Cinema nel cinema
Al cinema, gli avvenimenti sembrano raccontarsi autonomamente tanto assomigliano al modo in cui si vedono nella quotidianità. Il cinema intrattiene una relazione analogica con il mondo reale e pare che riveli allo spettatore il suo senso più profondo. Almeno così è accaduto nel cinema classico, che ha voluto nascondere il più possibile l'artificio a tutto vantaggio della storia raccontata e dello spettatore che ha potuto percepirla ‒ e goderla ‒ come perfettamente naturale. Ci sono film, invece, che hanno rotto brutalmente l'incantesimo e alla fascinazione hanno sostituito il discorso con il pubblico. È il caso del cinema che parla di cinema: il metacinema.
A partire dal 16° e 17° sec., l'autoriflessività, ossia la riflessione che ogni forma d'arte compie su sé stessa, fu percepita come parte integrante e condizione della produzione di senso della letteratura, del teatro e della pittura. Nell'Ottocento, poi, tale processo si caricò di significati e simbolismi, trasformandosi in riflessione dell'artista sull'arte e diventando un atto di modernità e una pratica estetico-comunicativa diffusa. Se, nell'ambito dei classici, W. Shakespeare in Amleto mette in scena il teatro nel teatro, e se in Don Chisciotte di M. de Cervantes il protagonista legge nel libro che lo fa esistere le sue stesse avventure, se a partire dal Rinascimento un pittore resisteva difficilmente alle lusinghe dell'autoritratto, come fecero Raffaello o Velázquez, anche il cinema, all'indomani della sua nascita, diede il via all'autocelebrazione. I metafilm, cioè i film sul cinema, esplorano le numerose possibilità della riflessività cinematografica, scoprendo che sono molti gli sguardi possibili. Il più immediato si ottiene inserendo brani di altre pellicole nel film; altrettanto evidente è il caso dei film che mostrano troupe al lavoro, oppure espongono strumenti o macchinari. Sin dai primi anni di vita del cinema vi furono opere su personaggi del mondo cinematografico, soprattutto dive e divi, si esibirono le sale, si fece uso di citazioni. Oltre a questi, molti altri sono stati i modi, sia pure meno evidenti, di fare c. nel c., tra cui gli sguardi in macchina, le didascalie, gli schermi secondari, i punti di vista, i procedimenti narrativi, l'uso metalinguistico dei flashback o dei flashforward, la voce in e out, gli a parte, l'interpellazione, l'allusione: tutti modi, in definitiva, con cui il film interrompe il corso logico della sua narrazione e si rivolge direttamente allo spettatore. E si tratta di meccanismi talmente abusati che da più parti si è sostenuto che nessun film sfugge alla riflessività. Comunque sia, il risultato è una gran mole di opere che raccontano storie in cui gli eroi sono gente di cinema e la cui vicenda ruota attorno a un film che si sta girando. Insomma, il metacinema è fenomeno macroscopico, ma anche antico; fin dalle sue origini, il cinema ha trovato irresistibile l'idea di raccontarsi.
In Uncle Josh at the moving picture show (1902; Lo zio Josh va al cinema) di Edwin S. Porter si racconta, appunto, di un uomo che va al cinema a vedere le pellicole di Thomas A. Edison e reagisce realisticamente alla visione: scappa all'arrivo di un treno, corre in aiuto di una ragazza in pericolo nel film e strappa lo schermo. Dunque, il film, per quanto primitivo, intese esprimere un punto di vista sul mezzo da parte dell'autore, ben conscio dell'impressione di realtà che il cinema produceva sugli spettatori. In La lanterne magique (1903; La lanterna magica) di Georges Méliès due clown hanno grandi scatole che si rivelano proiettori improvvisati, e che fanno apparire sul muro fotogrammi in movimento di loro stessi. Nel resto del film, la lanterna magica si apre e sforna danzatori e poliziotti. Anche Méliès, dunque, indagò sul cinema e giocò con le illusioni che provocava. Il cinema degli inizi fece inoltre uso di uno stratagemma per scoraggiare la duplicazione illecita delle pellicole, che si rivelò un particolare tipo di metacinema. Così, Méliès pose su un angolo dell'inquadratura una stella bianca a cinque punte, suo marchio di fabbrica; seguirono Pathé e Gaumont, che fecero comparire nei loro film la silhouette del gallo e la margherita stilizzata. Presto tutti si adeguarono. Il passo successivo fu trasformare il logo in marchio pubblicitario, come accadde nei film che mostravano manifesti propagandistici di altri film della stessa casa di produzione. Il cinema nel suo farsi, insomma, interessò subito produzioni e autori; la mossa ancora successiva consistette nell'utilizzarlo come soggetto dei film. Buster Keaton, insieme a Edward F. Cline, raccontò con Sherlock, Jr (1924; La palla n. 13, noto anche con il titolo Calma, signori miei!) la storia di un proiezionista che in sogno