CINEMATOGRAFO (X, p. 335; App. I, p. 420; App. II, 1, p. 592)
La straordinaria, rapida diffusione della televisione, prima negli S.U.A. e poi via via negli altri paesi, a partire dall'immediato dopoguerra, e la contemporanea sensibile riduzione della frequenza del pubblico agli spettacoli cinematografici hanno indotto produttori e tecnici cinematografici alla ricerca e al perfezionamento di nuovi sistemi di proiezione cinematografica che potessero esercitare una forte attrazione sul pubblico e richiamarlo agli spettacoli nelle sale.
Si è pensato di sviluppare procedimenti e tecniche che offrono allo spettatore l'illusione di una maggiore partecipazione all'azione in corso sullo schermo, attraverso un'accresciuta ampiezza del campo visivo sullo schermo e una distribuzione delle sorgenti sonore quanto più possibile vicine alla realtà. Sono stati così introdotti, dopo il 1950, i cosiddetti schermi panoramici, che sono schermi di dimensioni molto maggiori (specie in lunghezza) di quelli ordinarî, sui quali l'immagine, non più piana, assume dimensioni prossime a quelle che l'occhio umano può abbracciare, e il suono stereofonico, che consente all'orecchio di localizzare meglio sullo schermo suoni, parole e rumori. Naturalmente, i nuovi sistemi (Cinerama, Cinemascope, ecc.) presuppongono una trasformazione più o meno radicale - o, addirittura, un rinnovamento - degli impianti sia negli studî, sia nei laboratorî di sviluppo e di stampa, sia nelle sale, trasformazione che, anche se, ma non sempre, tecnicamente possibile, comporta rilevanti oneri finanziarî.
Non hanno avuto, invece, seguito i sistemi "tridimensionali" di proiezione, i quali impongono agli spettatori l'uso di speciali visori.
Cinerama. - La storia di questo sistema risale a poco prima del 1939, allorché l'architetto R. Walker, operante a New York, ebbe incarico di allestire una mostra cinematografica per la fiera mondiale di New York del 1939. Walker, che voleva creare qualcosa di nuovo, si appoggiò a F. Waller, inventore, esperto di trucchi e di effetti speciali fotocinematografici: ebbero inizio esperienze, ma non si giunse in tempo per la fiera. Durante la seconda guerra mondiale il gruppo continuò le ricerche e realizzò un apparecchio per l'addestramento al tiro contraerei costituito da 5 cinecamere e da 5 proiettori. Solo nel dopoguerra, però, venne costituita la società Cinerama, con la partecipazione di H.E. Reeves che introdusse la colonna sonora multipla. Nel 1949 vennero approntati alcuni film dimostrativi, ma solo più tardi, con M. Todd, L. Thomas e altri, Reeves costituì una nuova società, che produsse e lanciò il primo film commerciale dal titolo This is Cinerama (Questo è il Cinerama). Successivamente sono stati prodotti altri due film. La prima sala attrezzata per il Cinerama venne aperta a New York il 30 settembre 1952. Il sistema impiega una cinecamera con 3 obiettivi ad assi incrociati che abbracciano complessivamente un campo di 146°. Ciascuno degli obiettivi opera su una pellicola che, perciò, registra un terzo dell'intero soggetto. In proiezione ciascuna pellicola, che è sincronizzata con le altre due, dà luogo naturalmente a un terzo dell'intera immagine. Le tre pellicole scorrono in tre distinti proiettori, situati in tre cabine separate ubicate nella sala in mezzo al pubblico. I fasci dei tre proiettori s'incrociano e danno luogo sullo schermo alle tre parti affiancate dell'immagine che, se non vi sono difetti, appare come un tutt'uno. Lo schermo cilindrico, molto incurvato per conferire un senso più realistico alla scena, lungo circa 20 m e alto circa 8 m, non è costituito da un'unica superficie, ma da circa un migliaio di striscie verticali parallele di nastro perforato, parzialmente sovrapposte come le lamelle di una persiana alla veneziana, allo scopo di evitare riflessi nocivi alla qualità delle immagini. Il Cinerama si serve di 5 diversi canali sonori, che alimentano altrettanti gruppi di altoparlanti situati in varî punti dietro lo schermo, più altri due canali per conseguire effetti sonori speciali. I varî canali sonori sono registrati otticamente su una quarta pellicola.
Il Cinerama richiede una trasformazione radicale delle sale, sia per l'impianto di proiezione sia per la sistemazione dei posti (la zona migliore in sala, per la visione e per l'ascolto, corrisponde all'incrocio dei tre fasci; nelle altre zone l'effetto di presenza è meno accentuato), e una costosa attrezzatura degli studî. Ha avuto perciò limitata diffusione.
