Abstract
Viene esaminata una delle libertà fondamentali nel processo di integrazione europea, che riveste tuttora un ruolo centrale nel sistema del mercato interno. Disciplinata nel capo II TFUE, artt. 28-37, la libera circolazione delle merci richiede soprattutto un’opera costante di individuazione ed eliminazione delle misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative, che costituiscono la categoria più rilevante di ostacoli non tariffari,come rivela l’amplissima giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di libera circolazione delle merci.
Sin dalle origini del trattato istitutivo della Comunità europea, alla libera circolazione delle merci è stato assegnato un ruolo centrale nella creazione di un vasto spazio economico unificato – il mercato comune – da realizzare mediante la progressiva liberalizzazione del movimento di tutti i fattori di produzione. L’instaurazione, nel 1968, di una unione doganale, estesa al complesso degli scambi commerciali, e posta a fondamento del disegno di costruzione europea, ha costituito non solo la prima realizzazione concreta della Comunità, ma anche, come era nelle aspettative, il motore dell’ intero processo di integrazione sinora culminato nel trattato di Lisbona (in vigore dall’1.12.2009), che ha modificato il TUE e il TCE, denominato ora Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
Alla metà degli anni ’80, il rilancio dell’integrazione ha tratto impulso dalla necessità di accelerare il processo di realizzazione del mercato comune, propugnata dalla Commissione, che, per dare concretezza a tale obiettivo, aveva redatto un Libro bianco sul completamento del mercato interno (COM(85) 310 def.), L’Atto unico europeo (1986) ha recepito le finalità e il contenuto essenziale del Libro bianco ribadendo anche la data del 31.12.1992 come termine, per l’instaurazione del mercato interno, definito come «uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali» (art. 26, par. 2, TFUE). È appena il caso di rilevare che l’attuazione del programma della Commissione entro la data del 1.12.1992 non ha comportato il completamento del mercato interno, ma ha rappresentato una tappa particolarmente significativa di un processo in continua evoluzione che richiede costantemente l’individuazione e l’eliminazione di qualsiasi ostacolo alle libertà di circolazione. Di tale processo il trattato di Maastricht sull’Unione europea (1992) ha segnato una ulteriore tappa rilevante in quanto ha consolidato la dimensione economica del mercato interno mediante la creazione di una Unione economica e monetaria e nel contempo ne ha innovato sensibilmente l’originaria connotazione arricchendolo di obiettivi, compiti e politiche che travalicano la sfera dell’integrazione economica e configurano il mercato interno come il nucleo centrale di un ordinamento articolato e complesso nel cui ambito trovano riconoscimento non solo le libertà economiche fondamentali ma anche l’insieme delle istanze sociali e giuridiche che ad esse si ricollegano (Tesauro, G., Diritto dell’Unione europea, VII ed., Padova, 2012, 370).
Il ruolo fondamentale della libera circolazione delle merci nel mercato interno è confermato anche dalla collocazione sistematica delle relative disposizioni nella parte terza del TFUE sulle politiche e azioni interne dell’Unione, il cui titolo I è dedicato al mercato interno. Alla libera circolazione delle merci è dedicato il successivo titolo II, che agli artt. 28 e 29 definisce la portata dell’unione doganale e si articola in tre capi: il primo, artt. 30-32, relativo all’unione doganale, il secondo, art. 33, alla cooperazione doganale e il terzo, artt. 34-37, al divieto delle restrizioni quantitative tra gli Sati membri.
Alle norme del TFUE fa riscontro un cospicuo corpo di giurisprudenza e di legislazione derivata che mira a rimuovere gli ostacoli alla libera circolazione delle merci ancora esistenti e a prevenirne la creazione di nuovi attraverso misure dirette sia a garantire l’applicazione del principio di riconoscimento reciproco, sia a dettare regole comuni che tengano conto delle continue innovazioni tecnologiche, perseguendo nel contempo gli obiettivi della protezione della salute, della sicurezza e dell’ambiente che integrano oramai tutte le azioni e le politiche dell’Unione.
A norma dell’art. 52 del TUE, la sfera spaziale di applicazione delle norme sulla libera circolazione delle merci è lo stesso dell’intero trattato, sicché comprende, con le precisazioni di cui all’art. 355 del TFUE, il territorio di tutti gli Stati membri.