entra nei film, cioè attraversa lo schermo e diventa protagonista di innumerevoli e fantastiche situazioni. A Keaton interessava mostrare al pubblico il trucco; lo smascheramento del meccanismo è un tentativo di assimilare cinema e sogno, di ironizzare sull'alienazione dello spettatore che si identifica con i protagonisti dello schermo e con le situazioni in cui sono coinvolti. Naturalmente il gioco riuscì alla perfezione, e Buster Keaton sorprese il pubblico e produsse risate, ma mostrò anche il lavoro e la finzione del set. The cameraman (1928; Io e la scimmia, noto anche con il titolo Il cameraman) di Edward Sedgwick racconta la storia di un cineamatore che non riesce mai a indovinare la ripresa giusta. Questa volta è l'atto del girare, la cattura della realtà per mezzo della macchina da presa a interessare Buster Keaton, ossia Shannon, il protagonista del film. Ma la macchina da presa si dimostra strumento ostico e le riprese funzionano solo quando Shannon ricrea artificialmente le situazioni da riprendere; però a girare la scena finale, e decisiva, è una scimmia. Il film apre interessanti prospettive di lettura e manifesta un'autentica tensione metalinguistica, anche se non arriva a proporre una seria problematica sull'essere artisti o sul cinema riflessivo. Pressoché coevo fu Čelovek s kinoapparatom (1929, L'uomo con la macchina da presa) di Dziga Vertov, che racconta una giornata a Mosca, con tutto il carico possibile di emozioni e banalità. In conclusione, questo tipo di cinema inseguì il mito della macchina da presa, di cui viene dapprima esaltato l'aspetto di gioco magico e quindi svelato quello di finzione; con il risultato che, nella loro ansia di demistificare il cinema, questi film finiscono solo per rinsaldarne il mito e imbrigliare, nel loro meccanismo, l'attenzione dello spettatore.
Quasi dall'inizio, il c. nel c. prese una seconda direzione obbligata, quella di utilizzare come punto di riferimento gli attori, ossia le figure più immediatamente riconoscibili dal pubblico. Mariute (1918) di Eduardo Bencivenga racconta una giornata della diva Francesca Bertini: risveglio, indugi a colazione, toilette e, finalmente, l'arrivo sul set, dove interpreta sé stessa in un film di propaganda di guerra. L'incontro con un soldato reduce dal fronte la turba, e la notte sogna di essere Mariute, una contadina, e di venire violentata da tre soldati. Al mattino, tornata Bertini, sbriga in fretta le sue faccende e arriva con solo mezz'ora di ritardo sul set. Mariute è uno dei primi film autoriflessivi, in cui è oggetto della riflessione il cinema con il suo modo di produzione. Esempio di metacinema tra i più interessanti del muto, in Mariute la Bertini fa il verso a sé stessa, in un saggio di parodia divistica. Successivamente, i metafilm italiani si susseguirono. L'illustre attrice Cicala Formica (1920) di Lucio D'Ambra ironizza sul cinema e sugli entusiasmi popolari che può provocare; La stella del cinema (1931) di Mario Almirante racconta dell'assalto alla celebrità della fidanzata di un attore mediocre, destinata a divenire una star; Dora Nelson (1939) di Mario Soldati è un film nel film, ma anche un film sul cinema, con attrezzi e macchinari che entrano in campo ripetutamente. Certi dispositivi risultano esibiti esplicitamente, come nella scena dei cavalli, che sembrano lanciati a tutta velocità su un viale di Cinecittà e, invece, sono di legno e azionati da corde, mentre il viale è alberato grazie a un fondale. Anche Fuga a due voci (1943) di Carlo L. Bragaglia è un film sul mondo del cinema e vede all'opera produttore, regista, sceneggiatori e attori; La signora senza camelie (1953) di Michelangelo Antonioni è invece la storia di una commessa che, grazie a un concorso di bellezza, diventa attrice e sposa un produttore. Naturalmente vi sono anche numerosi esempi europei. Le silence est d'or (1947; Il silenzio è d'oro) di René Clair, Fängelse (1949; Prigione) di Ingmar Bergman, Vie privée (1962; La vita privata) di Louis Malle costituiscono alcune variazioni sul tema. Inoltre, alcuni film vennero ideati per colpire al cuore il mito della star. La signora di tutti (1934) di Max Ophuls è la storia di una diva all'apice del successo, ma la cui vita privata è pervasa di disperazione, che ripercorre la sua esistenza dopo un tentativo di suicidio. Il quadro che ne deriva è desolante e cinico: presentare lo spettacolo come mondo illusorio e crudele, mostrare la mercificazione della diva e la perdizione come unico sbocco sono gli obiettivi dell'autore. Bellissima (1951) di Luchino Visconti racconta di una popolana che sogna un destino da star per la sua bambina e, a tale scopo, sottopone entrambe a umilianti prove che forniscono così un ritratto feroce e cinico del mondo del cinema.
