CINEMATICA (dal gr. κίνημα "movimento")
1. Si designa con tal nome una parte della meccanica. A chiarirne, per quanto è possibile a priori, il contenuto e gli scopi, osserviamo che la meccanica studia i fenomeni di moto, cioè le variazioni di posizione dei corpi naturali nello spazio e nel tempo, onde presuppone, come sua necessaria premessa, la geometria, e alle idee primitive di questa aggiunge, come suo primo concetto fondamentale, il tempo. Così, in un suo primo stadio d'indagini, la meccanica analizza e discute in qual modo, durante il moto, variino in rapporto al tempo i caratteri geometrici delle figure o sistemi i di punti, concepiti come rigidi o anche come deformabili, secondo le diverse possibili ipotesi, suggerite dall'osservazione dei corpi naturali. Ed è appunto questa parte della meccanica che si chiama cinematica.
Si tratta, in un certo senso, d'una teoria non causale, ma puramente descrittiva, d'una specie di geometria estesa ad una quarta variabile (il tempo), onde talvolta è anche designata col nome di geometria del movimento. Più precisamente, si prescinde in essa dalla natura materiale dei corpi mobili e da tutte quelle circostanze fisiche, che nella realtà precedono o accompagnano il moto e a cui la nostra intuizione sperimentale attribuisce l'ufficio di cause determinatrici o modificatrici del moto (per es., sforzi muscolari, pesi, attriti, ecc.). Del moto in relazione a siffatte circostanze si occupa la meccanica propriamente detta o Dinamica (v.), in cui rientra, come teoria più particolare, la Statica (v.), la quale indaga le condizioni in cui dati sistemi materiali si mantengono in quiete. Come la cinematica è caratterizzata, in confronto della geometria, dall'aggiunta della nozione di tempo ai concetti fondamentali geometrici, così la dinamica si fonda e si sviluppa, oltre che sui concetti cinematici, sulle idee caratteristiche di massa e di forza.
2. Importa fissare subito chiaramente un'osservazione generale, altrettanto importante quanto ovvia. La nozione di moto, al pari di quella di quiete, è, di sua natura, relativa: cioè, più precisamente, l'asserire che un dato corpo C è in moto o in quiete ha senso solo in quanto il corpo C si riferisca a un altro corpo C′ e si constati che la posizione di C rispetto a C′ va variando nel tempo o, rispettivamente, si conserva inalterata. Perciò in ogni considerazione cinematica, o più in generale meccanica, è necessario stabilire quale sia l'ente geometrico di riferimento; e se spesso si parla di moto o di quiete senz'altra specificazione, ciò è legittimo unicamente in quei casi in cui si può ritenere inutile indicare l'ente di riferimento, tanto esso è manifesto. Così, per es., se si parla della caduta d'un grave o del moto d'un veicolo, s'intende tacitamente di riferirlo alla Terra; se si tratta delle bielle d'una locomotiva, il loro moto si sottintende riferito al telaio di essa, e così via. Nella rappresentazione matematica dei fenomeni di moto si assume di solito come ente di riferimento una terna di assi cartesiani, che si suole supporre (fig.1, in cui l'asse x s'intende orientato verso l'osservatore) destra (o sinistrorsa o destrogira); v. coordinate.
3. Del tempo si è già detto che in cinematica si assume come concetto primitivo. Qui, rimandando ad altre voci per le indagini critiche su tale concetto (v. moto; relatività; tempo), ci limitiamo a osservare che oggigiorno gli orologi, data la perfezione raggiunta nella loro costruzione, forniscono strumenti praticamente esatti per la misura del tempo rispetto all'unità universalmente adottata, cioè al secondo di tempo solare medio. Fissato comunque un certo istante quale origine dei tempi t = 0, ogni altro istante risulta univocamente determinato dal numero t di secondi trascorsi dall'origine dei tempi all'istante considerato; e a questo numero di secondi si attribuisce il segno + o −, secondo che l'istante in parola segue o precede, nella successione temporale, l'origine t = 0.
Tutto ciò nell'impostazione tradizionale della cinematica, alla quale qui ci atteniamo. Ma proprio sul concetto di tempo e sul modo di collegarne le valutazioni da parte di osservatori differenti si ha un primo e fondamentale divario fra l'impostazione classica e la teoria della relatività (v.), dovuta all'Einstein, la quale, dal punto di vista speculativo, ha posto la meccanica e la fisica su nuove basi, pur dando luogo per lo più (e in particolare in tutti i fenomeni che interessano la tecnica) a divarî quantitativi trascurabili rispetto ai risultati classici. La teoria della relatività non accetta il postulato classico d'una misura assoluta del tempo, la quale permetta di attribuire alla variabile t un significato (trascendente o, se si vuole, convenzionale) che sia lo stesso per qualsivoglia osservatore, ma, per contrario, discute se e fino a qual punto ciò sia possibile, immaginando che più osservatori O, O′,... cerchino di accordare le loro misure individuali di tempo t, t′... scambiandofra loro segnali ottici. In tal modo la teoria della relatività vien condotta a sostituire alla concezione astratta d'un tempo assoluto quella di tempi locali t, t′,... (proprî dei singoli osservatori O, O′,...), i quali, quando si tratta di osservatori in moto l'uno rispetto all'altro, risultano collegati da relazioni meno semplici della pura identità (con eventuale spostamento dell'origine), valida nel caso classico.
Cinematica del punto.
4. Equazioni del moto. - Tenuto conto della complessità del problema generale della cinematica e in accordo col naturale processo d'analisi matematica di ogni ordine di questioni fisiche, giova cominciare dal caso più semplice possibile, cioè dallo studio del moto di un unico punto. La considerazione di questo caso astratto particolare non solo costituisce il fondamento della cinematica di corpi quali si vogliano, sempre schematizzabili come aggregati (finiti o infiniti, discreti o continui) di punti, ma trova per sé stessa applicazione in molti casi concreti, in quanto spesso si può ritenere sufficientemente individuata la posizione d'un corpo mediante quella di un solo punto (corpi celesti, proietti, navi in alto mare, ecc.).
Consideriamo dunque un punto P, il quale, in un certo intervallo di tempo dall'istante t0 all'istante t1, o, come si suol scrivere (t0, t1), si muova rispetto a una terna di assi cartesiani ortogonali Oxyz. Si dice traiettoria di P l'arco di curva che esso descrive nel suo moto. Questo moto è perfettamente determinato se istante per istante si conoscono le coordinate x, y, z di P, cioè se le x, y, z sono date in funzione di t nell'intervallo (t0, t1). Le equazioni
che così risultano, si dicono equazioni (finite) del moto e forniscono in particolare le equazioni parametriche della traiettoria.
In accordo con quei caratteri di determinatezza e continuità, che generalmente riscontriamo nei fenomeni di moto, si ammette che le tre funzioni x(t), y(t), z(t) siano, nell'intervallo considerato, univalenti e continue insieme alle loro derivate fino al secondo ordine almeno (postulato della continuità del moto). Solo nella teoria del moto impulsivo (v.) si è condotti a una rappresentazione schematica di fenomeni di moto, che fa intervenire casi di discontinuità per le derivate prime.
Le tre equazioni (1) si possono sintetizzare in un'unica equazione geometrica
la quale mette in evidenza la circostanza che la posizione del punto mobile risulta individuata, durante il moto, in funzione del tempo.
Naturalmente il moto si dice piano o più in particolare rettilineo quando tale è la traiettoria: nel primo caso basta riferirlo a due assi cartesiani del suo piano, perché le rispettive equazioni (1) si riducano alle due prime; e per un moto rettilineo si ha un'unica equazione x = x(t), se x denota un'ascissa sulla traiettoria.
5. Equazione oraria. - Anche se la traiettoria del punto mobile non è rettilinea, ma si può ritenere per sé stessa conosciuta, basta una sola equazione (scalare) a definire il moto. Precisamente basta sapere istante per istante la distanza, misurata lungo la traiettoria (a partire da un punto prefissato, per es., dalla posizione iniziale P (t0)), a cui si trova il punto mobile. Codesta distanza, misurata lungo la traiettoria, si dice ascissa curvilinea del punto (rispetto all'origine P (t0)) e le si attribuisce un segno (come nel caso delle ascisse rettilinee) prefissando sulla traiettoria un verso positivo, p. es., quello che va dalla posizione iniziale P(t0) alla posizione finale P (t1). Questa ascissa curvilinea, che indicheremo con s (in quanto si chiama anche spazio percorso dal mobile) è, durante il moto, una ben determinata funzione s (t) del tempo, e il moto sulla traiettoria prestabilita risulta individuato dall'unica equazione
che si dice equazione oraria del moto. Si chiama diagramma orario la corrispondente curva rappresentativa (su di un piano, in cui siano prefissati due assi cartesiani, uno per i tempi t, l'altro per le ascisse curvilinee o spazî s).
È agevole dedurre dalle equazioni (1) del moto la corrispondente equazione oraria. Premettiamo che, considerate le posizioni P(t), P(t′), assunte dal punto mobile P in due generici istanti t e t′, si dice spostamento di P nell'intervallo di tempo (t, t′), il segmento orientato (o vettore applicato in P) che ha P (t) e P (t′) come primo e secondo estremo e che conseguentemente ammette come componenti secondo gli assi
Ciò posto, si consideri lo spostamento elementare dP, subito da P in un tempuscolo infinitesimo dt a partire da un generico istante t, cioè nell'intervallo di tempo (t, t + dt). Esso si confonde sensibilmente (cioè, in termini più precisi, a prescindere da infinitesimi di ordine superiore al primo) col corrispondente archetto elementare di traiettoria ds. Poiché le componenti del dP, in base alle (3), sono date, sempre a meno d'infinitesimi di ordine superiore al primo, da
dove, come faremo costantemente nel seguito, si sono denotate, con punti sovrapposti le derivazioni rispetto al tempo, si ha
valendo il segno + o −, secondo che lo spostamento elementare considerato è, sulla traiettoria, di verso positivo o negativo; e se si vuole l'ascissa curvilinea s, raggiunta dal mobile nel generico istante t, basta sommare tutti i ds relativi all'intervallo (t0, t), cioè si ha
dove l'integrale a secondo membro è una ben determinata funzione (continua e derivabile) di t. È questa l'equazione oraria voluta.
6. Velocità di un moto uniforme. - Alla base della cinematica sta il concetto di velocità, che traduce in forma matematicamente precisa la nozione intuitiva, che tutti abbiamo della varia rapidità, con cui si svolge nel tempo un fenomeno di moto. Per chiarire questo concetto cominciamo da un tipo di moti particolarmente semplici, cioè immaginiamo che su di una traiettoria prestabilita (la quale si può anche pensare rettilinea) un punto P si muova in modo da percorrere spazî proporzionali ai tempi impiegati a percorrerli, come accade, ad esempio, di un'automobile, alla quale, in coudizioni di regolare funzionamento, si faccia percorrere una strada rettilinea e piana, mantenendo le leve fisse in una determinata posizione. Se s0 e s sono le ascisse delle posizioni occupate dal mobile nell'istante iniziale t0 e, rispettivameute, in un generico istante t, il cammino s − s0, da esso percorso nel tempo t − t0, deve essere proporzionale a t − t0, cioè si deve avere
dove v è una costante caratteristica del moto. Si vede così intanto che nei moti uniformi lo spazio s deve essere funzione lineare del tempo t. Viceversa si riconosce agevolmente che in queste condizioni la legge voluta di proporzionalità fra spazî e tempi risulta soddisfatta, durante il moto, in ogni intervallo di tempo. Infatti, se t′ è un qualsiasi istante diverso da t, l'ascissa corrispondentemente raggiunta da P è data da s′ = s0 + v (t′ − t0), cosicché lo spazio s′ − s = v (t′ − t), percorso nell'intervallo di tempo (t, t′) risulta appunto proporzionale alla durata t′ − t, sempre nel rapporto v. È precisamente questo rapporto costante degli spazî ai tempi, che si chiama velocità del moto uniforme. Prendendo t′ − t uguale all'unità di tempo, si vede che codesta velocità è misurata dallo stesso numero che dà lo spazio percorso dal mobile nell'unità di tempo. Nella pratica (pedoni, automobili, biciclette, treni, ecc.) l'unità di misura della velocità è il "chilometro all'ora" o km/ora; nel sistema C. G. S. è il "centimetro al secondo" o cm/sec.
Il diagramma orario di un moto uniforme è una retta, il cui rapporto direttivo (tangente goniometrica dell'angolo formato con l'asse dei tempi) è la velocità (fig. 2).
7. Velocità scalare. - Ciò premesso, passiamo a un moto non uniforme qualsiasi, o, come si suol dire, vario, la cui equazione oraria, sulla traiettoria, sarà una certa
dove s (t) denota uua funzione del tempo non più lineare, bensì qualsivoglia. In un generico intervallo di tempo (t, t′) il mobile percorre lo spazio s (t′) − s (t); il rapporto
di codesto spazio al tempo corrispondente t′ − t, si dice velocità media del mobile nell'intervallo di tempo considerato. Essa si può interpretare come la velocità d'un punto fittizio, che, sulla stessa traiettoria di P, si muova di moto uniforme, in modo da occupare le medesime posizioni di P tanto nell'istante t quanto nell'istante t′. Rispetto al moto uniforme di cotesto punto fittizio, il moto effettivo di P, durante l'intervallo di tempo (t, t′) può scostarsi nei modi più svariati; ma è manifesto che il divario fra i due moti sarà tanto meno sensibile quanto più breve l'intervallo sarà (t, t′). Immaginando di ridurre indefinitamente quest'intervallo, e più precisamente di tener fisso t e di far tendere t′ ad esso, si è condotti nel modo più naturale ad assumere come velocità (scalare) di P nell'istante t, il
cioè il valore nell'istante t della derivata ṡ(t) = ds/dt dello spazio s rispetto al tempo (v. differenziale, calcolo). Nel caso di un moto uniforme (4), si riottiene la costante v, che già chiamammo in tal caso velocità. E viceversa se un moto è di velocità costante v, dalla equazione ds/dt = v si deduce, integrando, s = vt + costante arbitraria, cosicché si tratta d'un moto uniforme; cioè i moti uniformi sono caratterizzati dalla costanza della velocità (scalare). In ogni caso, sul diagramma orario la velocità è rappresentata, istante per istante, dal rapporto direttivo della tangente.