Cinemascope. - Basato sull'impiego di lenti cilindriche anamorfiche, introdotte alla fine del secolo scorso, venne lanciato nel 1953 dalla 20th Century-Fox Film che aveva acquistato un brevetto del 1927 dal francese H. Chrétien. Il primo film, The Robe (La tunica) è del 1953. Ben presto il Cinemascope, che può essere applicato a quasi tutte le sale di proiezione con trasformazioni molto meno impegnative del Cinerama, si diffuse negli S.U.A. e nel mondo intero in decine di migliaia di teatri. Le lenti anamorfiche, che operano in aggiunta ai comuni obiettivi, impiegate nella ripresa, consentono di restringere l'immagine del soggetto secondo la larghezza così che il singolo fotogramma abbraccia un campo molto maggiore del normale; esaminando direttamente il fotogramma, le singole figure appaiono estremamente sottili e allungate. Nella proiezione le stesse lenti espandono l'immagine, che appare perciò sullo schermo nelle sue reali proporzioni. Le dimensioni dell'immagine sono nel rapporto di 2,5:i circa (su schermo normale, le immagini dei comuni film hanno lati nel rapporto 4:3). Lo schermo è di grandi dimensioni e presenta una leggera incurvatura. La colonna sonora era inizialmente a quattro piste magnetiche che alimentavano tre gruppi di altoparlanti; la quarta era adoperata per effetti speciali. Successivamente i film sono stati distribuiti con colonna sonora ottica. Il successo del sistema è legato all'attrattiva dello schermo panoramico e alla felice scelta dei soggetti che ne valorizzano le caratteristiche, nonché all'ottima riproduzione sonora consentita dalle registrazioni su nastro magnetico. A parte i miglioramenti conseguiti con lenti anamorfiche sempre più corrette o con prismi aventi funzioni analoghe, ulteriori progressi sono stati ottenuti adottando per la pellicola negativa originale un maggior formato e precisamente quello corrispondente al passo di 55,625 mm (in luogo del comune 35 mm) e ottenendo perciò una maggiore definizione delle immagini sul formato 35 mm delle copie positive.
Derivato dal Cinemascope è il Superscope (1954), in cui la riduzione delle immagini mediante le lenti anamorfiche vien fatta nei laboratorî anziché all'atto della ripresa. Altri sistemi panoramici sono il Vistavision, lanciato dalla Paramount nel 1953, che impressiona il lato più lungo delle immagini secondo la lunghezza della pellicola anziché secondo la larghezza, facendo passare la pellicola orizzontalmente nella cinepresa e ottenendo così fotogrammi di notevoli dimensioni e perciò più definiti; il Todd-AO lanciato da M. Todd nel 1955, che si serve di una pellicola del passo di ben 65 mm con 7 colonne sonore; l'MGM-Panavision che è una combinazione di panoramico e di anamorfico, in quanto la "compressione" delle immagini viene ottenuta in due fasi, e cioè in parte all'atto della ripresa e in parte in laboratorio.
I Drive-in. - Da una diecina d'anni, prima negli S.U.A. e poi in altri paesi (in Italia dal 1959) hanno cominciato a diffondersi quei grandiosi cinematografi all'aperto, su estese aree in zone periferiche rispetto ai centri urbani, chiamati Drive-in in quanto il pubblico vi accede in automobile e assiste alla proiezione restando seduto nella macchina stessa. Numerosi corridoi suddividono le aree destinate alle macchine, ciascuna delle quali ha a disposizione, nel luogo di sosta, una colonnina con altoparlante. Lo schermo misura circa 15 × 40 m.
Altri progressi della tecnica cinematografica. - La riproduzione sonora, e in particolare quella musicale, sono oggi notevolmente migliorate in quanto le registrazioni si effettuano su nastro magnetico che assicura alta fedeltà, per l'estesa gamma di frequenze riproducibili, e grande praticità d'impiego potendosi agevolmente effettuare cancellazioni e reincisioni con grande rapidità e in numero praticamente senza limiti e controllare perfettamente i risultati ottenuti. L'introduzione della pista magnetica è dovuta alla Reeves Soundcraft, in collegamento con la RCA, nel 1951, mentre, nel 1953, il Cinemascope ne fece le prime applicazioni.
I progressi conseguiti nella fabbricazione e nel trattamento delle emulsioni a colori hanno favorito la diffusione dei film a colori, la cui sensibilità è aumentata pur mantenendosi al di sotto di quella delle emulsioni in bianco e nero.
Infine, per quanto concerne il supporto delle emulsioni, dopo il 1950 si è diffuso l'impiego del triacetato di cellulosa che, a differenza del nitrato precedentemente usato, brucia solo lentamente, senza dar luogo a esplosioni e alla produzione di sostanze molto tossiche. Dopo il 1956 è stato prodotto un supporto più sottile a base di poliesteri, dotato di buona trasparenza e resistenza all'usura e poco sensibile all'umidità.
Storia ed estetica.
L'introduzione, cui si è sopra accennato, degli schermi panoramici, il fenomeno che più ha contraddistinto il c. in questi ultimi dieci anni, ha finito per non essere soltanto un modo per distinguere lo schermo cinematografico da quello televisivo, ma è riuscita realmente a offrire alla settima arte occasioni sempre spettacolari e non di rado anche estetiche.
Su questa linea, a parte La tunica (1953), che segnò l'inizio del Cinemascope, non tardarono a imporsi opere quali La valle dell'Eden (1955), di un regista come Elia Kazan che, venendo dal teatro ed avendo perciò già acquisita una cultura scenica di primissimo ordine, seppe piegare alle più sciolte e disinvolte esigenze del linguaggio cinematografico quell'immagine che, improvvisamente dilatandosi, era sembrata ai più riportare il cinema alla staticità del palcoscenico. Fiorita negli S.U.A., era chiaro che questa moda influenzasse, almeno all'inizio, soprattutto il c. americano che non tardò a far studiare ai tecnici una sempre nuova serie di sistemi panoramici, alcuni dei quali (come il Todd-AO, per i film spettacolari e il Cinerama per i film documentarî) ebbero presto una risonanza in tutto il mondo sfornando opere come Il giro del mondo in 80 giorni (1957) o Oklahoma (1957) che, comunque li si giudichino, dal punto di vista estetico rappresentano senza alcun dubbio uno degli sforzi più significativi in senso spettacolare tentati da Hollywood per combattere comunque, la televisione.
