Abstract
Viene esaminata, da un punto di vista vuoi strutturale vuoi funzionale, il procedimento per citazione diretta a giudizio che, pur non appartenendo all’insieme dei “procedimenti speciali” in senso stretto, si caratterizza comunque, rispetto al rito ordinario, per una serie di particolarità, portatrici, talvolta, soltanto di una semplificazione processuale, tal’altra, invece, di un abbassamento delle garanzie procedurali.
1. Il rinvio alle altre disposizioni del codice di procedura penale: il limite dell’applicabilità
Tra le prescrizioni che disciplinano il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, l’art. 549 c.p.p. impone il rinvio in chiave integratrice – «per tutto ciò che non è previsto nel presente libro o in altre disposizioni» – alle norme contenute nei libri che precedono «in quanto applicabili». Con tale inciso, il legislatore sembra avere voluto prevenire eventuali fenomeni di “rigetto” della disciplina richiamata da parte del sistema nel quale è destinata ad operare, nonché costruire una clausola di salvezza che consenta di evitare possibili incongruenze applicative.
2. La fase investigativa
La fase investigativa del procedimento per citazione diretta a giudizio di competenza del tribunale in composizione monocratica, nonché la corrispondente procedura archiviativa, deve essere regolata dalle disposizioni fissate dal legislatore a proposito dei medesimi momenti processuali attinenti al procedimento avanti il tribunale in composizione collegiale. Diversamente dall’ultima disciplina del rito pretorile, quella attuale del rito monocratico, se per un verso esclude l’eccezionalità dell’incidente probatorio, per l’altro consente di adottare una decisione sulla richiesta di proroga nell’ambito di un’udienza in camera di consiglio (art. 406, co. 5, c.p.p.), di prolungare le indagini fino a due anni (art. 407, co. 2, lett. b, c, e d, c.p.p.), nonché di fissare un’udienza camerale, con avviso al pubblico ministero, all’indagato e alla persona offesa, non solo nel caso in cui il giudice non sia d’accordo con la richiesta di archiviazione, ma anche laddove vi sia opposizione alla richiesta stessa ai sensi dell’art. 410 c.p.p. (Corbetta, S., Il procedimento dinanzi al tribunale in composizione monocratica, in Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, a cura di F. Peroni, Padova, 2000, 599).
3. L’esercizio dell’azione penale: la citazione diretta a giudizio
Nell’ambito del rito monocratico, per i reati indicati tassativamente dall’art. 550 c.p.p., il pubblico ministero esercita l’azione penale con l’emissione della citazione diretta a giudizio. L’istituto in parola si caratterizza per l’assenza di un controllo preventivo sulla fondatezza dell’accusa elevata dal pubblico ministero. Il sacrificio di questa garanzia viene parzialmente compensato dal fatto che il rappresentante dell’accusa è tenuto ad osservare le disposizioni di cui all’art. 415 bis c.p.p. – come esplicitamente gli impone l’art. 550, co. 1, c.p.p. –, ponendo quindi l’imputato in condizione di esporre le proprie difese, nonché di ottenere il compimento di eventuali atti di investigazione da parte del pubblico ministero. È evidente come nell’ambito di questa procedura, l’informazione difensiva circa gli elementi investigativi raccolti, collegata all’art. 415 bis c.p.p., si riveli – mancando l’udienza preliminare – ancor più necessaria di quanto non lo sia nel contesto del modulo caratterizzato dalla richiesta di rinvio a giudizio.
In questa cornice, particolarmente interessante si rivela il problema collegato all’impiego della citazione diretta per un reato perseguibile mediante richiesta di rinvio a giudizio. La soluzione al problema sembra offerta dal disposto dell’art. 550, co. 3, c.p.p., laddove impone alle parti di eccepire il vizio entro il termine previsto dall’art. 491, co. 1, c.p.p. e al giudice, d’accordo con tale eccezione, di trasmettere gli atti al pubblico ministero.
In tale contesto, l’art. 551, co. 1, c.p.p. prevede che, in caso di procedimenti connessi, ove la citazione diretta a giudizio sia ammessa soltanto per alcuni di essi, il pubblico ministero sia tenuto a presentare per tutti la richiesta di rinvio a giudizio ai sensi dell’art. 416 c.p.p.
4. Il decreto di citazione a giudizio
4.1 I contenuti
Il contenuto del decreto di citazione a giudizio viene oggi disciplinato dall’art. 552, co. 1, c.p.p. Tentando una ricostruzione di tipo sistematico, possiamo dire che gli elementi integranti il suddetto contenuto sono di due tipi: gli uni, volti a determinare il contenuto generico del decreto, gli altri, quello specifico. Nell’ambito del primo gruppo, al di là delle indicazioni utili all’identificazione dell’imputato, del difensore, delle parti private (lett. a) e della persona offesa, se identificata (lett. b), va inserita pure «l’enunciazione del fatto, in forma chiara e precisa, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge» (lett. c), nonché del giudice competente per il giudizio, del luogo, del giorno e dell’ora della comparizione, e dell’«avvertimento all’imputato che non comparendo sarà giudicato in contumacia» (lett. d). Completano poi il contenuto generico: l’avviso all’imputato della facoltà di nominare un difensore di fiducia, da sostituire con uno d’ufficio laddove il primo manchi (lett. e); l’avviso che il fascicolo relativo alle indagini è depositato nella segreteria del pubblico ministero a disposizione delle parti e dei difensori (lett. g); nonché – alla stregua di ogni altro provvedimento giudiziale – la data e la sottoscrizione del giudice e dell’ausiliario che lo assiste (lett. h).
