), il gruppo italiano Studio Azzurro (La città degli occhi, 2002). Con questi nomi, cui molti altri se ne potrebbero aggiungere, si individua un luogo di operatività che non è sperimentale solo nel senso di una messa a punto laboratoriale dell’immagine, riservata a un mercato sofisticato, ma anche in una direzione commerciale più estesa, come messa a punto di strategie di intervento dell’immagine nel campo dei media di massa contemporanei. Pensiamo, per es., al campo musicale, che da molto tempo intrattiene con i video rapporti strettissimi, e a un esempio ‘alto’ quale può essere costituito dai video di Björk, compagna di M. Barney, e a una possibile analogia tra alcuni aspetti ‘mediatici’ del lavoro della cantante islandese e l’opera della videoartista giapponese Mariko Mori.
Un altro esempio di questo contesto mediatico, che da un lato pertiene al mercato delle arti figurative e dall’altro è aperto alla rete e in qualche modo massificato, è costituito dal collettivo russo AES+F Group, formato da due esponenti dell’architettura concettuale (Tatiana Arzamasova e Lev Evzovitch), un designer di pubblicità (Evgeny Svyatsky) e un fotografo di moda (Vladimir Fridkes). Il loro video in 3-D Last riot (2007) crea grazie al digitale un allucinato e metafisico ambiente cyber, teatro di una guerra raggelata tra bellissimi giovani androgini a torso nudo e in jeans alla moda, che si svolge terrificante e incruenta su uno sfondo da videogame su cui si muovono modellini da vecchia stanza dei balocchi: treni che deragliano, aerei che precipitano, carri militari che si spostano in un deserto metafisico e senza suoni. Il nuovo teatro digitale della dopostoria informatizzata.
Il documentario tra cinema e video
L’importanza delle nuove tecnologie digitali, cui si riconduce l’accelerazione del processo di ‘smaterializzazione’ della videosfera negli anni Novanta, presenta un segno opposto se del digitale consideriamo gli effetti in quello che è tradizionalmente definito campo del documentario. In questo ambito, infatti, le nuove tecnologie hanno favorito un diffuso utilizzo di strumenti amatoriali, moltiplicando le possibilità di documentare in diretta, incoraggiando la realizzazione di documentari a basso costo e consentendo la fioritura di nuove forme di controinformazione basate sulle dichiarazioni filmate di testimoni oculari non professionisti. In tutti i casi si registra l’intenzione di realizzare un ideale ‘controcampo’ alle immagini degli eventi diffuse dalle televisioni, dalla stampa e dai canali di informazione ufficiali, rispondendo al bisogno del pubblico di un’informazione densa e alternativa.
Fenomeno che ha diversi risvolti e conseguenze: dal sempre maggior successo di trasmissioni televisive che, attraverso reportage leggeri, veloci e penetranti, operano la controinformazione in un quadro professionale e istituzionale (per es., la testata Report, punto di riferimento del giornalismo d’inchiesta di RAI 3), alla realizzazione e diffusione di video non professionali, non istituzionali e ‘militanti’, centrati su una controinformazione ‘rubata’ e totalmente alternativa, in opposizione dichiarata all’informazione ufficiale e con una esplicita funzione di prova giuridica (per es., riprese di scontri di piazza tra polizia e manifestanti), fino all’effetto complessivo di favorire un ritorno del documentario nelle sale cinematografiche e nelle televisioni. I video amatoriali costituiscono un’importante alternativa, grazie anche alla loro ampia diffusione tramite siti di video sharing (il più importante dei quali è senz’altro YouTube) visitati ogni giorno da centinaia di utenti.