In The last command (1928; Crepuscolo di gloria) di Josef von Sternberg un generale russo che fa la comparsa a Hollywood viene scritturato da un suo vecchio nemico umiliato che, divenuto regista, utilizza il generale per fare la parte di sé stesso nella Russia del 1917, finché quest'ultimo muore di infarto sul set. Il film è dunque incentrato sul rapporto che corre tra realtà e finzione e tra teatro e vita, però un carrello all'indietro va a scoprire la macchina da presa e fa pensare che il vero significato del film sia incentrato su Sternberg medesimo che ritrae sé stesso attraverso la sua opera. Il cinema sulle dive, poi, rappresentò un autentico filone dei film di Hollywood su Hollywood. Show people (1928; Maschere di celluloide) di King Vidor è la storia di un'aspirante attrice che arriva a Hollywood persuasa di sfondare nel melodramma, e diventa invece un'attrice comica. Il film offre una lucida analisi della capitale del cinema, ormai giunta alla maturità, arricchita di gag esilaranti, spesso girate tra le quinte, che mostrano i procedimenti di lavorazione del film. Gli incroci tra finzione e realtà ne hanno fatto un classico del c. nel c.: si passa da meccanismi di sdoppiamento (la protagonista riconosce nello studio la famosa attrice Marion Davies) a vere mises en abyme (Vidor interpreta sé stesso in una scena e un suo film, Bardelys the magnificent, 1926, Bardelys il magnifico, viene proiettato in un cinema); inoltre, abbondano, come comparse, attori e personaggi celebri che interpretano sé stessi (Charlie Chaplin, Douglas Fairbanks, John Gilbert, William S. Hart, Louella Parsons). In What price Hollywood? (1932; A che prezzo Hollywood?) di George Cukor una cameriera con ambizioni cinematografiche diventa una star. Bello e crudele, il film è un ritratto prezioso della comunità hollywoodiana, con tanto di cineasta alcolista, produttore-despota e l'introduzione melodrammatica del suicidio: il suo valore metafilmico risulta moltiplicato dalle quattro versioni successive, di cui A star is born (1937; È nata una stella) di William A. Wellman costituì una variante. Sunset Boulevard (1950; Viale del tramonto) di Billy Wilder narra del destino tragico di una diva del muto, e focalizza l'attenzione sulla follia che il cinema può provocare e sul potere autodistruttivo che è in grado di innescare. La protagonista è Gloria Swanson, già diva del muto, il suo maggiordomo è Erich von Stroheim, regista che l'aveva diretta in Queen Kelly, film che l'attrice fa proiettare nella sua casa. Inoltre, compare Cecil B. DeMille sul set di Samson and Delilah (1949; Sansone e Dalila) e fa una breve apparizione anche Buster Keaton. Nel metacinema incentrato sul lavoro dell'attore, l'immagine nello specchio appare deformarsi ancora di più se l'attore si vede recitare in un film interpretato da giovane, e parla della propria carriera. Nel complesso, si tratta di opere che svelano il meccanismo produttivo dell'industria cinematografica statunitense. Alcolismo, disastri sentimentali e nevrosi vengono presentati come compagni inseparabili degli attori hollywoodiani, come in The bad and the beautiful (1952; Il bruto e la bella) di Vincente Minnelli, The barefoot contessa (1954; La contessa scalza) di Joseph L. Mankiewicz, The goddess (1958; La divina) di John Cromwell, Two weeks in another town (1962; Due settimane in un'altra città) sempre di Minnelli, The big knife (1955; Il grande coltello) di Robert Aldrich. Quest'ultimo film fu il capostipite di una piccola serie dello stesso regista, che comprende Whatever happened to Baby Jane? (1962; Che fine ha fatto Baby Jane?), The legend of Lylah Clare (1968; Quando muore una stella), The killing of Sister George (1968; L'assassinio di Sister George). Hollywood presenta in queste opere situazioni tipiche, con ambienti convenzionali che, in ossequio a una mitologia popolare, descrivono la fabbrica dei sogni come luogo privilegiato di scandali e lusso, di carriere sfolgoranti e riuscite spettacolari, utilizzando, però, i cliché e i meccanismi narrativi delle fiabe. Naturalmente, Hollywood ha anche esibito la bellezza materiale di scenografie e set che si sono rivelati strumenti di fascino soprattutto per i cinefili. Raramente, però, il cinema statunitense si è proposto come soggetto di riflessione critica: infatti anche se ha parlato di sé più di ogni altra cinematografia del mondo, i suoi film mancano di speculazione teorica e l'attenzione si ferma alla notazione psicosociologica o morale, senza