Circostanze del reato. La recidiva nella prospettiva costituzionale
La riforma della recidiva, attuata con la l. 5.12.2005, n. 251, ha indotto numerose questioni interpretative, che si connettono a dubbi circa la compatibilità costituzionale di vari aspetti della novella. Nella giurisprudenza si è registrata la tendenza ad orientare le scelte ermeneutiche verso il massimo possibile recupero della discrezionalità giudiziale, e a sindacare la legittimità delle norme più significative della contraria opzione compiuta dal legislatore. Un’opera in pieno svolgimento, con rilevanti interventi della Consulta anche lungo il corso del 2011, secondo un tracciato plausibilmente destinato ad ulteriori ed imminenti sviluppi.
La recente attenzione legislativa verso la recidiva non può sorprendere. Nel pendolarismo tipico dell’esperienza italiana, questo è il tempo delle risposte securitarie alle sollecitazioni provenienti dai fenomeni di devianza, pur nell’ambito di una plateale strategia della diversificazione. La recidiva esprime, per definizione, un problema di efficacia dell’azione rieducativa pregressa, ed il sopravvento delle logiche di deterrenza non può che condurre ad una valorizzazione dei precedenti del reo. Non che la tendenza sia nuova, naturalmente. Nell’architettura originaria del codice penale, la recidiva aveva assunto un ruolo di forte incidenza sulla quantificazione delle pene, con vincoli severi per la discrezionalità del giudice. Proprio per questa ragione l’istituto era stato pressoché travolto quando, preso atto della propria incapacità di operare una riforma organica del sistema, il legislatore aveva optato per uno scardinamento dei vincoli edittali, rimettendo al corpo giudiziario il compito di smussare, nella pratica, gli elementi di maggior frizione fra corpi normativi (la Costituzione ed il codice penale) ispirati a ben differenti gerarchie di valori. La rimozione dei casi di recidiva «obbligatoria», e la confluenza della circostanza in un meccanismo di comparazione a sua volta completamente «liberalizzato », avevano rappresentato profili essenziali della manovra in questione1. E v’è da aggiungere che l’esperienza giudiziaria degli anni successivi, anche per effetto delle amplissime forbici edittali a disposizione dei magistrati, aveva quasi indotto una desuetudine dell’istituto. La l. 5.12.2005, n. 251, ha dunque segnato una brusca inversione di tendenza, non solo per la reintroduzione di meccanismi non discrezionali nell’applicazione della circostanza e nella determinazione delle relative conseguenze sanzionatorie, ma anche per la moltiplicazione degli effetti «indiretti» collegati alla recidiva, nuovamente trascinata verso un modello di «status». Immediatamente si è creato un vasto movimento reattivo, nella dottrina come nella giurisprudenza. In questa sede interessa la verifica di compatibilità costituzionale della nuova disciplina. Il relativo processo ha già dato alcuni esiti di «manipolazione» della novella. Di peculiare importanza la svolta segnata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 183/2011, che ha dichiarato la illegittimità di parte delle preclusioni poste per il riconoscimento di attenuanti generiche in favore del recidivo reiterato2. È un percorso certamente parziale, perché il sindacato di costituzionalità non ha ancora attinto, nel merito, alcuni dei nodi cruciali della «nuova» disciplina della recidiva. Ecco perché la relativa riforma può definirsi, a pieno diritto, una riforma in divenire.