Secondo che in un generico istante t la velocità ṡ(t) è positiva o negativa, lo spazio s (t) è in quell'istante crescente o decrescente, vale a dire il punto si muove sulla traiettoria nel verso positivo o negativo, o, come si suol dire, il moto è progressivo o retrogrado. Negli eventuali istanti in cui la velocità ṡ(t) si annulla, il punto ha un arresto (e il diagramma presenta un punto estremale, cioè a tangente parallela all'asse dei tempi); e può darsi che si abbia o no un'inversione di senso del moto (cioè un massimo o minimo del diagramma): per precisare quale eventualità si presenti, bisogna, come si sa dal calcolo, ricorrere alla derivata seconda di s (t) (di cui vedremo al n. 11 l'importante significato cinematico) o, in casi eccezionali, anche alle derivate di ordine superiore.
8. Velocità vettoriale. - Sin qui, supposta prefissata la traiettoria, si è valutata la velocità tenendo conto dei cammini percorsi da P su codesta traiettoria, prescindendo dagli spostamenti di P nello spazio, tanto che la espressione ṡ(t) ottenuta per la velocità resterebbe inalterata se, mantenendo fissa l'equazione oraria, cioè la legge del moto sulla traiettoria, s'immaginasse di deformare (con sole flessioni, ma senza distensioni) la traiettoria nello spazio. Ma ai fini della cinematica importa assegnare per la velocità una valutazione più comprensiva, in relazione allo spazio ambiente.
A tale scopo, si riprenda l'equazione geometrica del moto di P
e, considerato lo spostamento P (t′) − P (t), che il punto subisce in linea d'aria, da un generico istante t a un altro istante t′ (fig. 3), si divida questo vettore per la durata t′ − t del corrispondente intervallo di tempo: il vettore
avente per linea di azione la corda della traiettoria, che va da P (t) a P (t′) e per componenti secondo gli assi i rapporti
si dice velocità vettoriale media del punto nell'intervallo di tempo (t, t′). Se, tenuto fisso l'istante t, si fa tendere t′ ad esso, codesta velocità media tende al vettore
che si dice velocità vettoriale del punto P nell'istante t.
Per giustificare questa definizione rispetto a quella di velocità scalare già dianzi introdotta, osserviamo che il vettore (5) ha per componenti ú (t), ÿ (t), ż (t), e queste componenti, ove le x, y, z si pensino espresse per mezzo dell'ascissa curvilinea s (la quale, alla sua volta, è, in base all'equazione oraria (2), funzione del tempo) si possono scrivere
talché il vettore (5) si ottiene moltiplicando per la velocità scalare ṡ(t) il vettore che ha per componenti dx/ds, dy/ds, dz/ds, cioè i coseni direttori (v. curve) della tangente alla traiettoria (nella posizione di P, corrispondente all'istante t considerato). È questo dunque il versore (o vettore unitario) tanqente alla traiettoria, orientato nel verso delle s crescenti, e, ove lo si denoti con t (t), la velocità vettoriale (5), che d'ora inuanzi denoteremo con v risulta espressa da
Chiarita così la relazione che intercede tra velocità scalare e velocità vettoriale, osserviamo che esse hanno lo stesso valore assoluto o modulo v = ṡ(t): quando occorra considerare questo valore assoluto si chiamerà velocità intensiva, ma quando parleremo senza ulteriore specificazione di velocità, intenderemo riferirci a quella vettoriale.
Notiamo che fra velocità vettoriale e spostamento elementare dP, sussiste a ogni istante, per definizione, la relazione
9. Composizione e decomposizione delle velocità vettoriali. - Mentre un punto P si muove nello spazio secondo le equazioni (1) o (1′), le sue proiezioni ortogonali Px, Py, Pz sui tre assi si muovono ciascuna sull'asse rispettivo e le (1) dànno appunto, corrispondentemente, le equazioni di codesti tre moti rettilinei. Viceversa, dati ad arbitrio sugli assi, in un medesimo intervallo di tempo, i moti rettilinei di tre punti Px, Py, Pz, resta definito nello spazio il moto del punto P che, istante per istante, ammette Px, Py, Pz come proiezioni sugli assi. Il moto di P si dice composto dei moti rettilinei (componenti) di Px Py, Pz; e poiché i tre assi sono in sostanza tre rette, a due a due ortogonali, prese ad arbitrio, si vede di qui che il moto d'un punto nello spazio si può sempre decomporre in tre moti rettilinei, secondo tre rette a due a due ortogonali quali si vogliano.
Analogamente associando a P le sue proiezioni Pz e P1 sull'asse z, e sul piano xy, si riconosce come il moto d'un punto nello spazio si possa sempre decomporre in un moto rettilineo e in un moto piano, rispettivamente secondo una retta e un piano fra loro ortogonali quali si vogliano.
Tornando alla decomposizione del moto di P in tre moti rettilinei secondo gli assi, si ricordi che la velocità v di P ha per componenti ú (t), ÿ (t), ż (t), le quali non sono altro che le velocità scalari dei punti Px, Py, Pz neì rispettivi moti rettilinei. Se, come si suole, si denotano con i, j, k i versori (costanti) dei tre assi, le velocità vettoriali di Px, Py, Pz sono date rispettivamente da ú i, ÿ j, ż k e, avendosi v = ú i + ż j + ż j + ż k, si conclude che se il moto di un punto nello spazio si decompone nei tre moti rettilinei secondo tre date rette, a due a due ortogonali, la velocità del punto è data, istante per istante, dalla somma geometrica o risultante delle velocità che in quell'istante competono ai moti componenti.
Analogamente nel caso di un moto decomposto in un moto rettilineo, e in un moto piano (secondo una retta e un piano fra loro ortogonali).
10. Velocità radiale, trasversa, angolare, areale. - Il concetto di velocità è suscettibile anche di altre accezioni. Consideriamo per un punto P un generico moto piano di equaziori x = x(t), y = y (t) e riferiamo questo stesso moto al sistema di coordinate polari q, ρ, ϑ, che ha come polo l'origine O degli assi cartesiani Oxy, come semiasse polare il semiasse positivo delle x e come verso positivo delle anomalie ϑ (da misurarsi in radianti) quello dell'asse orientato delle x verso l'asse orientato delle y, attraverso l'angolo retto. Durante il moto, il raggio vettore ρ e l'anomalia ϑ di P, sono funzioni ben determinate del tempo e le ρ = ρ(t), ϑ = ϑ(t) si possono dire le equazioni del moto in coordinate polari.
Ciò posto, si dicono, istante per istante, velocità radiale o di elongazione vρ e velocità trasversa vϑ di P le componenti della velocità v di P secondo la retta orientata OP e secondo la perpendicolare ad essa, orieritata rispetto alla OP come l'asse y rispetto all'asse x (fig. 4). Si ha precisamente
Dalle note relazioni fra coordinate polari e cartesiane (v. coordinate)
risultano per le componenti di v secondo gli assi le espressioni
e poiché i coseni direttori della retta orientata O P e della sua normale sono cos ϑ, sen ϑ e, rispettivamente, − sen ϑ, cos ϑ, si perviene appunto alle indicate espressioni di vρ e vϑ.
Si dice poi velocità angolare di P, rispetto al punto fisso o centro O, la derivata ϑ dell'anomalia rispetto al tempo (la quale misura istante per istante, la diversa rapidità, con cui varia nel tempo l'anomalia ϑ).
Infine per giungere al concetto di velocità areale o areolare, si consideri l'area A, che il raggio vettore OP descrive, durante il moto, a partire da una sua posizione iniziale OP0, comunque prefissata, e si convenga di valutarla positivamente nel senso delle anomalie crescenti, negativamente nel senso opposto (fig. 5). Quest'area è manifestamente una ben determinata funzione A (t) del tempo e la sua derivata dA/dt rispetto a t si chiama velocità areolare o areale (scalare) del punto mobile P, rispetto al punto fisso o centro O. Essa è data in coordinate polari e, rispettivamente, cartesiane, da
Per trovare la prima espressione di dA/dt, si osservi che essa, per definizione, si ottiene dividendo pel tempuscolo infinitesimo dt l'areola elementare dA, descritta dal raggio vettore OP fra il generico istante t e l'istante t + dt. Ora questa areola dA è, a meno d'infinitesimi di ordine superiore al secondo, uguale a quella del settore circolare di raggio ρ e di angolo al centro dϑ e, poiché per convenzione va ad essa attribuito il medesimo segno del dϑ, si ha precisamente dA = ρ2 dϑ/2, onde dividendo per dt si ottiene appunto la prima delle espressioni (8) di dA/dt; per avere poi l'espressione cartesiana basta tener conto delle (6), (7).
Se in O immaginiamo condotto, perpendicolarmente al piano xy del moto il terzo asse z, orientato in modo che la terna Oxyz risulti destra, si riconosce che l'espressione cartesiana (xÿ − y ú)/2 non è altro che la componente secondo z della metà del prodotto vettoriale dei due vettori di componenti x, y, 0 e ú, ÿ, o, cioè P − O e v. Questo vettore
si chiama velocità areolare vettoriale del punto P rispetto al centro fisso O; e sotto questa forma vettoriale la definizione di velocità areolare si estende anche al caso di un punto animato di moto spaziale qualsivoglia.
11. Accelerazione. - Ai fini meccanici è essenziale considerare, accanto alla velocità, la maggiore o minore rapidità con cui essa varia da istante a istante. Si può dire che il passo decisivo, per cui Galileo pervenne alla creazione della dinamica, sia consistito appunto nell'avere intuito che l'indagine causale dei fenomeni di moto non può fondarsi, come avevano creduto gli antichi, sulla valutazione delle velocità, bensì su quella delle loro variazioni in rapporto al tempo o accelerazioni (v. dinamica, meccanica, storia della). A questa grande scoperta il Galilei fu condotto dallo studio dei moti di caduta dei gravi, in cui era riuscito a constatare, per via di geniale induzione sperimentale, che la velocità subisce variazioni proporzionali ai tempi in cui esse si attuano. Ogni moto, su traiettoria qualsiasi, il quale obbedisca a siffatta legge, cioè sia tale che la velocità scalare risulti funzione lineare del tempo
dove a e b denotano determinate costanti, si dice uniformemente vario. Mentre la costante b è la velocità scalare del mobile nell'istante t = o, la costante a (che è precisamente la derivata di ṡ rispetto a t, o derivata seconda ô dello spazio) fornisce il rapporto di proporzionalità fra variazioni di velocità e tempi corrispondenti e si chiama accelerazione (lungo la traiettoria o tangenziale) del moto uniformemente vario.
Più in generale, nel caso di un qualsiasi moto vario, su traiettoria prestabilita, di equazione oraria s = s (t), si è condotti da considerazioni analoghe a quelle del n. 7 ad introdurre come accelerazione media (lungo la traiettoria) in un generico intervallo di tempo (t, t′), il rapporto [ṡ(t′) - ṡ(t)] : (t′ − t); e il passaggio al limite per t′ → t porta ad assumere la derivata seconda ô(t) dello spazio rispetto al tempo come accelerazione (lungo la traiettoria o tangenziale) del punto dato nell'istante considerato.
Ma, come già per la velocità, questa valutazione dell'accelerazione lungo la traiettoria nella massima parte dei casi non basta; e importa invece considerare il fenomeno nello spazio e tener conto del modo in cui, rispetto al tempo, la velocità vettoriale v(t) varia non soltanto d'intensità, bensì anche di direzione. A tal fine si consideri l'incremento vettoriale v (t′) − v(t), che la velocità v (t) subisce in un generico intervallo di tempo (t, t′) (fig. 6) e lo si divida per la rispettiva durata: il rapporto
si dice accelerazione media del mobile P nell'intervallo di tempo (t, t′), e il
si chiama accelerazione (vettoriale) del punto P nell'istante t. Questo vettore non è altro che la derivata dv/dt = v??? della velocità rispetto al tempo o anche, in quanto v = dP/dt la derivata seconda d2P/dt2 del punto rispetto a t. Indicando dunque l'accelerazione, che è una determinata funzione del tempo, con α(t), si ha per definizione
onde le rispettive componenti secondo gli assi sono date da
L'accelerazione è così una nuova grandezza cinematica, che, ove si prescinda dal suo carattere vettoriale, è definita come rapporto d'una velocità a un tempo. Perciò nel sistema C. G. S. va assunta come unità di accelerazione "l'accelerazione di 1 cm/sec." cioè il valore assoluto dell'accelerazione di un moto uniformemente vario, in cui a ogni secondo la velocità varî di 1 cm./sec.
Tenendo conto delle (9) si vede che se un punto si muove nello spazio, l'accelerazione della proiezione del punto su una retta o su un piano coincide con la proiezione, su quella retta o rispettivamente su quel piano, dell'accelerazione del punto considerato; e se il moto di questo si decompone nei moti di tre punti su tre rette a due a due ortogonali, l'accelerazione nel moto composto è istante per istante la somma geometrica delle accelerazioni nei moti componenti.
12. Accelerazione tangenziale e normale o centripeta. - Il vettore accelerazione α(t) si pensi applicato a ogni istante nella corrispondente posizione P(t) del punto mobile. Sussiste la circostanza importantissima che il vettore α giace, ad ogni istante, nel piano osculatore (v. curve) alla traiettoria nella posizione corrispondente del punto mobile, cosicché si può sempre decomporre in due parti, l'una (accelerazione tangenziale) diretta secondo la tangente alla traiettoria, l'altra (accelerazione normale o centripeta) diretta secondo la normale principale. Più precisamente, se si riprende il versore tangenziale t (t) (orientato nel verso delle s crescenti) e si introduce il versore n (t) della normale principale (orientato verso il centro di curvatura) si ha
dove r denota il raggio di prima curvatura o flessione della traiettoria. Abbiamo dunque che l'accelerazione tangenziale è data da ô (t), quella normale o centripeta (sempre diretta, vettorialmente, verso il centro di curvatura della traiettoria) da v2/r.
Per ottenere la (10), si derivi la v = ṡ t (n. 8) rispetto a t (considerando n come funzione del tempo pel tramite di s). Si ottiene così
e basta ricordare che, in virtù della seconda formula del Frenet (v. curve), si ha dt/ds − n/r per avere la (10).
L'accelerazione tangenziale ô caratterizza soltanto le variazioni di velocità lungo la traiettoria. Così, ad es., un moto in un generico istante, si dice accelerato o ritardato, secondo che in quell'istante la velocità intensiva ∣ṡ∣ è crescente o decrescente, cioè secondo che è crescente o decrescente ṡ2. Per una nota regola di calcolo, queste due eventualità si discriminano, badando al segno della derivata di s2, cioè di 2ṡô, onde si conclude che un moto, in un determinato istante (in cui non si annulli né la velocità né l'accelerazione) è accelerato o ritardato secondo che in quell'istante la velocità scalare e l'accelerazione tangenziale hanno o no ugual segno.