affrontare con spessore teorico il problema della creazione cinematografica. È curioso, inoltre, che l'industria del cinema statunitense, che più di ogni altra si è servita di testi letterari preesistenti, abbia aspettato tanto a lungo prima di adattare i grandi romanzi sul mondo hollywoodiano. Solo nel 1975 venne trasposto The day of the locust (Il giorno della locusta), tratto da N. West e diretto da John Schlesinger, e l'anno seguente The last tycoon (Gli ultimi fuochi), da un romanzo di F.S. Fitzgerald, per la regia di Elia Kazan. Fino allora i film su Hollywood erano tratti dalla narrativa popolare o da racconti pubblicati sui periodici a grande tiratura, che sfruttavano l'eco del successo delle star. I film si facevano contando proprio sul fatto che il pubblico avrebbe riconosciuto le star di cui si parlava e le leggende che le riguardavano. E la ricetta funzionava, dal momento che il pubblico apprezzava i film che mostrano il fermento dei teatri di posa, con sarte e truccatori che inseguono dive e divi capricciosi, produttori tremendi che perseguitano registi spaventati e ubriachi e sceneggiatori. Ma anche la sera della prima al Grauman's Chinese Theater ‒ con i fotografi, le auto di lusso, i vestiti e i gioielli sfavillanti ‒ la visione dei giornalieri, il provino della dilettante, la vittoria di un Oscar, le feste nelle ville delle star, con le piscine a forma di cuore. E l'ascesa fulminante della giovane provinciale che diventa una star è solo uno tra i grandi miti americani che seduce il pubblico e costituisce quindi garanzia di sicuro successo.
L'intenzione di mostrare come si giravano i film in passato per colpire l'attenzione dello spettatore ha permesso la diffusione di opere in cui proprio il cinema si fa tema primario della narrazione, cosicché il film non solo diviene espressione di un punto di vista sul mezzo, ma anche veicolo di una poetica. È la strada battuta dai registi cinéphiles della Nouvelle vague, come Claude Chabrol, Jean-Luc Godard, François Truffaut, Jacques Rivette, Eric Rohmer che, provenendo dalla critica cinematografica, utilizzarono la macchina da presa anche per trasfondere nelle loro opere l'idea che si erano fatti del cinema e per parlarne; così, il cinema della Nouvelle vague nacque già concettualmente in un certo senso come metacinema. La creazione passò attraverso l'apprendimento, l'imitazione e il commento dei classici; il cinema divenne un gioco che andava fatto con gli strumenti e la memoria di un repertorio, e cioè con tutte le opere girate fino a quel momento. Il film diventò comunicazione cinematografica; mostrare il dispositivo in ogni occasione e smontare scientificamente la narrazione furono gli strumenti scelti per trasformare il film in riflessione sul cinema, mentre la mania citazionista poté esserne considerata la grammatica.
Con l'avvento del cinema autoriale della modernità, la scrittura è diventata opaca, sono stati esasperati i punti di vista, si è abbondato in procedimenti stranianti ed esibizioni dell'artificio, sono state esaltate le manipolazioni di montaggio; le didascalie, il ricorso a racconti, le interviste, le citazioni, la presenza della macchina da presa in campo sono stati tutti procedimenti utilizzati per spostare l'attenzione dello spettatore sui processi che presiedono alla realizzazione dei film, i quali diventano un modo per parlare di cinema. Ma la consacrazione definitiva del metacinema moderno è avvenuta a opera di Federico Fellini e Godard. Nel 1963 uscirono Le mépris (Il disprezzo) di Godard e 8 1/2 di Fellini; queste opere determinarono una svolta precisa delle modalità espressive del cinema europeo del dopoguerra, riassumibile nell'idea che la creazione può interrogarsi sulla natura stessa dell'atto creativo. Godard aveva già fatto il suo discorso sul cinema in À bout de souffle (1960; Fino all'ultimo respiro) e in Une femme est une femme (1961; La donna è donna) ma l'intera sua opera è una riflessione permanente sul linguaggio del cinema. Tuttavia con Le mépris rese espliciti gli intenti metacinematografici. Il film, adattamento del romanzo di A. Moravia, ambientato tra gli studi di Cinecittà e Capri, fu dedicato a Roberto Rossellini, la parte del regista fu affidata a Fritz Lang e quella dell'aiuto a Godard stesso; il film nel film è ispirato all'Odissea. Nell'opera abbondano le discussioni sul cinema e le citazioni; tra l'altro i protagonisti leggono una monografia di Lang e, in crisi di ispirazione per i dialoghi, fanno il verso a Jean Renoir. 