Cinéma vérité
La locuzione cinéma vérité (sull'argomento v. anche documentario) fu lanciata dal sociologo francese Edgar Morin in un articolo del gennaio 1960 sul settimanale "France Observateur", dove veniva fornita un'interpretazione della poetica cinematografica di Dziga Vertov, celebre cineasta dell'avanguardia sovietica. Nel 1960, in occasione della proiezione al Festival di Cannes di Chronique d'un été, diretto da Jean Rouch e dallo stesso Morin, la locuzione si leggeva nella frase di lancio del film: Pour un nouveau cinéma vérité. Morin intervenne a chiarire il proprio pensiero: "Si tratta di fare un cinema verità che superi l'opposizione fra cinema romanzesco e cinema documentaristico, bisogna fare un cinema di autenticità totale, vero come un documentario ma col contenuto di un film romanzesco, cioè col contenuto della vita soggettiva" (cit. in Fofi, Morandini, Volpi 1988, p. 343).
In un convegno a Lione del marzo 1963, Mario Ruspoli, cineasta di origine italiana, intervenne nella questione, proponendo di limare il concetto di C. v. su quello, più pertinente, di 'cinema diretto'. Rispetto alle preoccupazioni di stampo ancora espressivo e narrativo di Morin, Ruspoli invitava a porre l'accento sulle modalità immediate della comunicazione filmica: fare cinema, quindi, significava nelle sue parole approfittare della tecnologia, ormai avviata sulla strada della leggerezza, per accentuare la 'presa diretta' del mezzo cinematografico sulla realtà viva, colta nel momento stesso in cui può scattare l'evento della comunicazione fra chi gira e ciò che viene ripreso.Oltre che in Francia, il fenomeno del C. v. si affermò in Gran Bretagna, nel solco del grande documentarismo della Scuola di Brighton, negli Stati Uniti, dove si ispirò alla tradizione della 'messinscena documentaristica' di Robert Flaherty, e, in un contesto specifico e particolarmente vivo, in Canada. Il canadese Michel Brault aveva infatti partecipato alla realizzazione di Chronique d'un été come operatore di macchina: proprio a lui era stata affidata la nuova cinepresa 16 mm di circa sei chili, la Coutant-Mathot-Éclair KMT, dotata di magnetofono portatile per la presa diretta sincrona del suono. Questa cinepresa, grazie alla sua intrinseca agilità, diventò, a seconda delle situazioni, testimone diretto o strumento di stimolo nei riguardi della realtà ripresa. L'esperienza del cinema diretto (cinéma direct) canadese rimase patrimonio della cosiddetta équipe française, ovvero dei soli cineasti francofoni del gruppo, che indirizzarono il proprio lavoro verso un cinema militante, partigiano e critico, nell'ambito dell'emancipazione culturale e sociale della regione del Québec.
Nella Storia del cinema di G. Fofi, M. Morandini e G. Volpi si definisce Brault "il vero iniziatore di questa nuova disciplina", inventore dell'"arte della camminata per seguire da vicino una persona con un obiettivo grandangolare, che tutti gli operatori del cinema diretto hanno dovuto imparare" (1988, p. 352). Specialmente in Pierre Perrault, altro pioniere canadese del C. v., si fa nitido lo spartiacque semantico che connota la locuzione cinema verità. Facendo riferimento a un pensiero del cineasta francese Chris Marker, uno dei più noti documentaristi contemporanei, G. Rondolino puntualizza che: "Tra i vari modi di praticare il cinéma vérité c'è anche quello di usare la cinecamera come 'agente provocatore', come stimolatore di reazioni e comportamenti, i quali si realizzano proprio sotto la sua azione. In questo caso, la realtà e la sua 'verità' nascono dal cinema, sono il frutto del suo intervento diretto" (1977, 3° vol., p. 247). Una prospettiva critica del C. v. di ispirazione fenomenologica, dunque, non privilegerà uno dei due poli, il 'cinema' o la 'verità', ma ciò che accade 'attraverso', nell'interazione reciproca della macchina filmica al lavoro e di una data realtà che si dispone a essere ripresa. Situazione esemplare sarà quella in cui i personaggi, pur filmati nelle situazioni e nei comportamenti reali, sono però stimolati all'azione