Cinema ed estetica analitica
Soltanto negli ultimi anni in Italia gli studiosi di estetica hanno cominciato a occuparsi della riflessione elaborata dalla filosofia analitica angloamericana, tema affrontato con ritardo rispetto alla maggior parte degli altri Paesi europei – come la Francia, dove da anni lavorano estetologi di orientamento analitico – e ad altri ambiti della filosofia, come la filosofia del linguaggio o l’epistemologia, settori nei quali il confronto tra ‘analitici’ e ‘continentali’ si è mantenuto sempre costante. L’assenza nel dibattito italiano dei risultati di un’intera tradizione è stata in parte colmata, con un’improvvisa accelerazione, grazie all’apparire di molte pubblicazioni dedicate a questo tema: introduzioni; numeri monografici delle maggiori riviste specializzate, che raccolgono saggi di autori italiani e stranieri; antologie in cui compaiono per la prima volta tradotti in italiano alcuni dei testi più significativi.
Trattandosi di un insieme molto vasto di correnti, scuole e autori, i libri pubblicati mirano a cogliere le tematiche ricorrenti nel dibattito, quali la definizione dell’arte, i modi di esistenza dell’opera e le sue proprietà estetiche, così come i contributi più rilevanti dedicati alle singole arti, quali, per es., il tema della rappresentazione pittorica o la questione dell’opera musicale e delle sue esecuzioni. Manca completamente, invece, un riferimento all’accesa discussione che anima il campo delle teorie del cinema. Questa situazione degli studi è tanto più indicativa in quanto realmente paradossale, poiché lo stato della philosophy of film è in pieno sviluppo, e gli studi di estetica del cinema in ambito analitico risultano particolarmente fiorenti a partire dalla metà degli anni Novanta. Testimonianza della ricchezza e dell’ampiezza dei contributi è la recente pubblicazione negli Stati Uniti non solo delle monografie di singoli autori ma di antologie e raccolte di saggi in discussione tra loro, raccolte che vogliono restituire, nella loro struttura divisa in sezioni, il coagularsi del dibattito intorno a grandi temi (Film theory and philosophy, 1997, 20032; Film theory and criticism, 1974, 20046; Philosophy of film and motion pictures, 2006).
L’aspetto che contraddistingue con più evidenza questo tipo di indagini dall’estetica del cinema di tradizione cosiddetta continentale, rappresentando forse l’unica caratteristica veramente omogenea all’interno di un insieme vario e complesso, è l’impostazione di metodo, lo stile di pensiero, che questi autori d’altra parte condividono con tutti i filosofi di stampo analitico, di qualsiasi settore. È Franca D’Agostini nel suo saggio Che cosa è la filosofia analitica? (in Storia della filosofia analitica, a cura di F. D’Agostini, N. Vassallo, 2002) a individuare, infatti, l’elemento stilistico come uno dei possibili modi di definizione di questa corrente filosofica, insieme a determinazioni di tipo storico, filosofico o metateorico: «Le qualità distintive di tale stile sarebbero, principalmente: la scelta di argomenti molto limitati e circoscritti; un programmatico sforzo di chiarezza e di rigore argomentativo; l’umile convincimento, da parte del teorizzante, di appartenere a un’impresa comune, entro la quale portare il proprio contributo» (p. 16).
Come nota Paolo D’Angelo nella Premessa al suo volume Introduzione all’estetica analitica (2008, pp. V-XX, alla quale si rimanda per un approfondimento sull’estetica analitica in Italia), applicando queste caratterizzazioni generali in particolare al lavoro degli studiosi di estetica, adottare la definizione stilistica non significa necessariamente rinunciare a una descrizione più rigorosa. È infatti proprio a partire da questa impostazione e dallo stile delle argomentazioni – il concentrarsi su temi particolari piuttosto che sugli autori, scegliendo di trattare di una singola arte alla volta; l’utilizzo di procedimenti standard nella articolazione dei saggi; l’affrontare i problemi ripartendo dagli esiti recenti di un autore, quasi sempre appartenente alla tradizione angloamericana – che si determina l’efficacia, ma anche la debolezza di questo approccio. «L’orientamento quasi esclusivo verso autori di lingua inglese (parlo sempre dell’estetica, questo vale meno per altra filosofia analitica) e recenti, oltre a far correre continuamente il rischio di cadere nella fallacia della ignoratio elenchi (cioè nel lasciarsi sfuggire qualche soluzione o proposta decisiva, solo perché formulata troppo tempo fa o in una lingua diversa dall’inglese), affida una drammatica responsabilità, diciamo così, al capostipite della discussione» (p.XVIII). D’altra parte, questa stessa caratteristica può rivelarsi, nello stesso tempo, anche una forza: il fatto che i riferimenti siano i medesimi per tutti gli studiosi e riguardino sempre dei testi molto recenti, lontani dunque dal suscitare un atteggiamento reverenziale, garantisce la possibilità di un dialogo reale e di un confronto molto serrato e vivo, all’interno del quale ci si può pronunciare in maniera diretta sui grandi temi della disciplina, alcuni dei quali ormai ‘rimossi’ dalla tradizione continentale.