8 1/2 di Fellini racconta del set dello stesso 8 1/2 ; la sequenza dei provini per la ricerca degli attori è esplicita in tal senso: i personaggi del provino coincidono con quelli del film. Fellini più volte avrebbe poi ripercorso questa strada con Fellini: a director's notebook (1969; Block-notes di un regista), I clowns (1970), Roma (1972), nella sequenza conclusiva di E la nave va (1983), in Ginger e Fred (1986) e in Intervista (1987). Però, in 8 1/2 "il film nel film è il film stesso, e la costruzione in abisso (mise en abyme) trova il suo trionfo paradossale quando non c'è più alcun film incluso, quando i due film dichiarati distinti sono fisicamente confusi in modo totale" (Metz 1991; trad. it. 1995, p. 60). Metz utilizza la metafora del blasone in un blasone in un blasone, e così via ‒ presa in prestito dall'araldica e usata da A. Gide per la letteratura ‒ per concludere che l'opera felliniana è qualcosa di originale e di unico, fino all'omaggio-ricalco fattone da Woody Allen in Stardust memories (1980). Anche se poi il meccanismo ha fatto scuola, e tra i tanti epigoni vanno citati Trans-Europ-Express (1966; Trans Europ Express) di Alain Robbe-Grillet, in cui uno sceneggiatore, Robbe-Grillet stesso, e i suoi collaboratori scrivono un film il cui titolo è proprio Trans-Europ-Express. Per similitudine, vi si può accostare L'homme qui aimait les femmes (1977; L'uomo che amava le donne) di Truffaut, in cui la sceneggiatura del film che si gira è la trama del romanzo che il protagonista sta scrivendo. I film che raccontano la storia di sé stessi hanno attratto gli autori negli anni 1970-1985 e numerose sono state le opere di questo tipo, spesso trionfanti nei festival: La nuit américaine (1973; Effetto notte) di Truffaut ottenne l'Oscar come miglior film straniero nel 1974, Der Stand der Dinge (Lo stato delle cose) di Wim Wenders ha ricevuto nel 1982 il Leone d'oro a Venezia, Die Sehnsucht der Veronika Voss (Veronika Voss) di Rainer Werner Fassbinder è stato premiato nello stesso anno con l'Orso d'oro a Berlino.
Analizzando le filmografie dei più importanti autori del New American Cinema, a partire dalla fine degli anni Sessanta, emerge una netta predominanza di rifacimenti e seguiti. Brian De Palma, Peter Bogdanovich e Francis Ford Coppola, insieme a tanti altri loro colleghi, ripresero, come era già avvenuto nel cinema europeo, la lezione di John Ford, Howard Hawks e Alfred Hitchcock, contaminata e intellettualizzata, nonché la giustificazione teorica di film 'alla maniera di', una moda lanciata dai registi della Nouvelle vague, e si ingegnarono per realizzare opere che riprendessero lo stile di certi maestri, riecheggiandone temi e poetiche, realizzando in questo modo un tipo particolare di cinema nel cinema. Così, Allen ha citato tutto il cinema dell'età dell'oro di Hollywood; poi, dopo aver resuscitato Humphrey Bogart ed esplorato l'universo chapliniano, ha cambiato direzione per approdare a Fellini, con Stardust memories, e soprattutto a Bergman, con Interiors (1978), ma anche con September (1987) e Another woman (1988; Un'altra donna). In Europa, Fassbinder ha riecheggiato la tradizione del melodramma hollywoodiano e tutto il suo cinema ha rielaborato l'immaginario di Douglas Sirk; Wenders ha ripreso ritmi e struttura dei road movie statunitensi e ha riproposto i temi dell'amicizia virile del cinema classi-co statunitense rendendo omaggio a Samuel Fuller o Nicholas Ray. C'è stato, infine, il 'cinema dei replicanti', con Aki Kaurismäki che si ispira a Ozu Yasujirō e Robert Bresson; Lars von Trier che ha ripreso Andrej A. Tarkovskij; mentre in Giappone, Takeshi Kitano ha rielaborato il cinema di Antonioni e Godard. In conclusione, questi autori hanno fatto rivivere i generi, le atmosfere, l'essenza del cinema classico e moderno, lo hanno risuscitato e restituito al pubblico, arricchendolo di elementi visivi e narrativi.Il capitolo successivo del metacinema è figlio della postmodernità. Il c. nel c. contemporaneo ha abusato dell'interruzione sistematica dell'azione, di anticipazioni sugli sviluppi narrativi, di utilizzazione di voci narranti, abbondando in didascalie, interviste, citazioni, esibendo ralenties, split screens e punti di vista impossibili; tutti procedimenti che hanno spostato l'attenzione dello spettatore dal 'cosa' si racconta al 'come'. Ma lo ha fatto conservando il regime di finzione della narrazione; il recupero di storia e racconto è reso funzionale alla