Come si è accennato, al di là di queste forme, che peraltro propongono temi di rilievo quanto alla regolamentazione della rete sul piano giuridico e morale (si vedano, per es., i casi di esaltazione che nel 2008 hanno portato a due serie di omicidi nelle scuole finlandesi di Kauhajoki e Tuusula, preannunciate da video messi su YouTube), è l’intero campo del documentario, anche cinematografico, che ha conosciuto una crescita esponenziale all’inizio del nuovo secolo, conquistando uno spazio nuovo anche al livello della programmazione tradizionale. Di particolare rilievo è stato, a questo proposito, il conferimento della Palma d’oro al Festival di Cannes del 2004 al documentario-inchiesta Fahrenheit 9/11 (2004) di Michael Moore.
Anche il documentario italiano sembra vivere di nuova vita in questi primi anni del secolo, in cui l’incremento della produzione del genere è particolarmente significativo: negli anni tra il 2000 e il 2004 sono stati prodotti annualmente poco più di 20 documentari, mentre nei tre anni successivi l’incremento annuo è stato di circa il 100%: 51 documentari nel 2005, 87 nel 2006, 169 nel 2007, ed è su quest’ultimo valore che la produzione sembra essersi oggi stabilizzata. Purtroppo però non è stato nemmeno avviato a soluzione il problema, che appare centrale, della distribuzione di questo genere di film. Dei non pochi documentari italiani di rilievo ne ricordiamo alcuni a titolo di esempio: Bibione Bye Bye One di Alessandro Rossetto (1999), sulla profonda trasformazione culturale del territorio del nordest italiano; Latina/Littoria di Gianfranco Pannone (2001), sulle dinamiche economiche e politiche di un’amministrazione comunale del basso Lazio seguite in diretta lungo un vasto arco di tempo; Carlo Giuliani, ragazzo (2002) di Francesca Comencini, sulla uccisione del giovane da parte della polizia durante il G8 di Genova nel 2001; A filo d’acqua (2005) di Gian Enrico Bianchi, suggestivo e umanissimo ritratto della canoista Josefa Idem; Il mio paese (2006) di Daniele Vicari, che prende spunto dal film di Joris Ivens L’Italia non è un paese povero (1960, commissionato da Enrico Mattei) per ripensare l’attuale livello identitario e di sviluppo della penisola; Zero. Inchiesta sull’11 settembre di Franco Fracassi e Francesco Trento (2007), promosso dal Gruppo 9/11 di Megachip, guidato da Giulietto Chiesa, anch’esso, come l’inchiesta di Moore, imperniato sulla tesi del complotto nell’attentato dell’11 settembre; Morire di lavoro (2008) di Daniele Segre, sulle morti per lavoro in Italia; 211: Anna (2008) di Giovanna Massimetti e Paolo Serbantini, sull’impegno politico pagato con la vita della giornalista russa Anna Politkovskaja, autrice della più rilevante opera di chiarificazione delle violenze russe in Cecenia.
In campo internazionale sono da ricordare, sempre a titolo di esempio: The corporation (2003) di Mark Achbar e Jennifer Abbot, composto di frammenti di quaranta interviste a politologi, economisti, sociologi, sul dominio delle multinazionali e sulla loro logica immorale e antisociale basata sulla ricerca del profitto a ogni costo, anche in violazione delle leggi; Letters to Ali (2004) della regista di Hong Kong Clara Law, sorta di reportage in diretta della liberazione di un giovane afgano, perseguitato politico e immigrato clandestino, dal famigerato campo di concentramento australiano di Port Hedland; An inconvenient truth (2006; Una scomoda verità) di Davis Guggenheim, in cui si segue Al Gore che presenta in centinaia di località il suo spettacolo didattico itinerante sul surriscaldamento del pianeta.
Va sottolineato inoltre, a mostrare il nuovo rilievo che il documentario ha assunto in questi anni, come di un’estetica del reportage siano debitori diversi recenti film di fiction, anche statunitensi e hollywoodiani. Opere come il già citato Cloverfield di Reeves, disaster movie interamente girato con macchina a mano, Diary of the dead (2007; Le cronache dei morti viventi) di George A. Romero, che mostra un gruppo di giovani cineasti alle prese con una vera invasione di zombie, Redacted (2007) di Brian De Palma, che restituisce gli orrori causati dall’esercito americano in ῾Irāq attraverso finti video girati dagli stessi soldati.
