Abstract
Viene esaminata la disciplina sulla circolazione dei capitali e dei pagamenti, introdotta negli artt. 63-66 TFUE. Conformemente a quanto suggerito da un quadro normativo modificato dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la presente trattazione è completata da una breve disamina della disciplina concernente le misure di congelamento dei capitali e di blocco dei pagamenti, di beni finanziari e altri proventi nei riguardi di entità non statali nonché della normativa sull’interruzione o la riduzione delle relazioni economiche o finanziarie con uno o più Paesi terzi rispettivamente previste agli artt. 75 e 125 TFUE.
Strettamente legata all’evoluzione dell’Unione economica e monetaria (UEM) di cui costituisce una premessa indispensabile, la liberalizzazione dei movimenti dei capitali si è conclusa tardivamente. Come è noto, inizialmente il Trattato CE richiedeva agli Stati membri, per un periodo transitorio, la progressiva eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione dei capitali, unicamente nella misura indispensabile al “buon funzionamento” del mercato interno. È significativo osservare altresì che – diversamente dalla giurisprudenza sulle altre libertà di circolazione (persone, merci e servizi) – la Corte di Giustizia, all’evidente scopo di mantenere inalterata la discrezionalità del Consiglio in questa materia, ha a lungo escluso un effetto diretto del sopra menzionato obbligo al termine del periodo transitorio (Cfr. tra le altre C. giust. CE, 11.11.1981, G. Casati, C-203/80, in Racc., 2595). Soltanto a seguito degli accordi firmati a Maastricht nel 1993 e della conseguente costruzione dell’UEM (nonché dell’adozione della direttiva 88/361/CEE del Consiglio del 24.6.1988 per l’attuazione dell’art. 67 del Trattato CEE (articolo abrogato dal Trattato di Amsterdam) è stata definitivamente sancita la libertà di circolazione dei capitali tra gli Stati membri, che è stata anche estesa ai Paesi terzi.
Recentemente modificate dal TFUE che ha previsto alcune significative novità in materia di restrizioni ai movimenti di capitali tra Paesi dell’Unione e tra Paesi dell’Unione e Paesi terzi (v. infra parr. 3-8), le disposizioni sulla libera circolazione dei capitali (artt. 63-66) – inserite nel Capo IV («Capitali e pagamenti») a sua volta collocato all’interno del Titolo IV recante la generale disciplina della «Libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali» – si aggiungono a quelle sula libera circolazione dei pagamenti, in tale modo completando il complesso sistema di liberalizzazione delle attività finanziarie nel territorio dell’Unione. Si è consentito infatti l’istituzione di uno spazio finanziario di dimensione internazionale e la conseguente realizzazione di una vera politica economica e monetaria dell’Unione europea. Facilitata soprattutto dell’introduzione dell’euro che ha eliminato i rischi naturalmente connessi alle operazioni di cambio delle valute, la liberalizzazione dei capitali e pagamenti ha istituito una concorrenza diretta tra le fiscalità degli Stati membri. Ciò nonostante la tassazione diretta sia rimasta anche successivamente alla conclusione del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria (cd. Fiscal Compact) sostanzialmente di competenza degli Stati membri (cfr. tra i molti scritti in argomento Rossolillo, G., The fiscal compact, the european stability mechanism and a two-speed Europe: institutional proposals for a government of the Eurozone, in The Federalist: a political review, 2012, 10-22). In ogni caso, come anche per le altre libertà fondamentali di circolazione, il TFUE espressamente proibisce le restrizioni ingiustificate alla libera circolazione dei capitali e pagamenti all’interno dell’Unione.
La lettura del TFUE consente anche di concludere che l’analisi della disciplina primaria sulla libera circolazione dei capitali e pagamenti deve estendersi al di fuori della specifica normativa prevista nel Capo IV del Titolo IV – che contiene quattro articoli (63-66) contenenti disposizioni di principio (art. 63), misure di ordine generale applicabili dai Paesi membri (art. 65) ed una serie di disposizioni concernenti i rapporti con Paesi terzi (artt. 64 e 66) – per considerare due ulteriori disposizioni in materia di sanzioni individuali e nei confronti di Paesi terzi, riguardanti in particolare le misure di congelamento di capitali e di blocco dei pagamenti, di beni finanziari e di altri proventi nei confronti di entirà non statali (artt. 75 e 215 TFUE) (v. infra parr. 7-8).