relazione con uno spettatore disincantato, considerato partner attivo di un gioco. Serie, remake, citazioni sono segnali precisi di un'autoriflessività della scrittura. Un cinema, in fin dei conti, che si è rifatto solo a sé stesso, trasformando la realtà in iperrealtà, e che ha acquisito troppa autoconsapevolezza metalinguistica per non rendersi del tutto autoreferente. Ma, contrariamente a quanto accade nel cinema della modernità, l'aspetto metalinguistico è solo apparente: si mostra come si fa un film, si svelano trucchi e meccanismi solo per giocare meglio e per certificare in fondo la distanza tra autore, opera e spettatore. Il metacinema è stato talmente di moda negli anni Novanta che numerosi autori hanno esordito facendovi direttamente ricorso. In the soup (1992; In the soup ‒ Un mare di guai) di Alexandre Rockwell, C'est arrivé près de chez vous (1992; Il cameraman e l'assassino) di Rémy Belvaux, André Bonzel e Benoît Poelvoorde, Living in oblivion (1994; Si gira a Manhattan) di Tom DiCillo, Il caricatore (1997) di Eugenio Cappuccio, Massimo Gaudioso e Fabio Nunziata, Boogie nights (1997; Boogie nights ‒ L'altra Hollywood) di Paul Thomas Anderson, The Buddy factor (1994; Il prezzo di Hollywood) di George Huang, Search and destroy (1995; Cerca e distruggi) di David Salle, Mute witness (1995; Gli occhi del testimone) di Anthony Waller, The brothers McMullen (1995; I fratelli McMullen) di Edward Burns, Lulu on the bridge (1998) di Paul Auster, Les nuits fauves (1992; Notti selvagge) di Cyril Collard, The Blair witch project (1999; The Blair witch project ‒ Il mistero della strega di Blair) di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez, Le pornographe (2001) di Bertrand Bonello. Si avverte in questi film l'esigenza di riflettere sul mutamento in corso dei mezzi di produzione e sul modo in cui debba rapportarsi a esso chi sceglie di fare cinema, nonché sul modo in cui raccontare le vicende e sulle difficoltà collegate alla realizzazione del primo film, con il risultato di creare un cinema a volte eccessivamente autoreferenziale.
La citazione è una forma preminente nel contemporaneo cinema nel cinema. Caratterizza infatti un nuovo modo di comunicare che privilegia la rivisitazione, il rimando al già detto, generando un culto per il passato il cui utilizzo ripetuto trasforma in stereotipi momenti significativi del cinema classico. Citazione, ripetizione, calco, riscrittura, rifacimento, serialità sono i modi con cui, riproponendo i topoi del cinema classico, o trasformandoli in autentiche parodie, il cinema contemporaneo si è aperto la strada a continue riprese e interminabili rifacimenti. La menzione di un altro film, o di altri attori e autori avviene con l'esibizione di foto o manifesti, di indumenti o maschere, con inquadrature che mostrano l'entrata di sale cinematografiche e la conseguente esibizione di cartelloni con il film in proiezione, oppure viene affidata al dialogo con personaggi che discutono di cinema, circostanza che può avere le origini più disparate. Ma la situazione più classica è il riutilizzo di una sequenza: non si contano le citazioni, ora affettuose e deferenti, ora ironiche e dissacratorie, della gonna di Marilyn Monroe sollevata dal vento della metropolitana in The seven year itch (1955; Quando la moglie è in vacanza) di Wilder, o della caduta della carrozzina lungo la scalinata in Bronenosec Potëmkin (1925; La corazzata Potëmkin) di Sergej M. Ejzenštejn. L'autocitazione ha una grande tradizione, basti pensare ai registi che sono attori nei loro film o comunque compaiono in qualche scena. Hitchcock in primo luogo, ma anche John Landis in Into the night (1985; Tutto in una notte), Pier Paolo Pasolini in Il Decameron (1971) e I racconti di Canterbury (1972), Truffaut in L'enfant sauvage (1969; Il ragazzo selvaggio) e in La nuit américaine. E naturalmente, e da sempre, Buster Keaton e Charlie Chaplin. Ma è lo schermo lacerato a fornire una metafora incisiva del cinema di una volta: in Another 48 hrs (1990; Ancora 48 ore) di Walter Hill sono due motociclette a sfondare lo schermo che proietta immagini di un film porno; in Back to the future ‒ Part III (1990; Ritorno al futuro ‒ Parte III) di Robert Zemeckis la macchina del tempo attraversa lo schermo e si ritrova in mezzo a una vera battaglia a cavallo. In Twister (1996) di Jan De Bont il ciclone si abbatte sul drive-in dove si proietta The shining (1980; Shining) di Stanley Kubrick, e si porta in cielo Jack Nicholson che sta tentando di abbattere con la scure la porta del bagno, in cui si è rinchiusa Shelley Duvall. Il nuovo cinema hollywoodiano distrugge quello vecchio, strappandogli brandelli per rifarsi. Oppure ricostruisce la storia del cinema, come accade, per es., in RKO 281 (1999; RKO 281 ‒ La vera storia di "Quarto potere") di Benjamin Ross, Shadow of the vampire (2000; L'ombra del vampiro) di E. Elias Merhige, su Friedrich W. Murnau e Nosferatu, Gods and monsters (1998; Demoni e dei) di Bill Condon, su James Whale, il primo regista di Frankenstein; o ne sancisce la condanna. Infatti, Escape from L. A.