Notiamo ancora che l'accelerazione tangenziale risulta costantemente nulla sempre e solo quando sia identicamente ô = 0, cioè ṡ = costante, cosicché i moti uniformi sono caratterizzati dall'avere identicamente nulla l'accelerazione tangenziale, o, in altre parole, dall'avere un'accelerazione tutta normale.
I moti uniformemente varî (ṡ = at + b) sono invece caratterizzati dall'avere un'accelerazione tangenziale costante, il che non esclude l'esistenza di un'accelerazione normale.
L'accelerazione normale v2/r alla sua volta (poiché non può essere v = 0 se non negli eventuali punti di arresto) si annulla identicamente sempre e solo quando in ogni punto della traiettoria sia uguale a zero la flessione 1/r, cioè in tutti e soli i moti rettilinei (v. curvatura).
Combinando le precedenti osservazioni, si ha che i moti rettilinei uniformi sono caratterizzati dall'annullarsi identico della accelerazione (totale).
Moti particolari notevoli.
13. Moti uniformi e uniformemente varî. - Per i moti uniformi (su traiettoria qualsiasi) nulla abbiamo da aggiungere alle proprietà già rilevate (nn. 6, 7, 12) e che qui riassumiamo:
Per i moti uniformemente varî (n. 11), caratterizzati dalla costanza dell'accelerazione tangenziale o, se si vuole, dalla legge lineare rispetto al tempo per la velocità scalare ṡ = at + b, si deduce, integrando quest'ultima equazione rispetto al tempo, l'equazione oraria, quadratica rispetto a t,
dove la costante c fornisce l'ascissa del mobile nell'istante t = 0. Il diagramma orario è (v. coniche) una parabola ad asse parallelo all'asse degli spazî (fig. 7), onde si riconosce che in un tal moto il punto, sulla sua traiettoria, proviene da distanza infinita dalla parte delle ascisse positive o negative, secondo il segno dell'accelerazione tangenziale a, e procede di moto uniformemente ritardato fino al punto (corrispondente al vertice del diagramma) di ascissa (2ac − b2)/2a, che raggiunge nell'istante t = − b/a; dopo il quale ritorna, di moto uniformemente accelerato, all'infinito, dalla stessa parte donde è provenuto; e in ogni posizione riprende, in senso contrario, la stessa velocità intensiva che in essa aveva assunto al suo primo passaggio.
14. Moti ad accelerazione (vettoriale) cosante. - L'esempio tipico di tali moti è fornito dal moto di un grave (rispetto alla Terra), quando si prescinda dalla resistenza dell'aria e si circoscriva l'osservazione a una regione sufficientemente ristretta. Come già si è accennato, le leggi del moto di un grave (nel vuoto) sono state formulate, in base a geniali induzioni fondate sull'osservazione sperimentale, da Galileo, e si possono enunciare, in linguaggio moderno, nei termini seguenti: 1. un grave abbandonato a sé stesso, senza velocità iniziale (cioè a partire dalla quiete), cade lungo la verticale, movendosi con un'accelerazione costante e diretta verticalmente in basso, che è la stessa per tutti i corpi; 2. un grave, lanciato in qualsiasi direzione e con qualsiasi velocità iniziale, si muove sempre con quella stessa accelerazione costante e diretta verticalmente in basso, che si manifesta nei gravi cadenti dalla quiete. L'accelerazione di caduta dei gravi, che si suol chiamare accelerazione della gravità, e si indica (in valore assoluto) con g, è in realtà costante soltanto localmente, perché varia, pur di poco, al variare della stazione di esperimento: precisamente cresce al crescere della latitudine, diminuisce al crescere dell'altitudine sul livello del mare (v. gravimetria). Ma, data la piccolezza di siffatte variazioni, si può in prima approssimazione ritenere che codesta g (entro regioni abbastanza ristrette, perché risulti insensibile la variazione della verticale) sia indipendente dal posto ed uguale a 9,80 m/sec.
Comunque, continuiamo a indicarla genericamente con g, in modo da rendere valide le nostre considerazioni per ogni possibile moto ad accelerazione costante e, immaginando che un grave P sia stato inizialmente lanciato (nel vuoto) da una certa posizione P0, con una certa velocità v0, vediamo quali siano le equazioni del suo moto. Ovvie ragioni di simmetria implicano che il moto deve necessariamente avvenire in quel piano per P0 che contiene la velocità iniziale v0 ed è parallelo alla direzione costante dell'accelerazione g, cioè, nel nostro caso specifico, verticale. Nel piano del moto adottiamo due assi di origine in P0, di cui quello delle y sia verticale e orientato verso il basso (cioè nella direzione orientata della accelerazione costante) e quello delle x sia orizzontale, orientato in modo da formare con v0 un angolo acuto (nel caso di v0 verticale si può prendere un asse x orizzontale qualsiasi). Se α è l'angolo che v0 forma con l'asse delle x (contato positivamente al disopra di codesto asse orizzontale), le componenti della velocità iniziale sono v0 cos α, − v0 sen α.
Quanto all'accelerazione, le sue componenti secondo gli assi sono 0 e g, talché durante il moto le coordinate x, y del punto P, come funzioni del tempo, debbono soddisfare alle equazioni (differenziali)
Integrando rispetto a t e tenendo conto che per t = 0 deve essere ú = v0 cos α, ÿ = − v0 sen α, si ottengono per le componenti della velocità, istante per istante, le espressioni
e con un'ulteriore integrazione (e tenendo conto che per t = 0 deve essere x = y = 0), si perviene alle equazioni del moto:
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Se v0 è verticale (α = ±π/2), queste equazioni si riducono a
e si ha un moto uniformemente vario lungo la verticale (grave lanciato verticalmente verso l'alto o verso il basso). Se invece α ≷ ± π/2 si ha il moto parabolico dei gravi (nel vuoto), su cui non insistiamo, perché già se ne è parlato nella voce balistica e ancora se ne parlerà nella voce dinamica.
15. Moti rotatorî. - Sono i moti aventi per traiettoria un circolo. Detto r il raggio di questo e adottati come assi due diametri ortogonali (fig. 8), è chiaro che la posizione del punto mobile P risulta individuata dal valore dell'anomalia ϑ del raggio OP, O, se si vuole, del vettore P − O, rispetto all'asse orientato x. Quando quest'anomalia è data in funzione del tempo, le equazioni del moto circolare sono manifestamente
onde per le componenti della velocità e per la velocità intensiva si deducono le espressioni
Come era prevedibile, la velocità si riduce alla sua parte trasversa (in quanto la radiale è nulla). Risulta poi dall'espressione della velocità intensiva che, affinché il moto sia uniforme, occorre e basta che sia costante cioè la velocità angolare. Indicando in tal caso con ω il valore costante di questa velocità angolare (e supponendo, per fissare le idee, di avere assunto come verso positivo delle anomalie quello del moto, talché sia ϑ̇ = ω >; 0), si deduce dalla ϑ̇ = ω che ϑ ωt + ϑ0, dove ϑ0 è l'anomalia iniziale (cioè per t = 0); e le equazioni del moto rotatorio uniforme risultano date da
onde si traggono per le componenti della velocità e dell'accelerazione le espressioni
Si riconosce così che l'accelerazione (la quale, trattandosi di moto uniforme, è tutta centripeta) è data in valore assoluto da ω2 r, onde vettorialmente si può scrivere
16. Moti oscillatorî e vibratorî. - Mentre il punto P ruota uniformemente intorno a O, la sua proiezione Px sull'asse x (il quale è un diametro qualsiasi della traiettoria) oscilla indefinitamente e periodicamente da A a B e viceversa (fig. 8), secondo la legge oraria x = r cos (ωt + ϑ0). È questo il cosiddetto moto armonico su cui non ci indugeremo, perché già se n'è parlato altrove (vedi armonico). Esso fornisce la rappresentazione cinematica tipica di molti fenomeni fisici vibratorî (elastici, acustici, ottici), quando si possa prescindere dalle cosiddette resistenze passive (attriti, viscosità, resistenze di mezzo, ecc.) le quali tendono a smorzare le oscillazioni; e va aggiunto che vi sono (specialmente in ottica e in elettricità, per es., nella teoria dei campi magnetici rotanti) fenomeni, in cui, tanto al moto armonico di P, quanto al moto rotatorio uniforme del vettore applicato P − O si può attribuire un significato fisico.
Per arrivare alla rappresentazione cinematica tipica dei moti oscillatorî smorzati si può similmente partire dalla considerazione del moto rotatorio uniforme d'un vettore applicato, non più, peraltro, di modulo costante, bensì variabile nel tempo. Consideriamo a tal fine una spirale logaritmica (v.) di punto asintotico O, la quale, ove si adottino coordinate polari ρ, ϑ di polo O e si assuma come verso positivo delle anomalie quello in cui la spirale si avvolge verso il suo punto asintotico, ammette l'equazione
dove a e b sono due costanti positive ed e rappresenta la nota base dei logaritmi neperiani = 2,7182....
Ciò premesso, s'immagini (fig. 9) un punto P che descriva la spirale, in modo che il vettore applicato P − O ruoti uniformemente intorno ad O con velocità angolare (positiva) ω, talché si abbia istante per istante ϑ = wt + ϑ0, dove ϑ0 è l'anomalia o fase iniziale. Le equazioni del moto di P, ove si ponga per brevità
risultano date da
Esse differiscono da quelle del moto rotatorio uniforme (n. prec.) soltanto per la presenza del fattore e-it, il quale, in quanto col trascorrere del tempo tende allo zero, determina una progressiva contrazione della lunghezza del vettore rotante. Mentre il punto P descrive in tal modo la spirale, la sua proiezione Px sull'asse delle x (la quale è una retta qualsiasi per il punto asintotico O) oscilla intorno ad O; ma le sue escursioni, da una parte e dall'altra di codesto punto, si vanno progressivamente riducendo. Questo moto di equazione
è appunto il tipo dei moti oscillatorî smorzati. Gli estremi delle oscillazioni, cioè i punti di arresto (come A0′ e B0′) sono manifestamente le proiezioni dei punti della spirale (come A0′ e B0′), in cui la tangente risulta perpendicolare all'asse delle x. Siccome il vettore P − O ruota uniformemente, è senz'altro chiaro che fra due passaggi consecutivi di Px per il polo O intercede l'intervallo di tempo costante π/ω (quale occorre per aumentare di π l'anomalia ωt + ϑ0 di P) e che π/ω è altresi la durata di ogni oscillazione semplice (tra due posizioni d'arresto consecutive, come A0′ e B0′). Perciò è pur costante la durata T = 2π/ω di ogni oscillazione completa, la quale dicesi ancora, come nel moto armonico, periodo, per quanto il moto non possa più dirsi periodico (salvo che nella durata delle oscillazioni). La velocità e l'accelerazione del moto sono
e da queste espressioni e dalla (11) risulta che, ad intervalli di tempo di un periodo T = 2π/ω la distanza di Px dal polo O, al pari della velocità e dell'accelerazione, si riducono proporzionalmente (e senza mutamento di segno) nel rapporto costante (minore di 1) e-2hπ/ω. Perciò ciascuna di queste grandezze, calcolata in una successione d'istanti, susseguentisi a intervalli d'un periodo, dà luogo ad una progressione geometrica che ha per ragione codesta costante, onde i corrispondenti logaritmi naturali costituiscono una progressione aritmetica di differenza −2h π/ω. Questa nuova costante si dice decremento logaritmico (relativo all'intero periodo), mentre la h si chiama costante di smorzamento.
Fra le (11) e (12) si può eliminare la fase ωt + ϑ0 e si è condotti a riconoscere che, istante per istante, sussiste fra la distanza x dal polo, la velocità ú e l'accelerazione ï la notevole relazione
Questa equazione differenziale (lineare, omogenea, a coefficienti costanti, del secondo ordine) è caratteristica dei moti oscillatorî smorzati di periodo 2 π/ω e di costante di smorzamento h, perché il suo integrale generale è dato appunto dalla (11), ove si considerino come arbitrarie le due costanti x e ϑ0.
17. Moti centrali. - Si dice centrale ogni moto di un punto P, in cui la linea di azione dell'accelerazione α passi costantemente per un punto O (centro), fisso rispetto al riferimento. Escluso il caso di un moto rettilineo (che va considerato centrale rispetto a tutti, e soli, i punti della sua traiettoria), osserviamo che, in quanto l'accelerazione in un moto curvilineo deve a ogni istante giacere nel piano osculatore alla traiettoria nella corrispondente posizione del mobile, la traiettoria di un moto centrale deve essere una curva tale che tutti i suoi piani osculatori passino pel centro O. Ora basta ricordare la definizione di piano osculatore (come contenente tre punti infinitamente vicini della curva; v. curve) per riconoscere intuitivamente che ciò non è possibile se non per una curva piana. I moti centrali sono dunque necessariamente piani.
Nel piano d'un moto centrale si adottino due assi, aventi per origine il centro O del moto. Poiché l'accelerazione di componenti ï, ÿ deve avere la stessa linea d'azione del vettore P − O di componenti x, y, deve sussistere istante per istante la proporzione
onde risulta
dove c è una certa costante caratteristica del moto. Si riconosce così (n. 10) che per ogni moto centrale è costante la velocità areolare rispetto al centro O, come si suol dire, vale la legge delle aree (chiamandosi costante delle aree la c, cioè il doppio della velocità areolare); e questa proprietà caratterizza i moti centrali in quanto, viceversa, dalla (15) discende la (14).
Una notevole osservazione: di un moto centrale si suppongano note la traiettoria, la posizione del centro O e la costante delle aree c; se P0 è la posizione iniziale del punto mobile P (v. fig. 5), l'area del settore P0OP dovendo avere come derivata rispetto a t la costante c (e annullarsi per t = 0), ammette istante per istante l'espressione ct; e questa, insieme con i dati, basta a definire completamente il moto di P. Si ha dunque che, noti di un moto centrale il centro e la traiettoria (nonché la costante delle aree e la posizione iniziale), è possibile assegnare tutti i caratteri cinematici del moto. In particolare si dimostra che l'accelerazione, la quale è per definizione tutta radiale, cioè diretta secondo OP, è data in valore e segno (ove codesta semiretta si orienti da O verso P) dalla espresssione (dipendente soltanto dall'equazione della traiettoria e da c)
È questa la cosiddetta formula di Jacques Binet (astronomo francese, nato a Rennes nel 1786, morto a Parigi nel 1856) per quanto fosse già prima conosciuta dal Newton.
