Abstract
Viene esaminato il delitto di circonvenzione di persone incapaci, previsto e punito all’art. 643 c.p., sia attraverso una illustrazione analitica dei suoi elementi tipici essenziali – l’abuso dello stato di minorazione e debolezza psichica di minori d’età, infermi di mente e deficienti psichici e la conseguente induzione al compimento di un atto avente effetti giuridici dannosi per l’incapace o per terzi –, così come interpretati dalla prevalente dottrina e giurisprudenza; sia attraverso un’indagine sistematica, mettendolo in rapporto con le altre ipotesi delittuose che possono apparentemente concorrere con questo reato, per delimitarne gli elementi peculiari e distintivi.
In merito all’individuazione del bene giuridico tutelato dal reato di circonvenzione di incapace si fronteggiano principalmente due orientamenti: da un lato, un orientamento patrimonialistico che individua l’interesse giuridico tutelato dalla norma nell’integrità patrimoniale dell’incapace (Dawan, D., La circonvenzione di persone incapaci, Padova, 2003, 179) o quantomeno nella libertà di autodeterminazione di quest’ultimo in ordine agli interessi patrimoniali (Findaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte speciale, vol. II, t. 2, I delitti contro il patrimonio, V ed., Bologna, 2007, 208 ss.); dall’altro, un orientamento personalistico, secondo il quale il bene giuridico tutelato da questa norma coinciderebbe con la dignità e la libertà di autodeterminazione dell’incapace (Siniscalco, M., Circonvenzione di persone incapaci, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 53; Ronco, M., Circonvenzione di persone incapaci, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 8; confermato anche in Ronco, M., Circonvenzione di persone incapaci, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2007, postilla, 1; Ferrante, M.L., La circonvenzione di persone incapaci, Torino, 1999, 255).
Non manca, tuttavia, in dottrina, chi lo considera come reato plurioffensivo, lesivo cioè sia della libertà di autodeterminazione del soggetto incapace sia del suo patrimonio (Mantovani, F., Diritto penale. Parte speciale, vol. II, Delitti contro il patrimonio, III ed., Padova, 2009, 219; Romano, F., La circonvenzione di persone incapaci: un reato in bilico tra l’offesa al patrimonio e quella alla libertà individuale, in Giur. mer., 1997, 650), o anche di quello di un terzo (Pagliaro, A., Principi di diritto penale. Parte speciale, III, Milano, 2003, 405).
Sebbene il delitto di circonvenzione di persone incapaci costituisca senza alcun dubbio un reato comune, è necessario puntualizzare che per la corretta delimitazione del suo ambito applicativo soggettivo, come per tutti i reati contro il patrimonio, occorre integrare la norma di cui all’art. 643 c.p. con il disposto di cui all’art. 649 c.p., che prevede una speciale causa di non punibilità per fatti commessi in danno di congiunti. Per questa ragione, come la dottrina ha correttamente rilevato, le qualità indicate nell’art. 649 c.p. «costituiscono altrettanti requisiti negativi (speciali) di legittimazione al reato, presenti i quali viene negata, in conformità ai principi, la qualifica di destinatario della norma del soggetto che ne è caratterizzato» (Marini, G., Incapaci (circonvenzione di), Dig. pen., Torino, 1992, vol. VI, 310).
Condivisibili però appaiono le numerose critiche rivolte da più parti in dottrina circa l’opportunità de iure condendo di mantenere una simile disciplina che rende non punibili tipiche ipotesi di circonvenzione di incapaci, che normalmente tendono a compiersi proprio con maggiore frequenza e facilità nell’ambito familiare, visti gli speciali legami di affidamento e fiducia intercorrenti tra i soggetti coinvolti (cfr. Certo, C., La circonvenzione di persone incapaci, Palermo, 1962, 111; Pisapia, G.D., Circonvenzione di persone incapaci (diritto penale), in Nss.D.I., III, Torino, 1974 (rist.), 255). Tali critiche sembrano d’altronde ancora più fondate laddove si accolga una nozione non patrimonialistica del bene protetto dalla norma (per questa si veda il § 1). La non punibilità di fatti offensivi della dignità o della libertà di autoderminazione dell’incapace, di cui all’art. 643 c.p., sembra, infatti, contrastare con la ratio dell’esimente di cui all’art. 649 c.p., che dà prevalenza alla serenità dell’insieme familiare, piuttosto che alla tutela degli interessi dei singoli componenti, solo laddove si pongano questioni di rilievo prettamente patrimonialistico, e non vi siano altri tipi di lesioni, come parrebbe dimostrato dall’ult. co. dell’art. 649 c.p., che esclude l’operatività di questa causa di non punibilità in caso di condotte violente.