Diamo infine due esempi di documentari d’autore che si muovono in spazi della sperimentazione confinanti a tratti con le arti elettroniche. Il primo è un’esplicita riflessione sull’era del digitale, operata attraverso l’articolazione magmatica di immagini ‘di realtà’ e la loro alterazione mediante le più sofisticate tecniche digitali: Naqoyqatsi (2002) di Godfrey Reggio, terzo documentario della sua trilogia ‘Qatsi’, ipnotica sinfonia audiovisiva (colonna sonora di Philip Glass e di Yo-Yo Ma), ipertesto multimediale carico di inquietudine sulla pervasività, nel mondo globalizzato, di una tecnologia disumanizzata e produttrice di violenza. Il secondo è Empire II (2007) di Amos Poe, esponente di punta dello sperimentalismo statunitense contemporaneo: si tratta di un canto d’amore nei confronti della città di New York, realizzato mediante quotidiane riprese video in accelerazione, durate un anno, dalle finestre dell’appartamento dell’autore sulle case, le vie, lo skyline di Manhattan. Nuova, informatizzata, «sinfonia di una grande città» ispirata, come ha dichiarato lo stesso autore, al vecchio film di Walter Ruttman su Berlino non più che alla Divina commedia di Dante.
Verso una post-televisione
Il telespettatore degli attentati del settembre 2001 aveva un preciso universo immaginario come chiave interpretativa di riferimento; ma un lungo esercizio lo aveva assuefatto a un regime mediatico sempre più teso a dissimulare i confini tra un evento e la sua restituzione spettacolare. Le origini di questo tipo di esperienza sono rinvenibili nei tratti costitutivi della comunicazione «per contatto» (F. Casetti, R. Odin, De la paléo- à la néo-télévision. Approche sémiopragmatique, «Communications», 1990, 51) tipica della cosiddetta neotelevisione (U. Eco, Sette anni di desiderio, 1983). La televisione, caratterizzata da una forma di comunicazione per flusso, a partire dagli anni Ottanta ha rafforzato la tendenza alla continuità dei palinsesti, modellandoli sempre più sui ritmi della giornata dello spettatore medio, con il preciso intento di non perderne l’attenzione e il consenso. Di conseguenza i programmi televisivi, che si tratti di intrattenimento oppure di informazione, hanno assunto sempre più la struttura di grandi contenitori, riempiti di volta in volta con contenuti-eventi diversi, che lo spettatore deve fruire come se vi prendesse effettivamente parte.
È a questo livello che interviene il modello spettacolare, che imprime intensità ai fatti trasmessi in modo da renderli il più possibile avvincenti. Perfino nei telegiornali, la forma-spettacolo è preminente rispetto ai contenuti-informazione (O. Calabrese, U. Volli, I telegiornali. Istruzioni per l’uso, 1995), dal momento che un unico criterio di ‘notiziabilità’ rende i fatti più o meno ‘telegenici’, stabilendone a priori il potenziale di interesse per il pubblico. E, più in generale, è noto come le trasmissioni televisive tendano a sollecitare lo spettatore a livello emotivo, incoraggiandone la passività più che l’attività critica, e condizionandone la sensibilità con il ricorso a sensazioni forti e sentimenti diffusi, in grado di toccare una percentuale di pubblico il più ampia possibile per guadagnarne l’attaccamento e la fidelizzazione. Questa ricerca di una tonalità affettiva largamente condivisa implica una serie di strategie di «marketing emozionale» (Gallucci 2005) che trovano uno strumento efficace nella produzione ma anche nel riutilizzo di immaginari diffusi, non di rado di provenienza cinematografica.
Da un lato insomma la televisione ha dovuto ricalcare i tempi del quotidiano, dall’altro ha dovuto intensificarlo, per renderlo avvincente (Menduni 2006). Il broadcast neotelevisivo, da parte sua, ha seguito due modelli fondamentali non di rado ibridati: quello del talk show, ‘teatro’ televisivo basato su regole proprie, e quello della realtà, mettendo in scena la guerra e l’uomo qualunque (Monico 2006).