Tali norme hanno oramai come destinatari solo gli Stati, essendo state abrogate, per scadenza dei termini a cui esse si collegavano, le disposizioni di cui erano destinatarie le istituzioni, per le quali sussiste tuttavia il divieto implicito di adottare provvedimenti che restringano la libera circolazione (v., ad es., sent. 14.12.2004, Swedish Match AB, causa C-210/03, in Racc., I-1893). In quanto, nella quasi generalità, sono state ritenute dalla Corte di giustizia dotate di effetto diretto, le norme del TFUE sulla libera circolazione che impongono divieti agli Stati conferiscono ai singoli diritti che essi possono far valere in via giudiziaria, mentre eventuali comportamenti dei singoli che incidano negativamente sulla libera circolazione delle merci vengono valutati dalla giurisprudenza alla luce delle regole di concorrenza.
L’ambito materiale di applicazione delle norme sulla libera circolazione delle merci, indicato dall’art. 28 TFUE con la dizione generica e ampia di «complesso degli scambi di merci», è stato arricchito grazie all’approccio funzionale seguito dalla Corte di giustizia che, secondo una giurisprudenza consolidata, fa rientrare nella nozione di merce tutti i prodotti pecuniariamente valutabili e come tali atti a costituire oggetto di transazioni commerciali (sent. 10.12.1968, Commissione c. Italia, causa 7/68, in Racc., 617, 1); risultano ora sottoposti al regime della libera circolazione anche i rifiuti, siano essi riciclabili o meno (sent. 9.7.1992, Commissione c. Belgio, causa C-2/90, in Racc., 4431, punti 26-27), l’energia elettrica (sent. 27.4.1994, Almelo c. Energiebedrif, causa C-393/92, in Racc., I-1477, punto 28), gli apparecchi per i giochi di azzardo (sent. 21.9.1999, Laara, causa C-393/92, in Racc., I-6067, punto 20), il gas naturale (sent. 23.10.1997, Commissione c. Francia, causa C-159/94, in Racc., I-05815) e, in linea generale, anche gli stupefacenti (sent. 28.3. 1995, Evans Medical causa C-234/93, in Racc., I-563, punto 20).
L’art. 30 TFUE prescrive il divieto dei dazi doganali (anche quelli di carattere fiscale) all’importazione e all’esportazione nonché delle tasse di effetto equivalente. Dopo l’instaurazione dell’unione doganale tra i sei Stati membri fondatori, l’eliminazione dei dazi doganali ha riguardato gli Stati che sono successivamente entrati a far parte dell’Unione: in gran parte aboliti nella fase di negoziazione dell’adesione, il loro totale smantellamento ha comportato anche per i nuovi Stati membri un periodo transitorio, onde consentire il progressivo disarmo doganale e il ripristino della tariffa doganale comune.
Più complessa risulta invece l’eliminazione delle tasse di effetto equivalente, la cui individuazione, in assenza di una definizione del trattato, è affidata all’opera di vigilanza della Commissione che, nei casi dubbi, può avvalersi dell’interpretazione della Corte di giustizia. Si è pertanto sviluppata una nozione giurisprudenziale di tassa di effetto equivalente, ampia e realisticamente esauriente, nella quale rientra «qualsiasi onere pecuniario imposto unilateralmente a prescindere dalla sua denominazione e dalla sua struttura, che colpisca le merci in ragione del fatto che varcano la frontiera» (sent. 1.7.1969, Commissione c. Italia, causa 24/28, in Racc., 193). Ciononostante, l’individuazione delle tasse di effetto equivalente a dazi doganali può prospettare, in alcuni casi particolari, ancora problemi di interpretazione che si sono finora risolti in una ulteriore estensione della definizione tradizionale. Sempre mossa dall’esigenza di assicurare il massimo rigore nell’interpretare l’art. 30 come divieto assoluto di porre qualsivoglia ostacolo tariffario alla circolazione delle merci, la Corte è arrivata perfino a superare il limite che essa stessa aveva costantemente ritenuto preclusivo dell’applicazione delle norme sulla libera circolazione e cioè la presenza di una situazione puramente interna: giustificando la sua decisione con la necessità di assicurare effetto utile alla nozione di unitarietà del territorio doganale, che sarebbe pregiudicata dall’esistenza di ostacoli doganali all’interno di uno Stato, la Corte ha ritenuto infatti che sono da considerare tasse di effetto equivalente anche gli oneri fiscali istituiti all’interno di uno stesso Stato tra parti o regioni diverse del suo territorio, indipendentemente dal fatto che le merci siano di provenienza estera o nazionale e nonostante colpiscano anche le merci provenienti da un’altra parte o regione dello stesso Stato (sent. 9.9.1994, Lancry, cause riunite C-363/93, e C-407/93-C-411/93, in Racc., I-03957). Successivamente, con la sent. 9.9.2004 (Carbonati Apuani, causa C-72/03, in Racc., I-02655), incurante delle critiche di fragilità giuridica e di incoerenza mosse alla giurisprudenza Lancry dalla dottrina e dallo stesso avvocato generale (v. le Conclusioni di Maduro del 6.5.2004, spec. punti da 44 a 69), la Corte, in un caso concernente una tassa che colpiva, al momento del superamento del confine comunale, solo una categoria precisa di merci, il marmo di Carrara, ha confermato il suo nuovo orientamento argomentandolo sulla base di una nozione lata ed estemporanea di mercato interno secondo la quale sarebbe implicita anche l’abolizione delle frontiere interne di uno Stato.