Anche senza ricorrere a questi vistosi sistemi, ma contentandosi del più diffuso Cinemascope (o di alcune sue minime varianti), Hollywood riuscì a imporre nuovamente il culto dello spettacolo a un pubblico che, ormai, per pigrizia o per comodità, aveva finito per disertare i film a favore degli spettacoli televisivi: risorse così tutta una produzione che, per tener conto del bisogno di sensazionale ormai insito in ogni platea cinematografica, e per non trascurare quei presupposti artistici divenuti necessarî ormai grazie a un aumentato livello culturale nel pubblico internazionale, non tardò a imporre sui mercati opere di fastoso impegno che regolarmente ogni anno l'Accademia d'arti e scienze cinematografiche di Hollywood onorava con una pioggia di Oscar, quasi a testimoniare dove andassero le predilezioni dei magnati del cinema americano. E via via, queste predilezioni risultarono essere o un musical di grande sfarzo quale Gigi (1958), o un'avventura di guerra con sottofondi psicologici quale Il ponte sul fiume Kwai (1957), dell'illuminato, ma ormai un po' deludente David Lean, il celebre regista inglese di Breve incontro (1946), o una vicenda romantico-spirituale di vaste proporzioni corali quale il Ben-Hur (1960), affidato peraltro a William Whyler, regista noto per le sue inclinazioni al racconto psicologico.
Finito, e ormai da tempo, il filone anticonformista che nell'immediato dopoguerra aveva visto realizzare opere ispirate a violenta polemica sociale, finita l'operetta, finita la commedia rosa, e caduti abbastanza in disuso quei film dell'orrido che invece, ultima degenerazione del filone gangster, avevano ottenuto tanto successo tra il 1944 e il 1948, è risorta però, e proprio in questi ultimissimi anni, l'antica, ma sempre vitale, sophisticated comedy, che, non tanto ad opera di registi di vaglia, ma per merito di alcuni scrittori particolarmente attenti ai problemi più dimessi della vita quotidiana americana, riportò sugli schermi delle amabili tranches de vie, suscitando a volte in chiave ironica, a volte in chiave decisamente polemica, tutta una serie di problemi strettamente connessi al lavoro, ai rapporti sociali, ai sentimenti tipici del costume americano di oggi (da ricordare il premiatissimo Marty, 1955, di D. Mann, e tra i registi migliori messisi su questa strada, Billy Wilder con L'appartamento, 1960, e tra i film di più piacevole vena, Tutte le ragazze lo sanno, 1959; Il letto racconta, 1959; Operazione sottoveste, 1959; Gazebo, 1960).
In Europa, invece, il problema della televisione essendosi affacciato molto più tardi e non avendo perciò preteso rimedî immediati, il c. poté continuare a seguire vie più tranquille, senza dover affrontare situazioni di punta. In Francia, ai nomi antichi di Clair, Renoir, Carné, se ne aggiunsero dei nuovi, arrivati presto a una certa notorietà, quali, ad esempio, René Clément, André Cayatte, Henri Georges Clouzot e Robert Bresson. Questi autori, però, che si erano fatti conoscere tutti più o meno con opere significative che, per un verso o per un altro, sembravano continuare la nobile tradizione letteraria e culturale del cinema francese (Clément con Jeux interdits, 1952; Cayatte con Justice est faite, 1950; Clouzot con Manon, 1949; Bresson con il Journal d'un curé de campagne, 1950), non hanno poi dato, in questi anni recenti, opere che ce li rappresentassero coscienti della necessità di un superamento estetico o anche soltanto culturale. Clément, infatti, non ha più ritrovato il livido, aspro e risentito clima di Jeux interdits, perdendosi addirittura nei meandri, colti ma non preziosi, della commedia salottiera; Cayatte, anche se la Mostra di Venezia del 1960 è tornata ad onorarlo con il Leone d'oro (per Le passage du Rhin), è parso disperdersi in elucubrazioni dialettiche, più vicine all'arringa che non alla narrazione cinematografica; Clouzot, che comunque aveva già rivelato in Manon delle compiacenze per l'orrido, ha creduto di rispolverare nel c. francese il vecchio filone delle pièces noires, ma con opere quali, ad esempio, Les diaboliques (1955), ha mostrato di ottenere soltanto risultati esteriori da "Castello delle streghe", più vicine al Grand Guignol che non alla settima arte. Il solo tra questi che, pur senza superare più la purezza interiore del suo capolavoro (il Journal d'un curé de campagne, 1950) è rimasto all'altezza del suo passato è stato senza dubbio Bresson, che con Un condamné à mort s'est échappé (1956) e Pickpocket (1959), ha comunque indicato di non voler abbandonare la severità nobile e austera del suo linguaggio visivo e la musicalità tutta interiore del suo racconto per immagini che, anche quando non arriva a compiuti risultati estetici, resta una delle espressioni più alte e durature del cinema francese contemporaneo.