La questione relativa all’individuazione dei soggetti attivi, ed in particolare inerente la reciproca relazione di parentela che intercorre tra gli autori e le vittime del delitto di circonvenzione rileva non solo ai fini del riconoscimento della esimente di cui all’art. 649 c.p., e dunque ai fini dell’esclusione tout court della punibilità di colui che abbia abusato ed indotto un congiunto a compiere un atto pregiudizievole, bensì riguarda anche il diverso profilo della procedibilità di questo reato.
Sebbene, infatti, si tratti di un reato procedibile d’ufficio, ai sensi dell’art. 649, co. 2 c.p., in casi particolari, laddove si riscontri appunto un legame di parentela o affinità tra i soggetti attivi e passivi, ed in particolare se il reato è commesso a danno del coniuge legalmente separato, ovvero del fratello o della sorella non convivente, dello zio, del nipote o dell’affine in secondo grado convivente, il delitto diventerà punibile a querela della persona offesa, salvo che il fatto sia stato commesso con violenza alle persone (art. 649, co. 3, c.p.) (si v. il «Progetto Pagliaro» che invece propone di generalizzare la procedibilità d’ufficio). Sotto questo aspetto, la giurisprudenza ha però precisato che non è possibile escludere che il delitto di circonvenzione «possa realizzarsi anche attraverso condotte che implichino l’uso di una violenza morale, cioè di una condotta che si estrinsechi in un atteggiamento di intimidazione del soggetto passivo, in grado di eliminare o ridurre la sua capacità di determinarsi, condizionando la sua già ridotta capacità di agire secondo la propria volontà indipendente» (cfr. Cass. pen., sez. VI, 4.7.2008, n. 35528, in Fam. dir., 2009, 491 ss., con nota di P. Pittaro, Punibile la circonvenzione d’incapace a danno dei congiunti se effettuata con violenza morale; e in Giust. pen., 2009, II, 65 ss., con nota di M. Bellina, Circonvenzione di incapaci mediante “violenza morale”: note sull’applicabilità dell’art. 649 c.p.). Nella stessa significativa pronuncia, la Suprema Corte ha altresì puntualizzato che la violenza morale con la quale si può indurre l’incapace ad agire, può essere parificata alla nozione di «violenza alle persone», di cui all’art. 649, co. 3, c.p., che esclude la non punibilità per i delitti contro il patrimonio commessi a danno di familiari. Pertanto, essendo configurabile la commissione di tale reato anche con violenza morale, sarà ben possibile riferire tale clausola di esclusione della esimente anche al delitto di circonvenzione di incapace commessa in danno di un congiunto.
L’art. 643 c.p. prevede espressamente le caratteristiche dei soggetti passivi di questa particolare forma di frode patrimoniale. Essi debbono rientrare in tre categorie ben determinate: i minori d’età, gli infermi di mente o i deficienti psichici. Le loro condizioni assumono così il connotato di veri e propri presupposti della condotta (Ronco, M., op. cit., 1; Dawan, D., op. cit., 13), con la conseguenza che questi peculiari caratteri del soggetto passivo, per poter fondare un giudizio di colpevolezza, dovranno essere conosciuti con certezza dall’autore del reato (Cass. pen., sez. II, 24.4.1998, n. 2532, De Franciscis, CED Cass., n. 211101, in Cass. Pen., 1999, 2140 ; conf. Cass. pen., sez. II, 4.10.2006, n. 40383).
È ancora piuttosto controverso invece se il terzo che abbia subìto, o possa aver subìto, un pregiudizio patrimoniale dall’atto posto in essere dall’incapace, possa essere considerato soggetto passivo del reato di cui all’art. 643 c.p., insieme al minore di età, all’infermo di mente o al deficiente psichico, ovvero debba essere considerato solo soggetto danneggiato dal reato, senza possibilità di proporre eventuale querela, ai sensi del secondo comma dell’art. 649 c.p. qualora la condotta di abuso ed induzione sia stata commessa ai danni del coniuge legalmente separato, ovvero del fratello o della sorella che non convivano coll’autore del fatto, ovvero dello zio o del nipote o dell’affine in secondo grado con questo conviventi, venendo privato altresì della possibilità di avere avviso ex art. 408 c.p.p. della proposizione della richiesta di archiviazione.