La libera circolazione dei capitali notoriamente si realizza mediante una straordinaria varietà di forme peraltro riconducibili a due categorie fondamentali: la libertà di raccogliere capitali ai fini del successivo svolgimento di attività imprenditoriali o più in generale economiche; la libertà di impiegare risorse materiali e capitali finanziari per ottenere un ritorno economico (v. Boria, P., Diritto tributario europeo, Milano, 2010, 140 ss.). Come meglio precisato oltre, l’attenzione dei redattori del TFUE sembra ancora prevalentamente indirizzata alla prima delle due fattispecie ricordate, stante l’evidente nesso di strumentalità con la libertà di impresa e pertanto con l’attuazione dell’obiettivo di libera concorrenza sul mercato comune europeo. Nondimeno, nel TFUE esistono anche inequivocabili tracce di un’attenzione per la seconda tipologia di fattispecie, desumibile indirettamente dalle nuove competenze nel settore degli investimenti introdotte dal Trattato di Lisbona (sulle competenze dell’UE in materia di investimenti all’estero v. da ultimo De Luca, A., Non Trade Values Protection and Investment Protection in EU Investment Policy, in Treves, T.-Seatzu, F.-Trevisanut, S., eds., Foreign Investment, International Law and Common Concerns, Abingdon, 2013, in corso di pubblicazione, cap. 9).
L’art. 63 del TFUE distingue i «movimenti di capitali» dai «pagamenti» nonostante questi ultimi logicamente siano ricompresi nella nozione di capitale intesa in senso ampio e generico, anche se giustamente il TFUE ne unifica la disciplina nel Capo IV allo scopo di valorizzarne l’innegabile complementarietà esistente tra i medesimi. Il riferimento è in particolare all’obiettivo perseguito sia dai movimenti di capitali sia dalla circolazione dei pagamenti dell’avviamento di un’attività economicamente rilevante in un altro Paese (in senso critico v. però Baratta, R., Circolazione dei capitali e dei pagamenti, in Diritto dell’Unione Europea. Parte Speciale, a cura di G. Strozzi, Torino, 2010, 271, il quale ritiene la scelta giustificata solamente in parte dalla presenza di elementi comuni e dalle ovvie connessioni sussistenti tra la circolazione dei capitali e i pagamenti). Il TFUE omette invece di definire le nozioni di «movimenti di capitale» e «pagamenti». A fini classificatori però ci si può utilmente riferire alla giurisprudenza della Corte di giustizia, anche perché la nomenclatura dei «pagamenti» e dei «movimenti di capitali» allegata alla direttiva n. 88/361 del 24.6.1988 (che è stata abrogata tacitamente), la quale menzionava una serie di fattispecie astrattamente qualificabili come “investimenti diretti” di capitale, conserva evidentemente un valore meramente indicativo (C. giust. CE, 16.3.1999, Trummer e Mayer, C-222/97, in Racc., I-1661, spec. punto 21).
Conformemente quindi a quanto indicato dalla Corte di giustizia in una sua giurisprudenza constante, ai fini dell’applicazione delle norme del TFUE, devono considerarsi «movimenti di capitali» le operazioni finanziarie preordinate al conseguimento di un investimento mediante trasferimento di denaro o valori assimilati per un fine di investimento ma anche di collocazione, mentre sono da classificarsi invece come «pagamenti» le contro-prestazioni in denaro, titoli di credito, azioni o obbligazioni poste in essere in virtù di un negozio giuridico sottostante come, ad esempio, una vendita di merci o un contratto di lavoro subordinato (v. tra le tante C. giust. CE, 5.6.2005, Commissione c. Italia, C-174/04, in Racc., I-4933). Ne consegue pertanto che la libera circolazione dei pagamenti, ancora più della libera circolazione dei capitali a cui naturalmente è estraneo il concetto di corrispettività, sono instrinsecamente funzionali all’esercizio di un’altra libertà fondamentale di movimento (merci, persone ed in particolare servizi).