18. Moti kepleriani. - Un moto centrale particolarmente interessante è quello dei pianeti intorno al Sole (come pure di ogni satellite intorno al proprio pianeta). Esso dicesi kepleriano, in quanto spetta a Keplero la gloria d'averne scoperto le leggi (valide in prima approssimazione nello schema della dinamica newtoniana). Esse sono: 1. le orbite dei pianeti sono ellissi e il Sole ne occupa uno dei fuochi; 2. le aree descritte dal raggio vettore che va dal sole a un pianeta sono proporzionali ai tempi impiegati a percorrerle; 3. i quadrati dei tempi impiegati dai varî pianeti a percorrere le loro orbite (durate delle rivoluzioni) sono proporzionali ai cubi dei rispettivi assi maggiori.
Che si tratti di un moto centrale risulta dalla seconda legge, che è precisa mente (n. prec.) la legge delle aree; e poiché la prima legge di Keplero caratterizza la natura geometrica dell'orbita, il moto è perfettamente individuato (n. prec.). Se l'orbita ellittica d'un pianeta, di semiassi a e b con a >; b (fig. 10) si riferisce a coordinate polari ρ e ϑ, di cui il polo sia il fuoco occupato dal Sole e il semiasse polare l'asse maggiore orientato verso il perielio (vertice più vicino), la corrispondente equazione è data (v. coniche) da
dove e denota l'eccentricità e p il parametro b2/a. Applicando la formula del Binet (n. prec.), si trova per l'accelerazione, tutta radiale, l'espressione
onde risulta che essa è sempre diretta verso il Sole e inversamente proporzionale al quadrato della distanza del pianeta da esso.
La terza legge permette poi di riconoscere che il fattore di proporzionalità cab/p = a c2/b2 è lo stesso per tutti i pianeti. Invero, essendo c il doppio della velocità areolare, l'area dell'orbita ellittica, che è uguale a πab, è pur data da cT/2, dove T è la durata della rivoluzione, onde si ha c = 2 πab/T; e quadrando e dividendo per p = b2/a, si trova
dove, per la terza legge, il rapporto a3/T (al pari del numero puro 4π2) è lo stesso per tutti i pianeti.
19. Moto elicoidale uniforme. - Si tratta del moto che si ottiene componendo un moto rotatorio uniforme d'un punto P1 su d'un piano con un moto rettilineo di un altro punto P* sulla perpendicolare a π nel centro della traiettoria circolare di P1 (o su di una qualsiasi parallela ad essa). Si assuma (fig. 11) come piano z = 0 il piano del moto rotatorio e come asse z la traiettoria di Px, orientata nel verso rispetto a cui il moto circolare appare destro. Inoltre si contino i tempi dall'istante in cui il punto P* attraversa π e si diriga il semiasse positivo delle x verso la posizione assunta in quello stesso istante dal punto P1. Con questo riferimento, ove si denotino con r e ω il raggio della traiettoria circolare di P1 e la rispettiva velocità angolare (costante) e con τ il valore assoluto della velocità (pur essa costante) del moto rettilineo di P*, le equazioni del moto composto sono date (nn. 13-15) da
dove va preso il segno + o − secondo il verso del moto di P* lungo l'asse z. Il punto P(x,y,z) si muove manifestamente sul cilindro rotondo di asse z e di raggio r, con velocità di componenti
e d'intensità v = √r2ω2+ τ2. Poiché questa è una costante, anche il moto composto (16), come i due moti componenti, è uniforme. D'altra parte è pur costante il terzo coseno direttore ż/v = ± τ/√r2ω2+τ2 di codesta velocità, onde risulta che la traiettoria incontra sotto angolo costante le successive generatrici del cilindro, il che vuol dire che essa è un'elica circolare (v. elica).
L'accelerazione di componenti
ha l'intensità costante rω2, cioè quella stessa del moto corrispondente rotatorio (n. 15); e (come deve accadere trattandosi di moto uniforme; n. 13) è tutta diretta lungo al perpendicolare dal punto all'asse z (normale principale dell'elica). Quanto al senso, questo moto elicoidale uniforme (nelle solite ipotesi che la terna di riferimento sia destra) è destro o sinistro secondo che nelle (16) vale il segno + o −. Il punto descrive un'intera spira della sua elica nel tempo 2π/ω (periodo del moto componente rotatorio), onde risulta dalla terza delle (16) che il passo della traiettoria elicoidale è dato da 2πτ/ω.
Cinematica dei sistemi rigidi.
20. Moti rigidi e criterio cinematico di rigidità. - Esaurite le premesse necessarie sul moto di un solo punto, passiamo allo studio dei moti d'un corpo qualsivoglia, che considereremo come un sistema o aggregato di punti (in numero finito o infinito e, in quest'ultimo caso, eventualmente distribuiti con continuità in una regione spaziale o su di una superficie o su di una linea) e cominciamo dal caso, d'importanza fondamente anche dal punto di vista tecnico, dei sistemi rigidi, o solidi, cioè dei sistemi che, durante il moto, conservano inalterate le mutue distanze dei loro punti, presi a due a due in tutti i modi possibili. I sistemi rigidi così concepiti costituiscono in verità una pura astrazione, perché nella realtà fisica tutti i corpi, per effetto di quelle azioni che producono o mantengono o modificano il moto (forze, attriti, resistenze di mezzo, vincoli, ecc.) si deformano. Ma per quei corpi, che anche volgarmente si chiamano solidi, siffatte deformazioni sono abbastanza lievi, perché le deduzioni teoriche, che nello studio dei loro moti si traggono dalla ipotesi di una rigidità assoluta, risultino attendibili e utili ai fini applicativi. I sistemi rigidi forniscono l'esempio, in un certo senso più semplice, di sistemi di punti vincolati. Ora si capisce a priori che il vincolo di rigidità intercedente fra due punti quali si vogliono di un tal sistema, deve implicare, durante il moto, qualche mutua relazione fra i caratteri cinematici simultanei di codesti punti: per es., la posizione d'un sistema rigido S risulta univocamente determinata quando si conoscono le posizioni di tre suoi punti P1, P2, P3, non allineati, talché il moto di S è perfettamente definito quando siano dati i moti di codesti tre punti (i quali del resto non sono, neppur essi, vicendevolmente indipendenti).
Ma ai fini cinematici importa soprattutto fissare l'attenzione sulle velocità e, sotto questo riguardo, giova rilevare il seguente criterio cinematico di rigidità: i moti d'un sistema rigido sono caratterizzati dal fatto che, istante per istante, le velocità di due punti quali si vogliano del sistema hanno la stessa componente secondo la loro congiungente.
Se l è la distanza invariabile di due punti P1 (x1y1z1), P2 (x2,y2, z2) del sistema, si ha, durante tutto il moto,
onde derivando rispetto al tempo, dividendo per 2 e trasportando i termini in ú2, ÿ2,ż2, a secondo membro, si ottiene
Poiché (x2 − x1)/l, (y2 − y1)/l, (z2 − z1)/l sono i coseni direttori della retta P1P2, la (18), indicando con α, β, γ codesti coseni direttori, si può scrivere
ed esprime apunto l'asserto. Reciprocamente dalla (19), traverso la (18), si risale alla (17).
21. Moti rigidi traslatorî e rotatorî. - Giova anzitutto considerare due tipi particolari di moti rigidi. Un dato sistema rigido S si può, in infiniti modi, muovere in guisa che la congiungente d'ogni possibile sua coppia di punti si conservi costantemente parallela a sé stessa. ogni moto siffatto si dice traslatorio. Se P1, P2 sono le posizioni occupate da due generici punti di S in un certo istante t, e P′1, P′2, quelle occupate dagli stessi punti in un altro istante t′, la condizione che P′1, P′2, sia equipollente (cioè uguale, parallelo e di ugual verso) a P1P2 implica (fig. 12) che tali siano fra loro anche P1P′1 e P2P′2. Cioè durante un moto traslatorio gli spostamenti subiti dai punti del sistema in un medesimo intervallo di tempo sono tutti equipollenti. Tali di conseguenza risultano le corrispondenti velocità medie, e, passando al limite per t′ → t, le velocità istantanee, nonché per derivazione, le accelerazioni. Quel vettore τ(t), funzione esclusivamente del tempo, che istante per istante dà la velocità comune a tutti i punti di S, si dice velocità del moto traslatorio, e analogamente si dice accelerazione il vettore τ× (t). È manifesto che le traiettorie dei singoli punti sono fra loro tutte congruenti e parallele. Se poi la velocità è costante (di direzione e d'intensità), codeste traiettorie sono tutte rettilinee e vengono percorse, dai rispettivi punti, di moto uniforme (moto traslatorio uniforme).
Consideriamo in secondo luogo i moti rigidi rotatorî, di cui fornisce un esempio tipico il moto d'un volano. Considerata una retta z rigidamente connessa (o solidale) con un sistema rigido S, s'immagini di tener fissi tutti i punti di essa (e basterà fissarne due). I varî punti P di S che non giacciono su codesto asse, non potranno più muoversi se non rotando, ciascuno, nel corrispondente piano perpendicolare all'asse, intorno alla rispettiva proiezione Q su di esso (fig. 13); e, per effetto della rigidità, in un dato intervallo di tempo (t, t′) subiranno tutti, intorno alle rispettive proiezioni Q, un medesimo spostamento angolare. Di qui consegue che ad ogni istante tutti i punti P hanno, rispetto alle corrispondenti proiezioni Q, una stessa velocità angolare (che naturalmente varierà, in generale, nel tempo). Di questa velocità angolare giova introdurre una immagine vettoriale. Si consideri a tal fine il vettore ω, che ad ogni istante ha lunghezza uguale al valore assoluto della velocità angolare or ora detta e la direzione e il verso dell'asse, orientato in modo che il moto risulti, rispetto ad esso, destro. È questo vettore ω che si chiama velocità angolare del moto rigido rotatorio.
Esso permette di esprimere in forma caratteristica la velocità v di ogni punto P del sistema rotante. Infatti questa U (dovendo giacere nel piano per P perpendicolare a ω ed essere tangente alla traiettoria circolare di centro Q) risulta ortogonale (fig. 13) ad ω, e, in virtù del verso or ora attribuito a questo vettore, orientata in senso destro rispetto a esso; inoltre la sua intensità è data (n. 15) dal prodotto della distanza QP di P dall'asse per il valore assoluto ω di ω, talché chi conosce gli elementi della teoria dei vettori (v.) ravvisa in questa velocità il prodotto vettoriale dei due vettori ω e P − Q, cioè
Questa espressione si può rendere indipendente dalla proiezione Q, che varia in generale con P: invero, fissato una volta per tutte sull'asse un punto qualsivoglia Ω, il vettore P − Q si può decomporre nella somma di due vettori (P − Ω) + (Ω − Q), di cui il secondo è parallelo a ω talché si ha ω ≿ (Ω − Q) = 0, e la formula precedente si può scrivere
dove, giova ricordarlo, ω è un vettore che nel tempo può variare di lunghezza e di verso, ma deve conservare una direzione fissa (quella dell'asse di rotazione), mentre Ω è un punto prefissato ad arbitrio su quest'asse. Questa formula fornisce, istante per istante, per il moto rotatorio, la distribuzione delle velocità nei singoli punti di S o, come suol dirsi, l'atto di moto (Maggi) o stato cinetico (Burgatti) del sistema nell'istante considerato.
Applicando il criterio cinematico di rigidità (n. prec.) si riconosce che l'espressione (20), subordinatamente alla duplice condizione che il punto Ω sia fisso e che il vettore Ω sia di direzione invariabile, è caratteristica per i moti rigidi rotatorî.
Se t′ è costante anche d'intensità (nonché di verso) si ha un moto rotatorio uniforme (in cui ciascun punto del sistema rigido ruota uniformemente intorno all'asse).
22. Composizione di moti rigidi. - Per un dato sistema S (anche non rigido) pensiamo due diversi moti, entrambi possibili in un medesimo intervallo di tempo (t, t′). In accordo con quanto si è detto nel caso di un sol punto (n. 9) si dice composto dei due moti considerati (moti componenti) il moto di S in cui, a ogni istante, ciascun punto del sistema ha come velocità la somma geometrica o risultante delle velocità, che a quel punto e in quell'istante competono nei due moti componenti. Analogamente si compongono tre o più moti. Il criterio cinematico di rigidità mostra senz'altro che il moto composto di due o più moti rigidi quali si vogliano è pur esso rigido.
Occupiamoci della composizione di moti traslatorî oppure rotatorî. Se si compongono due moti traslatorî di velocità τ1(t), τ2(t), si ottiene un moto, in cui a tutti i punti, in ciascun istante, compete la medesima velocità τ1 + τ2; si tratta dunque ancora di un moto traslatorio, di velocità uguale alla somma geometrica delle velocità dei moti componenti. Altrettanto si dica se si compongono quanti si vogliano moti traslatorî.
Se invece componiamo due moti rotatorî, otteniamo bensì un moto rigido, ma non v'è in generale ragione che si tratti d'un moto rotatorio. Ciò peraltro si verifica se si compongono due moti rotatorî intorno al medesimo asse, e in tal caso la velocità angolare del moto composto è uguale alla somma geometrica delle velocità angolari dei moti componenti.
Questo risultato si può ritenere intuitivo: per assicurarsene deduttivamente si osservi che, in quanto i due moti componenti hanno il medesimo asse, si può scegliere un medesimo punto Ω di riferimento per entrambi, cosicché le rispettive distribuzioni di velocità risultano date da v1 = ω1 (P − Ω), v2 = ω2 ≿ (P − Ω). Sommando, si ottiene per la velocità del generico punto P nel moto composto l'espressione v = (ω1 + ω2) ≿ (P − Q), in cui il punto Ω resta fisso e il vettore ω1 + ω2, come somma di due vettori d'uguale direzione invariabile, è pur esso di direzione fissa; si tratta dunque del moto rotatorio di velocità angolare ω1 + ω2.
Consideriamo in secondo luogo due moti rotatorî intorno ad assi concorrenti. Chiamato Ω il punto comune ai due assi, si avrà ancora v1 = ω1 ≿ (P − Ω), v2 = ω2 ≿ (P − Ω); ma le direzioni invariabili di ω1 e ω2 sono diverse e, conseguentemente, il moto composto, di velocità v = (ω1 + ω2) ≿ (P − Ω), non sarà più, almeno in generale, rotatorio, perché, al variare delle intensità di ω1 e ω2, varierà generalmente la direzione di ω1 + ω2. Questa direzione resterà certamente inalterata se ω1, ω2 sono entrambe costanti anche d'intensità (e di verso); cioè, componendo due o più) moti rotatorî uniformi intorno ad assi passanti per uno stesso punto si ottiene sempre un moto rotatorio uniforme (intorno ad un asse passante per quel medesimo punto), la cui velocità angolare è la somma geometrica delle velocità angolari dei moti componenti.