Nella prospettiva costituzionale dell’uguaglianza, ma anche alla luce di parametri ulteriori (tra i quali, in primo luogo, la necessaria finalizzazione rieducativa della pena, presidiata dal rapporto proporzionale tra fatto e sanzione), molte linee ispiratrici dell’intervento di riforma generano tensioni. Se ne possono enucleare almeno tre. In primo luogo, l’automatismo nell’applicazione della recidiva, cioè l’eliminazione di ogni margine di apprezzamento giudiziale, per un’ampia serie di fattispecie, circa l’an del trattamento differenziale. In secondo luogo, l’automatismo negli effetti sanzionatori dell’applicazione, diretti ed indiretti (percentuali fisse di aumento della pena, soglie minime di incremento nel caso di cumulo giuridico, vincoli parziali nel riconoscimento di attenuanti generiche e nel giudizio di comparazione). Una rigidità sensibile anche quando si connette a casi di applicazione discrezionale nell’an. In terzo luogo, l’automatismo degli effetti prodotti dall’applicazione (anche non vincolata) della recidiva nel rapporto di esecuzione, dall’avvio necessario della carcerazione3 alle preclusioni (assolute o parziali) di accesso ai benefici penitenziari ed ai permessi, fino alla norma (forse la più simbolica) che preclude una seconda applicazione delle misure alternative nei confronti dei recidivi reiterati.
2.1 La ratio giustificatrice del trattamento differenziale
La legittimità del trattamento differenziale per i recidivi è stata oggetto di contestazione anche in tempi risalenti, essenzialmente alla luce del principio di uguaglianza. Ma una giurisprudenza costituzionale altrettanto risalente ha valorizzato la recidiva quale segnale di più intensa pericolosità individuale, tale ad esempio da giustificare il tendenziale divieto di sospensione condizionale della pena4, un più rigido trattamento cautelare5, una più severa risposta sanzionatoria6. Si collega idealmente a quei precedenti una esplicita legittimazione della recidiva quale fattore concorrente di aggravamento della pena, che la Consulta ha operato, pur incidentalmente, nello stesso momento in cui cancellava dall’ordinamento una tipica aggravante di status, cioè quella prevista dal n. 11 bis dell’art. 61 c.p.: «il recidivo è […] un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale»7. La ragionevolezza di trattamenti differenziali è stata affermata anche nella giurisprudenza concernente le restrizioni nell’accesso ai riti premiali, e, per quanto si tratti di soluzioni mirate soprattutto a frenare l’eccessiva espansione di un rito tipicamente acognitivo, qual è il patteggiamento, risulta evidente la continuità di approccio dei Giudici costituzionali8. Il delinquente recidivo può essere trattato «diversamente» perché più pericoloso; la sua non è una «condizione personale»9, riconducibile al corrispondente parametro del primo comma dell’art. 3 Cost., ma una caratteristica che, posta in relazione ad un determinato fatto criminoso, può ragionevolmente condizionarne il trattamento10.
2.2 La crisi del modello per l’automatismo nell’applicazione e negli effetti
Non è un caso, per altro, che la giurisprudenza richiamata si sia sviluppata quasi per intero in un contesto nel quale – a parte la quantità ben più ridotta dei suoi effetti «indiretti» – la recidiva era applicata discrezionalmente dal giudice. Pur dopo la riforma, il dato della discrezionalità è stato evocato quale elemento dal forte significato di legittimazione11: «con la sola eccezione dei reati di maggior gravità, l’applicazione della circostanza è subordinata all’accertamento in concreto, da parte del giudice, di una relazione qualificata tra i precedenti del reo ed il nuovo reato da questi