È suggerito dall’art. 63 del TFUE che la disciplina sulla circolazione dei capitali e dei pagamenti si informa all’obbligo giuridico di eliminare “tutte” le restrizioni tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi. Il principio della libera circolazione dei capitali e pagamenti, implicitamente desumibile da questa disposizione, ha pertanto una portata generale ed effetti diretti verticali, come dimostrato in particolare dalla locuzione «non pregiudicano» chiaramente attestante la volontà dei redattori del TFUE di applicare immediatamente questo principio (vedi anche infra par. 5). Peraltro va sottolineata la formulazione negativa della disposizione in parola, la quale troppo prudentemente menziona solamente obblighi non assoluti di non fare (aventi ad oggetto l’eliminazione delle restrizioni alla mobilità dei capitali e dei pagamenti) piuttosto che obblighi di fare (aventi ad oggetto la liberalizzazione dei mercati finanziari all’interno del territorio dell’Unione). In altri termini, l’art. 63 del TFUE suggerisce che per il rispetto del principio generale della libera circolazione è sufficiente che gli Stati membri procedano all’eliminazione delle restrizioni all’importazione e all’esportazione di capitali. Quanto poi al carattere non assoluto degli obblighi di non facere ivi previsti esso si ricava nitidamente dall’interpretazione letterale dell’art. 63 in generale e più nello specifico dal riferimento all’ambito di applicazione materiale delle disposizioni contenute nel TFUE come limite all’operatività della libera circolazione dei capitali e pagamenti (in senso conforme v. anche Baratta, R., Circolazione dei capitali e dei pagamenti, cit., 273).
Meno agevole è invece comprendere se le norme sui movimenti di capitali e sulla libera circolazione dei pagamenti devono ritenersi produttive di effetti diretti soltanto verticali oppure anche orizzontali, vale a dire nei rapporti interindividuali. A sostegno di un’interpretazione estensiva degli effetti ricollegabili alle due disposizioni dell’art. 63e, più in generale, alle disposizioni che compongono il capo dedicato ai capitali e pagamenti, si è fatta valere l’indeterminatezza della cerchia soggettiva cui esse si rivolgono (v. Baratta, R., Circolazione dei capitali e dei pagamenti, cit., 273). Sennonché un’efficacia anche orizzontale dell’art. 63 del TFUE male si concilia con la formulazione prudente di questa disposizione e più nello specifico con la natura negativa degli obblighi giuridici ivi previsti. Né la formulazione letterale dell’art. 63 né i suoi contenuti ostano invece ad un’interpretazione del diritto interno da parte dei giudici e degli organi amministrativi in maniera conforme alle disposizioni sulla libera circolazione dei capitali e pagamenti.
Non meno controversa dell’efficacia diretta verticale oppure anche orizzontale dell’art. 63 è la questione riguardante il suo ambito di applicazione soggettivo. A questo riguardo, è stato giustamente osservato che la circostanza che le altre libertà fondamentali di circolazione nel TFUE si rivolgono in via immediata soltanto ai cittadini dei Paesi membri non è sufficiente ad escludere automaticamente l’applicabilità ai residenti non cittadini di Paesi membri anche delle norme sulla circolazione dei capitali e pagamenti di cui agli artt. 63-66. Esistono infatti argomenti a favore di un’applicazione estensiva dell’ambito di applicazione soggettivo delle predette disposizioni anche ai residenti non cittadini. Tra questi argomenti, a nostro parere, il più significativo è che il termine «restrizioni» alla libera circolazione dei capitali e pagamenti, nonostante le ambiguità naturalmente connesse alla perdurante assenza di una sua definizione in termini generali da parte della Corte di giustizia (v. Daniele, L., Diritto del Mercato Unico europeo, Milano, 2012, 172), non può essere interpretato restrittivamente. Come è già stato precisato sopra, l’art. 63 vieta infatti “tutte” le restrizioni tra Stati membri (leggi: tutti gli ostacoli di qualsiasi natura che si frappongono alla libera circolazione dei capitali e pagamenti anche se eventualmente differenti dalle restrizioni di cambio come, ad esempio, le norme tributarie nazionali o le norme nazionali che subordinano il trasferimento di valuta, mezzi di pagamento, valori mobiliari in genere al conseguimento in via preliminare di un’autorizzazione amministrativa), nonché tutti gli ostacoli alla libera mobilità dei capitali e pagamenti tra Stati membri e Paesi terzi. Un altro argomento a sostegno dell’estensione delle norme primarie sui movimenti di capitali e sulla libera circolazione