In merito a questo problema, in giurisprudenza sembra essersi formato un orientamento piuttosto consolidato, che esclude che il terzo, che abbia subito danni dal compimento dell’atto pregiudizievole, possa essere considerato come soggetto passivo del reato di cui all’art. 643 c.p., potendo pertanto esercitare solo l’azione civile ex art. 2043 c.p., senza avere invece diritto di proporre querela (Cass. pen., sez. V, 4.7.1975, n. 8908, Curinga, CED Cass., n. 131427, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1977, 359 ss., con nota critica di C. Pedrazzi, Sul soggetto passivo della circonvenzione di incapace; Cass. pen., sez. II, 25.2.1985, n. 7417, Antoci, CED Cass., n. 170197, in Giust. pen., 1986, II, 86; Cass. pen., sez. II, 21.5.1997, n. 8034, Vannucchi, CED Cass., n. 208378, in Cass. pen., 1998, 1363; Cass. pen., sez. II, 17.1.2008, n. 7192, CED Cass., n. 239504), con la conseguenza che verrà esclusa la punibilità di chi ha commesso il reato in danno di un ascendente o affine in linea retta, anche se i fratelli o sorelle non conviventi dell’agente siano stati potenzialmente danneggiati, in quanto costoro non avranno diritto di querela ai sensi dell’art. 649, co. 1, c.p. (cfr., tra molte, Cass. pen., sez. II, 25.2.1985, n. 7417, Antoci, cit.). Meno pacifica appare invece la soluzione in dottrina, ove si rilevano soluzioni contrastanti, strettamente legate, ancora una volta, alla definizione degli elementi strutturali della fattispecie incriminatrice, e soprattutto all’esatta individuazione dell’interesse tutelato dalla norma. In particolare, seguendo l’autorevole interpretazione di alcuni autori, in base alla quale l’effetto pregiudizievole dell’atto dovrebbe ritenersi un requisito autonomo rispetto all’abuso e all’induzione, si dovrebbe altresì concludere che anche il terzo danneggiato possa considerarsi soggetto passivo del reato, e pertanto essere legittimato a proporre querela (in questi termini, Pedrazzi, C., Sul soggetto passivo, cit., 360 ss.; Dawan, D., op. cit., 159). Alla medesima soluzione giungerebbero inoltre anche i sostenitori della tesi cd. patrimonialistica, che anzi facendo leva proprio sul fatto che la norma fa riferimento all’ipotesi in cui l’«effetto dannoso» dell’atto possa ricadere anche su un terzo, diverso dal circonvenuto, ritengono implicitamente confermato l’assunto per il quale l’interesse tutelato non possa che essere quello economico-patrimoniale: il terzo infatti potrebbe risentire solo di questo tipo di danno e non di quello alla dignità o alla libertà di autodeterminarsi (Pagliaro, A., op. cit., 405). Altrettanto convincente, però, appare anche la tesi sostenuta da altra parte della dottrina, che dando rilievo ad altri aspetti della struttura del reato, sostiene che il soggetto passivo possa essere solo colui che è destinatario della condotta di abuso, unico titolare di quel potere dispositivo patrimoniale al quale si possono ricollegare gli «effetti giuridici dannosi», senza che possa dunque assumere rilievo ai fini dell’individuazione del soggetto passivo se tali effetti ricadano anche accidentalmente su un terzo (Marini, G., op. cit., 311). Della medesima opinione, d’altronde, è anche quella corrente di pensiero che individua il bene giuridico tutelato nella dignità e nella libertà di autodeterminazione del minorato (tra gli altri, Ronco, M., postilla, cit., 1, il quale ritornando su una sua precedente posizione, ritiene più coerente con la tesi sostenuta in merito all’interesse tutelato dalla norma attribuire al terzo solo il ruolo di persona danneggiata e non di persona offesa).