Anche nell’ambito dell’estetica del cinema è il metodo a rappresentare la costante di un vasto insieme di teorie, e se gli esiti positivi possono essere riconosciuti nella vivacità e nella coesione dello scambio tra i vari autori, le fragilità, ancora una volta, sono le stesse di quelle ravvisate nel confronto con le altre arti. In particolare, una certa limitatezza della profondità storica e una sorta di mitizzazione della semplicità e della chiarezza, a scapito di ogni allusività o sfumatura, sembrano a volte impedire la capitalizzazione dei risultati già raggiunti, portando il discorso a ripartire dall’inizio per arrivare poi a conclusioni troppo nette o semplificate. E queste caratteristiche, con la loro problematicità, agiscono anche sulla visione della filosofia del cinema di stampo continentale maturata da alcuni di questi autori. Se ne può trovare un esempio nell’introduzione al volume collettaneo Film theory and philosophy (1997, 20032, pp. 1-35), a cura di due pensatori analitici come Richard Allen e Murray Smith. Il confronto tentato in questo testo tra prospettiva analitica e prospettiva continentale nelle teorie del cinema vede rappresentata la prima tendenza con ampiezza e ricchezza di riferimenti, mentre la seconda risulta incarnata da autori come Theodor W. Adorno, Michel Foucault, Jacques Lacan, limitando la valutazione di testi dedicati al cinema ai lavori di Jean-Louis Baudry e Gilles Deleuze, con il risultato di una contrapposizione tra i due campi che risulta eccessivamente categorica (su questo aspetto vedi D.Chateau, Cinéma et philosophie, 2003, 20052, pp.133-40). Occorre tuttavia ricordare che non mancano tra gli stessi analitici alcuni autori, e in particolare quelli che hanno avuto più contatti con la filosofia europea nel corso della loro formazione, come, per es., il teorico statunitense Paisley N. Livingston (intervistato da Søren Hemmingsen in http://hum.ku.dk, 4 giugno 2009), che sottolineano la difficoltà insita in una netta contrapposizione tra i due campi.
Volendo evitare la tentazione poco produttiva di una sorta di disputa tra le due tradizioni, un procedimento adeguato a presentare lo stato del dibattito angloamericano tenendo conto delle sue qualità specifiche può essere, più che la proposta di un excursus cronologico o la scelta di alcuni tra gli autori più significativi, quello di individuare alcuni tra i temi maggiormente discussi, mostrando di volta in volta gli esiti più rilevanti cui sono giunti gli autori che in vario modo se ne sono occupati. Si tratta quindi non tanto di mirare al risultato inattuabile di una panoramica esaustiva, quanto di restituire in questo modo, insieme ad alcune delle linee direttive, il clima e il metodo del dibattito. In tal senso, apparirà evidente come il principale contributo della filosofia nel confronto con la precedente teoria e critica cinematografica non è stato quello di identificare nuovi problemi quanto di portare una maggiore elaborazione concettuale nella discussione. È quanto afferma anche Berys Gaut nel suo saggio Film contenuto nell’Oxford handbook of aesthetics (2003, 20052, pp. 627-46), proponendo una lunga lista di temi nel tentativo di riepilogare gli aspetti principali del nuovo approccio alla riflessione sul cinema; approccio che fonde psicologia cognitiva, neuroscienze e filosofia analitica, e che trova nell’opera di David Bordwell, in particolare nella riflessione sviluppata nel libro Narration in the fiction film (1985), il suo riferimento primario.
Cinema e realtà
Se una prima nozione di realismo presente nel dibattito angloamericano è quella difesa nel saggio Photography and representation (in Philosophy, ed. N. Warburton, 1983, pp. 512-35) dal filosofo inglese Roger Scruton (n. 1944), secondo il quale il cinema si può definire un mezzo prevalentemente realistico poiché l’esistenza dell’oggetto fotografato è precedente e indipendente dalla circostanza di essere ripreso, il problema più discusso a partire dagli anni Novanta è quello dell’illusione di realtà. Secondo questa nozione, presente nei lavori di teorici che utilizzano la psicoanalisi, la visione cinematografica suscita nella mente dello spettatore l’illusione di trovarsi di fronte a eventi reali, nei quali viene emotivamente coinvolto.
La confutazione della nozione di illusione cinematografica è alla base delle tesi di Noël Carroll (n. 1947) che a partire dal testo The philosophy of horror, del 1990, indaga la natura delle risposte emotive del fruitore (v. oltre) di fronte al genere horror. Carroll, la cui analisi dell’attività cognitiva parte dalla presupposizione di un soggetto razionale che mette in atto reazioni lineari, propone in alternativa alla illusion theory la sua thought theory, teoria del pensiero, che distingue tra lo stato mentale in cui si crede, per es., nell’esistenza di un personaggio e il semplice pensiero di quel personaggio. Questo – per usare la terminologia filosofica di Gottlob Frege – ha un senso (Sinn), costituito dall’insieme di proprietà attribuitegli dall’autore della sceneggiatura, ma non una denotazione, un significato (Bedeutung) a cui si riferisce. Il paradosso per il quale lo spettatore di un film horror prova paura o disgusto per qualcosa che sa non esistere realmente viene in questo modo risolto: «L’orrore è un’emozione autentica, non una finta emozione, perché un’emozione attuale può nascere prendendo in considerazione il pensiero di qualcosa di orribile» (p. 80). Ciò non significa tuttavia che lo spettatore si illuda durante la visione cinematografica circa l’esistenza di mostri o creature extraterrestri.