dei pagamenti nel indicato senso sopra è la mancata previsione di una espressa limitazione degli artt. 63-66 ai soli cittadini dei Paesi membri. Ancora, è stato osservato che le finalità perseguite dalla libertà in questione rischierebbero di essere gravemente compromesse se dal suo ambito di applicazione ratione personarum si escludessero i residenti di Paesi non membri, le cui operazioni di spostamento dei capitali e pagamento restrebbero così sottoposte esclusivamente alle disposizioni nazionali. In ultimo, si è sottolineata l’esistenza di una serie di disposizioni sulla “dimensione esterna” della libertà di circolazione dei capitali e pagamenti non aventi una corrispondenza nella disciplina delle altre libertà di circolazione, per cui il TFUE si limita invece ad assicurarne lo svolgimento sul piano “interno” e cioè nei rapporti fra Stati membri (v. Baratta, R., Circolazione dei capitali e dei pagamenti, cit., 274). Sennonché è altresì vero che nemmeno mancano gli argomenti, che anzi a noi sembrerebbero essere considerati prevalenti, a favore dell’applicazione degli artt. 63-66 del TFUE esclusivamente ai cittadini dei Paesi membri dell’Unione. Tra questi argomenti basti ricordare – oltre all’inquadramento sistematico della materia dei movimenti dei capitali e pagamenti nel Titolo IV del TFUE significativamente comprendente le altre libertà fondamentali di circolazione indirizzate in via immediata ai soli cittadini dei Paesi dell’Unione – rispettivamente: a) che l’obbligo di liberalizzazione dei mercati finanziari nazionali implicitamente desumibile dall’art. 63 non è assoluto. Ciò è stato ribadito anche di recente dalla stessa Commissione che ha giustificato la decisione di Cipro di introdurre un limite ai trasferimenti di denaro e ai pagamenti con le carte di credito a cinquemila euro al mese dichiarando che: «la stabilità dei mercati finanziari ed il sistema bancario a Cipro costituisce una questione di interesse pubblico primario» (v. infra par. 5); b) la paradossalità di applicare le norme sulla libera circolazione dei capitali e pagamenti, la cui attuazione è storicamente avvenuta con significativa prudenza e gradualità (v. Gandullia, L., Libera circolazione dei capitali e deregolamentazione valutaria, Roma, 1995, 132), più estensivamente delle corrispondenti norme sulle altre libertà fondamentali di circolazione. Tuttavia questi argomenti non sembrano essere stati accolti dalla Corte di giustizia la quale – dopo avere sostenuto che: «l’art. 73 B (ora 63) del Trattato vieta in maniera generale le restrizioni ai movimenti di capitali tra gli Stati membri» – ha altresì disposto che: «Tale divieto va oltre l’eliminazione di una disparità di trattamento tra gli operatori sui mercati finanziari in base alla loro cittadinanza» (sent. 4.6.2002, Commissione c. Portogallo, C-367/98, in Racc., I-4731).
È noto che le libertà di circolazione dei capitali e pagamenti sono le uniche libertà di movimento che ammettono una restrizione o deroga (esclusivamente) in base ad una causa di giustificazione espressamente precisata nel TFUE. Infatti per le altre libertà fondamentali di circolazione le cause di giustificazione delle restrizioni alla mobilità non sono state tipicizzate nel diritto primario dell’Unione. Esse pertanto trovano il loro fondamento giuridico nell’apprezzamento giudiziale compiuto caso per caso dalla Corte di giustizia (amplius Vigneron, P., La libération complète des mouvements de capitaux au sein de la Communauté, in Revue de la Banque, 1988, 7 ss.).
Un’interpretazione sistematica dell’art. 65, che contiene un decalogo lungo ma tassativo delle deroghe consentite alle libertà di circolazione dei capitali e pagamenti, suggerisce che qualsiasi restrizione alla mobilità di pagamenti e capitali, indipendentemente dalla tipologia e causa giustificatrice, è giustificata se proporzionata nella portata e nei fini alle specifiche esigenze dell’interesse protetto (v. tra le tante C. giust. CE, 14.3.2000, Association Eglise de scientologie de Paris, C-367/98, in Racc., I-5751 26, par. 17). Occorre anche ricordare che l’art. 65 se interpretato alla luce delle altre disposizioni del Capo IV del Titolo IV vieta ai Paesi membri l’introduzione di restrizioni alla circolazione finalizzate esclusivamente o principalmente alla protezione di interessi puramente economici. Le altre condizioni poste dal TFUE nel Capo IV del Titolo IV per l’introduzione negli ordinamenti statali di misure restrittive alla mobilità di capitali e pagamenti variano invece a seconda della tipologia e natura giuridica dello specifico provvedimento restrittivo adottato.