commesso, che deve risultare sintomatico – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei fatti pregressi – sul piano della colpevolezza e della pericolosità sociale»12. Si comprende allora l’impatto della riforma. Gli automatismi nascono esattamente al fine di imporre il trattamento differenziale a prescindere dal significato effettivo della recidiva nel caso concreto, in termini di capacità a delinquere o colpevolezza. E lo spostamento della disciplina verso logiche presuntive richiede nuove giustificazioni, nella prospettiva dell’uguaglianza e della ragionevolezza, per il rischio che un trattamento deteriore sia applicato anche in assenza di elementi legittimanti. Il problema si è posto con particolare immediatezza con riferimento agli effetti «indiretti» ed automatici della recidiva sul trattamento sanzionatorio. Se si guarda al complesso delle pronunce della Consulta riguardo alla disciplina differenziale in materia di circostanze attenuanti, o di livelli sanzionatori nel caso di cumulo giuridico, si coglie agevolmente una strategia essenziale: recuperare discrezionalità per il giudice attraverso il massimo possibile ampliamento degli spazi di valutazione «a monte», cioè nella decisione sulla «applicazione» o non della recidiva. A piena e tempestiva dimostrazione, com’è ovvio, della serietà del problema. Una strategia siffatta doveva chiaramente articolarsi in due distinte direzioni: il ripudio della cd. concezione «bifasica» della recidiva, e la restrizione per via ermeneutica dei casi di applicazione «obbligatoria» della circostanza. E così è avvenuto, in una interazione vistosa e virtuosa con la giurisprudenza di legittimità e con la dottrina. Nella prima prospettiva, la Consulta ha stabilito e ribadito che gli effetti «indiretti» si producono, anche nella sede cognitiva, solo quando il giudice abbia ritenuto nel caso concreto di riconoscere l’effetto aggravante dei precedenti (cioè di aumentare la pena, o di compensare l’aumento mediante equivalenza con eventuali attenuanti)13. Sul secondo versante, si è sviluppata una progressiva «riduzione» dei casi di recidiva «obbligatoria» alle sole fattispecie delineate al quinto comma dell’art. 99 c.p., norma la cui base applicativa, nel contempo, è stata tendenzialmente ristretta. La pronuncia di prima impostazione del tema ha riguardato i vincoli nel bilanciamento tra circostanze di segno opposto, che subito sono stati circoscritti, come si accennava, ai casi di incidenza «effettiva» dei precedenti nella determinazione della pena. Vincoli eludibili, dunque, se non per le ipotesi di recidiva «obbligatoria». E tale non deve considerarsi la fattispecie regolata al quarto comma dell’art. 99 c.p., nonostante il tono imperativo utilizzato nella norma (tono che si riferisce al quantum dell’incremento sanzionatorio e non all’an). Quanto alla previsione del quinto comma, resta stabilire quando «si tratta» dei gravi delitti inseriti nel catalogo dell’art. 407 c.p.p.: se sia sufficiente che nell’elenco sia compreso il reato che esprime la recidiva, o quello che la fonda, o se piuttosto sia necessario che entrambi appartengano al catalogo. E naturalmente – suggerisce la Corte – soluzioni progressivamente più restrittive valgono ad ampliare, in proporzione, gli spazi residui di discrezionalità giudiziale14. La soluzione adottata per il nuovo art. 69 c.p. corrisponde ad una tecnica piuttosto usuale per la Consulta, cioè quella di contestare al rimettente l’omessa valutazione di soluzioni interpretative utili ad evitare, nel caso concreto, la denunciata lesione di principi costituzionali. Tale tecnica consente l’adozione di provvedimenti di forte indirizzo ermeneutico senza