Cinema
Teorie del cinema
di Francesco Casetti
Fin dalla sua prima apparizione, tra il marzo e il dicembre del 1895, il cinematografo sollecitò numerosi interventi. Vi furono presentazioni della nuova invenzione, previsioni sul suo possibile futuro, cronache, opinioni. Del c. si iniziò dunque a parlare subito: si continuerà a parlarne nell'arco di tutta la sua esistenza. I discorsi che ne hanno accompagnato lo sviluppo servono a stabilire gerarchie di valori, a istituire confronti con altri fenomeni, a capire quanto viene prodotto e consumato. D'altra parte i contenuti del discorso teorico possono largamente variare: tuttavia un tratto ricorrente, anche se non sempre chiaro, è la vocazione della teoria a farsi carico del c. nella sua generalità, come dispositivo per la produzione e il consumo di pellicole, oppure come linguaggio specifico, o come peculiare forma d, come medium tra i media o infine come insieme dei film, fatti e da fare. La funzione della teoria ha invece due fondamentali obiettivi. Da un lato la capacità di fissare un sapere definitivo riguardo il c., e cioè un insieme di conoscenze che trovano la loro espressione in un disegno più o meno coerente e convincente; dall'altro quella di fare di questo sapere un patrimonio comune, ossia qualcosa di condiviso da un gruppo più o meno ampio di studiosi, che trovano in una data 'immagine di cinema', un modello preciso di interpretazione di un determinato fenomeno. La storia delle teorie del c., d'altra parte, non presenta un percorso lineare e progressivo: per darne un quadro è necessario seguire percorsi che s'interrompono e riemergono, confini sfumati, zone sovrapposte, in modo da offrire un orientamento, ma anche una possibilità di lettura.
Le teorie sommerse
Già durante i primi quindici anni di vita del c., furono numerosi gli interventi che lo riguardarono. Non mancarono riflessioni che cercavano di approfondire il fenomeno, per lo più mescolate con cronache, annunci, manuali di fotografia fissa e animata, manifesti pubblicitari, cataloghi di pellicole disponibili ecc. In questo senso si può parlare di teorie sommerse: con la sola eccezione di B. Matuszewski (1856-1944, operatore e autore di testi pionieristici sul c.), la teoria non aveva ancora un suo spazio riconoscibile e autonomo. Esaminando gli interventi, emerge con chiarezza che l'impegno maggiore era indirizzato a cercare di capire il senso del c., le ragioni del suo successo, e i possibili usi verso cui poteva essere orientato. In tal senso risulta emblematica proprio la posizione di Matuszewski, che nel 1898, tre anni dopo la nascita del cinematografo, scrisse due opuscoli nei quali si interrogava sulla natura della nuova forma espressiva, ritenendo i film straordinarie "fonti storiche" cui doveva essere riconosciuta la stessa dignità dei documenti tradizionali, e individuando le grandi possibilità tecniche del cinema. L'interesse per le sue capacità e le sue funzioni e le ipotesi sul suo sviluppo si ritrovano anche in altri interventi. A simili spunti si deve aggiungere l'importante tema della modernità, di cui il c. veniva individuato da molti come l'emblema più chiaro. Questo tema venne affrontato in vari interventi e acquistò più avanti un notevole rilievo, in particolare nelle pagine del romanzo di L. Pirandello Si gira…, uscito a puntate nel 1915 e poi pubblicato nel 1925 in una nuova edizione con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Significativa al proposito la posizione assunta da M. Gor´kij in un articolo del 1896: sia pure con una forte connotazione negativa, il nuovo mezzo non viene posto sullo stesso piano delle arti tradizionali bensì su quello di tutti i meccanismi tipici dell'età moderna che hanno profondamente modificato le abitudini percettive dell'uomo.
Appare dunque chiaro come nelle teorie sommerse dei primi anni fossero fondamentalmente in gioco la volontà di familiarizzarsi con la nuova invenzione e la necessità di analizzare l'esperienza individuale e sociale cui essa dava luogo.
L'esplorazione del campo
Il 1907 fu un anno di svolta per la teoria del c. (Grignaffini 1989). Un gruppo di interventi suggerisce che il nuovo mezzo cominciò allora ad avere stabile cittadinanza nei discorsi 'colti'. Vi è infatti un riferimento al c. in L'évolution créatrice di H. Bergson uscito proprio nel 1907, mentre E. De Amicis pubblicò, sempre in quell'anno, un racconto dal titolo Cinematografo cerebrale, costruito come un libero montaggio di immagini. Uno scritto del regista G. Méliès (1861-1938), Les vues cinématographiques, sempre del 1907, traccia un ritratto della professione registica, propone una prima tipologia dei prodotti cinematografici e abbozza i lineamenti di una poetica del fantastico. La filosofia del cinematografo, un articolo di G. Papini uscito il 18 maggio di quell'anno sul quotidiano La Stampa, evidenzia alcune possibili linee di riflessione e contiene un appello agli intellettuali a occuparsi seriamente della nuova invenzione. Attraverso questi e altri interventi il c. iniziò a ottenere una sua legittimità culturale. Il merito di aver aperto la strada a una riflessione compiuta e di spessore viene generalmente attribuito a R. Canudo (1877-1923), il quale iniziò a interessarsi assai presto di c., con una serie di riflessioni che fissarono le direttrici del dibattito: il confronto tra il c. e le altre arti, l'idea di una sintesi dei diversi ambiti espressivi, il carattere moderno del nuovo mezzo e la necessità di trascendere la semplice riproduzione della realtà. Questi temi ritornano, sia insieme sia singolarmente, in moltissimi contributi degli anni Dieci e Venti del Novecento. La modernità del c., per es., fu un tratto fortemente sottolineato dalle avanguardie artistiche, prima tra tutte il Futurismo italiano. Sul tema del rapporto tra le arti di grande interesse fu il contributo offerto da S.A. Luciani (1884-1950) che sviluppò una serie di confronti tra il nuovo mezzo e gli ambiti espressivi tradizionali, primo tra tutti il teatro, e sottolineò la distanza del c. da ogni forma di rappresentazione realistica della realtà.
A tutto ciò va aggiunta la valorizzazione della figura del regista come fonte di un'intenzionalità poetica, e un interesse per i concreti procedimenti impiegati dal film e per le concrete forme del linguaggio filmico. Anche il poeta e scrittore V. Lindsay (1879-1931), il cui The art of the moving picture (1915) ebbe una larga influenza sul dibattito intorno al c. svoltosi in quegli anni negli Stati Uniti, volle partire dal confronto tra il c. e le altre arti. Lindsay, tuttavia, non si limita a tracciare paragoni e tipologie: specie nella seconda parte della sua opera, va alla ricerca dei tratti peculiari del nuovo mezzo (che egli identifica in una capacità di trasformare il ritmo del tempo e l'estensione dello spazio tradizionali), per individuare il suo apporto al campo estetico. In questa direzione vanno anche altri contributi. Basti accennare a quello dello psicologo H. Münsterberg (1863-1916), The photoplay. A psychological study (1916). Così come fondamentali furono le posizioni di alcuni protagonisti dell'avanguardia artistica degli anni Venti, tra i quali F. Léger (1881-1955) o L. Moholy-Nagy (1895-1946). Questi interventi evidenziano come alla fine degli anni Venti vi fu una ricognizione progressiva del campo da parte delle emergenti teorie del c.: a partire da un interesse soprattutto estetico si cercò di mettere a fuoco le potenzialità espressive, i riflessi culturali e gli apporti specifici del nuovo mezzo. Così gli otto volumi dal titolo L'art cinématographique, pubblicati a Parigi tra il 1926 e il 1931, comprendono analisi di vari autori che investono le implicazioni sociali o psicologiche del c., i suoi rapporti con le altre forme espressive, e offrono un'efficace immagine dell'ampiezza dei percorsi che caratterizzarono il dibattito.
Le grandi teoriche
Proprio a partire dagli anni Venti e poi nei decenni successivi vi furono però numerosi tentativi di elaborare un approccio più organico all'argomento. In molti casi furono effettuati da registi che a partire dalla loro esperienza cercarono di sviluppare una riflessione sistematica sul nuovo mezzo, anche perché impegnati o in un'attività di promozione dei propri film o in un'attività di insegnamento. Non di rado il punto d'arrivo è una 'formula' ("l'uomo visibile", "il primato del montaggio" ecc.): ciò che conta, comunque, è che questa formula nasceva da un'attenzione rivolta verso ciò che caratterizza più a fondo il c. e lo rende una presenza significativa. L'elaborazione teorica si concentrò in alcuni poli geografici: la Francia, in cui assunse un grande peso culturale l'esperienza del 'cinema puro'; l'Unione Sovietica, dove cineasti e studiosi si posero il problema politico e culturale di contribuire alla rivoluzione; l'Italia, in cui l'estetica dominante, quella crociana, si poneva come una sfida al riconoscimento del valore artistico del c.; la Gran Bretagna, Paese nel quale, a ridosso di alcuni organismi governativi, si sviluppò un'importante produzione documentaria.