In dottrina, è discusso se il reato possa configurarsi anche ai danni di soggetti totalmente incapaci di intendere e volere (come infanti o infermi totali di mente), nei confronti dei quali, infatti, non potrebbe realizzarsi alcun condizionamento psichico in merito alla loro libertà di autodeterminazione, cosicché, tutt’al più, potrebbero realizzarsi, ad esempio, nei casi di spossessamento, delle ipotesi di furto (Antolisei, F., op. cit., 393; Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 212; contra Ronco, M., postilla, cit., 2; Ferrante, M.L., op. cit., 257-258, i quali, invece, ritengono che, dovendosi individuare il bene giuridico protetto nella dignità e nella libertà del soggetto passivo, sarebbe irragionevole escludere dallo spettro di tutela della norma proprio quei soggetti che manifestano maggior bisogno). Non è mancato, tuttavia, chi ha proposto una tesi intermedia, in base alla quale il reato dovrebbe ritenersi configurabile anche nei confronti dei soggetti totalmente incapaci, purchè presentino quel «minimum di capacità psichica» che consenta loro di ritenere realizzabile l’atto di disposizione patrimoniale previsto dall’art. 643 c.p. (Mantovani, F., op. cit., 221).
Infine occorre rammentare che l’art. 643 c.p. estende espressamente la sua applicazione a tutti i casi in cui si manifesta una forma di «minorazione psichica», svincolando pertanto l’individuazione di questa condizione da quegli istituti civilistici, come l’interdizione o l’inabilitazione, che definiscono i presupposti dell’incapacità di agire. In tal modo, si è detto, che la norma avrebbe «anticipato l’evoluzione degli istituti civilistici, tra cui va ora annoverata l’amministrazione di sostegno ex artt. 404 ss. c.c. … a protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia» (Ronco, M., postilla, cit., 2).
Tra le categorie di soggetti deboli presi in considerazione dalla norma rientrano, innanzitutto, i minori di età, ovvero, in base al dettato civilistico, coloro che hanno una età inferiore agli anni diciotto, che coincide anche con l’età penalistica, senza alcuna eccezione, legata, ad esempio, all’eventuale emancipazione o autorizzazione all’esercizio di imprese. Tuttavia, da parte di certa dottrina si specifica che la minore età costituisce presupposto necessario, ma non sufficiente per configurare il fatto tipico, in quanto è richiesto altresì un ulteriore elemento naturalistico: l’abuso da parte del soggetto attivo «della loro inesperienza, dei loro bisogni o delle loro passioni» (Ronco, M., op. cit., 2).
In dottrina si è rilevato che, a differenza della deficienza psichica, il concetto d’infermità mentale è essenzialmente clinico e deve ricomprendere, da un lato, le malattie mentali (come le psicosi maniaco-depressive, le schizofrenie) e dall’altro, le anomalie mentali (come le psiconeurosi, le personalità psicopatiche, ecc.) (Ronco, M., op. cit., 3). La psichiatria clinica, tuttavia, avverte come i concetti di «sanità mentale» o di «infermità mentale» siano estremamente relativi, poiché si basano su parametri piuttosto generici, quali il benessere e il buon inserimento sociale (Bandini, T.-Lagazzi, M., L’indagine psichiatrico-forense sull’anziano vittima di circonvenzione d’incapace, in Riv. it. med. leg., 1990, 770). In ogni caso, la giurisprudenza ha precisato che per l’integrazione della condizione di infermità o deficienza di cui all’art. 643 c.p. non è richiesto che l’incapace sia privo della capacità d’intendere e di volere in maniera totale, ovvero permanente, essendo sufficienti anche manifestazioni solo transitorie e non morbose, purché idonee ad incidere sulla libertà di autodeterminazione del soggetto passivo (Cass. pen., sez. II, 18.1.2007, n. 7145, in Guida al dir., 2007, 14, 71), portandolo a compiere un atto che un individuo di media normalità psichica non avrebbe acconsentito a compiere (Cass. pen., sez. V, 13.6.1979, n. 1017, Treppo, Mass. Cass. pen., 1981, 28).
In dottrina, la deficienza psichica è generalmente definita come uno stato di minorazione delle facoltà intellettive, volitive ed affettive, che può derivare da anomalie psichiche, non rientranti però in forme patologiche, da particolari situazioni fisiche (come, ad es., l’età avanzata, la fragilità di carattere), o ambientali (ad es. in condizione di emarginazione; cfr. in tal senso, Ronco, M., op. cit., 3), ovvero da un’anomala e patologica dinamica relazionale che si è instaurata tra l’autore dell’induzione e l’autore dell’atto pregiudizievole (cfr. in tal senso, Ronco, M., postilla, cit., 2). Si ritiene, pertanto, in base all’interpretazione giurisprudenziale prevalente, che la norma si riferisca a tutte quelle situazioni d’indebolimento della funzione volitiva o affettiva, che sono in grado di inficiare il potere di critica e di difesa dall’altrui opera di suggestione, che deve, tra l’altro, sussistere nei confronti di tutti, poiché deve dipendere da condizioni oggettive dell’individuo e non dalle particolari doti di persuasione e suggestione del soggetto attivo (Ronco, M., postilla, cit., 2).