Il modello del reality show ha costituito il culmine dello sviluppo della televisione, e ha finito per diventare una sorta di supergenere che ha influenzato gli sviluppi di format anche molto diversi tra loro. Se negli anni precedenti l’accesso dell’individuo qualunque al teatro televisivo comportava l’esibizione di particolari competenze, nell’era del reality non gli è richiesto altro che una presenza ‘telegenica’, cioè compatibile con i tempi e la struttura del format.
In questo modo è la stessa percezione degli eventi a modificarsi: nel modello offerto dal più noto reality diffuso a livello planetario, Il grande fratello, lo spettatore ha l’impressione di tenere sotto controllo, in diretta, tutto un microcosmo che ha i caratteri dell’ordinario e a cui dunque, in qualche modo, partecipa. Il reality, insomma, appare in grado di coniugare il mito della telepresenza a eventi spontanei, che avvengono in tempo reale, e quello del controllo degli eventi stessi, il cui susseguirsi è strutturato secondo norme sufficientemente rigide.
Da un lato, dunque, l’esplosione dei reality coincide con lo sviluppo estremo di modalità di tipo neotelevisivo; dall’altro, la loro capacità di costruire mondi possibili (in cui accadono eventi ordinari ma anche straordinari: si veda, per es., il modello Survivors) ne fa il veicolo di una nuova dinamica che tende a oltrepassare i modelli neotelevisivi per istituire un sistema integrato di media. Attraverso questi prodotti di grande successo e suscettibili di ampi sviluppi la televisione sembra infatti concedersi la possibilità di diventare una sorta di «matrice tecnologica per tutti i new media» (Pecchioli 2005, p. 172), dal momento che la partecipazione dello spettatore all’universo di un reality si avvale sempre più di tutti i mezzi di comunicazione esistenti.
Il passaggio dalla televisione ai new media si fa così morbido e tuttavia sempre più visibile, al punto che gli studiosi che si occupano del fenomeno hanno cominciato a parlare di post-televisione, termine che sta a indicare oggi una galassia di strumenti, un ‘fascio di media’ comprendente mezzi diversi e in grado di coprire dimensioni spaziali che vanno dal globale al locale (Colombo 2005): dalla televisione digitale satellitare a quella terrestre, dalla telestreet fino alla web-TV e alla TV via cellulare.
La televisione di domani
Tra i più forti elementi che disegnano il futuro della televisione vi sono il digitale, terrestre e satellitare, e i format, cioè protocolli di regole che guidano lo svolgersi di un programma. Il concetto non è nuovo: fin dalle origini della televisione, molte delle trasmissioni che hanno ottenuto forte successo popolare possono essere considerate dei format. Due sono gli aspetti nuovi che ne caratterizzano la fortuna odierna, e sono interconnessi tra loro: la sistematicità con cui operano oggi a livello internazionale e il copyright. I format, infatti, sono proprietà intellettuali e il loro proprietario può vendere le licenze di realizzazione del programma nei più diversi Paesi. La vendita di un format coincide con la vendita da un lato delle linee generali del programma (concept) e dall’altro di una parte più flessibile, di cui solo alcune regole sono stabilite, e che il compratore adatta al proprio mercato locale. Le conseguenze di rilievo che i nuovi format hanno prodotto sul complesso delle televisioni sono più di una: da un lato si assiste alla diffusione di idee e forme spettacolari fuori dei confini nazionali, in una direzione che si può considerare globalizzante; dall’altro però, essendo le modalità di attuazione dei format diverse nelle diverse realtà culturali, il format presenta precisi connotati territoriali, e può quindi considerarsi come un indice chiaro dell’articolazione di globale e locale in cui si riconoscono molte delle principali dinamiche culturali della contemporaneità; infine, esaltando il protagonismo di singoli e di gruppi creativi capaci di interpretare il mercato televisivo, il format costituisce uno degli elementi che minano alla radice le televisioni generaliste, i cui apparati vengono progressivamente svuotati di contenuti e tendono a ridursi ad aziende finalizzate alla gestione di idee che non appartengono loro e provenienti dall’esterno, a volte anche da molto lontano.