Francia. In Francia, a fianco e dopo Canudo, una presenza importante fu quella del regista e teorico L. Delluc (1890-1924). Nel suo contributo più conosciuto, Photogénie (1920), Delluc affronta un nodo di grande rilievo designando con il termine fotogenia la capacità della fotografia e poi del c. di far emergere l'assoluta naturalità del mondo attraverso mezzi tecnici ed espressivi, strumenti cioè che agiscono senza imporsi essi stessi all'attenzione. Il dibattito sulla fotogenia proseguì intenso per tutti gli anni Venti. Pur se il termine acquisì via via nuovi significati, l'intuizione di Delluc, quella di una naturalità assoluta cui si perviene attraverso un uso intensivo della tecnica, fu ripresa ancora, per es., già dalla regista G. Dulac (1882-1942), le cui osservazioni vanno collocate nel quadro del 'cinema puro', ossia di un'esperienza che persegue l'autonomia del c. da ogni altra forma narrativa a favore di una dimensione prettamente visiva. Rivendicando la naturalità oltre la tecnica, uno dei temi ricorrenti nell'estetica del Novecento.
Unione Sovietica
Contemporaneamente in Unione Sovietica il dibattito cinematografico ruotava attorno al centrale problema del montaggio, dietro il quale però emergevano riflessioni più ampie. Risultava infatti pressante la volontà di scoprire le leggi del linguaggio cinematografico, ma era altrettanto forte il desiderio di utilizzare il film come strumento di intervento, al pari di un'azione politica e di una mobilitazione sociale. Tra le personalità più significative che vi parteciparono, in primo luogo vi fu Dz. Vertov (1896-1954). Per Vertov il montaggio rappresentava la strada principale attraverso cui procedere a una "organizzazione del mondo visibile". Grazie al montaggio, il c. rilegge e ritrascrive la realtà. In questo modo si istituisce un vero e proprio "cine-occhio", un "occhio armato di cinepresa", che può appropriarsi almeno visivamente della realtà. Anche S.M. Ejzenštejn (1898-1948) si interrogò sulla funzionalità politico-ideologica del c. mediante un lungo lavoro teorico che proseguì ininterrottamente dagli anni Venti fino alla morte, ad affiancare il suo lavoro di cineasta e a comporre un quadro di riflessione che appare una delle punte più alte dell'estetica del Novecento. Ejzenštejn si chiedeva quale fosse l'effettiva possibilità di formulare un messaggio ideologico, o meglio ancora in che modo il c. potesse porsi quale strumento di conoscenza della realtà e quale momento di partecipazione da parte dello spettatore. In quest'ottica, non basta sostituire a uno sguardo 'borghese' uno sguardo 'rivoluzionario', come auspicava Vertov. Per Ejzenštejn la forma non è un semplice 'ornamento' dell'espressione, al contrario costituisce la 'logica' sottesa a un'opera. Al centro delle sue preoccupazioni teoriche dai primi anni Venti fino alla fine degli anni Trenta vi fu così il fondamentale concetto di montaggio che egli concepì innanzitutto quale strumento per far nascere un orientamento emotivo complesso (montaggio delle attrazioni), o un'idea generale astratta (montaggio intellettuale): sia in un caso sia nell'altro, lo riportò ai principi del materialismo dialettico, e dunque lo intese come un procedimento specifico (applicato al linguaggio) di un meccanismo generale (che informa la realtà e l'operare umano). Questa concezione conobbe un'evoluzione nelle idee successive di montaggio sovratonale e di montaggio verticale. In questa fase Ejzenštejn volle insistere sulla capacità del montaggio di riunificare i diversi elementi dell'opera in un'unità complessa, percorsa da più linee di forza e dotata di più punti di raccordo; nello stesso tempo, il montaggio consentiva anche di passare dalla semplice riproduzione delle cose a una sintesi ideale (di tipo emotivo-concettuale) che restituisce, più che i contorni delle cose, il loro senso complessivo. Dopo la celebrazione ma anche lo svuotamento del concetto di montaggio, il secondo tempo della riflessione di Ejzenštejn si svolse sotto l'egida del binomio organicità-pathos. L'idea di fondo è che il punto di equilibrio di un'opera coincida con il suo punto di rottura: quanto più essa appare strutturata, coordinata, compatta, tanto più nasconde punti di fuga. Da questo punto di vista la composizione perfetta è quella in cui tutto si tiene, e tuttavia anziché rinchiudersi in sé stessa porta la rappresentazione verso nuovi orizzonti. Di qui la valorizzazione del principio dell'estasi; introdotta nel suo senso più letterale, come "uscita da sé e uscita dallo stato abituale", l'estasi segnala, sia sul piano dei registri espressivi sia sul piano della fruizione, un continuo movimento della rappresentazione verso nuovi orizzonti, fino ai margini dell'irrappresentabile.
Alla linea di riflessione Vertov-Ejzenštejn, si affiancò, e in qualche modo si contrappose, l'approccio teorico che fece capo a V.I. Pudovkin (1893-1953), e prima di lui a L.V. Kulešov (1899-1970). Il montaggio in tale approccio tornò a essere un mero procedimento linguistico, e dunque un modo di organizzare il discorso del film. Ciò non ne impedì l'assunzione quale base estetica del c. nell'ambito del quale ricopriva però una funzione eminentemente compositiva, quale mezzo di impaginazione del racconto. Ricca di spunti di notevole interesse e di fondamentali sollecitazioni fu infine l'attenzione mostrata dal formalismo russo nei confronti del c. in quanto nuova e complessa forma di espressione artistica e di comunicazione, con il concreto instaurarsi di una rete di rapporti tra gli esponenti della scuola formale e i più importanti registi del primo periodo del c. sovietico. Così come innegabile è un'affinità sul piano dell'elaborazione teorica e poetica tra gli scritti di V.B. šklovskij (1893-1984) e Ju.N. Tynjanov (1894-1943) e le riflessioni di Ejzenštejn. Motivi quali l'essenziale funzione semantica del montaggio, l'antinaturalismo del c., il procedimento denunciato e smascherato, lo straniamento come mezzo per evidenziare la percezione dell'oggetto si ritrovano nelle elaborazioni di Ššklovskij, di Tynjanov e in quelle di B.M. Ejchenbaum (1886-1959), mentre decisamente vicina alla cine-verità di Vertov è la posizione di O.M. Brik (1888-1945), che nel rivendicare l'oggettività dei fatti ne rifiuta al contempo la rielaborazione artistica.
Il dibattito sovietico trovò nella seconda metà degli anni Trenta un punto di svolta (e anche il suo momento di esaurimento) all'apparire del realismo socialista. Insieme di indicazioni pratiche più che vera e propria teoria, il realismo socialista considerò il c., e più in generale l'arte, come un riflesso della realtà e come uno strumento di promozione ideologico-politica privo di una propria autonomia. Di qui una diversa concezione del linguaggio cinematografico: la componente fondamentale divenne lcon la sua capacità di costruire personaggi tipici, piuttosto che il montaggio con la sua capacità di decostruire il reale.
Balázs e Benjamin
Di alto valore fu la riflessione condotta dall'ungherese B. Balázs (1884-1949) sulla funzione sociale del cinema. Balázs, che operò in stretto collegamento con i sovietici, ne chiarì la funzione di mezzo fondamentale per elaborare e far conoscere informazioni, che a loro volta incidono sul modo di pensare e di agire di chi le acquisisce. Al tempo stesso volle sottolineare come il c. rimette in gioco quella cultura visiva, fondata sulla forza espressiva del corpo umano, che la cultura concettuale rischia di atrofizzare. L'attenzione al c. inteso come medium caratterizzò l'approccio di altri teorici, in particolare quello di W. Benjamin (1892-1940) che con Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1936; trad. it. 1966) offrì una lucidissima diagnosi dei destini dell'arte in una società dominata dalla comunicazione di massa. Il c. è il fenomeno che meglio dimostra gli effetti legati alla caduta dell'"aura" (la fruizione dell'opera perde ogni dimensione sacrale e diventa quindi un puro atto di consumo), e quello che meglio evidenzia le possibilità che ne conseguono (la disponibilità generalizzata dei mezzi in grado di stabilire una vera e propria "democrazia comunicativa").
Italia
In un panorama quale quello italiano degli anni Trenta, profondamente influenzato dal pensiero di B. Croce, risultava dominante una preoccupazione estetica più tradizionale, legata al riconoscimento del film come possibile opera d'arte. Antinaturalismo e antitecnicismo fecero da sottofondo anche al pensatore forse più interessante del periodo tra le due guerre, lo storico e critico C.L. Ragghianti (1910-1987), che sottolineò con forza la natura di arte figurativa del cinema. Su questo sfondo culturale deve essere letto il contributo di R. Arnheim (n. 1904), studioso tedesco trasferitosi in Italia e qui attivo tra il 1933 e il 1938. Nei suoi testi egli osserva come l'immagine filmica sia separata dal reale per una serie di "fattori differenzianti": le mancano la profondità di campo, la capacità di seguire in continuità un'azione, la possibilità di mobilitare l'olfatto o il tatto, il colore ecc. E il c. si offre come arte proprio in quanto è imperfetta riproduzione del mondo: la creatività può manifestarsi grazie allo scarto con il reale. La radicalità di questo assunto piacque ai crociani (pur non essendo Arnheim un crociano); tuttavia, di fronte all'incessante ricerca da parte del c. di una maggiore efficacia riproduttiva e alla resistenza dello studioso nei confronti delle nuove tecnologie, quali il colore e il suono, si manifestò l'aspetto debole del suo approccio.