Un contributo rilevante in questa stessa direzione viene elaborato da Gregory Currie (n. 1950) nel suo Image and mind. Film, philosophy, and cognitive science (1995), che rifiuta quello che viene da lui definito The myth of illusion, come recita il titolo del primo capitolo del suo libro. Currie, che vuole indagare la capacità immaginativa umana non soltanto in riferimento alla rappresentazione cinematografica (Recreative minds. Imagination in philosophy and psychology, ed. G. Currie, I. Ravenscroft, 2002), distingue tra un’illusione cognitiva, la quale implica una credenza da parte del fruitore che si rivela poi falsa, e un’illusione soltanto percettiva, che caratterizza, per es., la visione della figura di Müller-Lyer, in cui due linee di una stessa lunghezza vengono percepite come differenti a seconda della diversa inclinazione dei segmenti con i quali terminano. Nel cinema non si realizza nessuno dei due tipi di illusione, poiché l’esperienza dello spettatore è quella di essere in presenza di immagini di oggetti fisici, e non sussiste in alcun modo un’illusione circa la loro presenza reale.
Currie spinge la sua confutazione rispetto alla teoria dell’illusione (teoria riproposta, per es., negli stessi anni da teorici come Joseph D. Anderson in The reality of illusion, 1996), arrivando ad affermare che il movimento è una proprietà reale delle immagini cinematografiche, nel momento in cui si consideri il loro apparire con continuità sullo schermo piuttosto che la loro staticità come immagini fissate sulla pellicola. La radicalità di questa visione, mitigata dall’asserzione che la non illusorietà del movimento è una proprietà che può essere colta soltanto a partire dal riconoscimento della dipendenza delle immagini cinematografiche dall’apporto soggettivo, ha suscitato varie obiezioni. Tra queste, quella di Andrew Kania, in The illusion of realism in film («The British journal of aesthetics», 2002, 42, 3, pp. 243-58) e di Gaut (2003, 20052), che sottolinea la difformità tra movimento cinematografico e movimento autentico, caratterizzato da una diversa e necessaria continuità.
Un altro modo di intendere il realismo si costituisce a partire dalla nozione di trasparenza, difesa da Kendall Walton (n. 1939) con contributi che vanno dal 1984 (Transparent pictures) fino al 1997 (On pictures and photographs): secondo questa tesi, quando guardiamo un oggetto fotografato stiamo osservando l’oggetto reale, allo stesso modo in cui possiamo vedere gli oggetti reali attraverso un microscopio, un telescopio o uno specchio. «Le fotografie – afferma Walton – sono speciali rispetto ai quadri, in quanto sono trasparenti: guardare una fotografia è effettivamente vedere, indirettamente ma autenticamente, ciò di cui è una fotografia» (in Film theory and philosophy, 1997, 20032, p. 60). Quest’idea, che tra le varie proposte presenti nel dibattito analitico sul realismo fotografico sembra essere quella più influenzata dalle teorie continentali e in particolare dal pensiero di André Bazin, ha al suo centro la constatazione che ciò che viene registrato dalla macchina fotografica, o da presa, è essenzialmente ciò da cui dipende la fotografia, o l’immagine cinematografica. Differentemente da un dipinto, cioè, intimamente legato alle convinzioni del pittore, una fotografia – in virtù della sua «genesi meccanica», come avrebbe detto Bazin – trova la sua «dipendenza controfattuale» (p. 68) nella scena che viene fotografata. Quest’idea è stata molto discussa e criticata, in particolare da Currie (Image and mind, 1995) e da Carroll (Theorizing the moving image, 1996), i quali, a partire da una visione che mette al centro il ruolo percettivo dell’acquisizione di informazioni, mettono in evidenza nelle loro argomentazioni contro le teorie di Walton le differenze insuperabili tra l’immagine cinematografica e quella reale. Come sottolinea Currie in Image and mind, nella realtà l’immagine fornisce a colui che la guarda una «informazione egocentrica», caratterizzata cioè dalla relazione spaziale tra noi e l’oggetto che stiamo osservando, lo spazio fotografato è invece «fenomenologicamente disconnesso» dallo spazio in cui viviamo (p. 66).
È Stephen Prince (n. 1955) nel suo saggio True lies. Perceptual realism, digital images, and film theory (in Film theory and criticism, 1974, 20046, pp. 99-117) a proporre una nuova nozione di realismo che tiene conto delle immagini cinematografiche create digitalmente, le quali mettono in discussione un’idea di realismo basata sulla riproduzione meccanica del dispositivo fotografico. Se grazie alle nuove tecnologie le immagini cinematografiche sono generate dal computer senza riprodurre alcun modello e sono soggette a infinite manipolazioni, offrendo possibilità creative senza precedenti, ciò non significa secondo Prince che occorre abbandonare completamente la strada del realismo per seguire una via totalmente alternativa, quella del formalismo, tendenza teorica che si focalizza cioè in primo luogo sulla capacità del cinema di riorganizzare e falsificare la realtà fisica.