23. Moti rototraslatori. - Sono questi i moti composti d'un moto traslatorio e di un moto rotatorio. Ci limitiamo al caso in cui i due moti siano entrambi uniformi, e anzitutto supponiamo che l'asse del secondo (e quindi la sua velocità angolare ω) abbia la stessa direzione della velocità traslatoria τ del primo. Nel moto composto, di velocità τ + ω ⋀²²²²²²²²²²²²²²²²²²²²²²²²²(P − Ω), ogni punto risulta animato dal moto composto di una rotazione uniforme intorno alla sua proiezione sull'asse e da una traslazione uniforme lungo quest'asse medesimo: in altre parole ogni punto del sistema si muove di moto elicoidale uniforme (n. 19); e, per i vincoli di rigidità, le eliche descritte dai diversi punti del sistema hanno tutte il medesimo passo 2πτ/ω. È questo il tipico moto a vite e si chiama moto elicoidale uniforme (o di roteazione).
Ora si dimostra più in generale (ed è questo uno dei risultati più importanti della cinematica dei sistemi rigidi) che, anche componendo due moti, l'uno traslatorio e l'altro rotatorio, di cui li velocità traslatoria e rotatoria e abbiano direzioni (invariabili) diverse, si ottiene sempre un moto uniforme elicoidale (in particolare rotatorio se τ è perpendicolare ad ω).
Rimandando ai trattati speciali per la dimostrazione (v. p. es., LeviCivita-Amaldi, Lezioni di meccanica razionale, I, 2ª ed., Bologna 1930, pp. 177-178) ci accontentiamo di osservare che tutto si riduce a far vedere che lo stesso moto di velocità τ + ω ≿ (P − Ω) si può decomporre in due moti uniformi, l'uno traslatorio e l'altro rotatorio, di cui le velocità di traslazione e di rotazione abbiano la stessa direzione (invariabile). Ora si dimostra precisamente che ciò è sempre possibile, e in un solo modo; e inoltre che: 1. la velocità di rotazione del nuovo componente rotatorio è ancora ω; 2. la velocità del componente traslatorio è la proiezione τ1 di τ sulla direzione di ω; 3. l'asse del componente rotatorio (parallelo ad ω) non passa per Ω, bensì per quel punto fisso Ω1, che da Ω si ottiene spostandolo del vettore ω ⋀ τ′/ω2 dove τ′ denota il componente di τ secondo la giacitura ortogonale ad ω.
24. Moti rigidi generali. - Passiamo ormai a un moto rigido qualsivoglia, e cerchiamone anzitutto le equazioni. Per individuare, entro il sistema rigido considerato S, i singoli suoi punti, giova introdurre una terna ortogonale di assi Oxyz (al solito destra) invariabilmente collegata a S; dopo di che la posizione, entro il sistema, di ogni punto P sarà determinata dalle sue tre coordinate (costanti) x, y, z rispetto a codesta terna. E allora un qualsiasi moto del sistema rigido, rispetto alla terna di riferimento o fissa, che qui denoteremo con Ωξηζ, risulterà completamente caratterizzato, quando si conosca, istante per istante, la posizione assunta rispetto ad Ωξηζ, dalla terna Oxyz, solidale con S o mobile. A questo scopo basta che si assegnino, in funzione del tempo (e rispetto agli assi Ωξεζ) le coordinate α(t), β(t), γ(t) dell'origine O e le componenti dei tre versori i, j, k degli assi mobili x, y, z, le quali verranno denotate con i simboli raccolti nella tabelletta
In base a questi dati la posizione, rispetto alla terna fissa Ωξεζ, di un punto P di S, di cui siano x, y, z le coordinate rispetto alla terna solidale Oxyz, si ottiene, istante per istante, come estremo di quel vettore applicato in O, che ha, rispetto ad Oxyz, le componenti x,y, z, cioè si ha
e di qui, proiettando sugli assi di riferimento e denotando con ξ, η, ζ, le coordinate (variabili nel tempo) di P, si deducono le
Sono queste le equazioni generali di un moto rigido, in quanto definiscono direttamente, in funzione del tempo, le coordinate del punto generico P di S, rispetto alla terna di riferimento, quando di P sia prefissata, per mezzo delle coordinate solidali x, y, z, la posizione nel sistema.
Ricordiamo che le nove componenti di i, j, k, scritte nella tabella (21), le quali non sono altro che i coseni direttori degli assi mobili rispetto a quelli di riferimento, rendono soddisfatte, istante per istante, in quanto i tre vettori i, j, k, sono unitarî e a due a due ortogonali, le sei equazioni
Notiamo in particolare che se si tratta d'un moto elicoidale uniforme, di velocità traslatoria e rotatoria (costanti) τ ed ω, le equazioni (22′) (ove si assumano come assi solidali le tre rette lungo cui risultano disposti, nel sistema rigido, i tre assi di riferimento all'istante t = 0) prendono l'aspetto
Per τ = 0 si hanno le equazioni di un generico moto rotatorio uniforme.
25. Distribuzione delle velocità in un moto rigido generale. - Le velocità dei singoli punti d'un sistema rigido in moto si deducono per derivazione, rispetto al tempo, dalle corrispondenti equazioni (22) o (22′). Si perviene così a riconoscere che la velocità di un generico punto P del sistema è data, istarite per istante, da
dove v0 denota la velocità dO/dt del punto O (che è un arbitrario punto del sistema rigido, o anche soltanto solidale con esso), ed ω è un ben determinato vettore, le cui componenti sono univocamente esprimibili per mezzo delle funzioni α, β, γ, αh, βh, γh e delle loro derivate prime, e che perciò risulta, al pari di v0, funzione esclusivamente del tempo (o, in casi particolari, costante). Reciprocamente si riconosce in base al criterio cimematico di rigidità (n. 20), che, comunque si prefissino in funzione del tempo i due vettori v0, ω, la distribuzione di velocità (23) compete a un moto rigido, cosicché questa espressione (23) è caratteristica per le velocità dei punti di un sistema rigido in moto. Abbiamo così che, rispetto alla prefissata terna di riferimento, un moto rigido risulta determinato (a meno di opportune condizioni iniziali) quando si assegnino ad arbitrio un qualsiasi punto O solidale col sistema mobile e due vettori puramente temporali v0, ω. Perciò questi due vettori si dicono vettori caratteristici del moto rigido rispetto al polo (o centro di riduzione) O; e si chiamano caratteristiche del moto, rispetto a O, le componenti di vo ed ω secondo gli assi mobili.
Per la dimostrazione della (23) rimandiamo ai trattati speciali (v. per es. Levi-Civita-Amaldi, loc. cit., pp. 180-183). Essa si riduce a constatare che le derivate rispetto al tempo dei tre versori i, j, k degli assi mobili si possono scrivere sotto la forma
dove il vettore ω è dato da
Le (24) sono le cosiddette formule del Poisson; e si può rilevare che esse, valendo per i versori d'una terna ortogonale, espressi in funzione di un parametro qualsivoglia, si prestano allo studio geometrico delle curve, p. es., quando si applichino ai versori del rispettivo triedro principale (v. curve). È questo il metodo del triedro mobile del Darboux.
Notiamo poi che, come risulta dalla sua stessa espressione (25), il vettore caratteristico v0 non varia al variare del polo O: non cosi per v0, che, quando come polo si assuma un punto O′ diverso da O, va sostituito con la rispettiva velocità, la quale, in virtù della (23) stessa, è data da v0′ = v0 + ω ≿ (O′ − O), talché si può dire che i vettori caratteristici ω e v0, al variare del polo, si comportano come il risultante e il momento risultante d'un sistema di vettori applicati (v. statica; vettori).
26. Moto elicoidale tangente e asse di moto. - La legge (23) di distribuzione delle velocità in un sistema rigido in moto dà luogo a un'osservazione d'importanza fondamentale anche per la tecnica. Fissando l'attenzione su quello che accade in un determinato istante t*, e designando con v0*, ω* le determinazioni assunte in quell'istante dai due vettori caratteristici v0, ω, con O* la posizione occupata nell'istante medesimo da O, abbiamo che la distribuzione delle velocità spettanti ai varî punti P del sistema nell'istante t* è data da
ed è perciò quella stessa, che in quell'istante si avrebbe se il sistema fosse animato dal moto composto del moto traslatorio uniforme di velocità v0* e del moto rotatorio, pur esso uniforme, di velocità angolare ω* (intorno all'asse parallelo ad v0* che passa per ω*). Come sappiamo (n. 23) questo moto composto è un ben determinato moto uniforme, generalmente elicoidale e avente come asse una certa retta parallela ad ω* e come velocità traslatoria e rotatoria la proiezione di v0* sulla direzione di ω* e, rispettivamente, la ω* stessa (in casi particolari rotatorio, se v0* è perpendicolare a ω* o nullo, o anche traslatorio se è nullo ω*). Questo moto uniforme elicoidale (o in particolare rotatorio o traslatorio), il quale in un generico istante dà luogo alla stessa distribuzione di velocità del moto rigido, si dice moto elicoidale (o rotatorio o traslatorio) tangente al moto rigido nell'istante considerato; e (se non si tratta d'un moto traslatorio) il rispettivo asse si chiama asse di moto o centrale (o del Mozzi) del sistema rigido in quell'istante.
Giova notare che in base a quanto precede, il secondo vettore caratteristico ω si dice spesso velocità angolare del moto rigido, in quanto, pur non soddisfacendo, in generale, alla condizione dell'invariabilità di direzione che caratterizza le velocità angolari, assume istante per istante il significato di una tale velocità.
27. Rigate rotolanti. - Il risultato chiarito al num. prec. si può enunciare in forma espressiva, se non esatta, dicendo che il più generale moto rigido si riduce a una successione di infiniti moti infinitesimi elicoidali, in cui dall'uno all'altro variano con continuità l'asse e le componenti traslatoria e rotatoria della velocità (avendosi in particolare un moto infinitesimo rotatorio in quegli istanti in cui v0 risulta ortogonale ad ω o nullo; un moto infinitesimo traslatorio in quegli istanti in cui si annulla ω). Al trascorrere del tempo, l'asse di moto, variando con continuità, descrive, rispetto alla terna Ωξηζ, una certa rigata Λ, che diremo fissa; ma simultaneamente varia, entro il sistema rigido rispetto alla terna mobile Oxyz quella retta che va istante per istante a disporsi lungo l'asse di moto; e il luogo di queste rette entro il sistema rigido costituisce una seconda rigata L, che diremo mobile (o solidale). Queste due rigate (assoidi) hanno ad ogni istante comune quella generatrice che costituisce l'asse di moto in quell'istante; e si dimostra che lungo codesta generatrice, in quel medesimo istante, esse si toccano. Perciò il moto del sistema rigido S (e quest'osservazione ha un fondamentale interesse applicativo) si può realizzare facendo subire alla rigata mobile L (solidale con S) un rotolamento sulla rigata fissa Λ, accompagnato istante per istante da uno strisciamento lungo la generatrice di contatto (il quale rispecchia il componente traslatorio del corrispondente moto tangente).
Se in particolare il sistema rigido è vincolato a muoversi intorno a un punto fisso O, è manifesto che i moti tangenti non possono più essere elicoidali (né traslatorî), bensì puramente rotatorî; e le rigate L e Λ si riducono a due superficie coniche di vertice O (coni del Poinsot), le quali, durante il moto, rotolano l'una sull'altra senza strisciamento.
28. Moti rigidi piani. - Per le applicazioni ha particolare interesse il caso schematico del moto d'una figura rigida piana S nel suo piano. Sono qui applicabili, con ovvie semplificazioni, le considerazioni precedenti. Cominciamo col rilevare che se si compone, su di un piano π, un moto traslatorio uniforme di velocità τ (costante e giacente in π) con un moto rotatorio uniforme intorno a un punto fisso Ω di velocità angolare ω (costante ed ortogonale a π), si ottiene sempre (in quanto ω è ortogonale a π) un moto rotatorio uniforme di velocità angolare ω, intorno a un ben determinato punto fisso (diverso da Ω). Di qui consegue che per un moto rigido piano qualsivoglia, la cui distribuzione delle velocità è sempre data dalla
con la specifica condizione che v0 giaccia nel piano del moto e π sia ad esso ortogonale, il moto tangente è ad ogni generico istante rotatorio, riducendosi traslatorio soltanto in quegli istanti in cui eventualmente si annulla ω. Il centro del moto rotatorio tangente, in un generico istante, si dice centro istantaneo di rotazione del dato moto nell'istante considerato.
Vale la pena di far vedere come l'esistenza di questo centro istantaneo di rotazione si possa stabilire in via elementare. La posizione di una figura rigida piana S sul suo piano π è manifestamente individuata da quella di due suoi punti. Considerato per la S un qualsiasi moto su π, denotiamo con P1, P2 le posizioni occupate da due suoi punti in un generico istante t e con P1′, P2′ le posizioni, che gli stessi due punti assumono in un altro istante t′. È facile vedere che la S si può portare dalla posizione occupata nell'istante t a quella assunta nell'istante t′ (a prescindere dall'andamento effettivo del moto negl'istanti intermedî) con una conveniente rotazione o, in caso particolare, con una conveniente traslazione. Basta far vedere che si può in tal modo portare il segmento rigido P1P2 a coincidere con P1′P2′. A ciò si perviene (fig. 14) con una traslazione se, per caso, i due segmenti sono equipollenti; se invece, come seconda eventualità particolare, P2′ coincide con P1 e P2′ con P2, si ottiene lo stesso risultato con la rotazione di 180° intorno al punto medio comune di P P2 e PP-P2′. Infine, esclusi questi due casi eccezionali, P1P2 si porta in P1P2 con la rotazione che ha per centro il punto d'incontro C delle perpendicolari a P1P2′, P2P2′ nei loro punti medî, e ha per ampiezza l'angolo P1CP1′.
Ciò premesso, se, tenuto fisso l'istante t, si fa tendere t′ a t, talché il sistema riprenda mano mano le posizioni per cui era passato nell'intervallo di tempo (t, t′), il centro C or ora detto tende al centro istantaneo di rotazione, relativo all'istante t.
Una dimostrazione analoga si può dare dell'esistenza dell'asse di moto in un moto rigido spaziale (n. 26). La posizione d'un sistema rigido nello spazio risulta individuata da quella di tre suoi punti non allineati, e si riconosce elementarmente che, dati nello spazio due triangoli uguali P1P2P3, P1′P2′P3′, si può portare il primo a coincidere col secondo con un ben determinato moto elicoidale, che può in particolare ridursi ad una rotazione o a una traslazione (v. p. es. Schell, Theorie der Bewegung und der Kräfte, Lipsia 1870, pp. 75-77).