Gran Bretagna
Anche al centro del dibattito sul c. che si svolgeva in quegli stessi anni in Gran Bretagna vi era la sua funzione sociale. In particolare, J. Grierson (1898-1972), promotore di una scuola documentaristica (v. documentario), oltre che documentarista egli stesso, era profondamente convinto che il c. dovesse essere strumento di conoscenza e di informazione. Si ritrovano in questa posizione alcune idee chiave sulle quali verteva il confronto in quegli anni e che saranno centrali anche negli anni a venire. In particolare la necessità di fare i conti con la base realistica del c., per accettarla o superarla, e la volontà di esplorare la funzione sociale del nuovo mezzo. Ma un tema assai specifico, di grande rilevanza e legato a una grande rivoluzione tecnica aveva frattanto appassionato i teorici tra gli anni Venti e gli anni Trenta: quello del c. sonoro.
Le teorie del sonoro
Il sonoro incrinò infatti molti presupposti su cui la discussione si era basata, e il c. fu costretto a ricominciare a riflettere su sé stesso. Furono numerosi gli interventi volti a definire norme di condotta e regole di uso a livello estetico; ma anche a livello tecnologico vi fu un ricchissimo e contrastato dibattito, promosso in particolare dagli esponenti dell'industria. Una prima e ricorrente posizione fu quella basata sull'indifferenza: il c. continuò a essere trattato come arte visiva, nell'ambito della quale il suono assunse un ruolo decorativo. Speculare a essa, si sviluppò una concezione del suono come elemento parallelo e concorrente all'immagine. Un esempio di questa posizione è il cosiddetto Manifesto dell'asincronismo, firmato nel 1928 da Ejzenštejn, G.V. Aleksandrov (1903-1983) e Pudovkin da cui scaturisce l'auspicio di un uso contrappuntistico del sonoro rispetto all'immagine, all'origine di numerosissime teorie dell'asincronismo. L'ultima posizione significativa è quella che vide nel sonoro un elemento per così dire 'naturale'. È in questo ambito che si colloca la riflessione di M. Pagnol (1895-1974), regista e attore per il quale il c. sonoro doveva funzionare da 'specchio' della ricchezza del mondo reale. Tutte queste posizioni tardarono a saldarsi in una valutazione complessiva, con l'unica eccezione costituita dalla riflessione di Balázs. La teorizzazione di quest'ultimo si basava infatti su due presupposti: il suono filmico, provenendo da una fonte di emissione fissa, è indipendente dall'immagine; tuttavia lo spettatore è spinto a ricercare la provenienza dei suoni e dunque a motivarne la presenza sulla base dell'immagine. Di qui l'idea che il c. sia un'arte "ventriloqua": il sonoro non appartiene all'immagine e insieme le viene fatto appartenere. La conseguenza è quella di mettere in luce la presenza di strategie manipolatorie sia nei film più realistici sia in quelli più antinaturalistici. Per questa sua idea centrale, Balázs anticipò le grandi coordinate della teoria moderna del sonoro: la natura contraddittoria del suono, la presenza di forti ambiguità nella dimensione audiovisiva e lo statuto attivo dell'ascolto filmico.
Le teorie ontologiche
La ripresa del dibattito, a partire dal 1945, presentò alcune novità. In primo luogo con il dopoguerra fu dato per acquisito che il c. costituiva una forma di espressione privilegiata per comprendere i processi culturali in atto, e quindi un punto d'osservazione obbligato. In secondo luogo vi fu un'accentuazione dei caratteri specialistici della riflessione teorica. Mentre tra le due guerre i protagonisti del dibattito (registi, letterati, critici ecc.) erano coinvolti nella realizzazione pratica delle opere cinematografiche, a partire dal 1945 la riflessione teorica acquisì un suo statuto indipendente rispetto alla contingenza dell'operare concreto e si arricchì di apporti allargati ad ambiti culturali nuovi e all'apparizione di lessici particolari. Infatti al c. iniziarono a interessarsi in modo sistematico categorie di ricercatori specializzate in particolari discipline (per es., psicologi, sociologi, estetologi ecc.), colpiti dall'incidenza del mezzo sui processi in atto. Parallelamente cambiarono le istituzioni in cui si faceva teoria (per es., riviste specialistiche, o, a partire dagli anni Sessanta, l'università). Vi fu inoltre una maggiore internazionalizzazione del dibattito: a una divisione sulla base dei luoghi e dei gruppi in cui la teoria nasceva e veniva sviluppata si venne sostituendo una distinzione in virtù dei temi e dei modi con cui veniva elaborata.
È possibile individuare nel dopoguerra tre grandi 'paradigmi teorici' intorno ai quali si addensarono fondamentali elaborazioni: le teorie ontologiche; la semiotica e le teorie metodologiche; le nuove tendenze identificabili nelle cosiddette teorie di campo. Per quanto riguarda quelle che si possono definire teorie ontologiche, l'espressione rimanda ad A. Bazin (1918-1958), e in particolare al titolo del suo saggio forse più famoso, Ontologie de l'image photographique (1945), e al sottotitolo del primo volume della sua opera Qu'est-ce que le cinéma? (1958-1962; trad. it. parz. 1973), ossia Ontologie et langage: entrambi indicano la volontà di mettere a fuoco le caratteristiche intrinseche del c., la sua 'natura profonda'. Le teorie ontologiche puntano infatti a definire l'essenza del c., individuata ora nella sua dimensione realistica (Bazin, S. Kracauer, e prima ancora i teorici italiani del Neorealismo); ora nella sua capacità di fare i conti con l'immaginario (E. Morin); ora nella sua natura di linguaggio (G. Della Volpe, J. Mitry): per inquadrare il fenomeno nelle sue peculiarità e nel suo campo d'azione.
L'ipotesi realista
Tra le posizioni più rilevanti spicca proprio quella di Bazin il quale sottolinea come il c. sia in grado di aggiungere all'oggettività fotografica la riproduzione del tempo: infatti nel mezzo cinematografico l'esistente si ripresenta non più solo nelle sue apparenze e attraverso un processo automatico, ma anche nel suo divenire. Di qui un legame strettissimo tra c. e realtà: il primo si sovrappone letteralmente alla seconda; ne diventa, più che la copia, "un'impronta digitale". Allo stesso modo entra in comunione con il reale per rivelarne la profonda verità. Per confermare questa idea Bazin affronta il fenomeno cinematografico in tutta la sua estensione: analizza opere famose e film marginali, autori riconosciuti e registi di documentari o di cortometraggi, procedimenti in uso (come, per es., il piano-sequenza o la profondità di campo), periodi meno conosciuti della storia del cinema. In particolare il Neorealismo italiano fu al centro del dibattito che coinvolse Bazin e numerosi altri studiosi e consentì di elaborare posizioni critiche di grande interesse in cui dall'analisi delle opere si passava a una più ampia riflessione culturale, estetica, ma anche politica. Tra le diverse posizioni, fondamentale fu quella di C. Zavattini (1902-1989). Sceneggiatore e regista, egli da un lato rivendicò nel c. un grande strumento di conoscenza, in grado di cogliere le cose nella loro quotidianità. Dall'altro volle evidenziare come la guerra e la Resistenza avessero insegnato ad apprezzare la ricchezza del reale e il valore dell'attualità e come anche i cineasti dovessero far tesoro di questa lezione. Zavattini modulava le sue proposte sintetizzate nella cosiddetta poetica del pedinamento, sognando che la vita si affacciasse direttamente sullo schermo, grazie alla scelta di storie 'vere', interpretate dai loro stessi protagonisti, magari filmate nel loro svolgersi. L'idea difesa da G. Aristarco (1918-1996) era in qualche modo opposta a quella espressa da Zavattini: il vero realismo, sosteneva il critico e studioso di c., non nasce da una resa da parte del c. nei confronti della vita, ma da una capacità del primo di comprendere e ritrascrivere la seconda. Bisogna perciò andare oltre il semplice rispecchiamento del reale: facendo tesoro della grande tradizione letteraria, si deve riscoprire che la verità delle cose non è disgiunta dall'impegno stilistico ed espressivo. Tra i due poli rappresentati da Zavattini e Aristarco si colloca una vasta gamma di posizioni critiche e teoriche di grande interesse che animò e sostanziò il dibattito. Tra le più significative si ricordano quelle di L. Chiarini (1900-1975) e di U. Barbaro (1902-1959). Il primo contestò la riduzione del film a 'spettacolo cinematografico', riconoscendo comunque la necessità che il regista rielabori creativamente i dati che la realtà gli offre. Il secondo riconobbe nel montaggio un fondamentale principio di costruzione estetico.