e alla narrazione grazie alle presenze, sensibili, della cinepresa e dell'apparato di registrazione sonora. Ai due estremi di siffatto campo di energia, di tale marcatura fenomenologica del movimento, i cineasti che intendono privilegiare l'esito della 'rivelazione' di un dato evento umano finiranno con il calcare la mano sul versante di un'antropologia tendenzialmente 'idealistica', e quelli che si concentrano invece sulla 'manifestazione' di un epifenomeno sociale andranno a incidere e nutrire le pratiche di stampo 'materialistico' rispetto ai 'documenti' da riprendere. Quella di trovarsi tuttavia al fecondo crocevia di esperienze e discussioni, in una felice condizione creativa e insieme esplorativa, è stata piena e solida consapevolezza del Rouch cineasta, tra i primi a operare una sintesi tra le teorie vertoviane del 'cineocchio' e l'esperienza della 'camera partecipante' di Flaherty.In ambito statunitense si segnalano innanzitutto le prove di giornalismo cinematografico di Richard Leacock, il quale (assieme all'ingegnere elettronico Donn Alan Pennebaker, l'operatore Albert Maysles e il giornalista Robert Drew) fondò nel 1959 la Drew Associates, che fino al 1963 produsse circa trenta film e aprì la strada al suono diretto sincrono in fase di riprese. Per Leacock, che continuò la sua attività di giornalismo filmato anche dopo la separazione da Drew, il fulcro del cinema diretto consisteva nella living camera, la macchina da presa che vive perennemente a fianco dei personaggi e delle vicende che registra.
L'influenza del C. v. sul cinema militante e politico è evidente. Nel contesto degli 'stati generali del cinema', sorti poco prima del Maggio francese (1968), vennero realizzati diversi film influenzati dalla poetica e dalla pratica del C. v.: basti ricordare i cosiddetti ciné-tracts, i cine-volantini, documenti filmati di situazioni esemplari riguardanti il mondo del lavoro, e i prodotti dei gruppi di controinformazione Dziga Vertov (composto tra gli altri da Jean-Luc Godard) e Cinéastes révolutionnaires prolétariens, riguardanti, fra l'altro, le cause della Palestina e del Vietnam. Ulteriori influenze del C. v. si riscontrano nell'ambito del film etnografico, che cronologicamente comunque lo precedette, del reportage televisivo e, per quanto riguarda la fiction, anche in alcune opere del Cinema Nôvo brasiliano e della Nouvelle vague francese. Godard aveva, fra i titoli di lavorazione di À bout de souffle (1960; Fino all'ultimo respiro), Moi, un blanc, un calco riconoscibilissimo da Moi, un noir di Rouch cui rendeva così omaggio.Meno scontati, invece, i rapporti con il cinema italiano, a cominciare dal Neorealismo: Roberto Rossellini e Michelangelo Antonioni, a più riprese, non mancarono di prendere le distanze dal movimento. Tuttavia, nell'ambito della poetica specifica di Cesare Zavattini, basata sul concetto di pedinamento, è lecito riscontrare puntuali convergenze di ispirazione con il Cinéma vérité. Come scrive Rondolino, l'idea di cinema zavattiniana "è rivolta a una totale identificazione tra realtà fenomenica e sua rappresentazione cinematografica, in direzione di quella identità fra 'produzione' e 'riproduzione' che sarà la caratteristica fondamentale del cinéma vérité, come si andrà affermando nei primi anni Sessanta" (1977, 2° vol., p. 420).Nel territorio del documento filmato è da ricordare, negli anni Cinquanta e Sessanta, l'esperienza zavattiniana dei Cinegiornali liberi, tentativo di coniugare le modalità del reportage con le formule, ormai un poco logore, del Neorealismo, preceduti e accompagnati dai film-inchiesta, ideati dallo stesso Zavattini e diretti ciascuno da vari registi: L'amore in città (1953), Le italiane e l'amore (1961) e I misteri di Roma (1963).
E. Barnouw, Documentary. A history of the non-fiction film, New York 1974; G. Rondolino, Storia del cinema, Torino 1977, 2° vol., pp. 416-28, e 3° vol., pp. 246-53; G. Fofi, M. Morandini, G. Volpi, Storia del cinema, 3° vol., Dalle 'nouvelles vagues' ai nostri giorni, t. 1, Milano 1988, pp. 341-60.