Sempre dall’interpretazione sistematica delle disposizioni del TFUE sulla circolazione dei capitali si ricava l’illegittimità delle misure che si traducono in restrizioni dissimulate oppure in discriminazioni arbitrarie tra gli investitori nazionali e stranieri all’interno dei mercati finanziari nazionali. Siffatte misure – analogamente a quanto stabilito nel TFUE a proposito delle altre libertà di circolazione – sono da considerarsi sempre proibite se inibiscono l’accesso al mercato di investimenti stranieri, anche ipoteticamente in assenza di un trattamento discriminatorio sul piano giuridico-formale.
Seguendo la sistematica dell’art. 65 del TFUE, una prima deroga alla libera circolazione di capitali e pagamenti implicitamente si ricava dalla facoltà per gli Stati membri di introdurre nei loro ordinamenti una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella stessa situazione in ragione della propria residenza o del luogo di allocazione del capitale. La ratio di questa deroga – la cui formulazione letterale è criticabile perché omette di precisare il significato delle nozioni di «luogo di collocamento del capitale» e di «residente» pure fondamentali a fini applicativi – è palese: essa persegue una finalità di politica economica, poiché garantisce agli Stati membri la possibilità di praticare una tassazione agevolata per i non residenti al fine di favorire l’afflusso nei loro territori di capitali provenienti dall’estero (sul significato e i limiti di tale deroga v. da ultimo C. giust. UE, 26.4.2012, C-578/10 e a., Staatssecretaris van Financiën/L.A.C. van Putten e a., non ancora pubblicata in Racc., punto 23). È invece escluso che gli Stati Membri possano invocare la presente deroga per giustificare l’introduzione di regimi fiscali che prevedano, in materia di raccolta di capitali, un trattamento più favorevole per le società aventi sede nel proprio territorio e meno favorevoli invece per quelle aventi sede in altri Stati membri (v. C. giust. UE, 4.4.2004, C-334/02, Commissione c. Francia, in Racc., I-2229).
Una seconda deroga si ricava dal successivo precetto dell’art. 65 laddove, nell’incipit iniziale della lett. b), espressamente si autorizzano gli Stati membri: «a prendere tutte le misure appropriate per impedire la violazione di disposizioni della legislazione e delle regolamentazioni nazionali, in particolare in materia fiscale e di vigilanza prudenziale delle istituzioni finanziarie». Poiché la finalità è esclusivamente il contrasto all’evasione fiscale, così come agevolmente si ricava da un’interpretazione restrittiva della norma de qua, all’art. 65, lett. b) non potrà farsi ricorso da parte dagli Stati Membri alla stregua di uno strumento di politica economico-finanziaria. Più nello specifico può osservarsi che sarebbe in contrasto con l’art. 65, lett. b) ad esempio la subordinazione in termini astratti e generali dell’esportazione di monete, biglietti di banca o assegni al portatore ad un’autorizzazione amministrativa preventiva (v. in senso conforme C. giust. CE, 23.2.1995, Aldo Bordessa e altri, relativa alla corrispondente deroga prevista nell’art. 4 della direttiva n. 88/361).
È altresì previsto nell’art. 65, lett. b) che, a meri scopi di informazione amministrativa o statistica, gli Stati membri possono legittimamente introdurre procedure per la dichiarazione dei movimenti di capitali (leggasi: obblighi di dichiarazione preventiva da parte dei singoli aventi ad oggetto l’esportazione di valuta). È però escluso che siffatte procedure possano condizionare l’esportazione dei capitali al preventivo conseguimento di un’autorizzazione amministrativa.
Considerazioni parzialmente difformi si applicano invece nell’ipotesi in cui, per impiegare la medesima terminologia dell’art. 65, lett. b), ricorrano esigenze di ordine pubblico o pubblica sicurezza. Sebbene anche queste deroghe come le precedenti devono interpretarsi restrittivamente (in senso conforme v. in particolare C. giust. CE, 14.3.2000, C-54/99, Association Eglise de Scientologie de Paris, in Racc., I-1335 ss., punto 17, in cui significativamente si è statuito che tali temperamenti non possono: «essere distolti dalla loro funzione propria per essere utilizzati, in realtà, a fini puramente economici»), è indubbio che – sia pure soltanto a certe condizioni (leggasi: « … in caso di minaccia effettiva ed abbastanza grave ad uno degli interessi della collettività») – gli Stati membri possano subordinare gli investimenti stranieri nello Stato ad un’autorizzazione amministrativa preventiva (v. anche Rossi, L.S., Libera circolazione dei capitali e ordine pubblico nel diritto comunitario: il caso delle norme antiriciclaggio, in Riv. dir. intern. priv. proc., 1996, 43-66).