Degli anziani, invece, solo René Clair ha saputo in questi ultimi tempi tenere alta una fama che, nel 1960, lo ha fatto entrare all'Académie Française e che da anni gli ha riservato uno dei primissimi posti tra i registi del suo paese. Dopo un'avventura filosofico-letteraria che, di concerto con A. Salacrou, lo aveva portato a rivedere in vesti ottocentesche il mito del Faust goethiano (La beauté du diable, 1950), è tornato ai temi a lui cari di realtà e vaudeville, profondendo a piene mani quell'umanità garbata e gioviale da cui egli sa trarre sempre occasioni amabili di riso o di sorriso, non disgiunte da emozioni e nostalgie, lacrime e intenerimenti. Il suo stile, sempre impeccabile quanto a tecnica, è venuto forgiandosi in questi ultimi anni una sofficità anche maggiore, una grazia più leggera, una attenzione più decisa per il dettaglio realista, interpretato ormai non più secondo gli antichi canoni della Nouvelle école française del 1936, ma secondo un più disteso e letterario sentire, filtrato attraverso più solide e forse più meditate posizioni culturali (come ampiamente testimonia il suo film più recente, Porte des Lilas, 1957, in cui è riuscito a costruire il poema della solitudine e dell'affetto umano incompreso attorno a una vicenda tratta da un fatto di cronaca e soffusa costantemente da lirismo, nonostante ogni suo spunto si rifaccia fedelmente e volutamente alla realtà d'ogni giorno).
Opposti a Clair e anche ai meno giovani che lo hanno preceduto, stanno da qualche tempo dei giovani "arrabbiati" che come tutti i giovani pensano di rinnovare il loro campo parlando una nuova lingua, disprezzando l'antica, e andando disperatamente alla ricerca di nuovi temi da contrapporre a quelli dei loro predecessori: questi giovani si sono dati in blocco la denominazione di "nouvelle vague" che impropriamente taluno ha creduto di poter far discendere dal neo-realismo italiano. Il neo-realismo italiano era invece, prima ancora di una scuola, un periodo storico in cui taluni autori operarono esprimendosi con le idee allora in circolazione e con l'unico linguaggio cinematografico possibile per esprimere quelle idee (un linguaggio nudo e scarno, cioè, obiettivo e quasi documentario, solo capace di mettere l'accento sui dolorosi temi del dopoguerra cari a quegli autori); la "nouvelle vague" ha, semmai, in comune con il neo-realismo italiano soltanto il fatto di avere i suoi autori dei temi in comune fra di loro, ma anche questi temi non hanno poi nulla a che vedere con quelli di guerra, di morte e di rapporti sociali che furono proprî a Rossellini, De Sica e Visconti: i temi della "nouvelle vague", infatti, sono gli stessi della letteratura anglosassone sugli "arrabbiati", il disagio tra i giovani, la loro inconciliabilità con gli anziani, il crollo delle fedi e delle morali, il disprezzo per le convenzioni, la negazione spesso quasi nichilista della società. Su questi temi, che non sono certamente tipici della situazione francese odierna, ma che si possono ritrovare in ogni altro paese d'Europa e d'America, registi quali François Truffaut, Alain Resnais, Jean-Luc Goddard, Louis Malle, Alexandre Astruc, Claude Chabrol, Roger Vadim hanno dato vita a una serie di film che, a doverli giudicare in blocco, andrebbero subito segnalati per la contraddizione intrinseca che denunciano tra sovvertimento delle consuetudini sociali e pedissequo rispetto invece per un linguaggio cinematografico intellettuale ricalcato quasi di peso dai film della vecchia Avanguardia; esaminati ad uno ad uno rivelano, a parte le loro posizioni programmatiche e in una con molti difetti, taluni valori di umanità e di poesia che li hanno fatti comunque apprezzare da buona parte della critica europea: i 400 coups (1959), di François Triffaut, ad esempio, in cui, al di fuori di ogni schematicismo e di ogni preconcetto estetico, il dramma di un bambino incompreso dalla famiglia e dalla società ha saputo assurgere a vette di sicura, intima, delicata poesia; o Hiroshima, mon amour (1959), di Alain Resnais, che pur esasperando temi letterarî fino all'intellettualismo più decadente, è arrivato ad aprire al c. vie singolarmente nuove, soprattutto dal punto di vista narrativo, impreziosendo la consuetudine cinematografica del racconto à rebours, con reminiscenze sottilmente proustiane.
