Cino da Pistoia
Quando D. intorno al 1283 compose e inviò a molti li quali erano famosi trovatori in quello tempo (Vn III 9; la data è soltanto presumibile, ma è quella comunemente accettata dagli studiosi) il sonetto A ciascun'alma presa e gentil core, circa dieci anni dopo inserito a capo dell'orditura del suo giovanile libello in lode di Beatrice, a lui fue risposto da molti e di diverse sentenZie (III 14); ma a noi son pervenuti soltanto un sonetto responsorio di Guido Cavalcanti, uno di Dante da Maiano e un terzo sonetto di dubbia attribuzione: Naturalmente chere ogni amadore. Questa risposta, di carattere strettamente esegetico, si attiene punto per punto alla proposta di D., e l'anonimo rimatore v' interpreta la ‛ visione ' dantesca in questo senso: Amore che offre in cibo alla donna il cuore ardente del poeta significherebbe il legittimo desiderio di ogni amante di far conoscere il proprio amore alla donna amata; l'immagine della donna dormiente avvolta in un drappo simboleggerebbe il suo stato ancora potenziale nei riguardi del sentimento amoroso; e infine Amore si sarebbe mostrato dapprima lieto perché stava per congiungere due cuori, e subito dopo addolorato e in lacrime in considerazione del tormento che entrambi gl'innamorati avrebbero ricavato da quel loro insorgente sentimento. Nella vicenda dei rapporti fra D. e C. questa sarebbe cronologicamente l'occasione più antica e dovrebbe perciò costituire il punto di partenza, se la paternità della risposta fosse sicura; ma così non è. Il sonetto Naturalmente chere fu per secoli attribuito con sicurezza al poeta pistoiese; ma da una parte le ricerche intorno all'anno di nascita di C. (fissata dopo molte discussioni al 1270 circa) indusse a rilevare che egli era ancora un ragazzo intorno al 1283; e dall'altra l'attribuzione di quel sonetto a Terino di Castelfiorentino nel cod. Magliabechiano VII 1060 contribuì non solo a rafforzare i dubbi sulla pretesa paternità ciniana, ma a far proporre, com'era legittimo, una diversa attribuzione. Il problema è tuttora aperto, poiché non sono emersi nuovi elementi dopo la precisazione del Barbi: " Bisogna confessare che mancano dati per risolvere nettamente la questione " (Barbi-Maggini, Rime 25); tuttavia generalmente, anche se con molta cautela, la recente critica dantesca inclina a credere, col Barbi stesso (ibid., p. 28), opinione più verosimile quella che restituisce il sonetto a Terino. Né del resto sembra affatto necessario o opportuno che la ‛ visione ' narrata da C. nel sonetto Vinta e lassa era l'anima mia sia avvicinata a quella disegnata nel suo da D., come un esemplare d'imitazione al suo originale archetipo, dal momento che la tecnica della ‛ visione ' era tanto cara a tutti gli stilnovisti quanto era già carica di tutt'intera una tradizione.
I più sicuri dati intorno ai rapporti fra D. e C., siano essi indiretti, di ammirazione e di adesione ideologico-letteraria, o diretti, risalgono con ogni probabilità agli anni adiacenti al 1290. C. si era già orientato verso i modi e i principi della poetica stilnovistica, che per lui erano riconosciuti in sostanza nell'attività ancora in fieri di Guido e di Dante. E questi due nomi infatti ritornano in una polemica in versi che egli ebbe a intrecciare, forse nella sua prima dimora bolognese, con Onesto degli Onesti, il quale tacciava i poeti nuovi d'andar sognando " i spirti sparti " o girando con " più di mille sporte piene di spirti " ecc., mentr'era necessario, a parer suo, che essi si mordessero la lingua: " Né ciò mai ve mostrò Guido né Dante ". C., nella difesa che egli volle allora assumersi dei nuovi valori e ancor più del nuovo linguaggio poetico, sembra preoccuparsi piuttosto della fama di D. che di quella del Cavalcanti, dacché nel sonetto Bernardo, quel gentil che porta l'arco (che gli va attribuito con ogni