l’onere di una pronuncia sul merito, e nel caso della recidiva è valsa a restringere, progressivamente, i casi di completa eliminazione della discrezionalità giudiziale. Si è trattato di una strategia ad ampio raggio15, perfettamente riconoscibile, ad esempio, anche nelle occasioni in cui la Corte ha accreditato la «disapplicazione» della recidiva facoltativa quale strumento a disposizione del giudice nei casi in cui gli aumenti di pena in misura fissa16, o le percentuali minime di incremento per il cumulo giuridico17, condurrebbero ad esiti sanzionatori sproporzionati. Il trasferimento «a monte» degli spazi di discrezionalità, per altro, introduce forti disarmonie nel sistema. La decisione sulla necessità di applicare la recidiva attiene infatti all’incidenza dei precedenti nel giudizio sulla pericolosità espressa dal reo, e non riguarda l’opportunità e la congruenza degli effetti «indiretti » dell’applicazione, o finanche le conseguenze che la condanna con la recidiva produrrà nel rapporto esecutivo. La scelta di non applicazione, pur in presenza della «relazione qualificata» tra precedenti e fatto, consente di evitare i vincoli nel giudizio di comparazione o, per esempio, le soglie minime di incremento per la continuazione tra reati, ma altera i criteri ordinari di quantificazione della pena. L’impropria allocazione della discrezionalità, inoltre, muove il sistema verso una logica «binaria» (non si applica niente-si applica tutto), ponendo in ombra, almeno parzialmente, il merito delle scelte concernenti gli effetti diretti ed indiretti della recidiva. Anche altri fattori hanno dilazionato e frazionato la riflessione. Può menzionarsi ad esempio il regime di «transizione» che la Corte ha imposto per l’applicazione delle restrizioni introdotte nell’ambito penitenziario. Seguendo una linea già praticata in occasione di precedenti riforme peggiorative18, si è stabilito che nuove preclusioni, ove applicate nei confronti di soggetti che già abbiano raggiunto nel percorso rieducativo uno stadio utile al godimento di determinati benefici, produrrebbero una interruzione non giustificata dell’iter trattamentale, con conseguente violazione del terzo comma dell’art. 27 Cost. Dunque sono intervenute dichiarazioni di illegittimità volte a paralizzare gli effetti «retroattivi» dei limiti concernenti i permessi premio19 e l’affidamento in prova al servizio sociale20. A conti fatti, prima che maturasse un approccio sostanziale agli «automatismi » nell’applicazione degli effetti indiretti, da sindacare in base all’attendibilità delle logiche presuntive loro sottese, un solo aspetto della nuova disciplina era stato valutato nel merito, e ritenuto compatibile con il dettato costituzionale. Si tratta delle previsioni che, nell’art. 99 c.p., indicano per il recidivo una percentuale fissa di aumento della pena, invece che lasciare al giudice una valutazione discrezionale circa la quota di incremento. La Corte ha negato il vulnus prospettato dal rimettente (violazione degli artt. 3, 25 e 27 Cost.), per un verso ricordando la possibilità di disapplicare «a monte» la circostanza, ma per altro verso valorizzando l’opportunità di una congrua riduzione della pena di partenza, in guisa che, pur dopo l’incremento in misura fissa, il risultato sanzionatorio resti congruo21. Una soluzione efficace, certamente, ma di nuovo asistematica, perché implica una programmatica alterazione dei parametri commisurativi indicati all’art. 133 c.p. Una soluzione, comunque, compresa a pieno titolo nella strategia che punta sul recupero «indiretto» della discrezionalità giudiziale quale elemento di soluzione per tensioni, ormai evidenti, con il dettato costituzionale.