In Italia, invece, assistiamo a un processo che, nei confronti di quello che fu il primo neo-realismo, potrebbe essere definito di evoluzione: evoludione quanto a stile ed evoluzione quanto a temi. Un tale processo è apparso soprattutto sensibile attorno alle opere di due autori, Roberto Rossellini e Federico Fellini, che possono in un certo senso considerarsi uno l'iniziatore e l'altro il continuatore, sia pur sotto altri aspetti, del neo-realismo. Rossellini infatti, che con i primi film si era dato uno stile volutamente documentario (cfr. Roma città aperta, 1945; Paisà, 1947; Germania anno zero, 1947; Miracolo, 1948), quando affrontò temi individuali e non più corali, come in Stromboli (1949), si fece più introspettivo: alle tante facce umane ne sostituì una sola e di questa non analizzò soltanto i moti esteriori (giustificandoli con azioni esteriori) ma anche e soprattutto i segreti moti dell'animo, il travaglio della coscienza e il film e il linguaggio cinematografico cui il film si affidava, diventarono quasi proiezioni visive di questa coscienza, interpretazioni dall'interno del mondo circostante. Era ancora realismo, ma la realtà, questa volta, scaturiva dall'interno del personaggio: ed era quella che più contava, quella che dava significato alla realtà esterna, visibile. In questa chiave, con questo stile, ma se vogliamo reso anche più aereo e impalpabile da un respiro più delicato di poesia, il Francesco giullare di Dio (1950): non la vita di un santo, ma la vita vista da un santo, la terra, la nostra realtà terrena interpretata secondo la concezione cristiana. Dopo questi film, però, Rossellini sembrò indugiare in parte sulle sue proprie personali esperienze e in parte su tematiche estranee al neo-realismo e alla stessa società contemporanea che pure egli aveva tanto aspramente sentito ed espresso. Nonostante questi cedimenti, il suo nome figura tuttora fra i nostri più significativi autori cinematografici e tuttora si raccomanda a noi per due film, India (1959; realizzato in India con intenzioni di interpretazione realista) ed Era notte a Roma (1960), sorta di rievocazione dei tempi dell'occupazione nazista sentita in una chiave più umanitaria; al suo Generale Della Rovere è stato assegnato il Leone d'oro (1959).
La sua fiaccola, però, e la sua poetica sono state raccolte e riprese da un autore che con lui aveva esordito, Federico Fellini, arrivato ad imporsi tra i migliori del cinema italiano dopo inizî non sempre compiuti e sicuri. Con il suo film La strada (1954), ad esempio, eccolo seguire l'itinerario poetico e filosofico di Rossellini: il tema, in un certo senso, è sempre quello, è il problema dell'uomo incapace di capire tutta la realtà, pronto a conoscere di questa realtà solo la sua materialità visibile, ma insensibilmente portato a scoprire dentro di sé almeno il sospetto dell'invisibile, la coscienza e, quindi, l'autore della coscienza, il principio dell'anima: aiutato in questo e condotto per mano dalla presenza vicino a lui di un'altra creatura che, prima con questa sua presenza e, poi, soprattutto con il suo sacrificio, riuscirà nel suo scopo. Un processo, insomma, studiato nel cuore di un individuo e che sotto certi aspetti è analogo a quello che Rossellini, con i suoi primi film, aveva studiato e spiegato nel cuore di tutta intera una società: là erano tutti che prendevano coscienza di sé stessi e dei doveri verso gli altri, qui è uno, ma la chiave è identica, i motivi ispiratori sono gli stessi. Realismo documentario e sociale, però, quello di Rossellini, realismo più individuale ed essenzialmente psicologico, quello di Fellini, ma realismo perfettamente conseguente alla tradizione e soprattutto conscio di non tradire mai, nell'apparente tono di favola che a un certo momento assume, il concetto esatto di realtà. Da queste basi, però, Fellini doveva andare anche più in alto e, dimesso il realismo rosselliniano, affrontare l'osservazione della realtà contemporanea da un angolo di vista singolarmente polemico: La dolce vita (1960), il suo film più recente, oltre a costituire un imponente "spettacolo" della vita contemporanea, colta in tutti i suoi aspetti più contraddittorî di vizio e di sfacelo, rappresenta uno dei punti di arrivo più nuovi e vivaci per il linguaggio cinematografico italiano, una sorta di poema in prosa che, quanto ad atteggiamento morale, si rifà a Baudelaire e quanto a stile, trascendendo la lezione neo-realista, si conquista salde e meditate posizioni culturali in cui l'osservazione della realtà resta sempre indispensabile, ma approda poi a conclusioni tutte personali d'interpretazione figurativa e poetica.
Se queste però sono state le mète più alte cui il neo-realismo e il suo processo evolutivo è giunto in questi ultimi tempi esprimendo compiutamente e in profondo sia la storia sia la cronaca del nostro tempo, non sono da trascurarsi altri suoi aspetti meno impegnati su certi piani, ma spesso fervidi, non di meno, di felici risultati poetici. Prima fra tutti quella non breve serie di opere con cui Vittorio De Sica si impose con uno stile e un calore degni della migliore considerazione: Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951), Umberto D. (1951), s'inserivano anche in una corrente polemica che riprendeva alcuni fra i temi più appassionati, del periodo storico in cui nacque il neo-realismo: li esprimevano, però, se vogliamo, con minori risentimenti stilistici, con tutto un bagaglio romantico e prezioso di intenzioni figurative che, spesso, tolto forse il drammatico e quasi gelato respiro di Sciuscià, rasentavano la compiacenza formale; ma questa compiacenza non restava l'unico apporto dato da De Sica regista ai film scritti per lui da Cesare Zavattini, perché anzi, riproponendo e in un certo senso risolvendo a favore del regista la dibattuta questione del vero autore del film, proprio là dove i film respirano una sicura atmosfera poetica (e si liberano, perciò, di tutte le pastoie letterarie) si configura la personalità di De Sica e il suo più autentico peso di autore veritiero.