L’art. 110 TFUE integra l’art. 30 vietando agli Stati membri di imporre tributi interni a carattere discriminatorio nei confronti dei prodotti degli altri Stati membri, ovvero protezionistico a vantaggio della produzione nazionale: alterando le condizioni di neutralità fiscale che mirano a garantire la libera circolazione delle merci, tali tributi possono in effetti dissimulare restrizioni agli scambi tra gli Stati membri alla stregua delle tasse di effetto equivalente a dazi doganali, con le quali tendono, spesso strumentalmente, a confondersi. È frequente infatti il tentativo degli Stati di aggirare il divieto assoluto di tasse di effetto equivalente qualificando l’onere tariffario che ostacola la libera circolazione delle merci come tributo interno ai sensi dell’art. 110 (v., ad es., sent. Carbonati Apuani cit., punto 16). Pertanto, poiché nel sistema del TFUE l’applicazione cumulativa delle due disposizioni in esame non è ammissibile, secondo una giurisprudenza costante occorre innanzitutto escludere che il tributo controverso sia qualificabile come tassa di effetto equivalente e, in caso contrario, verificare se detto tributo costituisca una imposizione interna lecita ai sensi dell’art. 110 TFUE (sent. 27.11.2003, Enirisorse spa, cause riunite da C-34/01 a C-38/01, in Racc., I-142143), ovvero vietata (sent. 19.6.2009, Commissione c. Finlandia, causa C-07/08, in Racc., I-00039).
Al pari dei dazi doganali, anche le restrizioni quantitative rappresentano uno strumento protezionistico tradizionale, da ritenere oramai obsoleto, la cui individuazione, grazie anche alla regolamentazione internazionale del commercio, risulta agevole; sicché le violazioni del relativo divieto sia all’importazione sia all’esportazione, posto, rispettivamente dall’art. 34 e dall’art. 35 del TFUE, che occasionalmente possono ancora prospettarsi, sono rilevate e rimosse con immediatezza (v., ad es., sent. 23.5.1996, Hedley Thomas, causa C-131-93, in Racc., I-3303). Più problematica risulta invece l’eliminazione delle misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative che costituiscono tuttora la categoria più importante degli ostacoli non tariffari, come rivelano l’amplissima giurisprudenza in materia di libera circolazione delle merci, incentrata oramai soprattutto sull’interpretazione degli artt. 34 e 35 del TFUE, e l’incessante opera di vigilanza e classificazione svolta dalla Commissione (v., da ultimo, Guida all’applicazione delle disposizioni del trattato che regolano la libera circolazione delle merci, Lussemburgo, 2010). Con la sentenza Dassonville dell’11.7.1974 (causa 8/74, in Racc., 837) la Corte di giustizia ha fornito per la prima volta una definizione generale della nozione di misura di effetto equivalente all’importazione secondo la quale va considerata tale «ogni normativa commerciale degli Sati membri che possa ostacolare,direttamente o indirettamente, in atto o in potenza egli scambi intracomunitari». Estesa con l’altrettanto celebre caso del Cassis de Dijon (sent. 20.2.1979, Rewe-Zentral, causa C-120/78, in Racc., 649) alle misure indistintamente applicabili sia ai prodotti nazionali che a quelli importati, la cd. formula Dassonville ha costituito a lungo il parametro costante per valutare gli effetti restrittivi delle misure sulla circolazione delle merci e, pertanto la violazione dell’art. 30, a prescindere dal loro eventuale carattere discriminatorio. Sennonché, dopo aver evidenziato una qualche considerazione sulla necessità di restringere la portata della formula Dassonville in relazione alle modalità di commercializzazione dei prodotti, quali, per es., luogo e orario di vendita, pubblicità, vendita a domicilio, la Corte, con la sent. Keck e Mithouard del 24.11.1993 (cause riunite C-267/91 e C-268/91, in Racc., I-6126) ha operato una significativa innovazione nella sua giurisprudenza escludendo dalla nozione le disposizioni nazionali che limitino o vietino talune modalità di vendita, sempre che non siano nemmeno indirettamente discriminatorie e non ostacolino l’accesso al mercato per i prodotti importati.