sicurezza) egli formula con entusiasmo questa valutazione: " E quei che sogna scrive come Marco, / e van sì alto [lui e Amore] ch'ogn'om riman basso "; la quale ad altri pare non possa essere riferita se non all'Alighieri. L'ipotesi è rinforzata dal fatto che, pressoché contemporaneamente, il Pistoiese dedicava a D. la canzone Avegna ched el m'aggia più per tempo, per confortarlo della morte di Beatrice (1290). Questa fu certo composta qualche tempo dopo la morte della gentilissima, come si arguisce dai vv. 4-6 (" non è ancor sì trapassato il tempo / che 'l mio sermon non trovi il vostro core / piangendo star con l'anima smarrita "); e C., nel mentre ricorre, per recar sollievo al poeta, alle argomentazioni più usuali e topiche (felice è chi lascia il mondo; non bisogna addolorarsi, ma occorre gioire per un'anima che raggiunge l'eterna beatitudine; santa e legittima è la speranza di rivedere in Paradiso la donna amata; ecc.), rivela anche non solo una sicura ed esatta conoscenza delle rime in lode di Beatrice, ma anche un'abilissima capacità d'inserire nel contesto, senza alcuno stridore, locuzioni arieggianti a quel tipico linguaggio dantesco, con un ritornante giuoco di allusioni: " Li vostri spirti trapassâr da poscia / per sua virtù nel ciel: tal è il disire / ch'Amor là su li pinge per diletto " (e cfr. Oltre la spera 1-8, in Vn XLI 10 ss.); " Mirate nel piacer dove dimora / la vostra donna ch'è in ciel coronata " (e cfr. Cv II Voi che 'ntendendo 28-29); ecc. Né manca una precisa citazione: " Ché Dio, nostro signore, / volle di lei, com'avea l'angiol detto, / fare il cielo perfetto " (e cfr. Donne ch'avete 15-20, in Vn XIX 7).
La canzone Avegna ched el m'aggia può essere assunta a tipico esemplare del dantismo cimano, là dove il poeta pistoiese ha bisogno di un'accensione, di una sollecitazione per le sue contesture liricheggianti. È il caso di gran parte delle sue rime in lode, nelle quali indubbiamente C. rivela una forte soggezione a D., sebbene non poche volte riesca a caratterizzarsi con l'appello alla memoria e con una sorta di itinerario verso l'interiorità nei musicali toni della nostalgia e della malinconia. E da D., dal ciclo delle sue rime per la gentile donna giovane e bella molto (Vn XXXV-XXXIX) derivano taluni componimenti ciniani che vi si conformano per la particolare situazione e per il linguaggio in cui si configura: Bella e gentile amica di Pietate; Donna, io vi miro; Donna, i' vi potrei dicer parole; Occhi miei, fuggite, ecc.; così come risulta piuttosto evidente che il sonetto Se voi udiste la voce dolente si richiama all'episodio del ‛ gabbo ' di Vn XIV. È una fedeltà che commuove; e C., per tale aspetto, è il discepolo che ogni maestro si augurerebbe. Egli così diventa il tramite, il filtro, attraverso il quale il D. che poetò dulcius subtiliusque, maestro delle " dolci rime d'amor ", allarga i confini della sua presenza e del suo influsso fino al Petrarca e oltre. Ma non sarebbe giusto ridurre C. a semplice seppur felice e scrupoloso mediatore (anche se di D.); e d'altra parte il suo dantismo talora appare inerte e vuoto, scade a pura disponibilità tecnica, si dissolve in mero formalismo, proprio come il suo cavalcantismo, rimasto sempre un po' in ombra presso gli studiosi di lui. E perciò egli rappresenta in sé la crisi del linguaggio stilnovistico, che nei momenti di supremo impegno egli tuttavia riesce a rielaborare in un nuovo impasto cordiale e umano, strappandolo alle ansie metafisiche, alle estasi teologico-misticheggianti, e riconducendolo a immediata misura d'effusione autobiografica. Una effusione non drammatica e mossa, ma sostanzialmente equilibrata e monocorde, nella quale la poetica del ‛ correlativo oggettivo ' perde in vigoria di rappresentazione simbolistica quanto guadagna in equità d'analisi psicologica e in verità umana.