Il cinema come dispositivo dell'immaginario
Questa modalità di approccio al c. trovò un'ampia e convincente testimonianza in Le cinéma ou l'homme imaginaire (1956) di Morin (n. 1921), in cui lo studioso, sociologo di rilevanza internazionale, volle porsi in rapporto con le ricerche e le conclusioni di teorici come Bazin, e intervenire nel dibattito. Anche Morin parte da un'analisi della fotografia, vedendovi però anziché un dispositivo per cogliere direttamente il reale senza la mediazione dell'uomo, un mezzo che coinvolge l'osservatore fino a farlo diventare una pedina essenziale del gioco. La fotografia a un prelievo operato sul mondo sovrappone un desiderio e una fantasia, a un'oggettività sovrappone una soggettività. Nel Cinématographe dei Lumière la soggettività si trova ancor più sovrapposta all'oggettività dei dati riprodotti. La conseguenza è che il film può proporre un suo 'discorso' sulla realtà, riorganizzandone le componenti e mettendone in luce nuovi aspetti. Ma è un 'discorso' che continua a chiedere (e a ottenere) la partecipazione dello spettatore ed è a questo punto, sottolinea Morin, che il 'cinematografo' diventa finalmente 'cinema': quel che si crea è un vero e proprio luogo di simbiosi, e cioè un sistema che tende a integrare lo spettatore nel flusso del film e al contempo il flusso del film nel flusso psichico dello spettatore. La conclusione è che il c. è il luogo per eccellenza dell'immaginario. Questo studio, pur tra i più importanti degli anni Cinquanta, rimase piuttosto isolato e i notevoli spunti che conteneva vennero sviluppati solo successivamente in contesti di dibattiti culturali segnati da un diverso tipo di approccio. Basti pensare alle riflessioni sul dispositivo psicologico alla base della fruizione cinematografica, con i lavori di Ch. Metz (1931-1993), J.-L. Baudry (n. 1930), R. Bellour (n. 1939).
Il cinema come linguaggio
Questo orientamento ha dato luogo a numerosi filoni di indagine: la comparazione tra linguaggio verbale e linguaggio audiovisivo; lo studio della grammatica filmica; le analisi di film tratti da opere letterarie ecc. Il suo sviluppo si verificò in un periodo, la metà degli anni Sessanta, in cui venne data una nuova impostazione al problema grazie alla semiologia che nel linguaggio seppe individuare non il carattere precipuo del c., bensì uno dei suoi numerosi aspetti da chiarire in un'ottica rinnovata. Già in precedenza Della Volpe (1895-1968) aveva mirato a dimostrare il fondamento razionale del c. e, di conseguenza, aveva indagato la natura stessa del linguaggio cinematografico. Evidenziando la dialettica esistente tra la forma (ossia la struttura in grado di esprimere significati) e le forme "cioè idee e concetti empirici o 'pieni'" che consentono l'"effettiva comunicatività dell'immagine" e rimandano al contenuto, Della Volpe aveva anche valorizzato l'importanza delle tecniche del c., nonché elaborato la nozione di verosimile filmico, inteso come coerenza interna del discorso portato avanti dal regista.
Una summa delle ricerche in grado di riassumere e riassorbire in sé la complessità dell'intero dibattito è rappresentata dalla monumentale opera di Mitry (1907-1988), Esthétique et psychologie du cinéma. Les structures (1963). Anche Mitry muove da una polemica contro le concezioni realiste del c., ma per raggiungere un obiettivo diverso da quello di Morin. Se è vero a prima vista che il film 'mostra' e non 'significa', è anche vero che un'analisi più approfondita permette di capire che l'immagine filmica è pienamente segno. L'immagine filmica, infatti, non mostra soltanto. Essa significa, sia poiché assume nuove valenze attraverso la sua combinazione con altre immagini (simbolo), sia poiché innesca un processo di generalizzazione e di astrazione a partire dalla sua stessa presenza sullo schermo (analogon). Si può infatti guardare all'immagine sia in rapporto a quanto è rappresentato, sia in quanto rappresentazione di qualcosa. Il mondo sullo schermo può essere simile a quello che ci circonda, ma è comunque un mondo a sé. Al contempo la presenza di un rappresentato, o la presenza di un mostrare, fanno sì che il c., nel distaccarsi dalla realtà, continui a mantenere un legame con quest'ultima. Di qui la possibilità per l'immagine filmica di essere un'entità a sé e insieme di operare un rinvio a ciò da cui è idealmente partita. Il cuore della posizione di Mitry è nell'affermazione dell'intrinseca 'linguisticità' del film sulla base della capacità dell'immagine sia di significare a partire dal mostrare, sia di farsi rappresentazione a partire dal rappresentato. Ma il nodo centrale del suo lavoro resta pur sempre quello qui evidenziato: ossia l'idea che l'immagine è segno e rappresentazione, e che dunque il c. è linguaggio. Questa convinzione animerà anche la semiotica del c., ma in modi assai diversi rispetto a quelli che costituiscono la sostanza del discorso portato avanti da Mitry.
La semiologia e le teorie metodologiche
Il problema fondamentale della semiologia non fu quello di definire la natura o l'essenza del c., ma si concretizzò nella ricerca di strumenti adeguati per analizzarlo. Ciò emerge già dall'analisi del testo inaugurale della semiologia del c., il celebre Cinéma: langue ou langage? di Metz, apparso nel 1964 sul quarto numero della rivista francese Communications. Il titolo del saggio si riferisce a una controversia su cui insisteva la semiologia del periodo: si possono studiare i sistemi 'flessibili' di segni, i linguaggi, o bisogna limitarsi ai sistemi 'rigidi', le lingue? È solo la semiologia che pone questa distinzione; e la pone per capire quale debba essere il suo oggetto. Per Metz la prima cosa che conta è il quadro della ricerca, con le sue domande e i suoi strumenti di indagine: la conseguenza è l'abbandono di ogni indagine che pretenda di investigare un fenomeno nelle sue caratteristiche intrinseche, a favore di una ricerca che studi il fenomeno 'dal punto di vista di' una data disciplina. È il metodo quindi la vera discriminante. In questo senso Metz smette di pensare che il c., se è un campo di segni, lo sia di per sé: lo è solo in quanto si fa prendere per tale. Allo studio del c. come realtà intrinsecamente linguistica si sostituisce allora uno studio degli aspetti linguistici del c., o meglio ancora uno studio linguistico del cinema.
Il mutamento di paradigma favorì l'applicazione di altre forme di indagine (la sociologia, la psicologia, la psicoanalisi ecc.) al cinema. Il primo periodo dello sviluppo degli studi di semiologia del c. è collocabile tra la metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, e fu caratterizzato dai diversi tentativi di rispondere alla domanda di Metz: il c. possiede una 'lingua' analoga alle lingue naturali e dunque può essere l'oggetto della semiologia? Le risposte furono varie e numerosi furono gli studiosi italiani che intervennero nel dibattito, anche sulla spinta di due convegni internazionali dedicati al linguaggio del film che si tennero nell'ambito della Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro, rispettivamente nel 1966 e nel 1967. U. Eco individuò nel linguaggio cinematografico una maggior complessità di piani ma anche la presenza di "codici" quali si trovano nel linguaggio verbale; E. Garroni (1923-2005) volle sottolineare come non sia la "lingua" ma la "codificabilità" dei linguaggi a essere al centro della semiologia, e dunque il c. è oggetto della semiologia nella misura in cui si rivela anch'esso "codificabile"; P.P. Pasolini (1922-1975) elaborò una risposta apparentemente paradossale ma assai interessante, e cioè che il c. ha una sua lingua, e questa coincide con la 'lingua' del mondo naturale. L'uscita nel 1971 di Langage et cinéma di Metz rappresentò per molti aspetti il culmine e insieme il superamento di questo periodo. L'opera infatti tenta di definire a quali condizioni il c. può diventare oggetto della semiologia. In particolare suggerisce che occorre tener conto di diverse realtà: il testo (ossia qualcosa di concreto e singolare: questo dato film), il messaggio (qualcosa di concreto ma non di singolare: per es., un gioco di luci in un film, che fa parte di quel testo ma non è esclusivo di esso), il codice (qualcosa di costruito dall'analista e di non singolare: per es., la 'grammatica' dell'illuminazione), e il sistema singolare (qualcosa di costruito e appunto di singolare: l'organizzazione di un testo, l'edificio del film che viene messo a fuoco nell'analisi).
Metz elabora una mappa dei codici che caratterizzano in modo più o meno esclusivo il c. e, al contempo, mostra come questi codici si combinano in modo peculiare in ciascun film. A questo proposito insiste sul fatto che in un film i codici, più che convivere, si incastrano e si scontrano. L'impianto strutturalista tipico del primo periodo si apre allora a una visione più mossa: non conta solo l'architettura sottesa, ma anche le dinamiche che l'hanno formata e che continuano ad agitarla. Entrano qui in campo quei concetti che guideranno la 'seconda semiologia', che fu caratterizzata da un nuovo orientamento. Innanzitutto la doppia strada di Metz divenne una sola: si cessò di studiare il linguaggio cinematografico, per studiare soprattutto il film. Poi divenne radicale l'attenzione alle spinte e alle controspinte che muovono i diversi elementi; più che sulle strutture, l'interesse cominciò a focalizzarsi sui processi. La 'seconda semiologia' può essere infatti definita testualista e dinamica in grado di spaziare dai 'processi produttivi' di un film ai suoi 'processi comunicativi', e dunque dal gioco dei codici all'interazione tra destinatario e destinatore. Tra i temi più interessanti: le ricerche sul c. della modernità (compiute da A. Gardies, D. Chateau e F. Jost); sul punto di vista (J. Aumont, ancora Jost, E. Branigan); sull'atto del narrare (S. Chatman, A. Gaudreault); sulle configurazioni anomale come il fuori campo, lo sguardo in macchina, la sovrimpressione ecc. (M. Vernet). Verso la fine degli anni Settanta, l'attenzione si fissò su due terreni di ricerca: da un lato sui processi dell'enunciazione cinematografica, e cioè sul modo in cui un testo filmico si costituisce in quanto tale ed esibisce questo suo statuto attraverso autoriferimenti; dall'altro sui processi che connettono un testo al suo contesto, e cioè sul modo in cui un film si lega e insieme è debitore dell'ambito sociale, culturale, istituzionale, entro cui appare. Teoria dell'enunciazione e approccio pragmatico sono stati dunque i due orizzonti (spesso collegati tra loro) in direzione dei quali si è mossa la seconda semiotica. Nel corso degli anni Settanta tuttavia questa disciplina aveva incrociato la psicoanalisi e la critica dell'ideologia, dando luogo a una diversa tendenza di studio.