L’individuazione dello stato di suggestionabilità del soggetto passivo si presenta particolarmente insidiosa, sia dal punto di vista penalistico, sia dal punto di vista psichiatrico-forense. Sotto il primo profilo, infatti, il rischio è quello di riproporre la penalizzazione di condotte che, invece, la nota sentenza della Corte Costituzionale del 9.6.1981, n. 96, in tema di delitto di plagio, ha voluto sottrarre all’area del penalmente rilevante (in tal senso, cfr. Ronco, M., op. cit., 2). Sotto il secondo profilo, invece, i problemi maggiori si sono posti relativamente allo stato di fragilità affettiva in cui spesso versa l’anziano (Barbieri, C.-Luzzago, A., L’affettività dell’anziano nell’ipotesi di circonvenzione di incapace: considerazioni tecnico-valutative, in Riv. it. med. leg., 2006, 557 ss., in part. 568 ss.), ovvero nel caso del cosiddetto transfert psicoanalitico.
Mentre la giurisprudenza sembra mostrarsi piuttosto cauta nell’inquadrare le ipotesi di vecchiaia come condizioni di deficienza psichica, pur in presenza di uno stato di fragilità emotiva e relazionale, salvo non vi siano obiettive condizioni di diminuita capacità volitiva e intellettiva (Cass. pen., sez. II, 25.1.1990, n. 6509, Mattioli, CED Cass., n. 187416, in Cass. pen., 1992, 2738); ha invece ritenuto configurabile il delitto, riconoscendo lo stato di deficienza psichica transitoria, in un caso di transfert psicoanalitico (Trib. Milano, 17.7.1986, Verdiglione ed altri, in Foro it., 1987, II, 30 ss., con nota adesiva di G. Fiandaca, Caso Verdiglione, il «transfert» psicanalitico come impostura?, in Foro it., 1987, II, 30 ss.; Usai, A., Profili penali dei condizionamenti psichici. Riflessioni sui problemi penali posti dalla fenomenologia dei nuovi movimenti religiosi, Milano, 1996, 305 ss.). La relazione di tranfert, come ci viene insegnato dalla scienza medica, consiste nel trasferimento che il paziente compie sulla persona dello pasicoanalista, di una serie di idee, sentimenti, emozioni, rappresentazioni, già vissuti in rapporto ad altre figure rappresentative della sua vita pregressa, in particolare dell’infanzia, e che è in grado di compromettere l’equilibrio e la funzionalità psichica del paziente, offuscandone la capacità critica nei confronti del terapeuta.
La condizione di deficienza psichica, che, come già detto, costituisce un presupposto del reato, deve essere oggetto di un accertamento di fatto, che non richiede necessariamente una perizia o una consulenza tecnica, essendo possibile anche dedurlo da elementi indiziari, che consentano di affermare le ridotte capacità volitive ed intellettuali del soggetto passivo.
La condotta consiste nell’induzione, realizzata mediante l’abuso, cioè mediante lo sfruttamento dei bisogni, delle passioni o dell’inesperienza, quanto al minore non infermo o deficiente psichico, delle ridotte facoltà intellettive o volitive dipendenti da infermità o deficienza psichica, per gli altri soggetti passivi. L’abuso di una di queste situazioni, che costituiscono i presupposti della condotta di circonvenzione, rappresenta la nota interna dell’induzione, che contribuisce a tipicizzarla: l’induzione senza abuso è perciò atipica (Pagliaro, A., op. cit., 407).
Da ciò consegue che la condotta omissiva debba ritenersi logicamente incompatibile con l’induzione, a meno che non esista un obbligo giuridico di attivarsi (art. 40 cpv. c.p.). È quindi atipica la condotta di colui che si limiti a non attivarsi per impedire il compimento dell’atto (contra Marini, G., op. cit., 314). Costituisce invece induzione ogni attività diretta a convincere, a persuadere, e non la semplice richiesta di compiere l’atto (Cass. pen., S.U., 15.12.1973, Crespi ed altri, in Foro it., 1974, II, 74 ss.). In senso contrario si è però da ultimo affermato che l’attività di induzione può consistere anche in un qualsiasi comportamento o attività, come una semplice richiesta, cui la vittima, per le sue minorate condizioni, non sia capace di opporsi e che la porti quindi a compiere atti privi di alcuna causale, e che ella, in condizioni normali, non avrebbe compiuto e che siano per lei pregiudizievoli e favorevoli all’agente. In base a questo orientamento, sarebbe perciò sufficiente un’attività che, profittando della particolare condizione del soggetto passivo, abbia soltanto rafforzato la sua decisione di compierlo (cfr., per tutte, Cass. pen., sez. II, 11.3.2009, n. 25877, CED Cass., n. 244660).