Si capisce come discepolanza siffatta possa essersi mutata, considerando anche la non grande differenza di 'età tra i due, in amicizia fortemente cementata dalla solidarietà negl'ideali letterari; a documento della quale son giunti fino a noi numerosi sonetti di corrispondenza che il Barbi, nell'ordinamento da lui assegnato alle rime di D. (edizione centenaria del 1921), coagula in due gruppi, assegnandone il primo agli ultimi anni del Duecento (D. era ancora a Firenze e C. a Pistoia) e il secondo ai primi tempi dell'esilio. Il primo gruppo è costituito da due corrispondenze di due sonetti ciascuna. C., già esperto del tormento d'amore a causa di una donna vestita di scuro, è colpito dalla bellezza di un'altra vestita di verde, onde teme di smarrire quel poco di vita che gli è rimasta dalla precedente sua ferita. E nel dubbio si rivolge a D., il quale prospetta all'amico il pericolo insito in una donna che vesta di verde sì come si riveste di verdi foglie, ma solo per essere riscaldato dal sole, un albero infruttifero, senza radici (Cino: Novellamente Amor mi giura e dice; Dante: I'ho veduto già senza radice). Con questa tenzoncina intorno a un'amorosa quaestio è probabile che abbiano un qualche legame il sonetto ciniano Dante, i' ho preso l'abito di doglia (C. si dice vinto d'amore da parte di una donna che ha il " vel tinto " e appunto il " drappo scuro ") che ne costituirebbe il precedente, e l'altro, Novelle non di veritate ignude, col quale C. domanda a un amico (e non è escluso che possa essere proprio D.) " come si dée mutar lo scuro in verde ", quasi una variante di Novellamente Amor. Se è così - ma il problema è assai intricato e pressoché insolubile per la voluta ambiguità o polivalenza espressiva della lingua usata dai rimatori - ci sarebbero elementi sufficienti (particolarmente certe amare allusioni del sonetto Novelle non di veritate ignude, ai vv. 7-8) per dubitare dell'ipotesi cronologica del Barbi e ritirare anche il primo gruppo di corrispondenza agli anni dell'esilio (il Contini nel suo commento alle Rime di D. non sembra alieno da siffatta prospettiva). Tanto più che nella seconda tenzoncina di questo gruppo stesso (Dante: Perch'io non trovo chi meco ragioni; Cino: Dante, i' non so in qual albergo soni) l'Alighieri si scusa con l'amico per il suo lungo silenzio, forse con la memoria volta al sonetto Se tu sapessi ben com'io aspetto di C., il quale appunto vi se ne lamentava probabilmente con lui; e ne addita le ragioni nel tristo luogo ov'egli era costretto a dimorare, privo d'ogni bene, negato al sentimento d'amore, ecc., al che C. risponde che anch'egli suo malgrado viveva colà dond'era, già gran tempo, ogni virtù scomparsa, concludendo tuttavia con la generica considerazione che il trionfo del male non esonera alcuno dall'operare virtuosamente. Ora è difficile essere del tutto persuasi che quel luoghi s'intendano rispettivamente per Firenze e per Pistoia; al contrario, sentimenti e motivi diverrebbero più comprensibili, qualora fossero riferiti a epoca successiva e a più matura e ricca esperienza.
Il secondo gruppo di queste rime è costituito da sei sonetti distinti in tre coppie di proposta-risposta. Cino (Dante, quando per caso s'abbandona), appellandosi a " quella ch'è maestra / di tutte cose " (all'esperienza o alla natura), sollecita il parere dell'amico sulla questione di come l'anima possa scorrere da una a un'altra persona nella sua unica passione d'amore. D. replica col sonetto Io sono stato con Amore insieme e con una breve epistola latina (III) che l'accompagna, nella salutatio della quale (Exulanti Pistoriensi Florentinus exul immeritus) appare l'indicazione dell'epoca (C. fu in esilio dal 1303 al 1306). L'ineluttabilità della passione d'amore vi è sottolineata con argomentazioni psicologico-autobiografiche non prive di un breve suggestivo abbandono alla memoria (e so com'egli affrena e come sprona / e come sotto lui si ride e geme, vv. 3-4), le quali vengono integrate, nell'espistola, da altre di carattere più strettamente filosofico sull'autorità del IV libro delle Metamorfosi di Ovidio e scolasticamente svolte (ratione et auctoritate). Ma più interessa notare l'impeto d'affetto espresso nelle parole di D., il suo cordiale piglio di guida indulgente, quasi di fratello maggiore: Eructuavit incendium tuae dilectionis verbum confidentiae vehementis ad me, in quo consuluisti, carissime... Redditur, ecce, sermo