Va anche osservato che il Trattato di Lisbona ha previsto una nuova deroga all’art. 65, par. 4, concernente le «misure fiscali restrittive adottate da uno Stato membro riguardo ad uno o più paesi terzi», in mancanza di misure approvate dal Consiglio. Conformemente a quanto ivi precisato spetta al Consiglio «confermare» le predette misure con una sua decisione, previo accertamento della loro compatibilità con il diritto primario dell’Unione «nella misura in cui sono giustificate da uno degli obiettivi dell’Unione e compatibili con il buon funzionamento del mercato interno». Una lettura della norma de qua fa supporre che la procedura ivi indicata possa essere normalmente celere, poiché la decisione del Consiglio ha un carattere meramente residuale, competendo infatti alla Commissione pronunciarsi entro il termine perentorio di tre mesi dalla formale richiesta dello Stato membro interessato. Sennonché ad una conclusione diversa si perviene se, così come a noi sembra più corretto, non si accoglie la tesi secondo cui l’accertamento spettante alla Commissione (o se del caso al Consiglio per la cui delibera è espressamente richiesta l’unanimità) è necessariamente ristretto alla verifica dei requisti elencati nell’art. 65, par. 3 (leggasi: la non arbitraria discriminatorietà delle deroghe introdotte o il carattere non dissimulato delle restrizioni al libero movimento dei capitali e pagamenti) (ma v. in questo senso Baratta, R., Circolazione dei capitali e dei pagamenti, cit., 282) ma si sostiene invece che esso può riguardare anche altri requisiti come ad esempio l’applicazione corretta delle regole di concorrenza in materia di aiuti di Stato, se indispensabile per valutare nello specifico la compatibilità delle misure fiscali adottate con il buon funzionamento del mercato comune, con uno degli obiettivi dell’Unione e più in generale con il TUE e il TFUE (sulla compatibilità con il buon funzionamento del mercato comune v. per tutti Rossi, L.S., Il buon funzionamento del Mercato comune: delimitazione dei poteri fra CEE e Stati membri, Milano, 1990). In ultimo, a proposito dell’art. 65, par. 4, ci si è interrogati sulle conseguenze della mancanza di decisione da parte del Consiglio. A questo riguardo è stato sostenuto che la misura unilaterale, necessitando da parte delle istituzioni dell’Unione di una “conferma” espressa che opererebbe come condizione risolutiva, perderebbe i propri effetti in assenza di una pronuncia della Commissione o del Consiglio (v. Baratta, R., Circolazione dei capitali e dei pagamenti, cit., 282). Sennonché piuttosto che di decadenza sarebbe forse più esatto parlare di inefficacia della misura unilaterale, posto che la decisione delle istituzioni parrebbe operare piuttosto come una condizione sospensiva.
Quanto fin qui precisato sarebbe però incompleto se non si ricordasse che agli Stati membri non è consentita l’assunzione di provvedimenti unilaterali rientranti nella competenza delle istituzioni in base ad altre norme del TFUE. Ancora, giova sottolineare che la Corte di giustizia ha recentemente, ma comunque prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ritenuto applicabile la sua giurisprudenza sulle «esigenze imperative connesse all’interesse generale» anche al settore della circolazione dei capitali (v. tra le tante C. giust. UE, 20.5.2008, C-194/06, punto 59). Astrattamente operante come una deroga aggiuntiva rispetto a quelle (tassativamente) elencate nell’art. 65 del TFUE questa giurisprudenza deve attualmente conciliarsi con i limiti dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza richiamati nell’art. 65, par. 1, lett. b). Orbene ragionando sul fondamento dell’estensione della giurisprudenza sulle «esigenze imperative connesse all’interesse generale» alla materia della circolazione dei capitali – vale a dire la necessità di colmare le lacune del diritto primario dell’Unione in tema di garanzie degli interessi fondamentali degli Stati membri interessati dal movimento transfrontaliero di capitali e pagamenti – sembra difficile sostenere la loro perdurante utilità nel quadro normativo modificato dal Trattato dl Lisbona (in senso parzialmente conforme v. anche Baratta, R., Circolazione dei capitali e dei pagamenti, cit., 282). In altri termini, nella vigenza delle sopra menzionate deroghe di cui all’art. 65 del TFUE è ragionevole affermare che le «esigenze imperative connesse all’interesse generale» sono state interamente “assorbite” nelle nozioni dell’ordine pubblico o della pubblica sicurezza.