(1996; Fuga da Los Angeles) di John Carpenter, può essere letto come un saggio su origini, sviluppo e destino di Hollywood: il set è disseminato di ammiccamenti e civetterie, con uno squalo meccanico che tenta di azzannare il protagonista mentre affiorano i resti degli Universal Studios; Sunset Boulevard e Beverly Hills sono il centro di Hollywood degradata dove Steve Buscemi sopravvive offrendo una star map, mentre i suoi amici si involano con i deltaplani dalla collina, dietro la scritta 'Hollywood', la più citata di tutti i tempi. Altre volte, il prodotto finale è un puzzle ripetitivo di citazioni, un cocktail di tutti i film già visti riproposto per nuovi rifacimenti. Un supertesto che contiene tutti i testi (generi, stili, film ecc.) mescolati alla rinfusa. Se, dunque, la citazione è intellettualistica, omaggio disincantato ed esibizionista, se tutto è già stato detto e scritto, si ricombinano i resti e l'universo citazionista e barocco finisce per produrre racconto allo stato puro. I film non appaiono risolti nel loro complesso, ma le parti che li compongono sono autentici brandelli di grande cinema. A volte, però, la citazione può essere menzognera e ironica: in Brewster McCloud (1970; Anche gli uccelli uccidono) di Robert Altman appare il logo MGM ma il leone non ruggisce mentre invece una didascalia ironicamente sottolinea "ho dimenticato la mia parte"; in Silentmovie (1976; L'ultima follia di Mel Brooks) di Mel Brooks la scritta Ars Gratia Artis, che orna il logo MGM, diventa Ars Est Pecunia, mentre il leone risulta rimpiazzato da un produttore che fuma due grossi sigari; in The last remake of Beau Geste (1977; Io, Beau Geste e la legione straniera) il regista, Marty Feldman, raggiunge il globo, simbolo della Universal, e ne strappa le lettere con piacere evidente. Comunque, la citazione parodica, e non solo di sequenze, ha interessato da sempre il cinema seriale hollywoodiano, che nelle parodie ha un suo momento speciale di autoriflessività.
Attorno agli anni Venti, molti film di genere diverso, d'avventura, drammi sentimentali, biblici o storici, che comunque erano stati grandi successi commerciali hollywoodiani, furono replicati in chiave parodica, ottenendo il duplice risultato di far ritornare nelle sale quelli che avevano visto l'opera di riferimento e di farli ridere per ciò che li aveva fatti soffrire o piangere. Fu l'epoca gloriosa in cui i film occupavano uno o due rulli, per qualche decina di minuti di risate a spese di Hollywood, con 'gaglioffi' come Ben Turpin e Stan Laurel impegnati in gustose parodie. I loro film, oltre che sul personaggio e sul soggetto, ironizzavano efficacemente sul titolo stesso del loro bersaglio, costruendo irresistibili giochi di parole. Una moda dirompente per la carica dissacratoria che si abbatté sul santuario dei miti statunitensi e per lo scompiglio che portò sui set. Purtroppo, però, si esaurì con la fine del muto. In seguito, quel tipo di parodie venne ripreso nell'Italia degli anni Sessanta. Così, diventò pratica diffusa quella di oltraggiare film di successo, ricorrendo a un'ironia che stravolgeva l'opera-bersaglio e sconfinava nella farsa e nel grottesco, ottenendo, però, anche l'effetto di sollecitare il pubblico a vedere e rivedere l'opera originale. I grandi film, quindi, qualche volta tornarono a rivivere grazie a forme di spettacolo minori e alternative. Fu la vendetta del cinema di serie inferiore nei confronti di quello alto e spesso paludato, e del pubblico di provincia verso quello sofisticato delle città. Totò, Peppino e… la dolce vita (1961) di Sergio Corbucci, Rocco e le sorelle (1961) di Giorgio C. Simonelli, Ultimo tango a Zagarol (1973) di Nando Cicero, Satiricosissimo (1970) di Mariano Laurenti, illustrano bene questo intento; ma la quantità di parodie dei film di successo è sterminata, basti pensare alle filmografie di Totò e del duo Franco Franchi