Valgono per il centro istantaneo di rotazione le seguenti proprietà (che del resto appaiono intuitivamente evidenti): nel moto di una figura rigida nel piano, ad ogni istante le normali nei singoli punti P della figura alle rispettive traiettorie, passano per il centro istantaneo di rotazione I, oppure (se l'atto di moto è in quell'istante traslatorio) sono parallele; e nel primo caso le velocità dei singoli punti P sono ortogonali alle congiungenti PI con il centro istantaneo e, in valore assoluto, risultano proporzionali alle rispettive distanze da I.
Se un moto rigido piano non è costantemente traslatorio, non può diventar tale se non in qualche istante isolato; in ogni altro istante esso ammette un ben determinato centro istantaneo; e questo centro, al trascorrere del tempo, varia con continuità descrivendo sul piano una certa curva λ. Ma varia simultaneamente sulla figura rigida in moto il punto che viene man mano a trovarsi nel centro istantaneo, e il luogo di questi punti è una certa curva λ, solidale con la figura mobile. Le due curve λ, l, sono dette traiettorie polari o centrodi (da κέντον "centro" ὁδός "via") e più precisamente la prima si chiama óase, la seconda rulletta.
La base e la rulletta hanno, a ogni istante, comune il corrispondente centro istantaneo di rotazione; e si dimostra che in esso si toccano, talché un qualsivoglia moto rigido piano (in ogni fase in cui non sia mai traslatorio) si può realizzare facendo rotolare, senza strisciamento, la rulletta sulla base, concepite entrambe come curve rigide. Questo modo di realizzare i moti rigidi ha importanza fondamentale nelle applicazioni; e soprattutto interessano (ad es., nella teoria degl'ingranaggi) i moti generabili per rotolamento di un cerchio su di un altro, i quali si dicono epicicloidali, in quanto in essi ogni punto ha come traiettoria una epicicloide (v. cicloide).
Dallo stesso punto di vista applicativo è notevole la seguente generalizzazione delle traiettorie polari. Sia c una qualsiasi curva solidale con la figura rigida (e giacente nello stesso piano); questa, movendosi, trascina con sé la c e le fa assumere sul piano un insieme continuo di posizioni diverse, le quali ammettono in generale un inviluppo γ (v.) (che in casi speciali, pur interessanti nella pratica, può ridursi a un punto). Ogni qualvolta questo inviluppo γ effettivamente esiste, le due curve c e γ si chiamano profili coniugati. Durante il moto la c rotola sulla γ, ma, a differenza di quanto accade nel caso delle traiettorie polari, questo rotolamento è accompagnato istante per istante da uno strisciamento tangenziale.
Dalla definizione stessa di profili coniugati si possono dedurre regole pratiche per descrivere per punti uno dei due profili, quando sia dato l'altro e si conoscano le due traiettorie polari. Ma non ci indugeremo su ciò; piuttosto accenneremo, pur senza giustificarlo, al cosiddetto metodo epicicloidaie per il tracciamento di profili coniugati (che deve codesta sua qualifica al fatto che esso è più specialmente usato quando le due traiettorie polari sono cerchi): si fissi ad arbitrio nel piano una curva R, che per una data posizione delle due traiettorie polari sia tangente ad entrambe nel loro punto di contatto (centro istantaneo di rotazione), e, a partire da codesta posizione, si faccia rotolare k, come curva rigida e senza strisciamento, una prima volta sulla base e una seconda sulla rulletta. Un qualsiasi punto solidale con la curva k descrive, in codesti due moti, due archi di curva, che costituiscono due profili coniugati (v. Levi-Civita-Amaldi, loco cit., pp. 247-249)
Moti relativi.
29. Principio dei moti relativi e teorema del Coriolis. - Sin qui si è studiato il moto d'un punto o di un sistema rispetto a un ben determinato riferimento, realizzato da una certa terna Ωξηζ che caso per caso si è supposta scelta ad arbitrio. Se lo stesso moto si riferisce a un'altra terna, che sia in quiete rispetto alla Ωξηζ, i caratteri cinematici del moto considerato (velocità, accelerazione) restano, per la loro stessa definizione, intrinsecamente invariati, e i noti metodi della geometria analitica (v. coordinate) permettono di dedurre le componenti rispetto alla nuova terna da quelle, supposte conosciute, aspetto alla primitiva. Ma non è più così se la nuova terna si muove rispetto alla Ωξηζ: in forma più concreta, un medesimo moto presenta aspetti intrinsecamente diversi a due osservatori, i quali siano in moto l'uno rispetto all'altro. Per es., il moto d'un velivolo appare diverso a chi sta fermo e a chi, invece, lo guardi da un'automobile in corsa. Sorge così il seguente problema cinematico: un punto P si muove rispetto a una terna Ωξηζ (primo osservatore), e una seconda terna Oxyz (secondo osservatore) si muove alla sua volta rispetto a Ωξηζ (senza mantenersi solidale con P); allora P si muove anche rispetto ad Oxyz, e si tratta di indagare le relazioni, che istante per istante intercedono fra i caratteri cinematici dei due moti simultanei di P rispetto alle due terne.
Queste due terne entrano nel problema simmetricamente, ma per comodità di linguaggio diremo fissa la Ωξηζ, mobile la Oxyz; e, nello stesso senso puramente convenzionale, chiameremo assoluto il moto di P rispetto alla terna fissa, relativo quello rispetto alla terna mobile. Infine diremo moto di trascinamento il moto rigido della terna Oxyz (e di tutti i punti solidali con essa) rispetto alla Ωξηζ. È manifesto a priori che quando due di questi tre moti siano conosciuti, il terzo risulta completamente determinato.
Supponiamo dunque definito anzitutto il moto rigido (di trascinamento) di Oxyz rispetto ad Ωξηζ, come al n. 24; cioè siano assegnati in funzione del tempo il posto di O (vale a dire le rispettive coordinate α, β, γ rispetto ad Ωξηζ) e i versori i, j, k degli assi x, y, z (vale a dire le rispettive componenti, designate nella tabella (21) del n. 24). In secondo luogo supponiamo dato il moto relativo di P (cioè rispetto a Oxyz) per mezzo delle corrispondenti equazioni
La posizione di P risulta allora determinata, istante per istante, come al n. 24, dall'equazione geometrica
con la differenza essenziale che qui le x, y, z non sono più costanti bensì variabili nel tempo a norma delle (26). Proiettando la (27) sugli assi fissi, si ottengono le equazioni del moto assoluto di P, le quali si presentano sotto la stessa forma delle (22′) del n. 24, salvo la circostanza or ora accennata che le x, y, z sono funzioni del tempo, date dalle (26).
Dalla (27) si deduce agevolmente che a ogni istante la velocità assoluta vα di P (cioè la sua velocità rispetto alla terna fissa) è la risultante della sua velocità relativa vr (cioè rispetto alla terna mobile) e della simultanea velocità di trascinamento vτ (cioè della velocità rispetto a Ωξεζ di quel punto solidale con Oxyz, per cui P in quell'istante si trova a passare):
Questo risultato risponde a una veduta direttamente intuitiva, perché se, ad esempio, un viaggiatore passeggia nel corridoio d'un treno, appare naturale di valutare la velocità del viaggiatore rispetto alla circostante campagna come la risultante della sua velocità (relativa) rispetto al treno e della simultanea velocità (di trascinamento) del treno. Per questo suo carattere intuitivo il precedente teorema fu un tempo assunto come postulato, onde ancora oggi conserva il nome di principio dei moti relativi o del parallelogramma delle velocità.
Per dimostrarlo si osservi che, derivando rispetto a t la (27) si ottiene
Ora il vettore ú i + ÿ k + ż k (che ha rispetto ad Oxyz le componenti ú, ÿ , ż), è appunto la velocità relativa vr di P, mentre il residuo quadrinomio è ciò cui, nell'istante considerato, si ridurrebbe la velocità d P/dt di P, se in quell'istante, improvvisamente, esso si arrestasse nel suo moto (relativo) rispetto ad Oxyz e si lasciasse semplicemente trascinare da questa terna: giacché in tal caso risulterebbe ú = ÿ = ż = 0. Si tratta dunque veramente della velocità di trascinamento.
Meno semplice è l'espressione dell'accelerazione assoluta αα, la quale è la risultante rion soltanto dell'accelerazione relativa αr e della accelerazione di trascinamento ατ, bensì anche d'una terza accelerazione, che dipende insieme dal moto relativo e da quello di trascinamento. Si ha precisamente il seguente teorema del Coriolis
dove la αc dicesi accelerazione complementare o centrifuga composta ed è data, qualora si denoti con ω la velocità angolare del moto (rigido) di trascinamento, da
Per stabilire le (29), (30) basta calcolare l'accelerazione assoluta αα = d2P/dt2, derivando rispetto a t la (28): si ottiene
Il vettore ï i + ÿ j + ì k, di componenti x, ÿ, ì, rispetto ad Oxyz, è l'accelerazione relativa αr, mentre il quadrinomio d2O/dt2 + x d2 i/dt2 + y d2 j/dt2 + z d2 k/dt2 (essendo ciò cui sì ridurrebbe d2P/dt2 qualora nell'istante considerato P si arrestasse nel suo moto relativo conse vando, rispetto ad Oxyz, le coordinate x,y, z da esso assunte in quell'istante) fornisce l'accelerazione di trascinamento. Resta all'infuori del fattore 2 il trinomio ú di/dt + ÿ dj/dt + ż dk/dt, cui si dà appunto il nome di accelerazione complementare o centrifuga composta e che, in base alle formule (24) del Poisson (n. 25), si può scrivere
In quanto ω dà la direzione dell'asse del moto di trascinamento, risulta dalla (30) che l'accelerazione complementare è sempre ortogonale all'asse del moto di trascinamento e alla velocità relativa, e si annulla: 1. quando vr = 0 (istanti di arresto nel moto relativo); 2. quando ω = 0 (atti di moto di trascinamento puramente traslatorî); 3. quando la velocità relativa risulta parallela all'asse del moto di trascinamento.
30. Moti relativi dei sistemi. - Le nozioni di moto assoluto relativo e di trascinamento, si estendono in modo ovvio dal caso di un solo punto, dianzi considerato, a quello d'un sistema qualsiasi. Per determinare istante per istante la distribuzione delle velocità e delle accelerazioni assolute nei varî punti del sistema, basta applicare a ogni punto di esso il principio dei moti relativi e il teorema del Coriolis. Notevole, anche dal punto di vista applicativo, è il caso d'un sistema rigido S, in cui, ad individuare i varî punti del sistema, bisognerà introdurre, accanto alle terne fissa e mobile Ωξηρ e Oxyz, una terza terna O′x′y′z′ solidale con S; e basterà conoscere, oltre i vettori caratteristici del moto (di trascinamento) di Oxyz rispetto ad Ωξηζ, quelli del moto (relativo) di O′x′y′z′ rispetto ad Oxyz, perché il moto (assoluto) di S risulti completamente determinato.
Nello studio dei moti di meccanismi complessi (costituiti da organi rigidi variamente collegati fra loro) si è talvolta condotti a considerare catene d'un qualsiasi numero di terne Ωξηζ, Oxyz O′x′y′z′,..., ciascuna delle quali, a partire dalla seconda, sia animata da un certo ben determinato moto rigido rispetto alla precedente. Si arriva così al concetto di moto relativo di 1°, 2°, 3°... ordine.
13. Precessioni regolari. - È questo un tipo di moti d'un sistema rigido intorno a un suo punto fisso, che si definisce nel modo più espressivo in base alla teoria dei moti relativi. S'immagini che un sistema rigido S ruoti uniformemente (moto relativo) intorno a un asse f, solidale con esso e che questo asse, alla sua volta, ruoti uniformemente intorno a un asse fisso p, mantenendosi incidente e solidale ad esso (moto di trascinamento). Si dice precessione regolare il moto assoluto di S così definito. L'asse p, fisso nello spazio, si dice asse di precessione, l'asse f, fisso nel corpo, asse di figura e il punto O, comune a codesti due assi, polo della precessione.
La precessione risulta individuata quando sono date le velocità angolari ω1 di S intorno a f ed ω2 di f intorno a p, la prima costante (di valore e direzione) entro il corpo, la seconda analogamente costante nello spazio (fig. 15). Per il principio dei moti relativi, la velocità angolare della precessione è data, istante per istante, da ω = ω1 + ω2, cioè si presenta a ogni istante come somma di due velocità di lunghezza costante, l'una solidale con il sistema rigido, l'altra nello spazio; e si riconosce agevolmente che questa proprietà della velocità angolare caratterizza, fra i moti rigidi con un punto fisso, le precessioni regolari.
Durante la precessione regolare, il parallelogramma di ω1, ω2 supposte applicate in O, pur rotando uniformemente intorno a p, conserva inalterata (per il collegamento rigido di f a p e per la costanza di ω1, ω2) la sua configurazione, cosicché la linea di azione di ω = ω1 + ω2, la quale fornisce, istante per istante, l'asse di moto, si mantiene inclinata di un angolo costante tanto sulla p, quanto sulla f: cioè, in una precessione regolare, i due coni del Poinsot (n. 27) sono entrambi rotondi. Si ha così un modo espressivo di realizzare una precessione regolare (rotolamento, senza strisciamento, di due coni rotondi di ugual vertice, l'uno sull'altro). Sono evidentemente possibili tre casi (oltre a quelli di degenerazione d'uno dei due coni in un piano): o i due coni sono l'uno esterno all'altro, o il cono mobile è interno al cono fisso, o il cono fisso è interno al cono mobile (fig. 16). Le precessioni, escluse quelle per cui ω1, ω2 sono fra loro perpendicolari, si distinguono in progressive e retrograde, secondo che l'angolo delle due direzioni orientate di ω1, ω2 è acuto od ottuso. L'esempio più interessante di precessione regolare è fornito dal moto della Terra intorno al suo centro (v. equinozio: Precessione degli equinozî), e anzi storicamente risale a questo moto il nome di precessione.