Maggiormente convincente ed aderente alla ratio della norma appare tuttavia quell’orientamento che invece ritiene che la condotta di induzione si debba concretare in un’apprezzabile attività di suggestione, pressione morale e persuasione, finalizzata a determinare, o quantomeno a rafforzare, la volontà minorata del soggetto passivo (Cass. pen., sez. II, 11.2.2010, n. 18158).
Secondo l’indirizzo giurisprudenziale prevalente l’attività d’induzione può essere desunta in via presuntiva quando la persona offesa sia affetta da una malattia che la privi gravemente della capacità di discernimento, di volizione e di autodeterminazione ed il soggetto attivo non abbia nei suoi confronti alcuna particolare ragione di credito (Cass. pen., sez. II, 7.4.2009, n. 18583). La prova dell’induzione non richiede necessariamente la dimostrazione di episodi specifici, ben potendo il convincimento del giudice essere fondato su elementi indiretti e indiziari, come la natura degli atti compiuti e il pregiudizio da essi derivante (Cass. pen., sez. II, 23.1.2009, n. 17415, CED Cass., n. 244343).
Il concetto di induzione comprende non solo l’azione del soggetto attivo della circonvenzione, ma anche un risultato, un evento di natura psichica, che, nel contesto dell’art. 643, è costituito dalla risoluzione, del soggetto passivo dell’azione, di compiere l’atto.
Il compimento dell’atto, che importi qualsiasi effetto giuridico dannoso per sé o per altri (Dawan, D., op. cit., 83), costituisce l’evento del reato. La nozione di «atto», valida ai sensi dell’art. 643 c.p., è generalmente piuttosto ampia, poiché la dottrina vi fa rientrare «qualsiasi comportamento, negoziale o non negoziale, materiale o sussumibile nelle varie categorie degli atti giuridici, riportabile comunque ad una manifestazione di volontà e/o di conoscenza da parte del circonvenuto» (Marini, G., op. cit., 317; Ronco, M., op. cit., 5; Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 214). In questa nozione vi rientrano perciò anche i fatti materiali, quali la dazione di beni o la restituzione di titoli (Pagliaro, A., op. cit., 411; Ronco, M., op. cit., 5; Marini, G., op. cit., 317), mentre risulta più discusso il rilievo di un comportamento meramente negativo, quale l’acquiescenza al maturare di una decadenza o di una prescrizione estintiva (in senso favorevole si v. Pagliaro, A., op. cit., 411). L’atto può avere anche natura non patrimoniale (come ad esempio, l’atto di adozione o il riconoscimento di figlio naturale, l’adesione a una associazione ovvero ad un movimento religioso, politico, culturale, il matrimonio, ecc.; in questo senso, cfr. Ronco, M., postilla, cit., 1; Dawan, D., op. cit., 95 ss.). Per quanto riguarda, invece, gli effetti giuridici dannosi, che debbono conseguire al compimento dell’atto, rimane alquanto controverso, in dottrina come in giurisprudenza, se questi debbano essere necessariamente di natura patrimoniale, ovvero possano avere rilievo anche quelli di natura morale o affettiva, come sembrerebbe ritenere quella dottrina che propende per l’indirizzo personalistico del bene giuridico tutelato dalla fattispecie (Ronco, M., postilla, cit., 1), in quanto si sostiene che anche dal compimento di atti di natura personale, come quelli sopra esemplificati, scaturirebbe «l’assunzione di obblighi, che già in quanto tali, implicano la strumentalizzazione della persona incapace. A tali obblighi inerisce quasi sempre anche una potenzialità di danno, latamente riferibile alla sfera della patrimonialità, come proiezione della libertà della persona» (Ronco, M., postilla, cit., 2). La giurisprudenza di legittimità sembra continuare a richiedere almeno una potenzialità pregiudizievole dell’atto verso interessi di carattere patrimoniale, senza necessità dunque dell’attualità del pregiudizio, essendo sufficiente che l’atto sia idoneo ad ingenerare il pericolo di danno per il soggetto passivo che l’ha posto in essere o per gli altri (in tal senso già Cass. pen., S.U., 15.12.1973, n. 1669, cit.; Cass. pen., sez. II, 10.3.2009, n. 12406, CED Cass., n. 244059). Questo orientamento, sostenuto anche da parte di certa dottrina, finisce dunque per ricondurre il reato di circonvenzione d’incapace all’interno della categoria dei reati di pericolo, o soltanto eventualmente di danno (Dawan, D., op. cit., 111).