Perché procedere separatamente ad una trattazione della “dimensione esterna” della circolazione dei capitali e pagamenti ? La risposta facilmente si ricava dallo stesso TFUE che, anche nella novella del Trattato di Lisbona, insiste sull’assoggettamento dei rapporti da e verso l’esterno dell’Unione ad una disciplina parzialmente difforme da quella applicabile ai rapporti fra Stati membri. Come è stato giustamente osservato da altri autori, pure fondandosi sul medesimo principio generale previsto nell’art. 63, il grado di liberalizzazione nel caso dei rapporti da e verso l’esterno dell’Unione è comunque (ancora) minore rispetto a quello conseguito nei rapporti fra Stati membri (v. tra i tanti Baratta, R., Circolazione dei capitali e dei pagamenti, cit., 284). Infatti se la circolazione dei capitali e pagamenti con i Paesi terzi è disciplinata, da un lato, dai principi di liberalizzazione illustrati nei precedenti paragrafi (v. supra parr. 2 e 3), dall’altro, ad essa si applicano anche gli artt. 64, 66, 75 e 215 del TFUE.
Da un raffronto anche sintetico tra i due sopra menzionati regimi giuridici si è immediatamente colpiti dalla circostanza che l’art. 64, par. 1, ha espressamente confermato le restrizioni a taluni movimenti di capitali selezionati per tipologia vale a dire quelli (peraltro tra i più rilevanti economicamente) che: «implicano investimenti diretti, inclusi gli investimenti in proprietà immobiliari, lo stabilimento, la prestazione di servizi finanziari o l’ammissione di valori mobiliari nei mercati finanziari» in vigore alla data del 31.12.1993 sulla base di norme dell’Unione o nazionali oppure dal 31.12.1999 per le restrizioni esistenti in base alla normativa nazionale in Bulgaria, Estonia e Ungheria. A parziale ridimensionamento degli effetti astrattamente ricollegabili all’art. 64, par. 1, va sottolineato che questa norma non riconosce agli Stati membri anche il potere di introdurre restizioni aggiuntive in materia di investimenti diretti e nemmeno quello ad esso complementare di aggravare quelle già esistenti. Al contrario – dal combinato disposto degli artt. 63 e 64 e specialmente dalla lettera dell’art. 64, par. 2, in cui significativamente è stata ribadita la necessità di pervenire ad una completa liberalizzazione dei movimenti di capitali anche nella “dimensione esterna” e dall’art. 64, par. 3, in cui si stabilisce che il Consiglio, previa consultazione con il Parlamento europeo, può adottare atti che «comportino un regresso del diritto dell’Unione» nella circolazione dei capitali sia pure solamente all’unanimità (art. 64, par. 3) – facilmente si desume una facoltà per gli Stati membri di eliminare o eventualmente restringere la portata delle limitazioni eventualmente in vigore nei rapporti con i Paesi terzi. Ancora, va considerato che a siffatta deroga, a cui puntualmente corrisponde un obbligo di standstill, gli Stati membri non possono riferirsi se le misure ostative alla mobilità di pagamenti o capitali da e verso l’esterno dell’Unione presentano un carattere puramente astratto e generale, vale a dire se esse non hanno esplicitamente ad oggetto investimenti diretti, in ragione soprattutto della tassatività dell’elencazione prevista nella norma (sul carattere tassativo dell’art. 64, par. 2, v. anche C. giust. CE, 14.12.1995, Sanz de Lera e altri, causa riunite C-163/94, C-165/94 e C-250/94, in Racc., I-4821, punto 45). Ne consegue quindi che gli Stati membri non possono invocare l’art. 64, par. 1, per inibire o ridurre l’esportazione o l’importazione di strumenti finanziari e di pagamento che non comportino investimenti diretti nei loro territori. Gli Stati membri però, ai sensi dell’art. 64, par. 1, possono sempre verificare la natura e l’autenticità di siffatte operazioni di import e export di capitali e valute così da acclarare se le medesime siano state o meno realizzate in violazione di quelle restrizioni alla libera circolazione dei capitali che lo stesso art. 64 ha esplicitamente autorizzato. Ma non basta, ulteriori temperamenti agli effetti astrattamente riconducibili alla deroga di cui all’art. 64, par. 2, si rinvengono, almeno a nostro avviso, nella facoltà per le istituzioni dell’Unione, a maggioranza qualificata e su proposta della Commissione, di sovrapporsi alle disposizioni che gli Stati membri eventualmente abbiano adottato ai sensi dell’art. 64, par. 1.