e Ciccio Ingrassia per rendersene pienamente conto e apprezzare la creatività di certi titoli.Se questo tipo di cinema si limitò a parodie di singole opere, seguendone gradualmente lo sviluppo narrativo, ma cambiandone il segno, in seguito, tentativi come quello effettuato da Ezio Greggio con The silence of the hams (1994; Il silenzio dei prosciutti) hanno mutato struttura, realizzando la multi-parodia. Con un colpo solo in questo film, si bersagliano The silence of the lambs (1991; Il silenzio degli innocenti) di Jonathan Demme, Basic instinct (1992) di Paul Verhoeven, The woman in red (1984; La signora in rosso) di Gene Wilder, Night of the living dead (1968; La notte dei morti viventi) di George A. Romero, Psycho (1960; Psyco) di Hitchcock. E codici dei generi hollywoodiani non sono stati oggetto di maggior rispetto in patria; lasciando in disparte i vecchi frequentatori di parodia come Bud Abbott, Lou Costello o Jerry Lewis, basta ricordare le citazioni presenti nei film di Jim Abrahams, David e Jerry Zucker, per rendersene conto. La loro è sembrata un'opera finalizzata globalmente a realizzare una contro-storia comica del cinema seriale americano: se con Airplane! (1980; L'aereo più pazzo del mondo) hanno rifatto il genere catastrofico, con Top secret! (1984) hanno colpito il genere avventuroso. In Hot shots! (1991) Abrahams ha sbeffeggiato contemporaneamente Top gun (1986) di Tony Scott, An officer and a gentleman (1982; Ufficiale e gentiluomo) di Taylor Hackford e 91/2 weeks (1985; 9 settimane e 1/2) di Adrian Lyne, mentre con Hot shots! ‒ Part deux (1993; Hot shots! 2) ha preso in giro in un colpo solo Rambo: first blood ‒ Part II (1985; Rambo 2 ‒ La vendetta) di George P. Cosmatos, Star wars (1977; Guerre stellari) di George Lucas, e No way out (1987; Senza via di scampo) di Roger Donaldson. Gli esempi potrebbero continuare citando molte opere di Brooks, oppure i due Scary movie (Scary movie ‒ Senza paura, senza vergogna… senza cervello!, 2000, e Scary movie 2, 2001) di Keenen I. Wayans, parodia dei vari horror per teenager. Il parodico-demenziale si è dispiegato in un accumulo di citazioni di film di solito usciti non molto tempo prima in modo che il pubblico possa averli presenti. A loro volta, da buoni film di genere con mire di incassi, i prodotti dissacrati sono essi stessi infarciti di citazioni e rimandi e quindi contengono già la propria parodia. Naturalmente, il solo rimando a un altro film, come anche l'esibizione dell'ambientazione di una scena dentro un cinema non bastano a sollevare l'opera da una generica appartenenza al metacinema. È necessario verificare il rapporto che corre tra l'autoriflessività, cioè l'esercizio sul terreno del metalinguaggio, l'esibizione dell'apparato, cioè la presenza del mezzo dentro il mezzo, e la riflessione sul linguaggio stesso, sul racconto filmico. In ogni caso, il metacinema si configura come un tentativo degli autori di autodefinirsi, di offrire una percezione di sé stessi e una visione consapevole del proprio lavoro. Questi momenti di riflessione, questo ripiegamento su sé stessi sono stati letti spesso come segno di crisi del cinema. Mentre per lo più si è trattato di un lavoro di ridefinizione o di una presa di posizione nei confronti del passato avvertiti come necessari per andare verso il futuro, per preparare nuove svolte. Oltre la teoria, però, il c. nel c. ha affascinato e coinvolto; i registi vi hanno fatto costante ricorso e il pubblico si è divertito come nel caso di Nuovo cinema Paradiso (1988) di Giuseppe Tornatore, Splendor (1989) di Ettore Scola e Nitrato d'argento (1996) di Marco Ferreri. I film registrano un viavai di personaggi che passano da un'opera all'altra, oppure escono dallo schermo mentre gli spettatori vi entrano, in un interscambio che sconvolge qualunque senso di realtà e restituisce alla fabbrica dei sogni il suo significato letterale, grazie a The purple rose of Cairo (1985; La rosa purpurea del Cairo) di Allen, Ladri di saponette (1989) di Maurizio Nichetti, Last action hero (1993; Last action hero ‒ L'ultimo grande eroe) di John McTiernan. Così, in un film come À l'attaque! (2000) di Robert Guédiguian, la storia dei protagonisti si modifica a mano a mano che procede, perché è esplicitamente virtuale: infatti vengono messi in scena soprattutto gli sceneggiatori che la stanno scrivendo e vengono registrate le virate narrative dettate dalle idiosincrasie dei suoi autori.
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