Nonostante che da più parti si preconizzasse e perfino si auspicasse un abbandono della giurisprudenza Keck, criticata per aver bruscamente cassato una parte dell’acquis comunitario in materia di misure indistintamente applicabili, senza peraltro aver posto fine all’incoerenza e alle contraddizioni derivanti da un’applicazione meccanicistica della formula Dassonville (Mattera, A., De l’arret Dassonville à l’arret Keck:l’obscure clarté d’une jurisprudence riche en principe novateurs et en contradiction, in Rev. Marché un eur.,1994, 117 s.), la Corte ha da allora mostrato di attenersi costantemente alla distinzione tra condizioni e modalità di vendita. Molta risonanza hanno pertanto avuto in dottrina due recenti pronunce (sent. 10.2.2009, Commissione c. Repubblica italiana, causa C-110/05, in Racc., I-0I-00519 e sent. Mickelsson e Ross, causa C-142/05, ivi, I-04273) nelle quali la Corte, trovandosi a decidere casi riguardanti le modalità di uso di un prodotto, rispettivamente, il traino da rimorchi e le moto d’acqua, ha riformulato la nozione di misura di effetto equivalente basandosi prevalentemente sul criterio di accesso al mercato. Per molti autori, se non preludono a un abbandono formale della giurisprudenza Keck, tali sentenze denotano perlomeno una presa d’atto dell’irrilevanza pratica della distinzione tra condizioni e modalità di vendita (Spaventa, E., Leaving Keck behind? The free movement of goods after the rulings in Commission v. Italy and Mickelsson and Roos, in E.L.Rev., 2009, 914-932); altri ipotizzano l’introduzione di una terza categoria di misure di effetto equivalente, relativa alle modalità di uso dei prodotti, configurata in base al criterio di accesso al mercato (Snell, J., The Notion of Market Access: a Concept or a Slogan?, in C.M.L.R., 2010, 455), criterio che, da sempre utilizzato dalla Corte, nei casi di misure residue, come parametro decisivo di valutazione, sembra destinato a imporsi progressivamente come unico criterio per accertare ogni tipo di misura di effetto equivalente (Fromont, A.-Verdure, C., La consécration du critère de «l’accés au marchè» en matiére de libre circulation des merchandises: mythe ou rèalitè??, in Riv. trim. droit eur., 2011, 736 ss.)
Non si registra invece alcun significativo mutamento in materia di misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative all’esportazione di cui all’art. 35 del TFUE, che, secondo una giurisprudenza costante, viene applicato esclusivamente ai provvedimenti nazionali che hanno lo scopo o l’effetto di restringere specificamente le correnti d’esportazione e di costituire in tal modo una differenza di trattamento a favore del commercio interno di uno Stato membro (v., ad es., sent. 9.9.2003, Milk Marque, causa C-137/00, in Racc., I-07975). Tuttavia, di recente, la Corte (sent. 16.12.2008, Gysberecht, causa C-205/07, in Racc., I-9947) sembra aver dato segno di recepire le critiche di quanti auspicano un’applicazione dell’art. 35 in senso conforme all’art. 34 (Dubois, L.-Blumann, C., Droit materiel de l’Union Européenne, VI ed., Paris, 2012, 298 s.).