Anche se forse come autore solido e completo va considerato con maggiore attenzione proprio quel Luchino Visconti che, dopo uno splendido esordio nel c. del dopoguerra con La terra trema (1950), pur essendo passato attraverso varî dubbî e esperienze letterarie e figurative, è riuscito ad approdare in questi tempi recenti a un'opera come Rocco e i suoi fratelli (1960), che del realismo già così tipico nella Terra trema, ha conservato l'arsura drammatica e lo splendore visivo fusi a una concezione umana del personaggio così alta e straziata da imporre con sicuro successo il suo autore fra i migliori del c. italiano, o quelli comunque impegnati alla ricerca di sempre più vive e valide forme espressive.
Mentre il cinema inglese (tornato quasi completamente tra le quinte del teatro il suo più pittoresco autore Laurence Oliver) non ha offerto in quest'ultimo decennio niente di significativo e di tipico al cinema europeo, il cinema scandinavo, in particolare quello svedese, ha proseguito la sua gloriosa ascesa perpetuando la fama già acquistata di un notissimo autore, il danese C. T. Dreyer, e affermando il nome, fino a qualche anno fa sconosciuto, di un regista svedese, Ingmar Bergman. Dreyer si è imposto con un film, Ordet (1955), che pur riproponendo e con concettosi accenti, temi teologici di alta portata e di difficile comprensione, è riuscito a conquistare l'attenzione per un linguaggio decisamente chiuso e forse sprezzante delle necessità dello spettacolo, ma certamente abilissimo nel mettere al servizio del racconto cinematografico tutte le più nobili suggestioni dell'immagine, con una novità di invenzione, una fertilità di trovate figurative, da rimanere addirittura esemplare: anche se riservato purtroppo a una cerchia non troppo vasta di intenditori. Ingmar Bergman, invece, degno continuatore della tradizione nobile del cinema svedese, ha saputo unire alle esigenze del più fermo e originale linguaggio cinematografico, quelle, aperte e diffuse, dello spettacolo di massa, ed è riuscito certamente a darsi uno stile che, pur prezioso e raffinato, è certamente comprensibile anche dalla maggior parte del pubblico. I suoi film (Il settimo sigillo, 1956; Alle soglie della vita, 1957; La sorgente, 1957; Il volto, 1958, soprattutto e prima di tutti, Il posto delle fragole, 1959), hanno spesso tematiche filosofiche o dibattono, comunque, sottili problemi ideologici, quali fede e non fede, predominio della ragione sui sentimenti o viceversa, intelligenza e superstizione, vita e morte, trascendenza e no, comunque non sono mai vittime del discorso dialettico che propongono agli spettatori, talmente vivido è il linguaggio di Bergman, talmente scintillanti sono le sue capacità di trasformare anche il più arido filosofema in immagine cinematografica. In lui si ritrova la stessa violenza, la stessa asprezza e, qua e là, forse la stessa compiacenza per l'orrido che, con l'interesse per la natura, furono tipici del vecchio cinema svedese, ma in ogni suo film tutto questo è filtrato alla luce di esperienze nuove, più moderne, decisamente più adatte a inserirsi nei problemi umani e stilistici del nostro tempo: anche quando lo vediamo indulgere a compiacenze letterarie e, come nel Posto delle fragole, lo vediamo prendere un prestito da Proust il suo sistema narrativo, filtrato qui in un linguaggio tutto nuovo e personale che gli consente di ridarci in perfetta contemporaneità il tempo presente e il tempo passato in assoluta fusione poetica.
Non si può porre qui il problema delle cinematografie minori che, tutte più o meno in questi ultimi anni, hanno cercato di assumere una parvenza di autonomia, ma se non si può dire nulla delle cinematografie sudamericane e se solo oggi quella sovietica, uscita da un decennio di ferree posizioni propagandistiche, riesce a imporre nel mondo opere di delicata fattura poetica (La ballata di un soldato, 1959, di Grigori Ciukrai), non si può dimenticare quella giapponese che, rivelatasi improvvisamente all'inizio con Rasciomon (1950), ha proseguito un felice cammino nel mondo con una serie di film, soprattutto in costume, che egregiamente mostravano di saper unire al culto per la tradizione storica, derivata dal teatro nazionale, un gusto sicuro e nello stesso tempo prezioso, per l'osservazione minuta della realtà, arrivando spesso ad incontri elevatissimi tra verità e poesia: I sette samurai (1954), Vita di O Haru (1952), Il trono di sangue (1957), L'arpa birmana (1956), I racconti della luna pallida d'agosto (1959). Vedi tav. f. t.
Regolamentazione pubblicistica della cinematografia.
La sempre maggiore importanza che la cinematografia è venuta ad assumere sia dal punto di vista sociale (ricreativo, culturale, e artistico) che da quello economico (industriale e commerciale) ha giustificato, dal 1948 in poi, un vasto e organico intervento dello stato al fine di controllare, coordinare e incrementare i varî settori dell'attività cinematografica.
Con l. 31 luglio 1959, n. 617, si è ritenuto di devolvere a un nuovo ministero (dello Spettacolo e del Turismo) le attribuzioni in materia, prima demandate alla direzione generale dello spettacolo presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. I compiti governativi nel settore cinematografico risultano, prevalentemente, dalle l. 29 dicembre 1949, n. 958, e 31 luglio 1956, n. 897.