32. Dipendenza della denvata vettoriale dal riferimento. - Prima di lasciare i moti relativi, giova, in via di digressione, accennare a un'osservazione, che, nelle considerazioni cinematiche e più in generale meccaniche, importa tenere ben presente ad evitare equivoci e deduzioni errate. Consideriamo una grandezza vettoriale qualsiasi Q, che, riferita ad una certa terna Ωξηζ, sia funzione del tempo t (o di qualsiasi altro parametro). Resta allora ben definita la derivata vettoriale d Q/dt di Q rispetto a t (come avente per componenti rispetto a codesta terna le derivate rapporto a t delle analoghe componenti di Q). Ma se la stessa grandezza si riferisce ad un'altra terna Oxyz, la quale sia in moto rispetto a Ωξηζ è manifesto che la derivata rapporto a t di Q non è più la stessa: basta riflettere che sulla determinazione della derivata influisce la legge secondo cui varia nel tempo la direzione di Q, e questa legge è diversa secondo che Q si riferisce alla prima o alla seconda terna. Ora si dimostra precisamente che se si denotano con da Q/dt, drQ/dt le derivate (assoluta e relativa) di Q secondo che è riferito alla terna Ωξηζ o alla terna Oxyz e con ω la velocità angolare del moto (rigido) della seconda terna rispetto alla prima, si ha (v. Levi-Civita-Amaldi, loc. cit., pp. 211-212)
Cinematica dei sistemi a un numero finito di gradi di libertà.
32. Vincoli olonomi. - Accanto alle figure rigide, che dal punto di vista cinematico costituiscono il più semplice tipo di sistemi di punti vincolati, l'esperienza quotidiana offre esempî innumerevoli di sistemi (deformabili), che in condizioni di moto subiscono flessioni, torsioni, dilatazioni, ecc. Si verifica talvolta che il moto di alcuni punti del sistema determina quello di tutti i rimanenti (come già avviene per i sistemi rigidi); e più spesso accade, quanto meno, che il moto di alcuni dei punti del sistema limiti la libertà di movimento degli altri. Si è così condotti a studiare, in generale, la mobilità di quei sistemi, per i quali, durante ogni loro possibile moto, sussistono istante per istante certe determinate relazioni fra i caratteri cinematici dei varî loro punti (posizioni, velocità, accelerazioni,...); e sono particolarmente notevoli quelli, per i quali codeste relazioni vincolano esclusivamente le posizioni simultanee dei diversi punti (legami o vincoli posizionali).
Così, per riferirci ai casi più semplici possibili, un punto P può essere vincolato a muoversi su una data superficie o su una data curva, il che, ove siano x, y, z le coordinate di P rispetto a una prefissata terna, si traduce nella condizione che, durante ogni possibile moto di P, codeste coordinate debbano costantemente soddisfare ad una o, rispettivamente, due equazioni
E può anche darsi che codesta superficie o codesta curva, da cui P è per così dire ritenuto, anziché mantenersi rigida, si deformi nel tempo con legge ben determinata; in altre parole le equazioni (31) possono implicare, accanto alle coordinate di P, anche il tempo t.
Più in generale, consideriamo un sistema S di un numero qualsivoglia N di punti Pi (i = 1, 2, ..., N), i quali, anziché liberamente mobili gli uni rispetto agli altri, siano vincolati a soddisfare istante per istante con le loro coordinate xi, yi, zi; ad un certo numero l (≤ 3N) di equazioni del tipo
nelle quali il tempo t, che qui si è messo in evidenza, può anche eventualmente mancare; e supponiamo che queste equazioni (32) siano, rispetto alle xi, yi, zi, fra loro indipendenti (cioè tali che nessuna di esse sia conseguenza delle altre).
Come si sa dal calcolo, occorre e basta che la matrice jacobiana
sia, per valori generici delle xi, yi, zi, soddisfacenti alle (32), di caratteristica l (v. determinanti).
Ciascuna delle equazioni (32) si dice un legame o vincolo del sistema, e i vincoli di questo tipo (implicanti esclusivamente, oltre al tempo, le coordinate del punto del sistema) si dicono, secondo Hertz, olonomi (da ὅλος, intero, e νόμος, legge; da interpretarsi "di legge in termini finiti"). Lo stesso sistema, così vincolato, si chiama olonomo e, se il tempo t non compare in nessuna delle (32), si dice a vincoli indipendenti dal tempo (o, secondo il Boltzmann, scleronomi).
A un dato istante, cioè per un dato valore di t, le soluzioni delle (32) definiscono tutte e sole le configurazioni possibili del sistema nell'istante considerato, cioè i gruppi di N punti dello spazio, in cui possono localizzarsi in quell'istante i punti Pi; del dato sistema. È manifesto che se i vincoli dipendono dal tempo, le configurazioni possibili in un dato istante t non sono quelle stesse possibili in un istante diverso t′. Poiché le xi, yi, zi, sono in numero di 3N e risultano vincolate dalle l equazioni (32), le configurazioni possibili a ogni istante sono ∞3N-l. Il numero intero n = 3N − l si chiama il grado di libertà del sistema e più spesso si suol dire che questo sistema ha n gradi di libertà.
34. Coordinate lagrangiane. - Le l equazioni (32) dei vincoli (supposte indipendenti) d'un sistema olonomo ad n = 3N − l gradi di libertà, si possono risolvere rispetto ad l delle 3N coordinate xi, yi, zi, in termini delle rimanenti 3N − l (ed eventualmente del tempo). Più in generale, il sistema (32) si può risolvere parametricamente, il che vuol dire che si possono esprimere tutte le 3N coordinate cartesiane xi, yi, zi, in funzione di n parametri q1, q2, ..., qn, (ed eventualmente di t); e le 3N equazioni (cartesiane) così ottenute
si possono sintetizzare nelle N equazioni geometriche
Così, ad es., per un punto ritenuto da una superficie o da una curva si possono assumere come parametri nel primo caso due coordinate q1, q2 curvilinee comunque definite sulla superficie, nel secondo l'ascissa curvilinea sulla curva considerata.
In ogni caso nella scelta di codesti parametri qh vi è una grande arbitrarietà; quando essi siano fissati in un dato modo, si possono sempre introdurre, in luogo di questi qh, altri n parametri qk′ legati ai primitivi da n equazioni qk′ = qk′ (q1,..., qn) quali si vogliano, purché indipendenti, cioè tali che il determinante funzionale ∂ (q1′,..., qn′)/∂ (q1,..., qn) non sia, per valori generici dei qh, identicamente nullo (v. determinanti).
I parametri arbitrarî (e indipendenti) q1,..., qh si chiamano per il sistema coordinate generali o lagrangiane, dal nome del Lagrange, che, grazie ad esse, riuscì a dare una celebre forma intrinseca alle equazioni differenziali della meccanica (v. dinamica).
35. Esempî di aistemi olonomi. - Dalla forma (33) sotto cui si può sempre rappresentare un sistema olonomo, risulta che il suo grado di libertà n è il numero dei parametri essenziali (cioè non legati vicendevolmente), da cui dipendono le sue configurazioni in un generico istante. In pratica, quando si fissa l'attenzione su di un sistema di data struttura materiale, si riconosce direttamente se esso sia olonomo, esaminando se le sue configurazioni in un istante generico siano individuabili mediante un numero finito di parametri indipendenti; e, in caso affermativo, codesto numero fornisce senz'altro il grado di libertà del sistema. Per es., un solido nello spazio ha 6 gradi di libertà, perché bastano 3 coordinate (p. es. cartesiane) per fissare la posizione di un suo punto O, 2 coordinate (indipendenti) di direzione per fissare la posizione di un asse per O solidale col corpo, e un ultimo parametro angolare per determinare l'orientazione del solido attorno a questo asse. Se il solido è fissato in un suo punto O, intorno al quale resti liberamente girevole, i gradi si riducono a 3; si riducono ad 1 solo, se del solido si fissa una retta.
Similmente, nel piano una figura piana rigida ha 3 gradi di libertà (2 parametri per individuarne la posizione di un punto e un altro per fissare la sua orientazione intorno ad esso); un sistema di due aste rigide collegate a cerniera ne ha 4 (2 parametri per determinare la posizione della cerniera e 2 per fissare le orientazioni delle due aste) e cosl via. È facile riconoscere, in modo analogo, che una bicicletta a ruota libera, condotta a mano sul piano stradale (ove si escluda il caso di strisciamento delle ruote) è un sistema olonomo a 10 gradi di libertà.
36. Velocità dei punti dî un sistema olonomo. - Un sistema olonomo (33), durante un suo moto qualsiasi, passa man mano per configurazioni relative ai-successivi istanti, onde il moto risulta definito quando le sue coordinate lagrangiane siano assegnatc in funzione del tempo; le equazioni
cui così si dà luogo, si dicono le equazioni orarie del moto in coordinate lagrangiane. Per le velocità vi dei singoli punti P, si hanno, derivando (totalmente) rapporto al tempo le (33), in cui le qh sono funzioni di t per il tramite delle (34), le espressioni
dove naturalmente manca al secondo membro l'ultimo termine se il sistema è a vincoli indipendenti dal tempo. Le óh si chiamano velocità del sistema rispetto alle singole coordinate lagrangiane.
È notevole il caso speciale dei sistemi olonomi a un solo grado di libertà e a vincoli indipendenti dal tempo, per i quali le configurazioni dipendono da un unico parametro lagrangiano q (e non da t): Pi = Pi(q). Tali sono le cosiddette macchine semplici e le bilance. Per siffatti sistemi che si dicono avincoli completi (e in cinematica applicata talvolta desmodromici) sono determinate a priori le traiettorie dei singoli punti del sistema; e basta un'unica equazione oraria q = q(t) per definire la legge temporale, secondo cui codeste traiettorie sono percorse dai rispettivi punti.
37. Vincoli anolonomi di mobilità. - Esempî di sistemi non olonomi o, come si suol dire, anolonomi, ci sono offerti anche dall'esperienza quotidiana. Basta pensare a un filo completamente flessibile (cioè atto a disporsi secondo una curva arbitraria): le posizioni degl'infiniti suoi punti non si possono localizzare con un numero finito di parametri. E altrettanto si dica d'ogni corpo elastico o liquido o gassoso.
Ma anche per i sistemi dotati di un numero finito di gradi di libertà sono possibili vincoli anolonomi. Per indicare un tipo notevole di vincoli siffatti, riprendiamo un sistema di N punti Pi soggetti agli l vincoli olonomi (32). Differenziando queste equazioni (32) otteniamo le
le quali caratterizzano le componenti dxi, dyi dzi degli spostamenti elementari (o infinitesimi), che, a partire da una generica configurazione relativa a un istante t, i vincoli consentono al sistema nel successivo tempuscolo dt (spostamenti possibili pel sistema a partire dalla configurazione considerata). E, poiché le (35), divise per il dt, assumono l'aspetto
si può anche dire che le equazioni stesse caratterizzano le velocità consentite dai vincoli (32) al sistema, a partire dalla configurazione considerata. Insomma ogni vincolo olonomo non soltanto limita le configurazioni possibili per il sistema, ma ne vincola altresì la mobilità.
Ora vi sono dei casi in cui a un sistema come S si è condotti a imporre un analogo vincolo di mobilità, cioè espresso da un'equazione (pfaffiana o ai differenziali totali)
dove le ai, ai′, ai″, b sono funzioni date delle coordinate (ed eventualmente del tempo), senza che peraltro codesta equazione derivi da un vincolo olonomo, cioè sia equivalente a un'equazione della forma df = 0, dove f denota una determinata funzione delle xi, yi, zi, ed eventualmente di t (il che in analisi si esprime dicendo che la (36) non è integrabile). In queste ipotesi il vincolo (36), che non impone alcuna restrizione posizionale al sistema, ma soltanto ne limita la mobilità, va detto anolonomo (omogeneo o no secondo che b è nullo o diverso da zero). E si può anche pensare d'imporre al sistema mobile un qualsiasi numero l di equazioni del tipo (36); nel qual caso il vincolo così definito è anolonomo, se il sistema delle l equazioni (36) non è equivalente a un sistema della forma df1 = 0, df2 = 0,..., dfl = 0, dove le f denotano altrettante funzioni delle xi, yi, zi; ed eventualmente di t (cioè se il sistema delle equazioni (36) non è illimitatamente integrabile). In particolare il vincolo si dice anolonomo propriamente, se non esiste nessuna equazione del tipo df = 0, che sia conseguenza delle (36) (cioè, se le (36) non ammettono nessuna combinazione integrabile).
Per es., si consideri una sfera vincolata a muoversi su di un dato piano: essa è dotata di 5 gradi di fibertà (2 parametri per fissare la posizione del punto di contatto C sul piano, 2 per fissare la posizione di C sulla sfera, e infine 1 parametro per determinare l'orientazione della sfera intorno al diametro che va al punto di contatto C). Orbene, se si vuole che la sfera rotoli sul piano senza strisciare (il che equivale a dire che, istante per istante, deve esser nulla la velocità di C tanto sul piano quanto sulla sfera), questa condizione costituisce un vincolo propriamente anolonomo (in quanto si traduce in due equazioni di tipo (36) nei 5 parametri lagrangiani, le quali non ammettono nessuna combinazione integrabile).
38. Vincoli unilaterali. - Per avere esempio d'un altro notevole tipo di vincoli anolonomi, si pensi un punto P obbligato a non uscire da una data cavità, ad es. sferica, oppure una coppia di punti P1, P2, collegati da un filo flessibile ma inestendibile, di data lunghezza l. Nel primo caso, se si assume l'origine degli assi nel centro della sfera e si denota con r il raggio di questa, le coordinate x, y, z del punto P risultano vincolate dalla
nel secondo caso, dette x1, y1, z1, e x2, y2, z2 le coordinate dei due punti, il vincolo si traduce nella limitazione
Abbiamo cosl due esempî di vincoli (anolonomi) unilaterali; e in generale un sistema a un numero finito di gradi di libertà si dice soggetto a vincoli (posizionali) unilaterali, se le rispettive coordinate (cartesiane o lagrangiane) devono soddisfare a λ relazioni del tipo
dove le ϕx sono altrettante funzioni delle coordinate del sistema ed eventualmente del tempo. Per contrapposto si dicono bilaterali i vincoli olonomi considerati al n. 33
Fra le configurazioni, di cui è suscettibile un sistema soggetto a vincoli unilaterali, si dicono ordinarie quelle, in cui le corrispondenti relazioni (37) sono soddisfatte tutte come vere diseguaglianze; di confine quelle, in cui una almeno delle (37) è soddisfatta come uguaglianza: così nei due esempî considerati da principio sono configurazioni di confine quelle, in cui il punto P è a contatto della parete della cavità, o, rispettivamente, il filo congiungente i due punti è teso.
Un sistema, soggetto ai vincoli unilaterali (37), il quale in un dato istante t abbia una configurazione ordinaria, cioè tale che tutte le ϕx vi risultino negative, può liberamente passare a ogni configurazione infinitamente vicina, relativa all'istante t + dt, perché nel passaggio dalla prima alla seconda configurazione i primi membri delle (37) variano soltanto di quantità infinitesime e quindi restano ancora tutti negativi (in quanto nella somma di una quantità finita e diversa da zero e di una quantità infinitesima, prevale sempre il segno della prima). Ma se la configurazione di partenza è di confine, per es. tale che sia ϕ1 = 0, il sistema, per effetto dei vincoli, non può passare nell'istante t + d t se non in quelle configurazioni, relative a questo istante, in cui risulti dϕ1 ≤ 0. Si ha dunque che i vincoli unilaterali limitano la mobilità del sistema soltanto a partire da configurazioni di confine.