Infine, la giurisprudenza e la dottrina prevalenti tendono ad escludere che le eventuali cause di invalidità degli atti o contratti compiuti dall’incapace, quali la nullità o l’annullabilità degli stessi sotto il profilo civilistico, possano incidere sulla configurabilità del reato di cui all’art. 643 c.p., adottando una impostazione cd. autonomistica del diritto penale, atteso che queste forme civilistiche di invalidità non impediscono la produzione di effetti giuridici, né la norma sembra aver posto alcuna limitazione, utilizzando la locuzione «qualsiasi effetto giuridico». Al contrario, l’illiceità penale del fatto sembra, secondo l’orientamento predominante, possa incidere sul piano civilistico sulla validità del negozio giuridico compiuto, che pertanto potrà ritenersi annullabile ex art. 428 c.c., essendo concluso da persona incapace di intendere o volere, ovvero nullo, ove la norma di cui all’art. 643 c.p. venga considerata norma imperativa dalla cui violazione consegue la nullità del contratto.
Il soggetto attivo, oltre a doversi rappresentare le condizioni in cui versa il soggetto passivo, e a volere abusare dei bisogni, delle passioni o dell’inesperienza del minore, o, diversamente, dello stato d’infermità o di deficienza psichica dell’incapace, occorre che si rappresenti altresì le particolari conseguenze giuridiche dannose che l’atto, che induce l’incapace a compiere, importerà nella sfera patrimoniale di quest’ultimo o di terzi. A ciò si deve aggiungere una particolare finalizzazione della condotta dell’agente, che dovrà agire in vista della realizzazione di un profitto per sé o per altri, sebbene questo non debba necessariamente trovare riscontro nella realtà oggettiva, trattandosi pertanto di un delitto a dolo specifico (Dawan, D., op. cit., 122 ss.). Sebbene, inoltre, a differenza di altre fattispecie del medesimo titolo, non sia espressamente richiesta l’ingiustizia del profitto, si ritiene che questa sia implicita e che dunque il soggetto attivo non debba aver agito per perseguire finalità obiettive di giustizia (Ronco, M., op. cit., 6).
Dall’individuazione dell’interesse oggetto di tutela deriva il non insignificante inquadramento della fattispecie all’interno della categoria dei reati di danno ovvero in quella dei reati di pericolo, con conseguenti ripercussioni in ordine alla corretta identificazione del momento consumativo del reato.
Chi aderisce alla tesi personalistica ritiene che il reato di circonvenzione sia da considerarsi un reato di danno, poiché la lesione alla dignità e alla libertà di autodeterminazione dell’incapace si realizzerebbe già solo al momento del compimento dell’atto avente un effetto giuridico dannoso (Ronco, M., op. cit., 6). Conforme a questo orientamento è altresì la giurisprudenza della Suprema Corte, che ritiene che il delitto si consumi nel momento in cui viene compiuto l’atto capace di procurare qualsiasi effetto giuridico dannoso per la persona offesa o per altri (Cass. pen., sez. IV, 23.4.2008, n. 27412, in Riv. pen., 2009, 724), anche se poi spesso arriva a conclusioni opposte affermando che si tratti di un reato di pericolo (Cass. pen., S.U., 15.12.1973, n. 1669, cit.), poiché talvolta può capitare che il pregiudizio concreto si realizzi in un momento successivo rispetto a quello del mero compimento dell’atto. Tuttavia, l’orientamento prevalente in dottrina ritiene che non debba esservi alcun dubbio in merito al fatto che il momento consumativo del reato di circonvenzione debba farsi coincidere con il momento della produzione degli effetti giuridici dannosi dell’atto che conseguono automaticamente dal suo mero compimento, che comporterà la diminuzione dei valori patrimoniali e dunque la realizzazione degli effetti dannosi, senza esserci necessità di attendere dei pregiudizi materialmente verificabili (Ronco, M., op. cit., 7; Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 216). Trattandosi di un reato ad evento naturalistico connesso ad una condotta che può realizzarsi anche in modo frazionato, la maggioranza della dottrina ammette la configurabilità del delitto tentato di circonvenzione, eccettuati quegli autori che sostengono la natura di reato di pericolo (Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, agg. da P. Nuvolone-G.D. Pisapia, V ed., IX, Torino, 1984, 864).