Infine, tra gli ostacoli non tariffari contemplati dalle disposizioni del TFUE sulla libera circolazione delle merci vanno ricordati anche quelli derivanti dai monopoli nazionali a carattere commerciale per i quali l’art. 37 impone il riordino, oramai non più a carattere di gradualità. Per quanto riguarda in particolare i monopoli di vendita al dettaglio, che possono in effetti sostanziare ipotesi di misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative, la Corte ha avuto modo di applicare la giurisprudenza Keck per qualificare come modalità di vendita a carattere non discriminatorio il monopolio dei farmacisti nella vendita di alimenti per neonati (sent. 29.6.1995, Commissione c. Repubblica ellenica, causa C-391/92, in Racc., I-01621) e il monopolio dei dettaglianti autorizzati per la distribuzione dei tabacchi lavorati (sent. 14.12.1995, Banchero, causa C-387/93, in Racc., I-4663).
Una peculiare e rilevante fonte di misure di effetto equivalente è costituita dai cd. ostacoli tecnici derivanti dalla diversità delle normative nazionali che disciplinano le modalità di fabbricazione e di commercializzazione dei prodotti. Alla loro eliminazione si è inizialmente provveduto mediante l’adozione di direttive di armonizzazione delle legislazioni nazionali, ma, in seguito alla sentenza Cassis de Dijon, si era delineata l’opportunità di affiancare a tale strumento una nuova strategia fondata sul principio del reciproco riconoscimento, desunto dalla suddetta sentenza ancorché reso esplicito dalla successiva giurisprudenza della Corte (sent. 2.10.1988, Fois gras, causa C-184/96, in Racc., I-6197).Tale principio, che impone agli Stati membri di ammettere la vendita nel proprio territorio delle merci legalmente prodotte e commercializzate in un altro Stato membro anche se le prescrizioni tecniche o qualitative differiscano da quelle imposte ai prodotti nazionali e può essere derogato solo in presenza di esigenze di interesse generale (infra par. 3.), risultai oramai centrale nel sistema del mercato interno, trovando applicazione in materia di circolazione, oltre che delle merci, dei servizi e proponendosi, con gli opportuni adattamenti, anche come strumento di regolamentazione del mercato dei prodotti industriali negli accordi con i paesi terzi. Applicato sistematicamente dalla Corte di giustizia, il principio del reciproco riconoscimento ha l’innegabile pregio di evitare il ricorso a direttive dettagliate e di garantire che la libera circolazione delle merci avvenga nel rispetto del principio di sussidiarietà; tuttavia, esso non si rivela sempre idoneo a perseguire l’obiettivo della soppressione degli ostacoli tecnici, sicché si rende necessario ricorrere ancora all’armonizzazione delle legislazioni nazionali. La base giuridica privilegiata del ravvicinamento delle legislazioni è ora costituita dall’art. 114 TFUE che prevede che il Parlamento e il Consiglio vi provvedano, deliberando a maggioranza con la procedura legislativa ordinaria, in attuazione di una strategia che mira ad incentivare l’adozione di normative più flessibili e tecnologicamente neutre che favoriscono l’innovazione e la competitività, lasciando nel contempo ai produttori la libertà di applicare specifiche tecniche interne per soddisfare le prescrizioni essenziali definite dalle direttive, oppure standard europei armonizzati definiti da enti di normalizzazione europei che conferiscono una presunzione di conformità alle prescrizioni pertinenti.
Una rilevante ipotesi di deroghe è rappresentata dall’art. 36 TFUE che consente divieti, restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito, qualora le misure nazionali siano giustificate da motivi di: moralità pubblica, ordine pubblico, sicurezza pubblica, tutela della salute e della vita delle persone e degli animali, preservazione dei vegetali, protezione del patrimonio artistico, storico e archeologico nazionale, tutela della proprietà industriale e commerciale. Si tratta di motivi di interesse generale, non riconducibili a ragioni di natura economica (sent. 28.4.1998, N.Decker, causa C-120/95, in Racc., I-1831), che, per esplicita previsione dell’art. 36, non devono comunque costituire un mezzo di discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri. In quanto costituisce una deroga al principio di libera circolazione, la Corte ha interpretato sempre restrittivamente l’art. 36 stabilendo che esso prevede giustificazioni tassative (sent. 10.1.1985, Association des Centres Edouard Leclerc, causa C-229/83, in Racc., 1), non invocabili in presenza di direttive di armonizzazione e riconosciute solo se rispondenti ai criteri di necessità e di proporzionalità (infra par. 3.2).