A presentare un panorama delle teorie classiche individuando al loro interno queste due prospettive irriducibilmente antagoniste era stato Carroll, nel libro Philosophical problems of classical theory (1988): Prince reputa questa dicotomia non funzionale, e superabile attraverso la proposta di un nuovo «realismo percettivo», una visione basata sulla corrispondenza (correspondence-based), secondo cui l’immagine è realistica poiché corrisponde, si connette strutturalmente all’esperienza audiovisiva dello spettatore. Il soggetto durante la fruizione cinematografica percepisce le immagini come tridimensionali grazie al lavoro dei filmmakers, che d’altra parte le costruiscono e le manipolano tecnologicamente proprio con questo fine: «Il realismo percettivo, dunque, designa una relazione tra immagine o film e spettatore, e può rendere conto sia delle immagini irreali sia di quelle che sono referenzialmente realistiche. Per questo motivo, le immagini irreali possono essere referenzialmente fittizie, ma percettivamente reali» (p. 277).
Lo spettatore e la risposta emotiva
Strettamente collegato alla questione del rapporto tra realtà e riproduzione cinematografica è il tema, dapprima trascurato dagli autori accademici di ambito analitico e negli ultimi anni invece intensamente dibattuto, dell’atteggiamento dello spettatore e del suo coinvolgimento emotivo durante la visione del film. Il ‘capostipite’ della discussione è ancora una volta Noël Carroll con il volume The philosophy of horror (1990), che ha come suo punto di partenza la critica all’idea che il fruitore si illuda circa l’esistenza dei mostri o in generale dei personaggi del film: la paura e il disgusto di fronte al genere horror vengono spiegati come risposte emotive generate semplicemente dal pensiero di qualcosa di orribile. Con la sua thought theory, teoria del pensiero, Carroll intende negare la validità non solo della illusion theory, di cui si è già parlato in riferimento al rapporto tra cinema e realtà, ma anche della pretend theory, teoria della finzione, sviluppata da Walton alla fine degli anni Settanta. Secondo questa teoria il pubblico guardando un film «fa finta» (make-believe) di provare determinate emozioni, accettando di partecipare a un gioco dalle regole implicite e facendo affidamento sulle proprie capacità immaginative, allo stesso modo in cui un bambino si immedesima con ludica serietà nei suoi giochi. Carroll afferma che la tesi del make-believe è una brillante soluzione logica contraddetta però da qualsiasi visione diretta del fenomeno: se si trattasse di fare finta di provare emozioni, tale processo sarebbe volontario, invece non posso fare a meno di aver paura guardando, per es., The exorcist (1973; L’esorcista) di William Friedkin, mentre non riesco a sentirmi terrorizzato, neanche volendo, guardando un film horror non riuscito.
La tesi alternativa proposta da Carroll si fonda su una premessa teorica in totale opposizione alla tesi che la illusion theory e la pretend theory, pur arrivando alla fine a conclusioni differenti, condividono come punto di partenza: «la presupposizione che siamo mossi emotivamente soltanto laddove crediamo che l’oggetto della nostra emozione esista» (p. 80), per cui o crediamo realmente anche se temporaneamente all’esistenza dei mostri, oppure le nostre emozioni non sono autentiche. Carroll invece risolve quello che definisce the paradox of fiction affermando che si possono provare emozioni reali anche di fronte al semplice pensiero di qualcosa che sappiamo non esistere realmente. Quando durante la visione di un film la paura, il disgusto o la suspense divengono insopportabili, lo spettatore tenta di distogliere lo sguardo e volgere il pensiero altrove rispetto a ciò che è ritratto sullo schermo, mentre non è sufficiente che si convinca dell’inesistenza di ciò che sta guardando.
Se Carroll si occupa in primo luogo della risposta emotiva del fruitore di fronte ai ‘mostri’ dei film, o dei romanzi, ovvero quegli aspetti dell’horror della cui inesistenza è consapevole e che tuttavia suscitano una sua animata reazione, la thought theory può chiarire anche la natura del rapporto tra spettatore e personaggi umani del film, rapporto comunemente qualificato come identificazione, tesi del testo di Christian Metz del 1977, Le signifiant imaginaire. Psychanalyse et cinéma (ma presente anche nel lavoro di Baudry), secondo cui il piacere della visione è dovuto al fatto che lo spettatore si identifica con la macchina da presa e con i personaggi. Se una nozione di identificazione assunta in modo radicale significherebbe secondo Carroll il recupero della illusion theory, precedentemente confutata, non si può tuttavia nemmeno affermare che il fruitore, guardando il film, semplicemente duplichi lo stato mentale del personaggio: c’è una fondamentale e insuperabile asimmetria tra le due risposte emotive, dovuta innanzitutto al fatto che lo spettatore possiede, rispetto ai personaggi coinvolti nella trama, informazioni differenti e spesso più ampie riguardo alla situazione del film. La duplicazione degli stati d’animo dei personaggi – questa è la conclusione di Carroll – è solo parziale, riguarda cioè unicamente alcuni aspetti della trama e delle sensazioni dei protagonisti, in un rapporto asimmetrico che non consente di qualificare questo fenomeno utilizzando un concetto dal significato così radicale come quello di identificazione. La proposta è allora quella di sostituire al concetto di identificazione quello di assimilazione: noi non crediamo di essere il personaggio, ma assimiliamo il suo punto di vista da una prospettiva esterna a esso, che implica alcune informazioni ed elementi che il personaggio stesso non può conoscere: «Per fare questo, non abbiamo l’esigenza di replicare lo stato mentale del protagonista, ma semplicemente di sapere in modo attendibile come questo lo valuti. E possiamo sapere come si sente senza duplicare in noi i suoi sentimenti. Possiamo assimilare la sua valutazione interiore della situazione senza divenire, per così dire, posseduti dal personaggio» (The philosophy of horror, p. 95).