Trattandosi di una diversità di regime per così dire “non a termine” un discorso differente deve farsi a proposito della possibilità di ricorrere a misure di salvaguardia nei confronti dei Paesi terzi ammesse dall’art. 66 del TFUE. Ai sensi dell’art. 66, tale facoltà, prerogativa esclusiva del Consiglio deliberante a maggioranza qualificata su iniziativa della Commissione e preventivamente sentita la Banca Centrale Europea, è esercitabile in presenza di movimenti di capitali provenienti da Paesi terzi o ad essi diretti: «che causino o minaccino di causare difficoltà gravi per il funzionamento dell’Unione economica e monetaria». Come è inequivocabilmente suggerito dalla formulazione letterale utilizzata, all’adozione di misure di salvaguardia nei confronti di Paesi terzi può pervenirsi esclusivamente in presenza di situazioni eccezionali. In altri termini, la circostanza che movimenti di capitali da o verso un Paese terzo avvengano secondo modalità pure obiettivamente contrarie alla sicurezza giuridica e/o alla normale confiance légitime nei rapporti finanziari internazionali non è sufficiente a legittimare siffatte deroghe al principio generale della libera circolazione. All’uopo è indispensabile dimostrare altresì il pericolo di un danno serio e prossimo (anche se non necessariamente irreparabile così come tradizionalmente è invece richiesto per l’esperimento della tutela cautelare) all’UEM. Naturalmente siffatte misure ex art. 66 devono sempre essere adottate nel pieno rispetto del principio di proporzionalità nonché per una durata mai eccedente i sei mesi.
È noto che l’attuazione delle risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite contenenti misure di congelamento di capitali e blocco di pagamenti, anche antecedentemente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che ha previsto alcune rilevanti novità in questo ambito, rientrava tra le competenze delle istituzioni dell’Unione. Infatti l’adozione di sanzioni individuali nei confronti di Paesi terzi a seguito dell’attuazione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza si è verificata anche prima degli attentati dell’11.9.2001 alle cosiddette “torri gemelle” a New York (v. da ultimo De Vido, S., Il contrasto del finanziamento al terrorismo internazionale, Padova, 2012, 229). Quanto poi alle novità introdotte dal Trattato di Lisbona, esse si sono tradotte nell’inserimento di due basi normative ad hoc che hanno radicalmente trasformato il diritto primario dell’Unione in questa materia.
Innanzitutto, va ricordato l’art. 75 del TFUE, il quale ha espressamente previsto il potere di adottare sotto forma regolamentare misure economiche afflittive nei riguardi di individui. È significativo che l’ambito applicativo della predetta disposizione sia stato definito in senso lato così come facilmente si arguisce dal riferimento ad «un insieme di misure amministrative concernenti i movimenti di capitali e i pagamenti, quali il congelamento dei capitali, dei beni finanziari e dei proventi economici appartenenti, posseduti o detenuti da persone fisiche o giuridiche, da gruppi o entità non statali». Ai sensi dell’art. 75, par. 2, la competenza ad adottare siffatte misure – finalizzate alla prevenzione e alla repressione del terrorismo e delle attività connesse – è riconosciuta al Parlamento e al Consiglio, che deliberano secondo la procedura legislativa ordinaria. In particolare è ivi stabilito che le misure di attuazione delle sanzioni individuali rientra nella competenza del Consiglio, che la esercita su proposta della Commissione e non può dunque essere attribuita alla Commissione nemmeno nell’ipotesi in cui essa necessiti di condizioni di esecuzione uniformi (in senso conforme v. Baratta, R., Circolazione dei capitali e dei pagamenti, cit., 288). La sopra menzionata ratio della disposizione de qua chiarisce il motivo per cui, ai sensi dell’art. 75, par. 3, le misure in questione «contengono le necessarie disposizioni sulle garanzie giuridiche».
Artt. 63-66, 75 TFUE
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