Come forma di “compensazione” all’abbandono del criterio dell’unanimità, l’art. 114 TFUE, ai par. 4 e 5, prevede due clausole di salvaguardia che, seppure a titolo eccezionale e temporaneo, consentono agli Stati membri di continuare ad imporre i loro standard nazionali anche dopo l’entrata in vigore di una misura di armonizzazione, invocando esigenze “importanti” di cui all’art. 36 o relative alla protezione dell’ambiente e dell’ambiente del lavoro. Il carattere eccezionale delle deroghe in questione è confermata dalla scarsa frequenza con cui si ricorre ad esse, oltre che dall’interpretazione rigorosamente restrittiva della Corte che, nei pochi casi che hanno dato luogo a ricorsi giudiziali, ha avuto modo di censurare lo Stato nell’ipotesi di deroghe giustificate solo in base a una mera valutazione unilaterale non corroborata da prove documentate e di richiamare la stessa Commissione ad una puntualizzazione precisa dei motivi di fatto e di diritto per i quali essa ritenga di approvare le misure nazionali derogatorie (sent. 17.5.1994, Francia c. Commissione, causa C-41/93, in Racc., I-1829).
Una violazione delle disposizioni dettate dagli artt. 34 e 35 può essere giustificata anche invocando una ragione ascrivibile alla categoria indefinita e tuttora aperta delle «esigenze imperative» attinenti anch’esse all’interesse generale (quali la tutela dei consumatori, dell’ambiente, del pluralismo dei mezzi di informazione, dei lavoratori, della lealtà delle transazioni commerciali, dei diritti fondamentali), che la Corte ha elaborato in riferimento al principio del reciproco riconoscimento a partire dalla sentenza Cassis de Dijon. Si tratta di motivi di giustificazione in parte desumibili dall’art. 36 o che potrebbero essere considerati aggiuntivi rispetto all’elenco esplicito fornito da tale disposizione (Oliver, P., Oliver on free Movement of Goods in the European Union, V ed., Oxford e Portland, 2010, 216) anche se una loro codificazione tramite la modifica dell’art. 36 non sembra auspicabile perché conferirebbe al sistema delle giustificazioni la rigidità propria dei giudizi di valore predeterminati. Sennonché la Corte mostra di ritenere che le esigenze imperative siano desumibili direttamente dall’art. 30 e che la relativa deroga possa essere applicata solo in riferimento alle misure indistintamente applicabili. Tale differenziazione desta perplessità non solo perché riposa sull’accertamento non sempre univoco e lineare del carattere discriminatorio della misura (v. le critiche espresse in nome della certezza del diritto, anche dall’avvocato generale Jacobs nelle sue Conclusioni del 26.10.2000, nel caso Elektra, causa C-379/98, in Racc., I-02099, spec. punti 225-229), ma anche perché la Corte, nell’applicazione delle deroghe, si attiene al medesimo paradigma di valutazione: ossia dopo aver accertato l’assenza o l’incompletezza di norme di armonizzazione idonee a tutelare gli interessi protetti dall’art. 36, verifica se la misura nazionale costituisca una discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata del commercio tra gli Stati membri e, solo nel caso di misure indistintamente applicabili, la Corte prende in considerazione, come ulteriore ipotesi di giustificazione, quella basata sulle esigenze imperative. L’applicazione del differente regime di giustificazione non toglie che esso debba comunque passare al vaglio dei criteri di necessità e di proporzionalità che difficilmente viene superato, perché nelle argomentazioni spesso labili e poco convincenti degli Stati si cela spesso l’intento di salvaguardare interessi particolaristici di gruppi economici nazionali. A titolo di esempio, la tutela dei consumatori e la lealtà delle transazioni commerciali non possono essere perseguite mediante l’imposizione dell’uniformazione a criteri di commercializzazione dettati dalla normativa nazionale, ove si consideri che risulta sufficiente a tal fine un scambio di informazioni col paese di origine delle merci (sent. 21.6.2001, Commissione c. Irlanda, causa C-30/99, in Racc., I-4648), né mediante il divieto d’uso di una specifica denominazione per un prodotto ottenuto con metodi di coltivazione diversi da quelli nazionali tradizionalmente praticati, laddove risulta sufficiente una precisazione appropriata nell’etichetta (sent. 10.1.2006, De Groot, causa C-147/04, in Racc., I-00245), anche in correlazione al fatto che il parametro di valutazione per la Corte è costituito da un consumatore medio, normalmente informato, ragionevolmente attento e avveduto (sent. 13.1.2000, Estée Lauder, causa C-220/98, in Racc., I-117, punto 27).