2.3 Il fondamento presuntivo degli automatismi in materia di recidiva ed il sindacato di ragionevolezza della Corte costituzionale
Il panorama si è modificato quando si è acquisita piena consapevolezza del fondamento presuntivo sul quale devono poggiare le regole che limitano od escludono la discrezionalità giudiziale in materia di recidiva. Gli «automatismi » di effetto della circostanza possono giustificarsi, in rapporto al trattamento differenziale del recidivo, solo in quanto sorretti da presunzioni che sostituiscano, al concreto apprezzamento del giudice, una valutazione astratta del legislatore circa la maggior pericolosità espressa con la reiterazione della condotta deviante. Per tal via, e secondo tradizione, le differenze di trattamento restano legittimate da elementi distintivi sul piano della capacità a delinquere o della stessa colpevolezza. Lo scopo delle presunzioni è quello di governare le forme di accertamento del fatto cui può ragionevolmente connettersi una determinata conseguenza. Nel caso delle presunzioni assolute, le tensioni con i principi di uguaglianza e ragionevolezza nascono dal rischio dell’eguale trattamento di situazioni disomogenee: che una certa conseguenza, concepita in relazione ad una caratteristica propria dei fatti riconducibili ad una determinata classe, debba prodursi anche riguardo a fatti che, pur appartenenti alla stessa classe, non presentino la caratteristica che giustifica razionalmente il trattamento. Se anche le presunzioni assolute sono ammissibili, è richiesta una tecnica legislativa attenta, tale da confinare nel tipo solo fatti che siano effettivamente espressione del fenomeno da regolare. La «scoperta» della logica presuntiva nelle regole di trattamento del delinquente pericoloso è stata precoce per le misure di sicurezza personale, ove la presunzione era resa esplicita dal linguaggio normativo. E la Consulta ha letteralmente smantellato, nel tempo, un sistema concepito in termini di applicazione «obbligatoria» delle misure, indipendentemente dalla valutazione di ricorrenza, nel caso concreto, dei relativi presupposti. Fin dall’inizio l’opera era stata condotta – senza negare in astratto la legittimità di presunzioni ragionevoli22 – attraverso un vaglio (negativo) di plausibilità della generalizzazione di volta in volta operata dal legislatore, attribuendo una pericolosità sociale qualificata a tutti coloro che avessero commesso un determinato fatto23 o si trovassero in una data condizione personale24. Un percorso analogo, per quanto faticoso e parziale, è stato compiuto rispetto ad automatismi concernenti i benefici penitenziari, pure fondati su logiche presuntive25, ed è significativo che abbia coinvolto anche un (raro) automatismo favorevole al condannato26. Da ultimo, non può trascurarsi un cenno alla rapida destrutturazione della norma che imponeva la custodia in carcere quale misura cautelare obbligatoria per gli accusati di determinati delitti, nel cui ambito il concetto essenziale ha trovato la sua più moderna declinazione: «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa»27. Ebbene, l’esame di merito della riforma della recidiva ha registrato un effettivo salto di qualità proprio alla luce del principio enunciato, con esiti che, al momento, risultano alterni. In una recente occasione la Consulta è parsa giustificare, sia pure incidentalmente, la preclusione assoluta di accesso ai benefici penitenziari per il recidivo che abbia già altra volta fruito dei benefici medesimi (art. 58 quater, co. 7 bis, ord. penit.)28. Ma non è certo mancato il consueto riferimento alla (tendenziale) discrezionalità che segna l’applicazione della recidiva in fase di cognizione. Soprattutto, è stata accreditata la tesi (pur minoritaria) secondo cui la preclusione opera solo con riguardo a pene inflitte con applicazione della recidiva reiterata, per reati commessi dopo la fruizione di benefici nell’esecuzione di pene inflitte, a loro volta, con la recidiva reiterata. L’automatismo è stato circoscritto, per tal via, a soggetti particolarmente perseveranti nella devianza. In altre parole, la base applicativa della norma a fondamento presuntivo è stata conformata in guisa da non rendere affatto «agevole» immaginare che ad essa possano essere ricondotte ipotesi concrete non meritevoli del trattamento differenziale. Una presunzione ammissibile, sembra di capire, in quanto positivamente ragionevole. Ma ecco un caso di applicazione del metodo con esito opposto: il divieto di riconoscere attenuanti generiche, per il redivo reiterato, in base al comportamento successivo al reato (nuovo co. 2 dell’art. 62 bis c.p.)29. La vicenda è significativa anzitutto perché la Corte ha dovuto prendere esplicitamente atto, per la prima volta, di trovarsi in una situazione di discrezionalità vincolata anche a «monte» dell’effetto indiretto, ricorrendo l’ipotesi del quinto comma dell’art. 99 c.p. Tuttavia, per una agevole soluzione del problema è bastata l’identificazione della base presuntiva del divieto (per i recidivi reiterati un buon atteggiamento post delictum non è mai realmente sintomatico sul piano della capacità a delinquere): la generalizzazione operata dal legislatore si è mostrata palesemente irragionevole. Con violazione – si noti – non solo dell’art. 3 Cost., ma anche del terzo comma dell’art. 27, non essendo ammissibile l’indifferenza (necessitata) del trattamento rispetto a fattori sintomatici del percorso rieducativo eventualmente intrapreso dal reo.