Ciò è manifesto nei due casi considerati da principio: finché il punto P resta nell'interno della cavità, può subire spostamenti infinitesimi in tutte le possibili direzioni, mentre quando è a contatto della parete, gli sono vietati gli spostamenti che lo porterebbero a uscire dalla cavità; così i due punti P1, P2, finché il filo resta lento, possono subire, ciascuno indipendentemente dall'altro, uno spostamento infinitesimo arbitrario mentre quando il filo è teso, sono impediti ai due punti quegli spostamenti infinitesimi che tenderebbero ad allontanarli l'uno dall'altro.
39. Spostamenti virtuali. - Consideriamo un sistema olonomo in una delle configurazioni consentitegli dai vincoli in un generico istante t. A partire da codesta configurazione, sono possibili per il sistema tutti e soli gli spostamenti elementari, che lo fanno passare ad una delle configurazioni relative all'istante infinitamente vicino t + dt. Ora il Lagrange, nella formulazione del suo principio delle velocità virtuali (o, come oggi si preferisce, dei lavori virtuali), di cui si vedranno in statica e in dinamica l'alto interesse concettuale e la mirabile potenza deduttiva, introdusse, accanto agli spostamenti elementari possibili di un sistema olonomo, la considerazione di quegli spostamenti ipotetici, che sono atti a far passare un sistema da una qualsiasi sua configurazione a un'altra infinitamente vicina, ma relativa al medesimo istante. Ogni spostamento siffatto si dice spostamento virtuale del sistema.
Se i vincoli non dipendono dal tempo, come accade per i sistemi rigidi, le configurazioni del sistema sono, nel loro insieme, le stesse in tutti i successivi istanti, cosicché ogni spostamento virtuale è anche possibile, e viceversa. Ma se i vincoli dipendono dal tempo, le configurazioni consentite al sistema variano in generale cosicché uno spostamento virtuale (in quanto fa passare il sistema dall'una all'altra di due configurazioni relative a un medesimo istante) può benissimo non essere effettivamente possibile.
Si pensi, ad es., un punto P, vincolato a muoversi su di una sfera che nel tempo si dilati: in ogni spostamento virtuale P si mantiene a distanza costante dal centro della sfera, mentre in ogni spostamento possibile se ne allontana, seguendo la sfera nella sua graduale dilatazione.
Per distinguere gli spostamenti virtuali da quelli possibili, i primi si denotano con il simbolo δ, anziché d che si riserva ai secondi. Così uno spostamento virtuale di un generico punto Pi del sistema e le sue componenti cartesiane si designano con δP, e δxi δyi, δizi.
Se i vincoli del sistema sono definiti, come al n. 33, dalle
la condizione necessaria e sufficiente affinché uno spostamento di componenti δx1, δy1, δz1,..., δxN, δyN, δzN, sia virtuale, a partire da una configurazione x1, y1, z1,..., xN, yN, zN, relativa a un dato istante t, si è che anche i valori xi + δxi, yi + δyi zi + δzi. definiscano una configurazione relativa a quel medesimo istante. In altre parole occorre e basta che, insieme con le (32), risultino soddisfatte anche le
le quali, ove si sviluppino i primi membri con la formula del Taylor e, tenendo conto delle (32), si trascurino i termini di ordine superiore al primo, dànno le
Sono queste le equazioni che caratterizzano le componenti del generico spostamento virtuale. Esse sono sempre omogenee, anche quando i vincoli dipendano dal tempo (nel qual caso gli spostamenti possibili, a partire dalla medesima configurazione, sono invece definiti dalle (35) del n. 37).
Se poi il sistema è riferito a coordinate lagrangiane e, come al n. 34, è dato dalle
si riconosce in modo analogo che il più generale spostamento virtuale è definito dalle
le quali sono lineari omogenee negl'incrementi infinitesimi (arbitrarî e indipendenti) δqh delle coordinate lagrangiane (anche se i vincoli dipendono dal tempo).
Dalla omogeneità delle (38) o, indifferentemente, delle (39) discende che: 1. un sistema olonomo, a ogni istante e a partire da ogni sua configurazione, ammette, insieme a un suo spostamento virtuale "SP anche lo spostamento virtuale opposto − δPi o come si suol dire, gli spostamenti virtuali dei sistemi olonomi sono tutti reversibili; 2. componendo, a partire da una medesima configurazione, due o più spostamenti virtuali, si ottiene sempre uno spostamento virtuale.
Nel caso dei sistemi rigidi, poiché i vincoli di rigidità non dipendono dal tempo, gli spostamenti virtuali s'identificano con quelli possibili. Basta perciò ricordare che, introdotti i due vettori caratteristici v0 ed ω di un generico moto rigido, rispetto a un punto O, solidale col corpo, le velocità dei singoli punti P di questo sono date (n. 25) da v = v0 + ω ≿ (P − O) e che dP = v dt, dO = v0 dt, per riconoscere che, ove si denoti con δε un'arbitraria quantità infinitesima (da sostituire alla variazione temporale dt), vale per il generico spostamento virtuale l'espressione
nella quale δΟ e δε ω denotano, in ultima analisi, due vettori infinitesimi arbitrarî.
In particolare, se il solido, anziché libero, è girevole intorno a un suo punto O, tenuto fisso, e si assume questo punto come centro di riduzione, si è condotti a porre δO = 0 e si ottiene
Anche agli spostamenti virtuali, come a quelli possibili (n. prec.), i vincoli unilaterali impongono limitazioni soltanto a partire da configurazioni di confine, cosicché, per un sistema soggetto a vincoli di codesto tipo, gli spostamenti virtuali, a partire da una configurazione ordinaria, sono tutti reversibili, mentre, a partire da una configurazione di confine, sono in generale irreversibili.
Cinematica dei sistemi continui.
40. Equazioni del moto. - Consideriamo un qualsiasi corpo, che possa anche essere solido, ma che qui è meglio immaginare pastoso o elastico o fluido (cioè liquido o gassoso), e, in accordo con l'abituale schematizzazione cinematica, pensiamolo come un sistema S di punti, distribuiti con continuità in una certa regione spaziale. Ci proponiamo di dare un breve cenno del modo, in cui si può impostare lo studio dei moti di un tale sistema continuo.
Per la chiarezza della esposizione, giova distinguere, anche verbalmente, i punti (mobili) che costituiscono il sistema S dai punti (fissi) dello spazio, per i quali i primi, durante il moto, si trovano a passare. Precisamente, diremo (pur senza volere con ciò alludere ad alcuna ipotesi strutturale) molecole i punti di S, posti i punti dello spazio, pensati come solidali con la terna di riferimento del moto, che qui designeremo con Oxyz.
Naturalmente un generico moto di S risulta definito, quando si conosca, istante per istante, il posto occupato da ciascuna sua molecola; ma perché ciò abbia un senso occorre anzitutto assegnare un modo per individuare, entro il sistema S, le singole molecole. A tale scopo si fissi una volta per tutte un istante iniziale t0 e si assumano, come parametri determinativi d'ogni molecola M, le coordinate x0, y0, z0 del posto P0, da essa occupato in codesto istante iniziale. Dopo di ciò il posto P, occupato dalla generica molecola M in un generico istante t della durata (to, ti) del moto, dipenderà, oltre che da t, dai parametri determinativi di M; cioè le equazioni del moto, ove x, y, z denotino le coordinate di P, saranno del tipo
ossia, sotto forma geometrica,
Noi qui escluderemo senz'altro che durante il moto possano determinarsi, entro il sistema S, spazî vuoti (soluzioni di continuità) o compenetrazioni di materia. Ora la prima di queste due ipotesi si traduce nella condizione che le funzioni a secondo membro delle (40) siano, rispetto ai loro quattro argomenti, continue; e anzi noi supporremo, di più, che esse ammettano continue anche le derivate fino al 2° ordine almeno. Quanto alla seconda ipotesi, essa richiede che durante il moto, per un medesimo posto non possano mai passare simultaneamente due molecole (inizialmente) diverse: in altre parole le (40), in ogni istante t di (t0, t1), debbono essere univocamente risolubili rispetto ad x0, y0, z0, per il che basta che, durante il moto, si mantenga diverso da zero il jacobiano J = ∂ (x, y, z)/∂ (x0, y0, z0). E poiché esso (in quanto per t = t0 si ha x = x0, y = y0, z = z0) assume inizialmente il valore 1 (ed è continuo), si può, in tal caso, supporre, almeno per un certo tempo, J > 0.
Sotto quest'ipotesi, si avranno, accanto alle (40), (40′), le formule inverse, sostanzialmente equivalenti,
ossia
41. Linee di corrente. - Si designano con tal nome, alludendo al caso dei fluidi, le traiettorie delle singole molecole, definite parametricamente dalle (40), in cui, beninteso, vengano attribuite caso per caso a x0, y0, z0 i valori dei parametri determinativi della molecola considerata. Esse sono in generale tante quante le molecole, cioè ∞3; ma può darsi, in moti particolari, che molecole diverse descrivano (non simultaneamente, bensì l'una dopo l'altra) una medesima traiettoria; e se ogni linea di corrente è, in questo senso, comune ad ∞1 molecole, le linee di corrente si riducono da ∞3 ad ∞2. Così accade nei moti stazionarî o permanenti (n. 43).
42. Punto di vista molecolare e locale. - Nello studio dei moti d'un sistema continuo si possono adottare due punti di vista diversi: o si fissa l'attenzione su di una generica molecola, e si segue l'andamento del moto di questa molecola (punto di vista molecolare o lagrangiano); oppure si fissa l'attenzione su di un generico posto e si studia l'andamento del moto del sistema continuo in quel posto (punto di vista locale o euleriano). Nei problemi tecnici si adotta per lo più questo secondo punto di vista: p. es., nel moto dell'acqua lungo tubi o canali quello che più interessa è, generalmente, il comportamento di essa in date sezioni.
43. Velocità. - La velocità v di una generica molecola M in un istante, pur esso generico, t è data, in base alle (40) o (40′), dalle
Si può dire che queste formule dànno l'espressione molecolare della velocità, in quanto forniscono la legge secondo cui varia nel tempo la velocità d'una data molecola. Se si vuole invece l'espressione locale della velocità, basta sostituire nelle (42), (42′), in luogo di x0, y0, z0 o di P0, le loro espressioni in termini di x, y, z, t o, rispettivamente, di P, t fornite dalle (41), (41′). Si perviene così alle
o in forma geometrica
Può accadere che nelle (43), (43′) il tempo non compaia più esplicitamente, il che vuol dire che, durante il moto, le molecole che passano successivamente per un medesimo posto, vi transitano tutte con la stessa velocità. Il moto si dice allora stazionario o permanente.
44. Linee di flusso. - In un istante t, genericamente prefissato, l'espressione locale (43′) della velocità fa corrispondere a ogni posto P una ben determinata velocità. Si ha così, in quell'istante e nella regione spaziale occupata in esso dal sistema, un campo vettoriale (v. vettori), costituito dalle velocità, che nell'istante t spettano alle varie molecole, pensate ciascuna nel posto istantaneamente occupato. Le linee di questo campo vettoriale, cioè le linee che in ogni loro punto sono tangenti alla velocità locale, sono definite dalle equazioni differenziali
dove a t, che generalmente compare esplicitamente nei denominatori a norma delle (43), va attribuito il valore prefissato. Queste linee si dicono linee di flusso del moto nell'istante considerato. Ne passa una ad una sola per ogni posto, cosicché complessivamente sono ∞2; e, poiché, al variare del tempo, varia generalmente il campo istantaneo delle velocità, risulta variabile da istante a istante anche il sistema delle linee di flusso.
Ma se il moto è stazionario (n. prec.), il campo delle velocità è indipendente dal tempo, onde tale altresì risulta il sistema delle linee di flusso. In tal caso esse s'identificano con le linee di corrente (le quali perciò si riducono da ∞3 ad ∞2). Ciò riesce intuitivo se si riflette che ogni molecola, la quale passi per un dato posto, è costretta a muoversi nella direzione (che in questo caso è invariabile nel tempo) della velocità locale.
45. Accelerazione. - Per calcolare l'accelerazione α di una generica molecola M in un istante pur esso generico t, ricordiamo che, se P è il posto occupato da M in quell'istante, la sua velocità è data dalla (43′), che si può anche scrivere, mettendo in evidenza le coordinate x, y, z di P,
Per avere l'accelerazione α dobbiamo dividere per dt l'incremento (vettoriale) infinitesimo, che codesta v subisce dall'istante t all'istante t + dt. Ora in questo secondo istante la velocità della stessa M è data, in quanto questa molecola subisce nel tempuscolo (t, t + dt) lo spostamento di componenti vx dt, vy dt, vz dt, da
Sottraendo da questa la v fornita dalla (43″) e dividendo per dt (dopo avere applicato il teorema del differenziale totale) si ottiene
Di qui, per proiezione sull'asse delle x si deduce
e analogamente per le altre due componenti dell'accelerazione.
Il quadrinomio a secondo membro della (44) si suol chiamare la derivata molecolare o sostanziale della velocità ∂v/∂t, in quanto è calcolata, tenendo conto del modo in cui varia v come spettante sempre a una medesima molecola; ed è altrettanto ragionevole di chiamare, invece, derivata locale di v il primo termine ∂v/∂t, che si ottiene badando alla variazione che nel tempo la v subisce in un determinato posto.
Questa stessa distinzione fra derivata molecolare e locale (rispetto al tempo) si estende ad ogni grandezza Q (vettoriale o scalare, geometrica o cinematica o d'altra natura), la quale, a ogni istante, sia definita tanto in ogni posto della regione in cui avviene il moto, quanto per ogni molecola mobile. La derivata locale di Q è data da ∂Q/∂t, quella molecolare (lo si riconosce con lo stesso ragionamento di poco fa) da
Bibl.: G. A. Maggi, Geometria del movimento, 3ª ed., Bologna 1927; R. Marcolongo, Meccanica razionale, voll. 2, Milano 1917; P. Burgatti, Lezioni di meccanica razionale, 3ª ed., Bologna 1921; C. Burali-Forti-T. Boggio, Meccanica razionale, Torino-Genova 1923; T. Levi-Civita e U. Amaldi, Lezioni di meccanica razionale, I, 2ª ed., Bologna 1930; id., id., Compendio di meccanica razionale, voll. 2, Bologna 1928.