Al ministero dello Spettacolo è affidato innanzitutto il controllo preventivo dei film ai fini della concessione del nulla osta di proiezione in pubblico o per l'esportazione (cosiddetta censura).
Per la revisione dei film sono istituite, presso il ministero dello Spettacolo, delle commissioni di primo grado, che esprimono un giudizio circa la concessione o meno del nulla osta, e una commissione di appello che decide in via definitiva i ricorsi contro i provvedimenti negativi. Al fine di armonizzare l'istituto della censura ai precetti dell'art. 21 Cost., che sancisce la libera manifestazione del pensiero attraverso qualsiasi mezzo di diffusione, è stato predisposto un disegno di legge, attualmente all'esame del parlamento, nel quale sono precisati tassativamente i motivi che possono dar luogo al rifiuto del nulla osta (per i film che offendono il comune sentimento del pudore, che contengono elementi oggettivi di reato, o elementi di turbativa dell'ordine pubblico, ecc.); sono perfezionati il sistema e le modalità della revisione, ed è integrata l'attuale disciplina concernente la protezione morale delle giovani generazioni (film vietati ai minori degli anni 16).
Il ministero dello Spettacolo esercita, inoltre, la vigilanza sugli enti, sulle attività e sulle manifestazioni cinematografiche che abbiano carattere di interesse pubblico o ai quali lo stato partecipi finanziariamente (Centro sperimentale per la cinematografia, Istituto Luce, Mostra cinematografica di Venezia, ecc.).
Il ministero controlla altresi la costruzione e l'esercizio delle sale cinematogmfiche, ai fini di un equilibrato svolgimento dell'iniziativa economica in questo campo, particolarmente delicato e rischioso, data la difficoltà di mobilitare gli ingenti investimenti necessarî per attrezzare sale di spettacolo. I nulla osta sono rilasciati previo parere di un'apposita commissione, in base ai criterî fissati annualmente, in via generale, con decreto del ministro dello Spettacolo.
Al ministero dello Spettacolo spetta anche di promuovere e disciplinare le varie iniziative per il miglioramento e lo sviluppo della produzione cinematografica nazionale e per la diffusione dei film nazionali in Italia e all'estero. Per l'esame delle questioni attinenti agli scambî internazionali dei film e del materiale cinematografico è istituito un comitato presso il ministero del Commercio con l'estero. Il ministero, infine, accerta la nazionalità dei film e attua le provvidenze in favore della produzione.
Nell'esplicazione di tutte queste attività e delle altre a esso attribuite in via speciale dalla legge, il ministero è assistito dalla Commissione consultiva per la cinematografia, composta da rappresentanti delle categorie interessate, da esperti e da funzionarî particolarmente qualificati. La Commissione costituisce altresì l'organo consultivo cui è demandato lo studio dei problemi di carattere generale interessanti la cinematografia in genere, e la cinematografia per la gioventù in ispecie.
Grande importanza, fra le accennate funzioni statali, assumono le provvidenze in favore della cinematografia, che costituiscono un complesso sistema ispirato da intenti protezionistici. Le dette provvidenze hanno, in generale, carattere temporaneo (la l. 22 dicembre 1959, n. 1097, ne ha prorogata l'applicazione fino al 31 dicembre 1960). Gli accordi sul Mercato Comune Europeo, ispirati, nei riguardi dei paesi contraenti, alla liberalizzazione degli scambî e all'abolizione degli aiuti statali atti ad alterare il libero gioco della concorrenza, provocheranno verosimilmente, con la loro graduale entrata in vigore, l'eliminazione o la modificazione di molte delle forme in cui si attua l'interessamento governativo in favore della cinematografia nazionale. E da ritenere, tuttavia, che tale interessamento, sia pure attraverso strumenti diversi, non cesserà del tutto, dato che il grande sviluppo e l'affermazione in campo internazionale della cinematografia italiana, dal dopoguerra in poi, risultano in parte legati all'apporto economico statale.
Presupposto per l'attribuzione degli aiuti governativi è che il film sia dichiarato nazionale, in base ai criterî minutamente disciplinati dalla legge (che tengono conto delle imprese che partecipano alla produzione, del luogo dove il film è girato, della composizione del personale tecnico e artistico, ecc.). Occorre inoltre che il film sia ammesso alla programmazione obbligatoria in Italia, previo giudizio positivo circa la sussistenza di quel minimo di requisiti tecnici e artistici che rendano la pellicola meritevole di fruire degli aiuti governativi (il giudizio è formulato da speciali comitati di esperti, ed è modificabile, in sede di appello, ad opera di una commissione tecnica di 2° grado). Non sono ammessi alle provvidenze governative i film aventi in tutto o in parte carattere pubblicitario.