Come si è appena visto, non sempre il governo degli effetti «indiretti» della recidiva è consentito dalla discrezionalità nella sua applicazione, che pure ha assunto fino ad oggi un ruolo decisivo nelle strategie di valutazione della Consulta. La quale, d’altra parte, non si è ancora direttamente pronunciata sul quinto comma dell’art. 99 c.p., cioè sull’obbligo imposto al giudice di applicare comunque l’aumento di pena nei casi indicati dalla norma. È il primo dei fronti ancora aperti, per quanto non manchino segnali in alcune delle decisioni già intervenute30. Emerge poi con sempre maggiore chiarezza l’autonomia delle questioni concernenti gli effetti connessi all’applicazione della recidiva, la cui ragionevolezza (e compatibilità coi principi di proporzionalità e finalizzazione rieducativa) dovrà essere sindacata pur quando, grazie alla discrezionalità esercitata dal giudice (o ad una regola presuntiva fondata su attendibili leggi di copertura), la circostanza potrà considerarsi espressiva di una capacità a delinquere concretamente differenziata. Dovrà stabilirsi, a titolo di esempio, se sia legittima la già citata previsione di una soglia percentuale minima di incremento sanzionatorio in caso di concorso formale o di continuazione31, oppure se sia ragionevole che la recidiva produca effetti del tutto esterni al piano del trattamento, come nel caso dei termini prescrizionali32. È ancora largamente incompleta, da ultimo, la valutazione degli effetti che l’applicazione della recidiva in sede di cognizione produce nel rapporto esecutivo, e nell’applicazione del diritto penitenziario. In questo contesto, l’intreccio dei meccanismi presuntivi raggiunge la massima sua complessità. Gli automatismi impegnano un giudice sulla base di valutazioni compiute altrove, in base a parametri diversi da quelli che ordinariamente governano le decisioni in executivis. Soprattutto, in base a decisioni assunte prima che la vicenda esecutiva abbia il proprio svolgimento, così che le concrete caratteristiche del percorso rieducativo restano programmaticamente emarginate nell’ambito del procedimento di sorveglianza. Come già si è visto, la Consulta ha incidentalmente opinato che non sarebbe del tutto preclusa al legislatore la costruzione sulla recidiva di presunzioni operanti nell’ambito delle regole di trattamento penitenziario. Ma la questione attende ancora una valutazione diretta, ed è comunque presumibile che venga posta con riguardo a buona parte delle regole attualmente vigenti.
1 Si allude naturalmente alla modifica degli artt. 69 e 99 c.p., ed all’abrogazione dell’art. 100 c.p., attuate con il d.l. 11.4.1974, n. 99, convertito in l. 7.6.1974, n. 220.
2 C. cost., 10.6.2011, n. 183, sulla quale si tornerà ripetutamente in seguito.
3 Il novellato testo dell’art. 656, co. 9, lett. c) del codice di rito preclude la sospensione dell’ordine di esecuzione, per i recidivi reiterati, a prescindere dalla possibilità di applicazione di misure alternative alla carcerazione.
4 C. cost., 30.7.1980, n. 133; C. cost., 18.7.1991, n. 361; C. cost., 16.11.1993, n. 393.
5 C. cost., 11.5.1971, n. 100.
6 C. cost., 12.1.1977, n. 5.
7 C. cost., 8.7.2010, n. 249.
8 C. cost., 23.12.2004, n. 421; C. cost., 28.12.2006, n. 455.
9 Così, icasticamente, la sent. n. 5 del 1977, cit., e più recentemente la ord. n. 421 del 2004, cit.
10 Come si legge nella citata sentenza n. 183 del 2011, «non dà luogo a una disparità di trattamento, né è di per sé irragionevole prevedere un regime di maggior rigore nei confronti di una persona che ha commesso un grave reato trovandosi in una situazione di recidiva reiterata ».