Il richiamo alla razionalità del soggetto e alla centralità dell’esperienza cognitiva come aspetto irrinunciabile della fruizione cinematografica – e letteraria – è anche alla base della soluzione proposta da Carroll per il secondo paradosso individuato, the paradox of horror, che pone la questione della contraddittoria attrazione del pubblico nei confronti di qualcosa che nella vita reale giudichiamo di solito disgustoso e terrificante. Le spiegazioni fornite in passato per questo tipo di fascinazione si possono distinguere essenzialmente in due tendenze: quella che ritiene la sensazione di «paura cosmica» provocata dall’horror analoga a una esperienza religiosa, in cui soggezione e rispetto confermano la convinzione umana dell’esistenza del soprannaturale e di forze sconosciute; quella psicoanalitica, che coglie i motivi dell’attrazione suscitata dal genere horror nella possibilità di una manifestazione, gratificante poiché senza pericoli, di elementi psichici repressi. Entrambe le soluzioni sono ritenute da Carroll del tutto insufficienti poiché, pur contribuendo a chiarire alcuni aspetti del piacere legato al genere e ad approfondire l’analisi di alcuni film, non sono applicabili in generale.
Carroll vuole invece fornire una «teoria generale e universale» dell’attrazione suscitata dall’horror, che prende le mosse dalla centralità che acquisiscono in questo genere gli elementi narrativi: «Perché quello che nel genere horror è attraente – che cattura il nostro interesse e produce piacere – non è anzitutto la semplice manifestazione dell’oggetto, ma il modo in cui questa manifestazione o rivelazione è collocata come elemento funzionale in una struttura narrativa globale» (p. 179). Lo spettatore sarebbe coinvolto cioè in un processo di scoperta, di chiarificazione, in un susseguirsi di ipotesi e conferme, in cui il piacere è dato in primo luogo dalla soddisfazione della propria curiosità. Il nodo centrale di questa teoria rimane il fatto che la relazione tra l’oggetto sconosciuto e spaventoso che viene svelato, da una parte, e la trama che ne rivela gradualmente le proprietà e gli obiettivi, dall’altra, non è una semplice compatibilità, ma un legame di concordanza molto forte. Tale legame ha ancora una volta a suo fondamento l’interesse cognitivo del soggetto, un soggetto razionale che reagisce emotivamente al pensiero – e non all’illusione – dell’esistenza e della minaccia da parte di esseri mostruosi, al di fuori delle nostre categorie concettuali.
Nel 1999, nel saggio Film, emotion, and genre, Carroll riprende la questione della risposta emotiva dello spettatore cinematografico, partendo dall’analisi del termine emozione e suggerendo di chiamare ‘emozione vera e propria’ (emotion proper) soltanto la risposta affettiva che implica anche stati cognitivi. Se nel linguaggio comune il termine possiede un significato eccessivamente ampio e flessibile – dai semplici riflessi come un sussulto, agli stati emozionali più complessi – occorre distinguere dalle emozioni comunemente intese i sentimenti causati da un fondamento cognitivo. Quella che viene presentata quindi è una «teoria cognitiva delle emozioni», in linea con il testo del 1990: al contrario della visione comune, che oppone sentimento e razionalità, la cognizione sarebbe un elemento essenziale per originare le nostre emozioni, e differenziarle tra loro, nella misura in cui, per es., è la consapevolezza o la convinzione anche errata di un torto subito a provocare uno stato di rabbia: «Le emozioni – conclude Carroll – richiedono cognizioni come cause e stati corporei come effetti» (Philosophy of film and motion pictures, 2006, p. 221). Soltanto un’emozione concepita in questo modo permette di capire il coinvolgimento del pubblico durante la visione di un film, in cui sono le situazioni e i personaggi fittizi a fornire le informazioni alla base delle emozioni corrispondenti. La differenza rispetto alla vita reale ha a che fare ancora una volta – e qui emerge con chiarezza l’influenza di Bordwell sul pensiero di Carroll – con l’aspetto narrativo del film, il cui testo è costruito al fine di evocare in primo luogo tipi specifici di emozione. Il testo del film è criterially pre-focused, ‘pre-focalizzato’ e strutturato in modo tale da guidare la percezione e l’attenzione dello spettatore verso un focus emotivo, usando ogni possibile espediente narrativo. Ecco allora che nell’indagine di Carroll l’analisi dei generi cinematografici acquisisce particolare importanza, poiché, sebbene ogni film possa evocare un’intera gamma di differenti emozioni, determinati generi danno origine a specifiche tipologie di emozione.