Varie sono le forme di aiuto statale alla cinematografia. A vantaggio dei produttori si rivolge, innanzi tutto, l'istituto della programmazione obbligatoria, che impone agli esercenti il dovere di proiettare nelle sale di spettacolo per un determinato numero di giorni all'anno film nazionali. I produttori godono inoltre di contributi commisurati a una percentuale dell'introito lordo degli spettacoli in cui i film sono proiettati. La percentuale varia a seconda del tipo di film (16% per cinque anni per i lungometraggi, 2% per tre anni per i cortometraggi, 1,75% per cinque mesi per i film di attualità). Sono istituiti inoltre dei premî di qualità da distribuirsi annualmente, in base al giudizio di speciali commissioni, fra i film lungometraggi e cortometraggi ritenuti di particolare valore tecnico, artistico e culturale (cinque premî da venticinque milioni per i lungometraggi, e 120 premî da due milioni per i cortometraggi). Gli esercenti, a compenso del vincolo costituito dall'obbligo di programmare film nazionali, godono di abbuoni sui diritti erariali per gli spettacoli, con percentuali che variano a seconda che si tratti di lungometraggi (20% per sei anni) o cortometraggi (2%, per un periodo di duecento giorni all'anno).
Gli accennati benefici sono di misura maggiore per i film dichiarati prodotti o adatti per la gioventù, che si dimostrino cioè adeguati alla mentalità dei minori degli anni 16 e rispondano alle sane esigenze della loro vita morale e sociale. I film prodotti per la gioventù godono inoltre annualmente di speciali premî prelevati da un fondo di cento milioni.
Un altro fondo (di lire un miliardo e duecentocinquanta milioni) è costituito per lo sviluppo e il potenziamento della cinematografia nazionale in genere. Sul fondo possono essere finanziate manifestazioni per lo sviluppo artistico, culturale e tecnico della cinematografia; possono essere concessi contributi ad enti di diritto pubblico o d'interesse pubblico che concorrano ad assicurare la valorizzazione, la diffusione e lo sviluppo della cinematografia nazionale, l'incremento degli scambî cinematografici con l'estero, la formazione di nuovi quadri tecnici ed artistici, ecc.
Mentre le provvidenze finora considerate costituiscono attribuzioni a titolo gratuito, con l'istituto del credito cinematografico si provvede a concedere mutui onerosi alle categorie interessate. Poiché l'interesse dei mutui è relativamente basso (4%), anche questa risulta un'importante forma di aiuto alla cinematografia, considerato che, in ragione dei gravi rischi inerenti all'esplicazione dell'attività cinematografica e alla lentezza del ciclo di sfruttamento del film, difficilmente sarebbe possibile agli operatori economici trovare credito a condizioni analoghe sul mercato privato. Il servizio del credito cinematografico è affiddato ad una sezione autonoma della Banca nazionale del lavoro, munita di un fondo di dotazione, in parte a carico dello stato.
Le somme necessarie allo svolgimento delle operazioni di finanziamento sono peraltro reperite in maniera prevalente mediante i depositi di lire cinque milioni cinquecentomila che le imprese straniere debbono effettuare per ottenere il rilascio del nulla osta di proiezione in pubblico per ciascun film parlato in lingua italiana e di lunghezza superiore ai mille metri. Le somme depositate, comprovate da "buoni" di doppiaggio limitatamente trasferibili, sono rimborsate dopo varî anni (7 o 10), senza interessi. Tali somme concorrono a formare due fondi destinati ad operazioni di finanziamento per la produzione, la distribuzione e l'esportazione di film nazionali, per l'attrezzatura e l'arredamento di sale cinematografiche nei comuni che ne siano sprovvisti, per il rinnovamento degli impianti dei cinema che svolgono attività saltuarie, per il consolidamento di imprese di produzione e di distribuzione che versino in difficoltà finanziarie pur presentando possibilità di ripresa, ecc.
In correlazione ai benefici sopra elencati sono imposti agli interessati oneri di carattere vario, fra i quali è da segnalare quello, gravante sui produttori, di consegnare gratuitamente alla cineteca nazionale istituita presso il Centro sperimentale per la cinematografia una copia nuova di ciascun film, della quale la cineteca può avvalersi per pubbliche programmazioni, limitatamente a spettacoli retrospettivi a scopo culturale. Il produttore del film ammesso alle provvidenze statali è tenuto altresì a porre a temporanea disposizione del ministero dello Spettacolo una copia nuova del film stesso per la proiezione in manifestazioni nazionali e internazionali in Italia e all'estero non aventi finalità commerciali, promosse o autorizzate dal predetto ministero.
In collegamento con le provvidenze governative, è istituito, presso la Società italiana autori ed editori (SIAE), il Pubblico registro cinematografico, nel quale sono registrati i film nazionali lungometraggi, cortometraggi e di attualità, e sono annotati gli atti di vendita dei film, la cessione e la costituzione in pegno di proventi dei film stessi e dei premî relativi, l'estinzione totale o parziale delle obbligazioni derivanti dagli atti sopra descritti. Le registrazioni e le annotazioni di cui è cenno, da un lato determinano la presunzione dell'esistenza dell'opera cinematografica e della qualità dei soggetti compartecipanti alla sua creazione quali risultano dal registro; dall'altro concorrono a identificare le persone cui può essere legittimamente effettuato il pagamento dei premî e dei proventi del film (produttore iscritto, cessionario o creditore pignoratizio).
Bibl.: M. Montanari e G. Riccioli, Disciplina giuridica della cinematografia, Firenze 1953; A. Fragola, Il nuovo ordinamento giuridico dell'industria cinematografica italiana, Roma 1957; R. Rossini, Questioni di diritto cinematografico, Roma 1958; G. Crisci, Cinematografia, in Enciclopedia del diritto, VI, Miano 1960; S. Fois, Censura, ibid.