L’orientamento restrittivo della Corte nell’applicare le deroghe al divieto di misure equivalenti a restrizioni quantitative è più sfumato nel caso di tutela della salute pubblica, deroga che, esplicitamente prevista dall’art. 30, è stata sancita dalla Corte, con riferimento specifico alla protezione dei consumatori, anche tra le esigenze imperative. La giurisprudenza della Corte in tema di tutela della salute del consumatore, sviluppatasi a seguito della sentenza Cassis de Dijon, trova ora riscontro nel TFUE sia nel titolo XIV, dedicato alla sanità pubblica (art. 168), dove è previsto l’obbligo delle istituzioni di garantire un livello elevato di protezione della salute umana nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche e le attività comunitarie, sia in quello dedicato alla protezione dei consumatori (art. 169), dove è ribadito l’impegno della Unione ad assicurare un elevato livello di protezione contribuendo a tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi economici nonché i relativi diritti di informazione educazione e organizzazione dei consumatori. Sulla base dell’art. 95 del TCE (ora 114 TFUE) sono stati adottati numerosi regolamenti e direttive di armonizzazione, che costituiscono oramai un rilevante corpo legislativo informato all’obiettivo di assicurare elevate garanzie di tutela della salute pubblica, della protezione dell’ambiente e dei consumatori alla luce anche degli eventuali nuovi sviluppi fondati su riscontri scientifici, tale da far ritenere in larga misura superato il ricorso alla deroga in questione. Paradossalmente, invece, gli Stati tendono a moltiplicare le restrizioni alla libera circolazione delle merci in ragione della tutela della salute avvalendosi del loro diritto di perseguire, ove possibile, un livello di protezione più elevato rispetto anche a quello eventualmente già offerto dalla normativa europea e facendo affidamento su una applicazione ad essi favorevole del principio di precauzione, introdotto nell’Unione europea con il Trattato di Maastricht e ora contemplato nell’art. 191 del TFUE. In virtù di tale principio, reso esplicito per la prima volta dalla Corte nel caso della “mucca pazza” (sent. 5.5.1998, National Farmers Union, causa C-157/96, in Racc., I-2211), ove le prove scientifiche siano insufficienti, incerte o inconcludenti e esista un ragionevole dubbio circa il potenziale pericolo di un determinato prodotto, il legislatore nazionale (o quello europeo, come nel caso sopra citato) può prendere i provvedimenti volti a tutelare il consumatore senza dover attendere che vengano provate la serietà e la gravità del rischio, a condizione che le misure nazionali (o europee) risultino efficaci e soprattutto proporzionate allo scopo. In assenza di norme armonizzate o nel caso queste siano ritenute incomplete, la Corte mostra in genere disponibilità a giustificare le misure nazionali derogatorie in ragione del principio di precauzione soprattutto quando riscontra incertezze nei risultati conseguiti dalla ricerca scientifica internazionale, a volte anche a scapito del principio di proporzionalità con il quale deve combinarsi l’applicazione del principio di precauzione. Tale principio è soggetto al solo limite, fermamente ribadito dalla Corte, del rischio puramente ipotetico (sent. 5.2.2004, Commissione c. Francia, causa C-24/00, in Racc., I-0000, punto 56) nel qual caso è verosimile ritenere che la restrizione dissimuli un intento protezionistico o sia piuttosto riconducibile ad un motivo economico escluso dal novero delle deroghe ammesse dall’art. 36 o dalle esigenze imperative. A questo riguardo la Corte ha avuto anche l’occasione di affermare che le istituzioni, europee per prevenire rischi per la salute, sono invece autorizzate a perseguire una politica di tolleranza zero anche se le misure adottate si fondano su una situazione di incertezza scientifica (sent. 1.4.2004, Bellio, causa C-286/02, in Racc., I-03465) e ciò in quanto a differenza delle misure nazionali quelle delle istituzioni non danno luogo ad un frazionamento del mercato e non impediscono agli altri Stati membri di esprimere la loro posizione.
Artt. 26-37, 110, 114 TFUE; per le fonti di diritto derivato, v. http://eur- lex.europa.eu//it//repert/index_02.htm.
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