Calliopeus inferius [il sonetto]... Sub hoc, frater carissime, ad prudentiam... te exhortor... (Ep III 1 ss.). Atmosfera di fiduciosa, serena e sorridente amicizia, che ritorna nei sonetti Io mi credea del tutto esser partito (di Dante a C.) e Poi ch'i' fui, Dante, dal natal mio sito (di C. a Dante), per accennare appena allo scambio versificato fra C. e Moroello Malaspina, nel quale è l'Alighieri a rispondere, ovviamente non in proprio ma in nome del marchese, sottolineando tuttavia con amichevole simpatia il contrasto fra la voce sì dolce e latina di C. e il suo troppo volgibile cor, cioè fra la coerente dolcezza della poesia e la volubilità del sentimento d'amore. Nel sonetto Io mi credea del tutto esser partito D. si rivolge affabilmente a C., quasi per un desiderio di protezione, obbedendo al bisogno di richiamarlo con sorridente indulgenza (piacemi di prestare un pocolino / a questa penna lo stancato dito, vv. 7-8) per il fatto che egli si lasciava prendere da ogni uncino (ancora l'accusa di volubilità in amore), venendo meno coi fatti a quell'interiore coerenza raggiunta e insegnata nei dolci detti di un tempo. E C. prospetta, in risposta, le proprie dolenti condizioni di esule (" Poi ch'io fui, Dante, dal natal mio sito / fatto per greve essilio pellegrino... io son piangendo per lo mondo gito, / sdegnato del morir come meschino "), protestando che, seppur egli ammirasse le bellezze " in molte donne sparte ", in realtà si sentiva legato da una sola passione (" un piacer sempre me lega ed involve "). In questi versi, composti anch'essi durante l'esilio di C. (1303-1306), si tocca senz'altro il punto più alto e commosso dei rapporti diretti fra i due poeti entrambi esuli. In essi la casistica amorosa scade a pretesto marginale ed emerge invece in primo piano la delusa e dolorosa realtà dell'esilio, per la quale l'amicizia diventa appoggio di salvezza e il colloquio malinconica nostalgia di un tempo pieno e felice. Del resto, proprio in quegli anni la sodalitas letteraria fra C. e D. era irrobustita e consustanziata dall'affinità degl'interessi e degl'ideali politici, volti a sostenere i diritti dell'Impero in una speranza di non lontana restaurazione.
Poco dopo, D. intraprendeva la composizione del De vulgari Eloquentia; e dunque non sembrerà strano che tanta attenzione sia stata da lui dedicata all'amico C., che vi è ricordato più volte e con giudizi talora estremamente lusinghieri. E non solo per motivi strettamente tecnici, come quando, per es., D. inserisce il suo nome fra quelli dei poeti che usarono l'endecasillabo ad apertura di canzone (II V 4), o che i loro componimenti ornarono di costrutti eccellentissimi (II VI 6), notazioni insomma non ancora impegnative sul piano di un giudizio critico integrale; ma anche per farne in senso assoluto uno dei più grandi poeti moderni. Cino è compreso nella sparutissima schiera dei toscani che conobbero l'eccellenza del volgare: scilicet Guidonem, Lapum et unum alium, Florentinos, et Cynum Pistoriensem, quem nunc indigne postponimus, non indigne coacti (I XIII 3); egli e D. stesso sono i soli dei quali si afferma che dulcius subtiliusque poetati vulgariter sunt (I X 4); e che liberandolo dalla sua rozzezza resero, in grazia del loro magistero linguistico, il volgare tam egregium, tam extricatum, tam perfectum et tam urbanum (I XVII 3), cioè sostanzialmente in grazia del loro magistero poetico e stilistico. Ma C. viene anche indicato per antonomasia, nell'ambito della produzione contemporanea, come il poeta dell'amore, l'unico vero grande poeta d'amore della nuova letteratura, riservando D. a sé stesso l'altrettanto antonomastica qualifica di poeta della rettitudine (II II 9).
Anche per C., come per D., la discesa di Enrico VII segnò l'acme delle speranze politiche. C. fu allora consigliere di Ludovico di Savoia a Firenze, quando fu chiesto alla città di aprire le porte ad Enrico; fu assessore al tribunale di Roma in vista dell'incoronazione; ma il fallimento dell'impresa con la morte dell'imperatore (1313) spense in lui entusiasmi e speranze. Forse si era allontanato già del tutto dall'esercizio della poesia amorosa; e allora abbandonò anche la vita politica militante; conseguì la laurea dottorale a Bologna (1314) e si dedicò tutto alla compilazione delle sue importanti opere giuridiche, all'attività di giurista e all'insegnamento, conseguendo insigne fama.