11 La connotazione discrezionale è stata significativamente opposta al regime di applicazione indiscriminata della cd. «aggravante di clandestinità»: sent. n. 249/2010, cit.
12 Affermazione ormai tradizionale nella giurisprudenza della Consulta, oltreché in quella ordinaria: da ultimo, C. cost., 29.5.2009, n. 171.
13 Relativamente al divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti, ritenuto inoperante in caso di recidiva «non applicata», C. cost., 30.11.2007, n. 409. Successivamente, nello stesso senso, C. cost., 21.2.2008, n. 33; C. cost., 4.4.2008, n. 90; C. cost., 10.7.2008, n. 257. Il concetto è stato ribadito in relazione al nuovo quarto comma dell’art. 81 c.p., che impone una percentuale minima di incremento della pena nel meccanismo di cumulo giuridico in caso di recidiva reiterata. Norma che, nella prospettiva accreditata dalla Corte, opera solo quando la circostanza sia «applicata»: C. cost., 6.6.2008, n. 193. Recentemente, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno generalizzato il principio riguardo a tutti gli effetti «indiretti» della recidiva, sia sul piano sanzionatorio che su quello processuale: Cass., S.U., 27.5.2010, n. 35738, in Guida dir., 2010, 45, 58.
14 C. cost., 4.6.2007, n. 192. Non a caso, in epoca successiva, la Consulta si è spinta ad accreditare (con l’usuale modalità dell’indicazione di soluzioni adeguatrici «non esplorate») la lettura più restrittiva della norma, che attiverebbe il meccanismo solo se appartengono al novero dei reati in discussione tanto il fatto fondante che quello espressivo della recidiva (C. cost., 29.5.2009, n. 171). Un dato ancor più significativo se si considera la prevalenza, nella giurisprudenza di legittimità, di una soluzione meno benevola per il reo, che esige la pertinenza al catalogo del solo reato per il quale la recidiva deve essere applicata: da ultimo, Cass., S.U., 24.2.2011, n. 20798, in C.E.D. Cass., n. 249664.
15 Si vedano, sempre a proposito dell’art. 69 c.p., le già citate ord. nn. 409 /2007, 33, 90, 193 e 257 del 2008, 171 del 2009.
16 C. cost., 4.4.2008, n. 91.
17 In proposito, si veda la ord. n. 193/2008, cit.
18 Tra le altre, C. cost., 30.12.1997, n. 445 e C. cost., 22.4.1999, n. 137.
19 Il nuovo art. 30 quater ord. penit. è stato dichiarato illegittimo nella parte in cui doveva applicarsi ai condannati che, prima della entrata in vigore della l. n. 251/2005, avessero « raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto»: C. cost., 4.7.2006, n. 257.
20 Per la dichiarazione di illegittimità dei commi 1 e 7 bis dell’art. 58 quater ord. penit. si veda C. cost., 16.3.2007, n. 79. Sull’argomento anche C. cost., 18.6.2007, n. 219 e C. cost., 21.2.2008, n. 35.
21 Ord. n. 91/2008, cit.
22 C. cost., 15.6.1972, n. 106.
23 Ancora attuale l’approccio della sentenza concernente il ricovero in riformatorio giudiziario dei delinquenti infraquattordicenni: «Non v’è dubbio che la severa misura di sicurezza sia obbligatoriamente comminata nel presupposto della pericolosità sociale del minore. Senonché, la presunzione di pericolosità, che negli altri casi previsti dal codice si basa sull’id quod plerumque accidit, non ha fondamento allorché si tratti della non imputabilità del minore di anni quattordici: ché, al contrario, può ben dirsi che qui, data la giovanissima età del soggetto, la pericolosità rappresenti l’eccezione, per cui l’obbligatorietà ed automaticità del ricovero in riformatorio giudiziario non ha giustificazione alcuna »: C. cost., 20.6.1971, n. 1. Si consideri anche l’ablazione della norma che imponeva, quale misura di sicurezza obbligatoria, «senza l’accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale», l’espulsione dello straniero condannato per fatti di narcotraffico: C. cost., 20.2.1995, n. 58.