Sulla linea cognitivista di Carroll si pongono anche i lavori di Murray Smith (n. 1962), in particolare il libro Engaging characters. Fiction, emotion, and the cinema (1995) e l’articolo del 1997 Imagining from the inside (in Film theory and philosophy, 1997, 20032, pp. 412-30), che contro la nozione psicoanalitica di identificazione dello spettatore propongono quella di engagement, impegno. Seguendo le riflessioni del filosofo inglese Richard A. Wollheim (The thread of life, 1984), Smith distingue tra immaginazione centrale, cioè lo stato mentale in cui ci si rappresenta la situazione di un personaggio dall’interno, e immaginazione acentrale, ovvero la possibilità spettatoriale di immaginare il fatto senza mai adottare il punto di vista interno. Se la nozione di identificazione ha a che fare esclusivamente con il primo tipo di immaginazione, Smith riconosce nella seconda modalità l’attitudine immaginativa prevalente nella reazione dello spettatore cinematografico, un engagement che può essere suddiviso in tipologie differenti, sebbene interrelate. Esiste infatti un livello primario di recognition, riconoscimento, ovvero la semplice costruzione del personaggio da parte dello spettatore, «la percezione di un insieme di elementi testuali, che nel film si organizzano intorno all’immagine di un corpo come agente umano definito e continuo» (Engaging characters, p.82); vi è poi il concetto di alignment, allineamento, che rappresenta il processo attraverso il quale «gli spettatori sono posti in relazione con i personaggi in termini di accesso alle loro azioni, e a ciò che conoscono e provano» (p. 83), ovvero la condivisione di un certo grado di informazioni; e infine l’allegiance, fedeltà, nozione più vicina a ciò che nel linguaggio comune si intende parlando di identificazione, che riguarda la valutazione morale da parte del fruitore nei confronti del personaggio, e dunque la possibilità di simpatizzare con le sue vicende. Smith in tal modo richiama dunque l’attenzione sulla complessità del rapporto tra spettatore e personaggio, mostrando come si possa essere coinvolti nelle vicende del film da un determinato punto di vista, ma non da un altro: per es., in un film horror attraverso la visione della soggettiva dell’assassino possiamo condividere il suo punto di vista percettivo, ma non per questo dobbiamo necessariamente simpatizzare con lui.
Ad accomunare nella sua critica le teorie di Smith e di Carroll è Malcolm Turvey (n. 1969) nel saggio Seeing theory. On perception and emotional response in current film theory (in Film theory and philosophy, 1997, 20032, pp. 431-57): le tesi di questi autori derivano secondo Turvey dall’assunzione prioritaria del paradox of fiction, ovvero hanno alla loro origine l’idea che vi sia un paradosso nel reagire rispetto a delle entità fittizie. In tal modo, entrambi postulano un’entità mentale, il pensiero per l’uno, l’immaginazione per l’altro, come causa prima della risposta emotiva dello spettatore, disconoscendo in tal modo la base sensoriale dell’esperienza cinematografica. Ciò deriva dal fatto che queste teorie presuppongono come punto di partenza che non possiamo vedere ciò che non è fisicamente presente. Turvey, a partire dalle riflessioni di Ludwig Wittgenstein sulla percezione, afferma invece la possibilità di parlare di ‘vedere’ anche quando ciò che si vede non è un oggetto fisico, arrivando alla conclusione secondo cui lo spettatore, durante la concreta esperienza della visione cinematografica, dà semplicemente una risposta emotiva nei confronti di ciò che sta realmente osservando.
Ridiscute le posizioni di Smith anche Berys Gaut (n. 1958) nel saggio Film (2003), riconoscendo il valore della sua riflessione nell’aver evidenziato la complessità della relazione tra spettatore e personaggi, ma affermando che il riconoscimento di questa complessità non implica un rifiuto radicale della nozione di identificazione. Lo stesso Gaut in Identification and emotion in narrative film (in Passionate views. Film, cognition, and emotion, ed. C. Plantinga, G.M. Smith, 1999, poi in Philosophy of film and motion pictures, 2006, pp. 260-70) parte dal concetto di identificazione inteso non come immaginare di essere un personaggio, ma come immaginare di essere nella situazione del personaggio, per ravvisarvi aspetti differenti, se è vero che un’unica situazione è composta nel suo insieme di diversi elementi. Vengono individuati così quattro tipi di identificazione: quella percettiva, ovvero immaginare di vedere dal punto di vista del personaggio; affettiva, immaginare di sentire ciò che sente il personaggio; motivazionale, immaginare di volere ciò che vuole il personaggio; epistemica, immaginare di credere ciò che crede il personaggio. A partire da un concetto di identificazione non onnicomprensivo, ma ‘aspettuale’, Gaut sottolinea come il film con apposite tecniche e inquadrature invita lo spettatore a identificarsi con un singolo aspetto della situazione del personaggio, tenendo conto del fatto che, se un tipo di identificazione può favorirne un altro, non c’è una correlazione necessaria tra le differenti tipologie.