Coloro i quali non ritengono essenziale la realizzazione di un danno per la sussistenza del delitto, escludono conseguentemente che possano applicarsi le circostanze contemplate agli artt. 61, n. 7, e 62, n. 4, c.p.. Tuttavia, è stato correttamente fatto notare come non vi sia alcuna logica ragione per escludere la loro applicazione, nel caso in cui, invece, il danno realizzato sia stato, rispettivamente, di rilevante gravità o di speciale tenuità (Ronco, M., postilla, cit., 3). Non si ritiene, invece, compatibile con la fattispecie di reato in esame l’aggravante della cd. minorata difesa, prevista all’art. 61, n. 5, c.p., che oggi, tra l’altro, a seguito della modifica introdotta dalla l. 15.7.2009, n. 94, fa espressamente riferimento anche all’età senile della persona offesa dal reato, con l’intento di tutelare le persone anziane contro i pericoli dello sfruttamento, a fini illeciti, della loro età. Le ragioni di questa incompatibilità risiedono nel fatto che, essendo la condotta di circonvenzione incentrata già «sull’abuso della condizione di una persona menomata, l’applicazione della circostanza violerebbe il principio del ne bis in idem sostanziale» (così Ferrante, M.L., op. cit., 281; conf. Ronco, M., postilla, cit., 3).
La condotta di induzione, l’abuso, nonché l’evento psichico che contribuisce anch’esso a tipicizzare la condotta di circonvenzione, consentono di chiarire i rapporti tra questo delitto e altre figure di reato, in particolare con la truffa (art. 640 c.p.), che, rispetto alla circonvenzione, si trova in una posizione di evidente contiguità. Entrambe richiedono una condotta d’induzione; la quale diventa tipica, tuttavia, ai fini della truffa, solo in quanto sia realizzata con artifizi o raggiri, che cagionino altresì un particolare evento psichico: l’errore del soggetto passivo dell’azione e la conseguente risoluzione di compiere l’atto di disposizione patrimoniale. Se l’incapace sia stato indotto a compierlo sotto la spinta di un errore, provocato anche da artifizi o raggiri, si configurerà la circonvenzione, non la truffa, qualora il soggetto punibile abbia raggiunto il risultato anche abusando di quelle particolari condizioni del soggetto passivo dell’azione, presupposto del fatto di circonvenzione, che lo rendono più persuasibile (in tal senso Ronco, M., op. cit., 7, che esclude vi possa essere un rapporto di specialità tra i due delitti, che, invece, si escludono a vicenda; secondo Pedrazzi, C., Inganno ed errore nei delitti contro il patrimonio, Milano, 1955, 43, la circonvenzione dovrebbe essere esclusa, configurandosi invece la truffa, se l’incapace cada nella trappola degli artifizi e raggiri così come potrebbe cadervi una persona normale).
Se non è sempre agevole la diagnosi differenziale tra la truffa e la circonvenzione, al contrario, risulta piuttosto evidente la distinzione tra la circonvenzione e l’estorsione in danno dell’incapace, per la palese diversità dei mezzi adoperati dall’agente per indurre il soggetto passivo a compiere l’atto dannoso: l’opera di suggestione o di induzione in un caso; la violenza o minaccia, nell’altro. I reati di cui agli artt. 643 e 629 c.p. non potranno perciò in alcun modo concorrere (Cass. pen., sez. II, 16.3.2005, n. 13488, in CED Cass., n. 231158).
Nessun dubbio invece sussiste in tema di rapporti tra il delitto di usura e quello di circonvenzione, visto che questi sono già regolati dalla legge all’art. 644 c.p., che contiene una clausola cd. di riserva, che esclude l’applicabilità del delitto di usura quando ricorrano gli estremi del delitto di circonvenzione, cosicché è possibile affermare che il primo costituisce fattispecie sussidiaria rispetto al secondo.
Art. 643 c.p.; art. 428 c.c.; art. 1418 c.c.; l. 9.1.2004, n. 6 (Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizione e di inabilitazione, nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali); art.1, co. 7, l. 15.7.2009, n. 94.
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