Nuove tendenze della teoria del cinema
L'incontro di semiologia, psicoanalisi e critica dell'ideologia, durante gli anni Settanta, provocò un doppio effetto: l'approccio metodico lasciò il posto a un approccio multidisciplinare, e il desiderio di analisi a una volontà di interpretazione. Si svilupparono quelle che possono essere definite teorie di campo. Questo incontro si realizzò attorno a uno specifico ambito d'interesse: si voleva infatti capire come la macchina del c. (il fascio di luce del proiettore, la sala buia ecc.) determina una peculiare esperienza di visione, ma anche come lo sguardo (della cinepresa, del regista) costringe lo spettatore ad assumere un'ottica determinata. Il primo aspetto è stato al centro di un'ampia riflessione che ha avuto come tema il dispositivo cinematografico. Baudry e poi ancora Metz hanno dedicato a questo argomento vari interventi, legati a un largo uso della psicoanalisi soprattutto lacaniana. Al secondo aspetto si lega il tema dello sguardo. Sguardo della cinepresa sul mondo, innanzi tutto. Al di là dei contenuti filmati, l'azione della cinepresa è sempre ideologica: offre una visione falsamente neutra e naturale; omogeneizza la realtà; rafforza il senso di sé di chi guarda. Riviste come Cinéthique, Cahiers du cinéma e Screen intrecciarono nei primi anni Settanta un fitto dibattito attorno a questo nodo tematico. Ma lo sguardo è anche quello che i personaggi si scambiano tra loro e che lo spettatore è chiamato a condividere. Queste occhiate sullo schermo e oltre lo schermo formano una fitta rete che stabilisce i percorsi della conoscenza, del desiderio, del potere. Il tema venne sviluppato a fondo dalla Feminist Film Theory che, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, svolse un ruolo rilevante nel rilanciare e rinnovare certi elementi del dibattito sul c., innestandovi la problematicità di una prospettiva arricchita dall'attività di riflessione del movimento femminista, dalla diffusione nell'ambito del c. indipendente della presenza di registe, dall'attenzione sulla posizione delle donne nel contesto della comunicazione sociale e quindi da una più avvertita analisi delle diverse modalità della rappresentazione, con posizioni importanti sviluppate in particolare da studiose come L. Mulvey (n. 1941), P. Cook (n. 1943), C. Johnston (1940-1987). La prospettiva entro cui devono essere collocati questi studi è quella dei Cultural Studies, orientati a individuare e studiare le più interessanti subculture all'interno delle società o le manifestazioni di culture lontane da quelle tradizionali. La Feminist Film Theory ha dato il suo contributo a questo tipo di approfondimento coniugando l'identità di genere nell'ambito delle diverse possibilità di articolazione del concetto di identità (razziale, nazionale ecc.). Lo spettatore secondo tali impostazioni è dunque visto non solo come un soggetto linguistico, 'creato da' e 'iscritto ne' il testo filmico, ma anche come un soggetto sociale, modellato dall'interazione con gli altri individui e dall'attività delle istituzioni; al contempo la rappresentazione cinematografica viene esaminata non solo in sé stessa, ma in rapporto all'insieme delle rappresentazioni sociali, nel suo circolare all'interno di una cultura, e con riguardo agli effetti che produce. Parallelamente ai Cultural Studies, altri approcci si sono affermati alla fine degli anni Ottanta, nel corso degli anni Novanta e quindi nei primi anni del 21° secolo. In primo luogo vi è stato un ritorno dell'interesse estetico per il c., di cui un segno rilevante sono stati i due volumi di G. Deleuze (1925-1995), L'image-mouvement (1983) e L'image-temps (1985), ma anche gli approfonditi lavori di Aumont. Si è sviluppato inoltre un interesse per i processi cognitivi attivati dal c., e cioè per le modalità con cui si percepiscono le immagini e i suoni, o si segue una storia, oppure si ricostruisce il mondo diegetico raffigurato sullo schermo. Sullo sfondo, infine, vi è stato il grande fiorire degli studi storici e filologici sul c., in particolare i lavori dedicati al periodo delle origini, basati sul recupero dei materiali e sulla riconsiderazione delle fonti. Ciò che risulta indubitabile è la considerazione che agli inizi del 21° sec. il dibattito è ancora assai vivo, ricco di sorprese e, soprattutto, di promesse. E appare estendersi in direzioni diverse, frammentandosi e inseguendo il suo oggetto, il quale intreccia sempre di più gli esiti con l'estetica e con la comunicazione intesa in tutta la complessità delle sue diverse forme di espressione.
Bibliografia
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F. Casetti, Teorie del cinema. 1945-1990, Milano 1993.
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E. Garroni, Estetica del cinema, e F. Casetti, Teorie del cinema, in Enciclopedia del cinema, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2° vol. e 5° vol., Roma 2003 e Roma 2004, ad voces.
La produzione cinematografica degli inizi del 21° secolo
di Simone Emiliani
Il 21° sec. ha segnato l'ulteriore diversificarsi delle modalità e dei luoghi di fruizione del prodotto cinematografico: e questo sia in virtù dell'amplificarsi dello sfruttamento televisivo dei film, sia a causa dello sviluppo dei nuovi supporti elettronici (dall'home video alla pay-TV, dal DVD a Internet, sino alla discussa possibilità di vedere i film sui videofonini). Se quindi la sala non risulta più il luogo privilegiato della visione (si pensi all'offerta dei palinsesti televisivi o alle proiezioni durante i viaggi in aereo), il DVD si è definitivamente imposto grazie all'alta qualità dell'immagine e del suono e alla presenza di contenuti extra, nelle edizioni migliori di alto valore documentario. La visione del backstage di lavorazione, la possibilità di recuperare il c. del passato e di vedere le edizioni integrali di grandi classici (come nel caso di Viaggio in Italia, 1953, di R. Rossellini o di Le mépris, 1963, Il disprezzo, di J.-L. Godard) sono alcune tra le opportunità offerte da questo supporto. Da sottolineare infine i problemi legati alle diverse forme di duplicazione delle opere destinate al circuito cinematografico o televisivo, fenomeno che, soprattutto recentemente, si è notevolmente incrementato anche per la sempre maggiore velocità della rete che consente di scaricare i film sul proprio computer, con palese violazione del diritto d'autore.
La sala non è più dunque il luogo unico della visione cinematografica. E la stessa televisione con la pay-TV ha diversificato l'offerta proponendo in anteprima non solo i film più rappresentativi usciti nelle sale ma contribuendo, in certi casi, a far conoscere opere che, pur premiate in importanti festival internazionali, hanno avuto scarsa circolazione oppure non sono state distribuite in Italia. Ciò ha consentito la scoperta di cinematografie poco conosciute o emergenti, come nel caso della produzione africana o di quella di Paesi come l'Irān. Ma è stato soprattutto il c. asiatico a imporsi presso il pubblico occidentale prima con i film provenienti da Hong Kong, dal Giappone, dalla Cina e da Taiwan e quindi dalla Corea e dalla Thailandia.
Anche da un punto di vista tecnico, la diffusione del digitale ha prodotto notevoli mutamenti. È infatti ormai possibile modificare al computer gli spazi scenici, sia da un punto di vista grafico sia creando sensibili modifiche negli effetti cromatici, nei contrasti tra luce e ombra e nelle prospettive. Per The Polar Express (2004; Polar Express) di R. Zemeckis è stato adottato un sistema rivoluzionario chiamato performance capture attraverso il quale i movimenti e tutte le espressioni degli interpreti vengono catturati e trasformati in immagini digitali da una serie di macchine da presa a infrarossi. Successivamente le immagini vengono inserite all'interno di scenografie ricostruite al computer e ogni sfumatura della recitazione degli attori va a costituire un repertorio per personaggi virtuali. Il digitale (v. digitale, cinema) ha dunque consentito di abbassare i costi non solo delle opere di filmmakers indipendenti, ma anche di fastosi kolossal come Gladiator (2000; Il gladiatore) di R. Scott dove, nelle scene di massa, molte comparse sono state ricreate al computer. Tra le varie possibili letture teoriche sul futuro del c., il bel film di A. Niccol Simone (2002) ipotizza la possibile scomparsa dell'attore umano.