Se Gaut distingue l’identificazione, che è puramente immaginativa, dall’empatia e dalla simpatia, che sono invece sentimenti attuali, è Alex Neill (n. 1961), in Empathy and (film) fiction (in Post-theory. Reconstructing film studies, ed. D. Bordwell, N. Carroll, 1996, pp. 175-94; poi in Philosophy of film and motion pictures, 2006, pp. 247-59) a difendere l’importanza della empatia per comprendere pienamente il senso della risposta dello spettatore. Empatia che deve essere intesa però non nel senso di ciò che gli spettatori immaginano di provare, ma di quello che provano realmente, basando tuttavia il loro sentimento sulla immaginazione di ciò che il personaggio sta provando. Per Neill l’empatia sembra acquisire un ruolo anche educativo, essenziale per comprendere meglio le situazioni proprie e altrui, e ampliare così i propri limiti. Il suo contributo viene ridiscusso dallo stesso Gaut che mostra come Neill, nel distinguere un’identificazione empatica e una immaginativa, sembra non abbandonare totalmente il concetto di identificazione come aveva annunciato, quanto piuttosto affermare la necessità, condivisa da Gaut, di una sua più sottile e dettagliata elaborazione.
Infine, un contributo significativo è quello di Deborah Knight che, con il saggio In fictional shoes. Mental simulation and fiction (in Philosophy of film and motion pictures, 2006, pp. 271-80), mette in questione la simulation theory, difesa da Gregory Currie in Image and mind (1995). Currie, rifiutando la teoria della illusione cinematografica a favore di una considerazione del cinema come mezzo prevalentemente realistico, spiega il comportamento dello spettatore come una simulazione in chiave immaginativa, processo con il quale comprendiamo le emozioni dei personaggi impiegando lo stesso meccanismo che adottiamo nella vita quotidiana, ma utilizzando come dati cognitivi le loro credenze e i loro desideri.
Secondo Knight l’errore della teoria della simulazione – che possiamo avvicinare alla tesi che Carroll ha chiamato pretend theory riferendosi in particolare a Walton (v. supra Cinema e realtà) – è in primo luogo quello di osservare i personaggi come se fossero in tutto e per tutto persone reali, con reali stati mentali e sentimenti che sarebbe possibile per il fruitore simulare. Non soltanto non è possibile per lo spettatore simulare ciò che non esiste realmente, ma spesso il fruitore possiede conoscenze che vanno al di là del film, riguardanti le convenzioni del genere (per es., il fatto che nelle commedie romantiche raramente i protagonisti si innamorano durante la prima scena), circostanza che rende superfluo simulare lo stato psicologico del personaggio al fine di predire e capire come questo si comporterà. Inoltre, l’autrice sottolinea che le reazioni degli spettatori, per es. il pianto durante un film drammatico, non sono immaginarie, ma reali e fisiologiche, e non possono ritenersi in alcun modo ‘simmetriche’ rispetto a quelle del personaggio: questo nutre sentimenti ed emozioni riferiti a oggetti interni alla trama del film, appartenenti a un mondo fittizio, laddove lo spettatore prova empatia per il personaggio, in modo sempre mediato.
Il film come opera d’arte e la questione dell’autore
Un altro tema intorno al quale convergono alcuni dei contributi più rilevanti dell’attuale dibattito analitico riguarda l’essenza artistica del cinema e la conseguente questione del riconoscimento di un’autorialità. Se il problema della risposta emotiva da parte del fruitore è sicuramente una delle tematiche più discusse in questi ultimi anni in ambito angloamericano – non soltanto riguardo al cinema ma anche in riferimento ad altre arti, per es. la musica –, quello della trasformazione estetica compiuta dal mezzo cinematografico, nonostante rappresenti un motivo classico già trattato e ‘risolto’ dalla riflessione europea sul cinema, si ripresenta in questi autori in quanto collegato in modo molto stretto con il primo tema enucleato, cioè il rapporto tra film e realtà riprodotta.
È ancora Berys Gaut (2003; Cinematic art, «Journal of aesthetics and art criticism», 2002, 60, 4, pp.299-312) a discutere la posizione radicale e provocatoria sulla natura del cinema elaborata da Roger Scruton a partire dagli anni Ottanta (Photography and representation, in Philosophy, ed. N. Warburton, 1983, pp. 512-35). Secondo Scruton dalla genesi meccanica della fotografia deriva il fatto che il procedimento cinematografico è casuale e non intenzionale, non comunicando pensieri né stati intenzionali dell’autore. Il cinema, dunque, non avrebbe interesse autenticamente estetico, poiché, se un film è un capolavoro, secondo questa tesi è in primo luogo un capolavoro drammatico, artisticamente riuscito in virtù della sua sceneggiatura o della recitazione, e non degli aspetti propriamente fotografici e filmici. Gaut rifiuta questa affermazione per la sua radicalità, evidenziando come invece anche nella fotografia possa esservi trasformazione estetica e intenzionalità. La tesi di Scruton tuttavia coglie e riprende, decenni dopo, una delle questioni che hanno animato la tradizionale discussione sullo statuto del film come arte (si pensi, per es., al dibattito italiano durante gli anni Trenta). Scrive Gaut: «L’esistenza di una fotografia di un oggetto implica che questo oggetto esisteva nel momento in cui è stato fotografato e, in virtù di questo fatto, che si tratta di una relazione non-intenzionale. Ma la fotografia può convogliare aggiuntivamente pensieri intenzionali sull’oggetto, pensieri che non implicano che l’oggetto abbia quelle proprietà» (2003, p. 631). L’analisi di Scruton dimostra soltanto che l’intenzionalità dell’artista può non essere presente, ma non che necessariamente non vi sia.