Una certa internazionalizzazione delle televisioni è dunque connessa con la disarticolazione delle televisioni generaliste che risponde alla globalizzazione dei mercati, di cui i format di oggi sono uno degli esempi principali. E tuttavia le televisioni generaliste non scompariranno, anche se è difficile immaginare una loro centralità nella televisione del futuro, che dovrà rispondere alla domanda differenziata di un pubblico peraltro non sempre necessariamente appiattito sui livelli più bassi dell’intrattenimento televisivo. Così, se il reality show e il videoquiz continueranno con ogni probabilità a monopolizzare una parte consistente dell’audience, questa domanda sarà bilanciata da altre forme, più sofisticate, di intrattenimento che metteranno in gioco l’attualità, la politica e la cultura, come già accade con testate e format di noti giornalisti e conduttori televisivi.
Il processo in atto sembra effettivamente avviato nelle due direzioni dell’internazionalizzazione e della specializzazione (televisioni tematiche), destinate ad accordarsi in molti casi spontaneamente tra loro, soprattutto in quelli in cui sarà dominante l’elemento culturale, che per sua natura richiede competenze specifiche e respiro internazionale. E nel concetto di internazionalizzazione dovrà essere compresa, in modo decisivo, anche la diversità culturale: le forme di specificità che daranno vita ai nuovi modi della televisione dovranno necessariamente tener conto delle culture territoriali, e dovranno farlo per esigenze interne. Sarà infatti indispensabile quando i loro oggetti saranno i patrimoni culturali nazionali, quali le arti, la musica, il cinema, o i patrimoni paesaggistici e naturalistici, fino alle forme di convivenza e alle loro regole.
Accanto a tutto ciò, la presenza della rete vedrà nascere nel campo della televisione nuovi soggetti e nuove modalità di comportamento, più libere e dinamiche di quelle oggi osservabili, e questo campo sarà con ogni probabilità uno dei più esposti a trasformazioni radicali in un futuro non lontano.
Dal punto di vista tecnico, le vie della televisione futura appaiono in larga misura determinate dalla digitalizzazione e dall’uso dei satelliti. La prima ha dato vita alla televisione digitale, il cui uso è destinato a generalizzarsi e a sostituire in un prossimo futuro le forme di rappresentazione analogica dell’informazione elettronica, con il vantaggio di trasmettere un segnale di gran lunga migliore, perché privo di elementi di disturbo, di poterlo ricevere su una quantità di terminali diversi, fino al cellulare, e infine con un terzo vantaggio di grande rilievo: il fatto che la televisione digitale consente la trasmissione simultanea di una quantità di dati, permettendo così al ricevente di utilizzare simultaneamente un maggior numero di informazioni, avvantaggiandosi di servizi aggiuntivi sollecitabili a discrezione, e arrivando fino a configurare forme di interattività.
La televisione digitale consente inoltre la veicolazione di un alto numero di canali: lo sviluppo della televisione digitale in Italia entro il 2012, anno del completamento del nuovo sistema, prevede l’attivazione di sessanta canali nazionali gratuiti sul digitale terrestre e di alcune centinaia sul digitale satellitare, per tre quarti a pagamento e un quarto gratuiti.
Il cambiamento introdotto dal nuovo sistema potrà andare nella direzione di un’estensione e differenziazione dell’offerta e di un’espansione degli accessi, con effetti non ancora del tutto prevedibili sul piano dei diritti, ma con la conseguenza certa di una possibilità di incremento significativo degli scambi culturali e di un adeguamento di ciò che chiamiamo televisione alla dimensione della rete.
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