Il c. statunitense ha continuato a imporsi, a livello distributivo, sul mercato mondiale. E questo è avvenuto sia con blockbusters di successo, sia con film di autori indipendenti che hanno raggiunto una vasta fascia di pubblico, sia grazie alla grande quantità di generi affrontati (dal fantastico all'horror, dal melodramma alla commedia, dal musical al poliziesco, dal c. politico-civile al western), mentre, d'altro canto, si è confermato il favore riservato ad autori e attori attivi già da tempo. C. Eastwood è riuscito sempre di più ad amalgamare la lezione dei suoi due maestri, D. Siegel e S. Leone, realizzando un c. di assoluto rigore formale ma anche profondamente intimista come nel caso di Mystic river (2003) e Million dollar baby (2004) sceneggiato da P. Haggis il cui film d'esordio Crash (2004; Crash - Contatto fisico) ha vinto nel 2006 l'Oscar come miglior film. M. Scorsese ha continuato a dar prova del suo talento visivo, rasentando però un compiaciuto manierismo in Gangs of New York (2002) e soprattutto in The aviator (2004). Anche la dimensione corale del c. di R. Altman (Oscar alla carriera nel 2006) ha mostrato segni di stanchezza in The company (2004). L'opera di S. Spielberg, tranne il caso di Catch me if you can (2002; Prova a prendermi), e The terminal (2004), è apparsa sempre più cupa, come nei film di fantascienza A.I. - Artificial intelligence (2001; A.I. - Intelligenza artificiale) e Minority report (2002), e spettacolari come War of the worlds (2005; La guerra dei mondi). Le ultime opere di W. Allen hanno invece mostrato un'apertura verso un inedito sperimentalismo visivo evidente in Anything else (2003) e Match point (2005). M. Mann con Alì (2001) e Collateral (2004) ha ribadito di essere uno dei migliori registi statunitensi, capace di coniugare un personale stile visionario con dirompenti scene d'azione. Anche Scott ha continuato a realizzare un c. spettacolare di forte impatto visivo, come in Kingdom of heaven (2005; Le crociate). A sua volta l'opera di D. Lynch ha mantenuto la sua potenza ipnotica, sempre sospesa tra realtà e sogno, in Mulholland Dr. (2001; Mulholland drive).
Lynch fa parte di quella schiera di cineasti statunitensi che hanno incontrato sempre maggiori difficoltà a lavorare nel proprio Paese, mentre registi come M. Cimino e F.F. Coppola non hanno più realizzato film dopo aver diretto rispettivamente The sunchaser (1996; Verso il sole) e The rainmaker (1997; L'uomo della pioggia). Anche J. Cameron non è ancora tornato dietro la macchina da presa dopo il successo di Titanic (1997), ma per ragioni probabilmente imputabili alla necessità di effettuare una pausa dopo un tale trionfo commerciale. Nell'affollato gruppo di coloro che hanno incontrato ostacoli nel portare a termine i loro progetti vi sono alcuni grandi registi affermatisi negli anni Settanta e Ottanta come W. Hill (Undisputed, 2002), G.A. Romero (Land of the dead, 2005, La terra dei morti viventi), B. De Palma (Femme fatale, 2002), J. Carpenter (John Carpenter's ghost of Mars, 2001, Fantasmi da Marte), J. McTiernan (Basic, 2003), L. Kasdan (Dreamcatcher, 2002, L'acchiappasogni), K. Bigelow (K-19: the widowmaker, 2002, K-19), J. Landis (Susan's plan, 1998, Delitto imperfetto), J. McNaughton (Wild things, 1998, Sex crimes - Giochi pericolosi), A. Ferrara (Mary, 2005), J. Demme (The Manchurian candidate, 2004), J. Milius (Rough riders, 1997), P. Verhoeven (Hollow man, 2000, L'uomo senza ombra). M. Nichols è tornato con Closer (2004) a realizzare una commedia provocatoria sui costumi sessuali, mentre T. Gilliam, dopo una tormentata lavorazione, è riuscito a terminare il suo The brothers Grimm (2005; I fratelli Grimm e l'incantevole strega).
Nell'ambito del c. statunitense è inoltre riconoscibile un gruppo di autori capaci di coniugare le esigenze di un c. rivolto al grande pubblico con uno stile definito da un punto di vista sia visivo sia narrativo, come testimonia l'universo fantastico di Zemeckis (Cast away, 2001; The Polar Express), quello decadente e gotico di T. Burton (Charlie and the chocolate factory, La fabbrica di cioccolato, e Corpse bride, La sposa cadavere, entrambi del 2005), quello coloratissimo e di forte impatto drammatico di S. Lee (25th hour, 2002, La 25a ora; Inside man, 2006), quello minimalista e malinconico rivolto a una personale rivisitazione dei generi di J. Jarmusch (Broken flowers, 2005), quello cinefilo di J. ed E. Coen (The ladykillers, 2004), quello nostalgico di W. Wang (Maid in Manhattan, 2002, Un amore a 5 stelle), quello d'azione di J. Woo (Paycheck, 2003), quello ispirato alle forme del c. classico hollywoodiano di R. Howard (Cinderella man, 2005). Con sempre maggiore frequenza inoltre la produzione statunitense ha riproposto il biopic. Da ricordare oltre a The aviator di Scorsese, Alexander (2004) di O. Stone e Ray (2004) di T. Hackford. Discorso a parte merita Q. Tarantino che con la saga di Kill Bill divisa in due episodi (Kill Bill: Vol. 1, 2003, Kill Bill: volume 1, e Kill Bill: Vol. 2, 2004, Kill Bill: volume 2) ha recuperato e reinterpretato forme del c. di genere orientale e italiano degli anni Settanta.
Da segnalare il c. di impegno civile di J. Sayles (Sunshine State, 2002, La costa del sole), come pure le commedie corali di J.L. Brooks (Spanglish, 2004). Degna di mensione è anche la produzione di G. Araki (Mysterious skin, 2004), R. Rodriguez (Once upon a time in Mexico, 2003, C'era una volta in Messico; Sin city, 2005, codiretto con il fumettista F. Miller), S. Soderbergh (Ocean's eleven, 2001; Ocean's twelve, 2004). Spiccano in particolare la superba capacità di mettere in scena la tragedia e la morte di G. Van Sant con Elephant (2003) e Last days (2005), quella di P. Weir di filmare sfide estreme (Master and commander - The far side of the world, 2003, Master & commander - Sfida ai confini del mare), il prorompente talento di S. Coppola (Lost in translation, 2003), le prove di B. Silberling (Moonlight mile, 2001; Lemony snicket, 2004) e P. Weitz (In good company, 2004), l'adesione alla struttura classica dei generi di G. Fleder (Runaway jury, 2003, La giuria) oppure la robustezza narrativa di C. Hanson (In her shoes, 2005, In her shoes - Se fossi lei).
Numerosi i film spettacolari come il mediocre Hulk (2002) di A. Lee o i due Spider-Man (2002, 2004) di S. Raimi che hanno confermato quest'ultimo tra i migliori registi della sua generazione; o le serie di successo come quella su Harry Potter ispirata ai romanzi di J.K. Rowling (i primi due diretti nel 2001 e 2002 da Ch. Columbus, il terzo del 2004 di A. Cuarón, il quarto del 2005 di M. Newell); quella basata sulla trilogia di The lord of the rings di J.R.R. Tolkien e diretta dal regista neozelandese P. Jackson (2001-2003), che nel 2005 ha realizzato la sua particolare rilettura di un classico come King Kong; quella futuristica su Matrix (The matrix, 1999; The matrix reloaded e The matrix revolutions, entrambi del 2003) dei fratelli A. e L. Wachowski; e infine la ripresa della saga di Star wars (Star wars: episode I - The phantom menace, 1999, Star wars: episodio I - La minaccia fantasma; Star wars: episode II - Attack of the clones, 2002, Star wars: episodio II - L'attacco dei cloni; Star wars: episode III - Revenge of the Sith, 2005, Star wars: episodio III - La vendetta dei Sith) che ha segnato il ritorno dopo oltre vent'anni dietro la macchina da presa di G. Lucas. Altrettanto importante è stata la nuova regia di T. Malick dopo un lungo silenzio: The new world (2005).
Il successo ottenuto da M. Moore con Bowling for Columbine (2002; Bowling a Colombine) e Fahrenheit 9/11 (2004), con il quale ha vinto la Palma d'oro al Festival di Cannes, ha stimolato la produzione di documentari. Infine, tra gli attori passati dietro la macchina da presa da sottolineare i risultati raggiunti soprattutto da R. Redford (The legend of Bagger Vance, 2000, La leggenda di Bagger Vance), D. De Vito (Duplex, 2003, Duplex - Un appartamento per tre), K. Costner (Open range, 2003, Terra di confine), S. Penn (The pledge, 2001, La promessa), M. Gibson (The passion of the Christ, 2004, La passione di Cristo), G. Clooney (Confessions of a dangerous mind, 2003, Confessioni di una mente pericolosa; Good night and good luck, 2005), T.L. Jones (The three burials of Melquiades Estrada, 2005, Le tre sepolture).
Rispetto agli Stati Uniti, l'Europa ha confermato quanto sia ancora viva nei vari Paesi la lezione di movimenti storici come il Neorealismo italiano, la Nouvelle vague francese e il Free Cinema inglese.