Connessa alla questione dell’artisticità del cinema è ovviamente quella del riconoscimento dell’artista, ovvero di un autore del film inteso in senso forte, allo stesso modo in cui è possibile indicare in maniera indubitabile l’autore di un romanzo. Anche questo problema riprende una delle preoccupazioni intensamente discusse in anni passati nella tradizione continentale, si pensi alla politique des auteurs portata avanti dai «Cahiers du cinéma» e alla sua difesa dell’autorialità del regista. Se già negli anni Settanta, negli Stati Uniti, era Victor F. Perkins (Film as film, 1972) a ritenere che fosse plausibile identificare un autore, predominante nella scelta degli elementi artisticamente significativi di un film anche in assenza di un controllo totale sulla sua realizzazione, attualmente la discussione teorica riguarda soprattutto la possibilità di individuare un singolo autore nei film mainstream con molti collaboratori. Paisley Livingston (n. 1951), teorico statunitense vicino alla tradizione europea, nel suo saggio Cinematic authorship (in Film theory and philosophy, 1997, 20032, pp. 132-48) riflette su questo aspetto: l’autore del film è l’agente che intenzionalmente fa una utterance (enunciazione), dove per utterance si intende un’azione la cui funzione è espressiva o comunicativa. A partire da questa definizione Livingston indaga il concetto di autore in tutta la sua estensione, identificando una serie di casi in ognuno dei quali vi è un diverso grado di controllo da parte di un agente individuale: al di là di opere cinematografiche in cui vi è un autore indiscusso (e l’esempio indicato è Nattvardsgästerna, 1962, Luci d’inverno, di Ingmar Bergman), vi sono film che hanno makers ma non autori, poiché nessuno ha sufficiente controllo perché il film rifletta una riconoscibile intenzione espressiva o comunicativa. Viene elaborata così l’idea di unauthored film, film senza autore, messa in questione tuttavia da Gaut (2003; ma anche nel precedente Film authorship and collaboration, in Film theory and philosophy, 1997, 20032, pp. 149-72) che, pur essendo d’accordo con Livingston sul fatto che la maggior parte dei film cosiddetti commerciali siano il risultato del lavoro di diversi individui, propone di parlare a tale proposito di multiple authors, ossia differenti personalità, partecipi della realizzazione del progetto che, sebbene artisticamente in conflitto, possono ugualmente definirsi autori.
Le argomentazioni convergenti intorno ai temi proposti, con i reciproci rimandi a volte polemici, possono rendere l’atmosfera e il metodo utilizzato oggi in questo ambito di studi, restituendo tuttavia soltanto in parte, al di là di un’impraticabile esaustività, la ricchezza e il ritmo con cui i contributi vengono attualmente offerti. Un elemento unitario, che vale la pena di sottolineare, è la volontà di questi autori di sostituire al paradigma psicoanalitico o a quello semiotico una teoria alternativa che sia generale, che possa fornire una visione altrettanto comprensiva dell’arte cinematografica. Sebbene negli ultimi anni alcuni pensatori si siano dedicati ad aspetti anche molto specifici della produzione o della fruizione cinematografica, come pure all’indagine di singoli film o registi, ciò non sembra essere in contraddizione con l’aspirazione, comune a molti di questi teorici, a offrire un quadro complessivo del fenomeno. Accade così che dalla pronuncia teorica molto netta di un autore sul nesso tra rappresentazione e realtà possano conseguire, come si è visto, prese di posizione ugualmente radicali su molti altri temi decisivi del dibattito. Una teoria che voglia dirsi generale e confrontarsi con il cinema a partire da un punto di vista per così dire ‘ontologico’, che si interroghi sulla natura del dispositivo e sul suo rapporto con la realtà raffigurata, dovrà probabilmente volgersi nel futuro alla questione dell’immagine digitale. Si tratta infatti di un tema affrontato soltanto in parte, che tuttavia, riducendo la riproduzione meccanica alla base dell’immagine fotografica a una semplice alternativa – un’alternativa che l’esperienza di questi anni ci dice essere quella sempre meno prescelta –, potrà mettere in discussione molte delle prospettive teoriche finora assunte.
Bibliografia
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Che cosa è arte: la filosofia analitica e l’estetica, a cura di S. Chiodo, Novara 2007.
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Sull’estetica del cinema in ambito analitico:
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