24 In questa logica è stato eliminato l’obbligo di ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, a favore dell’applicazione discrezionale di altre misure (C. cost., 18.7.2003, n. 253; C. cost., 19.11.2004, n. 367). In precedenza, com’è noto, era stata imposta una verifica di attualità della pericolosità sociale, accertata anche presuntivamente con riguardo all’epoca del fatto, nel momento della decisione applicativa (C. cost., 27.7.1982, n. 139; C. cost., 28.7.1983, n. 249).
25 Si può ricordare la vicenda dell’esclusione dei detenuti «non collaboratori» accusati di gravi reati (C. cost., 8.7.1993, n. 306; C. cost., 27.7.1994, n. 357; C. cost., 1.3.1965, n. 68). Analogamente per una «presunzione sfavorevole» allo straniero connessa all’assenza di un valido titolo di soggiorno nel territorio dello Stato (C. cost., 16.3.2007, n. 78). Infine, sempre a titolo di esemplificazione, la decisione che ha eliminato la revoca automatica della liberazione condizionale in caso di nuova condanna: C. cost., 23.12.1998, n. 418. Nella stessa tendenza si iscrivono decisioni di rigetto o inammissibilità su base interpretativa, volte a negare la sussistenza dell’automatismo censurato: per un esempio recente, in tema di preclusione dell’accesso ai benefici per soggetti già condannati per evasione, si veda C. cost., 28.5.2010, n. 189.
26 C. cost., 4.7.2006, n. 255, per la dichiarata illegittimità di una applicazione «automatica» della sospensione condizionata della pena (cd. «indultino»).
27 Così, riprendendo testualmente C. cost., 16.4.2010, n. 139, la sentenza che ha dichiarato illegittimo il co. 3 dell’art. 275 c.p.p. nella parte in cui imponeva la custodia in carcere per i reati sessuali anche in presenza di elementi che escludessero la pericolosità dell’indagato nel caso concreto (C. cost., 21.7.2010, n. 265). Decisioni analoghe sono state assunte relativamente al delitto di omicidio (C. cost., 12.5.2011, n. 264) e di associazione per il narcotraffico (C. cost., 22.7.2011, n. 231). In epoca meno recente, invece, la Corte aveva giudicato tollerabile il divieto (temporaneo) degli arresti domiciliari per soggetti condannati per evasione: C. cost., 16.4.2003, n. 130.
28 C. cost., 8.10.2010, n. 291, di inammissibilità per omessa sperimentazione di una soluzione interpretava adeguatrice (in quanto restrittiva del divieto fino ad escluderne la fattispecie sottoposta al giudice rimettente).
29 Sent. n. 183/2011, cit.
30 Da ultimo si veda il par. 5 del Considerato nella sent. n. 183/2011, cit. La Corte di cassazione ha giudicato manifestamente infondata una questione riconducibile al tema: Cass., Sez. II, 9.2.2011, n. 6950, in C.E.D. Cass., n. 249458.
31 Con la citata ord. n. 193/2008 la Corte ha «eluso» il problema, rinviando alla possibilità di neutralizzare il meccanismo mediante la non applicazione della recidiva.
32 Il vaglio del merito è stato finora impedito dalla inammissibilità per ragioni processuali delle questioni proposte: C. cost., 1.8.2008, n. 324; C. cost., 6.2.2009, n. 34.