In Italia N. Moretti ha ancora una volta dimostrato il suo rigore e la sua coerenza nel coniugare in La stanza del figlio (2001) la lezione rosselliniana di un c. intimo con le forme del melodramma, mentre con Il caimano (2006) ha realizzato una delle sue opere più complesse e coraggiose, non solo un'importante riflessione sull'Italia degli ultimi anni e sulla figura di S. Berlusconi, ma soprattutto un film sul cinema intimo e sperimentale, visionario e sentimentale. G. Amelio, invece, con Le chiavi di casa (2004), dal romanzo di G. Pontiggia, ha rinnovato quel 'c. del pedinamento' sui personaggi di derivazione neorealistica, mentre M.T. Giordana ha unito il c. d'impianto civile (I cento passi, 2000) con quello della memoria (La meglio gioventù, 2003). A sua volta B. Bertolucci con The dreamers (2003) ha rievocato con sincera nostalgia il Sessantotto, mentre ancora più estrema, libera e pervasa da dirompenti squarci onirici è apparsa l'opera di M. Bellocchio (L'ora di religione, 2002; Buongiorno, notte, 2003). Dopo il successo di Pane e tulipani (2000) sono invece apparse meno convincenti le prove offerte da S. Soldini con Brucio nel vento (2002) e Agata e la tempesta (2004). Registi come C. Mazzacurati (L'amore ritrovato, 2004) e F. Archibugi (Domani, 2001) si sono confrontati con la realtà italiana, sia quella recente sia quella passata, mentre altri hanno portato sullo schermo un c. a volte anche imperfetto ma autenticamente vissuto, come nel caso di M. Calopresti (La felicità non costa niente, 2002) e F. Comencini (Mobbing - Mi piace lavorare, 2004), o di un gruppo di cineasti napoletani tra cui spiccano A. Capuano (Luna rossa, 2001; La guerra di Mario, 2005), M. Martone (L'odore del sangue, 2003), A. De Lillo (Il resto di niente, 2004) e P. Sorrentino (L'uomo in più, 2001; Le conseguenze dell'amore, 2004). Nei film di P. Avati tratto ricorrente si è confermato l'elemento nostalgico (La seconda notte di nozze, 2005). G. Salvatores, ha invece offerto con il thriller psicologico Io non ho paura (2003) una delle sue opere migliori mentre ha affrontatoil noir con Quo vadis, baby? (2005). A sua volta M. Placido ha realizzato film tesi alla riscoperta del passato sia a livello storico-politico (Romanzo criminale, 2005) sia a livello di ispirazione letterararia (Un viaggio chiamato amore, 2002). E sono la memoria e il confronto tra culture diverse a caratterizzare l'opera di F. Ozpetek (La finestra di fronte, 2003; Cuore sacro, 2005). L'origine letteraria ha continuato a caratterizzare l'opera di R. Faenza (I giorni dell'abbandono, 2005), mentre G. Muccino (L'ultimo bacio, 2001; Ricordati di me, 2003) e C. Comencini (La bestia nel cuore, 2005) hanno portato sullo schermo vicende corali dalle quali traspare il male di vivere contemporaneo.
Per quanto riguarda la commedia, R. Benigni (Pinocchio, 2002; La tigre e la neve, 2005) ha esplorato sempre nuove dimensioni favolistiche e fantastiche, mentre C. Verdone (L'amore è eterno finché dura, 2004; Il mio miglior nemico, 2006) si è soffermato sulle crisi sentimentali e sul disagio esistenziale dei suoi personaggi. E se L. Pieraccioni ha ripetuto stancamente la formula dei successi precedenti (tranne nel caso di Ti amo in tutte le lingue del mondo, 2005), P. Virzì (Caterina va in città, 2003) e C. Vanzina (Febbre da cavallo - La mandrakata, 2002; Il ritorno del Monnezza, 2005) hanno riproposto il modello della 'commedia all'italiana'. Ciprì e Maresco hanno invece mantenuto la loro cifra stilistica in Il ritorno di Cagliostro (2003) e Come inguaiammo il cinema italiano (2004), mentre R. Torre ha continuato a raccontare la Sicilia con il drammatico Angela (2002).
Il c. francese ha mostrato come in passato una ricchissima vitalità. Godard ha spinto all'estremo il suo personalissimo sperimentalismo in cui si combinano c., politica e Storia (Notre musique, 2004), C. Chabrol ha nuovamente frantumato la società borghese utilizzando la struttura del poliziesco (Merci pour le chocolat, 2000, Grazie per la cioccolata; La demoiselle d'honneur, 2004, La damigella d'onore), E. Rohmer ha fuso il suo c. di parola con un uso teatrale dello spazio scenico (L'anglaise et le duc, 2001, La nobildonna e il duca; Triple agent, 2004, Agente speciale). E hanno confermato il loro rigore J. Rivette (Va savoir, 2001, Chi lo sa?; Histoire de Marie et Julien, 2003, Storia di Marie e Julien), A. Varda (Les glaneurs et la glaneuse, 2000, La vita è un raccolto), A. Resnais (Pas sur la bouche, 2003), B. Tavernier (Laissez-passer, 2002; Holy Lola, 2004, La piccola Lola).
La scelta di seguire le vicende dei propri concittadini in altri Paesi ha caratterizzato gli ultimi due lungometraggi realizzati da A. Téchiné (Loin, 2001, Lontano; Les temps qui changent, 2004, I tempi che cambiano, entrambi ambientati a Tangeri) e Vers le Sud (2005; Verso il Sud, ambientato ad Haiti) di L. Cantet, già fattosi conoscere con due opere sul mondo del lavoro, Ressources humaines (1999; Risorse umane) e l'ottimo L'emploi du temps (2001; A tempo pieno). Oltre ad A. Cavalier (Le filmeur, 2005), P. Vecchiali (À vot' bon coeur, 2004), C. Miller (La petite Lili, 2003), al regista-documentarista R. Depardon (10e chambre - Instants d'audience, 2004), a J. Doillon (Raja, 2003), P. Chéreau (Son frère, 2003; Gabrielle, 2005), P. Leconte (L'homme du train, 2002, L'uomo del treno), si sono imposti all'attenzione Ph. Garrel (Les amants réguliers, 2005) e C. Denis (L'intrus, 2004) per la potente libertà formale nel mostrare sentimenti estremi. R. Guédiguian ha a sua volta cambiato registro con il dolente e intimo Le promeneur du Champs de Mars (2005; Le passeggiate al Campo di Marte). Tra gli esiti dei registi più giovani, meritano di essere segnalati il c. personale e inquieto di O. Assayas (Clean, 2004); quello incentrato sulle forme kolossal-spettacolari di L. Besson, che dopo The messenger: the story of Joan of Arc (1999; Giovanna d'Arco) ha lavorato soprattutto come produttore e sceneggiatore; i thriller di M. Kassovitz (Les rivières pourpres, 2000, I fiumi di porpora); gli intensi e disincantati polizieschi di O. Marchal (36 Quai des orfèvres, 2004), X. Beauvois (Le petit lieutenant, 2005), e C. Kahn (Feux rouges, 2003, Luci nella notte).
Ha continuato a caratterizzare la produzione della Gran Bretagna e dell'Irlanda l'attenzione alla realtà politica e sociale del Paese, come nell'opera di K. Loach (Sweet sixteen, 2002; Ae fond kiss…, 2004, Un bacio appassionato), M. Leigh (Vera Drake, 2004, Il segreto di Vera Drake) e P. Greengrass (Bloody Sunday, 2002). Da ricordare inoltre le prove di M. Winterbottom (In this world, 2002, Cose di questo mondo), N. Jordan (The good thief, 2002, Triplo gioco) e D. Boyle (28 days later…, 2002, 28 giorni dopo). A sua volta S. Frears ha continuato a dirigere film sia in Inghilterra sia negli Stati Uniti, raggiungendo a volte esiti elevati come nel caso di High fidelity (2000; Alta fedeltà) e Dirty pretty things (2002; Piccoli affari sporchi), mentre sempre con la produzione americana si sono confrontati J. Sheridan con In America (2002) e I. Softley con gli intensi K-Pax (2001; K-Pax - Da un altro mondo) e The skeleton key (2005). Le opere di W. Shakespeare hanno continuato a ispirare i film di K. Branagh (Love's labour's lost, 2000, Pene d'amor perdute), mentre P. Greenaway si è chiuso in uno sperimentalismo visivo sempre più ermetico come nel caso della trilogia The Tulse Luper suitcases (2003-04).
In Germania, il road movie e il modello del c. classico statunitense (soprattutto il mito della frontiera) hanno continuato a ispirare W. Wenders (Land of plenty, 2004, La terra dell'abbondanza; Don't come knocking, 2005, Non bussare alla mia porta - Don't come knocking). Tra gli altri registi più rappresentativi, W. Herzog (The wild blue yonder, 2005, L'ignoto spazio profondo), ed E. Reitz, che ha diretto la terza parte della saga Heimat (Heimat 3 - Chronik einer Zeitenwende, 2004, Heimat 3 - Cronaca di una svolta epocale) ambientata nel periodo che va dalla caduta del muro di Berlino (1989) fino ai giorni nostri. Tra i registi più giovani, si sono fatti conoscere T. Tykwer (Lola rennt, 1998, Lola corre) e il cineasta di origine turca F. Akin (Gegen die Wand, 2004, La sposa turca). Il cinema austriaco ha ritrovato invece con M. Haneke il successo internazionale grazie a film come La pianiste (2001; La pianista) e Caché (2005; Niente da nascondere).