V'è chi pensa che in questi anni egli sia andato progressivamente avvicinandosi agl'interessi guelfi strettamente e assai praticamente intesi, e che la bell'amicizia fra lui e D. sia venuta affievolendosi fino a morire o fino a trasformarsi addirittura in ostilità. Certo è che nella Commedia non è fatto alcun luogo diretto o indiretto al nome di C., e che a C. i codici attribuiscono tre acri sonetti antidanteschi, Infra gli altri difetti del libello, In verità questo libel di Dante e Messer Boson lo vostro Manuello, dei quali, per altro, all'attuale stato degli studi, solo il primo è considerato dubitativamente ciniano (il rimatore vi si meraviglia che nel poema non siano ricordati né Onesto da Bologna né la donna che " con Sion congiunse l'Appennino ", probabilmente Selvaggia). Studi recenti hanno in verità confermato la sterzata ideologica del poeta pistoiese; ma questo può non aver affatto influito sui rapporti fra
D. e C., almeno dalla parte di Cino. Quando D. morì, l'amico superstite ne esaltò la grande anima e la grande arte nella commossa canzone Su per la costa, Amor, de l'alto monte, che idealmente e tecnicamente si ricollega alla canzone Avegna ched el m'aggia più per tempo in morte di Beatrice. E se in questa rifulgevano ben fuse le contesture tratte dalle rime di D. in lode di lei, in quella compaiono vivide locuzioni legate al poema: " ormai ha ben di lungi al becco l'erba " (v. 30); " la profezia che ciò sentenza / or è compiuta, Firenze, e tu 'l sai " (vv. 31-32), ecc. Nell'un caso e nell'altro
C. s'abbandona a una sorta di partecipe " commemorazione " (D. De Robertis) dell'arte e dell'umanità di D.; né la canzone in morte di lui può essere ipocrita frutto di occasionale opportunismo.
Bibl. - L'edizione critica più completa delle poesie di C. è ancora quella di L. Di Benedetto, Rimatori del Dolce Stil Novo, Bari 1939, 111-234; una scelta rappresentativa, preziosa per i miglioramenti testuali e per il commento, di D. De Robertis, è in Contini, Poeti II 629-690; ma per i sonetti di corrispondenza con D., si veda, di G. Contini, il commento alle Rime di D., Torino 19462, 138-144 e 187-197; e si veda inoltre l'ediz. dell'intero corpus ciniano in Poeti del Dolce stil nuovo, a c. di M. Marti, Firenze 1969, 423-923. L'epistola latina di D. a C. è in Le opere di D., testo critico della Società Dantesca Italiana, Firenze 19602, 387-388 (le Epistole sono state curate da E. Pistelli). Per il sonetto Naturalmente chere basterà il rinvio a D.A., Rime della " Vita Nuova " e della giovinezza, a cura di M. Barbi e F. Maggini, Firenze 1956, 19-28. La .polemica fra C. e Onesto da Bologna è stata studiata da D. De Robertis, C. e i poeti bolognesi, in " Giorn. stor. " CXXVIII (1951) 273-312, e da M. Marti, Onesto da Bologna, lo Stil Nuovo e D., nel vol. Con D. fra i poeti del suo tempo, Lecce 1966, 43-68. Particolarmente per i rapporti fra C. e D., V. Pernicone, D. e lo stil novo di C., Pistoia 1937 (estr. di pp. 10 dal vol. C. da P. nel VI centenario della morte, Pistoia 1937); G. Bertoni, Fra la lingua di D. e del Petrarca; la poesia di C. da P., in Lingua e cultura, Firenze 1939, 223-249; D. De Robertis, C. e le " imitazioni " dalle rime di D., in " Studi d. " XXIX (1950) 103-177; ID., C. da P. e la crisi del linguaggio poetico, in " Convivium " 1952, 1-35; A. Pézard, " De passione in passionem ", in " L'Alighieri " I (1960) 14-26; M. Marti, Gli umori del critico militante, in Con D., cit., 69-94 (partic. 81-87). Sui tre sonetti d'argomento antidantesco attribuiti a C., G. Carducci, Della varia fortuna di D., in Opere, X, 295-296, e C. da P. e altri rimatori del sec. XIV, in Opere, VI, 20-22; a favore dell'autenticità G. Biscaro, C. da P. e D., in " Studi Medievali " I (1928) 492-499 (ma cfr., di parer contrario, la recensione di N. Zingarelli, in " Studi d. " XIV [1930] 184-185, il quale li crede tutti apocrifi). Il Di Benedetto, sulle orme dello Zaccagnini, nella sua edizione accetta solo, dubitativamente, Infra gli altri difetti del libello. Ora bisognerà probabilmente inquadrare quei sonetti alla luce di D. Maffei, C. da P. e il Constitutum Costantini, in " Annali dell'Università di Macerata " XXIV (1960) 104-105; e ID., La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, Milano 1964, 136 ss.; nonché delle argomentazioni a favore recate da B. Nardi, D. e il buon Barbarossa, in " L'Alighieri " VII (1966) 23-27.