Per quanto riguarda il c. polacco segni di vitalità sono giunti solo dalle opere del grande R. Polanski (The pianist, 2002, Il pianista; Oliver Twist, 2005), regista ormai apolide, e di A. Wajda (Pan Tadeusz, 1999). Alcune cinematografie europee appaiono legate indissolubilmente alla fama di autori di cui è riconosciuto da tempo il valore a livello internazionale, come nel caso della Svezia con I. Bergman, tornato dietro la macchina da presa con il film per la televisione Saraband (2003; Sarabanda); della Grecia con Th. Anghelopulos (Triloghia I - To livadi pu dakryzei, 2004, La sorgente del fiume); della Bosnia con E. Kusturica (Život je čudo, 2004, La vita è un miracolo); della Finlandia con A. Kaurismäki (Mies vailla menneisyyttä, 2002, L'uomo senza passato); della Romania con L. Pintilie (L'après-midi d'un tortionnaire, 2001, Il pomeriggio di un torturatore); del Belgio con i fratelli L. e J.-P. Dardenne (L'enfant, 2005); della Danimarca con L. von Trier (Dancer in the dark, 2000; Dogville, 2003). Il nome di quest'ultimo è legato alla nascita, risalente alla fine degli anni Novanta, del movimento Dogme 95, che nel giro di pochi anni ha esaurito la sua carica, più polemica che eversiva, e la cui fine è stata sancita da un documento firmato nel marzo 2005 dai registi che lo avevano ideato.
Diversa è la situazione nei Paesi iberici. In Spagna, oltre ai vibranti melodrammi di P. Almodóvar (Todo sobre mi madre, 1999, Tutto su mia madre; Hable con ella, 2002, Parla con lei; La mala educación, 2004), si è imposta la figura di A. Amenábar (The others, 2001; Mar adentro, 2004, Mare dentro) e soprattutto ha avuto successo un genere come l'horror, con il quale si sono fatti conoscere a livello internazionale registi quali J. Balaguerò (Los sin nombre, 1999, Nameless - Entità nascosta). In Portogallo, invece, oltre alle importantissime figure del produttore P. Branco e del grande regista M. de Oliveira, la cui opera ha continuato a mantenere un'energia sorprendente (Je rentre à la maison, 2001, Ritorno a casa), va ricordata la geniale follia di J.C. Monteiro (Vai e vem, 2003), scomparso nel 2003, nonché le figure di J. Botelho, T. Villaverde e P. Costa.
In Russia, infine, oltre a N. Michalkov, inattivo dai tempi di Sibirskij cirjul´nik (1999; Il barbiere di Siberia), e al fratello A. Končalovskij (Dom durakov, 2002, La casa dei matti), uno dei registi più apprezzati a livello internazionale è A. Sokurov, il cui prezioso lavoro sull'immagine è emerso nei documentari e nei film di 'finzione'. La sua opera più estrema risulta Russian ark (2002; Arca russa), costituita da un unico piano-sequenza di 96 minuti girati con la tecnica digitale all'interno del Museo Ermitage dove i fantasmi della storia russa riprendono forma. Tra i registi più giovani si sono fatti conoscere A. Zvjagincev (Vozvraščenie, 2003, Il ritorno, Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia) e A. German Jr (Garpastum, 2005).
Per quanto riguarda le altre cinematografie, se in Canada da D. Cronenberg (Spider, 2002; A history of violence, 2005), A. Egoyan (Ararat, 2002) e D. Arcand (Les invasions barbares, 2003, Le invasioni barbariche) e in Nuova Zelanda da J. Campion (In the cut, 2003) sono arrivate importanti conferme, altrove si sono imposti nomi nuovi. Tra quelli più significativi, quello del brasiliano W. Salles (Diarios de motocicleta, 2004, I diari della motocicletta), degli argentini L. Martel (La ciénaga, 2001) e P. Trapero (Mundo grúa, 1999), del messicano A. G. Iñárritu (Amores perros, 2000), senza dimenticare l'importante figura di R. Ruiz, regista cileno ma ormai abituato a girare in Europa.
Nei Paesi africani risulta intatta la vitalità delle opere del regista burkinabé I. Ouedraogo (La colère des dieux, 2003) e di quello egiziano Y. Chahine (Skoot hansawwar, 2001, n.c. Silence… on tourne), mentre soltanto di recente si è potuto apprezzare il talento del senegalese D.D. Mambéty (Le franc, 1994), scomparso prematuramente nel 1998, e scoprire quello del mauritano A. Sissako (Heremakono, 2002, Aspettando la felicità). Da segnalare, inoltre, il sudafricano G. Hood vincitore dell'Oscar 2006 come miglior film straniero con Tsotsi (2005; Il suo nome è Tsotsi).
In Irān, malgrado il regime politico e le difficoltà censorie, continua a essere vivo un c. caratterizzato da un realismo potente, che traspare oltre che nei film di autori già affermati come A. Kiarostami (Ten, 2002, Dieci) e M. Makhmalbaf (Safar-e Ghandehār, 2001, Viaggio a Kandahar), anche in alcuni esiti delle opere di registi più discontinui come la figlia di Makhmalbaf, Samira, e J. Panahi (Dayereh, 2000, Il cerchio). Colpisce invece la durezza che non concede spazio alla speranza di B. Payami (Sokoote beine do fekr, 2003, Silenzio tra due pensieri) o lo stile geometrico di A. Naderi che da anni realizza negli Stati Uniti i suoi film, come Marathon (2002).
I maggiori segnali di novità sono però arrivati dall'Estremo Oriente. In Giappone, oltre ai film di registi già attivi dagli anni Sessanta come Oshima Nagisa (Gohatto, 1999, Tabù - Gohatto), Suzuki Seijun (Pisutoru opera, 2001, Pistol opera) e lo scomparso Imamura Shōei (Akai hashi no shita no nurui mizu, 2001, Acqua tiepida sotto un ponte rosso), un posto di primo piano continua a occupare l'opera di Kitano Takeshi (Zatoichi, 2003). Inoltre di rilievo risulta l'autenticità visionaria di Tsukamoto Shinya (Rokugatsu no hebi, 2002, A snake of June), e l'opera di Miike Takashi, che ha diretto oltre 60 film in circa 15 anni di attività tra cui Ōdishon (1999; Audition) e Izo (2004). Anche in Giappone grande risulta il successo del genere horror grazie soprattutto a registi come Nakata Hideo, i cui Ringu (1998-99) sono stati oggetto di remake negli Stati Uniti (The ring two, 2005, diretto dallo stesso Nakata). Un posto a parte merita il maestro del c. d'animazione Miyazaki Hayao, noto in Italia a partire dal successo di Mononoke-hime (1997; Principessa Mononoke), la cui potenza figurativa ed evocativa è stata confermata dai successivi Sen to Chihiro no kamikakushi (2001; La città incantata) e Hauru no ugoku shiro (2004; Il castello errante di Howl).
Dalla Cina da un lato sono arrivate conferme da autori ormai ampiamente apprezzati a livello internazionale come Chen Kaige (He ni zai yi qi, 2002, Together with you) e Zhang Yimou, che ha ottenuto larghi consensi, anche di pubblico, con i wuxiapian (film di cappa e spada) Ying xiong (2002; Hero) e Shi mian mai fu (2004; La foresta dei pugnali volanti); dall'altro si sono definitivamente imposti i registi della cosiddetta Sesta generazione come Zhang Yuan (Guo nian hui jia, 1999, Diciassette anni), Wang Xiaoshuai (Shiqi sui de dan che, 2001, Le biciclette di Pechino) e soprattutto Jia Zhangke (Zhantai, 2000, Platform), il cui straordinario Shijie (2004; The world) testimonia lo sviluppo economico e il rapido processo di modernizzazione che sta caratterizzando la Cina degli inizi del nuovo millennio.
Sempre più forte la compagine dei registi di Hong Kong, anche dopo la scelta di J. Woo di lavorare stabilmente negli Stati Uniti. Si pensi a Tsui Hark (Qi jian, 2005, Seven swords), Wong Kar Wai (2046, 2004), S. Kwan (Changhen ge, 2005, Everlasting regret), J. To (Dai si gein, 2004, Breaking news) e P. Chan (Perhaps love, 2005), che hanno dato vita a una produzione variegata, in grado di spaziare dal film d'azione al melodramma, dalla commedia al film d'avventura.
A Taiwan invece, oltre ad A. Lee, che ormai da tempo si confronta con i modelli del c. statunitense (come dimostra il western intimista Brokeback Mountain, 2005, I segreti di Brokeback Mountain, per il quale ha ottenuto il Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia e nel 2006 l'Oscar per la regia), spiccano le figure di Hou Hsiao-hsien, con il suo personalissimo sguardo rarefatto e rigoroso (Qianxi manbo, 2001, Millenium mambo; Zui hao de shi guang, 2005, Three times), E. Yang (Yi Yi, 1999, Yi Yi - E uno… e due...) e Tsai Ming-liang (Ni neibian jidian, 2001, Che ora è laggiù?; Bu san, 2003, Goodbye, Dragon Inn). Il Paese asiatico che con più forza si è imposto a livello internazionale è stato però la Corea attraverso la scoperta dell'opera di Im Kwon-taek (Chihwaseon, 2002, Ebbro di donne e di pittura), attivo dagli anni Sessanta, e il successo della 'trilogia della vendetta' di Park Chan-wook (Boksuneun naui geot, 2002, Mr Vendetta; Oldboy, 2003, Old boy; Chinjeolhan geumjassi, 2005, Lady Vendetta). Il cineasta coreano più conosciuto in Italia è comunque Kim Ki-duk, che riesce ad alternare con naturalezza una fisicità violenta e una pacifica spiritualità in film in cui fondamentale risulta il paesaggio. Già apprezzato nei festival internazionali per opere estreme come Seom (2000; L'isola) e Na-bbun- nam-ja (2001; Bad guy), è stato tardivamente scoperto dai distributori italiani che hanno fatto circolare in sala i suoi ultimi film, tra cui Bin-jip (2004; Ferro 3 - La casa vuota).