Quanto agli elementi che contraddistinguono il contenuto specifico del decreto, va segnalato l’avviso che l’imputato, qualora ne ricorrano i presupposti, possa avanzare, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, la richiesta di giudizio abbreviato o di applicazione della pena, ovvero la domanda di oblazione (lett. f).
Se gli elementi che integrano il contenuto generico del decreto realizzano, in misura più o meno determinante, la vocatio in ius dell’imputato, quelli che integrano il contenuto specifico servono per stimolare quest’ultimo a chiedere un epilogo non dibattimentale del processo. Al di là del fatto che il decreto rappresenti un atto complesso cui vanno ricondotte più funzioni, diverse sono le osservazioni che possono essere svolte in ordine ai singoli elementi che lo compongono ovvero a quelli da esso esclusi.
Anzitutto, va sottolineato come l’imputazione oggettiva contenuta nel decreto di citazione a giudizio debba oggi essere enunciata – diversamente da ciò che accadeva presso il rito pretorile – «in forma chiara e precisa» (art. 552, co. 1, lett. c, c.p.p.).
In secondo luogo, non può essere trascurato il fatto che l’attuale decreto di citazione avvisi l’imputato della facoltà di richiedere – sussistendo i presupposti e fino all’apertura del dibattimento di primo grado – il rito abbreviato, l’applicazione della pena, ovvero l’oblazione (art. 555, co. 1, lett. f, c.p.p.), e che il consenso anticipato, da parte del pubblico ministero, possa essere manifestato soltanto in ordine al patteggiamento (art. 159 disp. att. c.p.p.).
4.2 Le nullità
L’art. 552, co. 2, c.p.p. disegna l’articolata disciplina dei vizi concernenti il decreto di citazione a giudizio.
Al riguardo, va subito detto che le nullità collegate agli elementi che integrano il contenuto generico del decreto, inficiano quest’ultimo laddove l’imputato non sia identificato in modo certo, nonché manchi o sia insufficiente uno dei requisiti previsti dalle lettere c), d) ed e) del decreto stesso. Se non si discute sul fatto che l’omessa indicazione, in modo certo, dell’imputato, del giudice, del luogo, giorno ed ora della comparizione, diano vita a una nullità assoluta (cfr., per tutti, Tranchina, G., Il procedimento per i reati di cognizione del tribunale in composizione monocratica. Lo svolgimento, in Siracusano, D.-Galati, A.-Tranchina, G.-Zappalà, E., Diritto processuale penale, II, Milano, 2011, 399), altrettanto non possiamo dire in ordine alle carenze riguardanti il capo d’imputazione, oscillanti, a seconda delle interpretazioni, tra nullità assoluta e nullità intermedia.
Quanto poi all’invalidità collegata all’omissione dell’avviso relativo alla facoltà di nomina del difensore di fiducia, va osservato come essa appartenga alla categoria delle nullità previste dall’art. 178, co. 1, lett. c), c.p.p.
Passando ora alle invalidità che inficiano il contenuto specifico del decreto di citazione, l’attenzione va posta alla nullità derivante dall’omissione dell’avviso all’imputato della facoltà di chiedere il giudizio abbreviato, il patteggiamento ovvero l’oblazione. Nel tentativo di individuare il grado dell’invalidità qui analizzata, possiamo affermare che nel caso di specie, trattandosi di violazione del diritto di difesa dell’imputato, il riferimento deve essere all’art. 178, co. 1, lett. c), c.p.p.
Quanto alle invalidità collegate ai momenti che precedono l’emissione del decreto di citazione, occorre osservare che oggi l’obbligo di assumere l’interrogatorio, a pena di nullità, da parte del giudice, esiste soltanto laddove l’indagato abbia esplicitamente chiesto di essere sentito in seguito al ricevimento dell’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p. Al riguardo, va affermata l’esistenza, nel caso in esame, di una nullità concernente l’intervento dell’imputato, vale a dire un vizio inquadrabile nell’ambito della lett. c) dell’art. 178, co. 1, c.p.p. e rilevabile, o deducibile, ai sensi dell’art. 180 c.p.p.
Un’altra invalidità collegata ai momenti anteriori all’emissione del decreto di citazione, concerne la nullità che si riflette sul decreto medesimo laddove esso non sia preceduto dall’avviso previsto dall’art. 415 bis c.p.p. Su questo punto, è sufficiente rifarsi alle conclusioni cui siamo pervenuti in relazione all’invalidità determinata dal mancato invio dell’invito a rendere interrogatorio, ove richiesto: è infatti lo stesso art. 552, co. 2, c.p.p. a equiparare, sotto il profilo degli effetti, le omissioni qui considerate.
4.3 Le notificazioni
Nell’identificare quali destinatari del decreto di citazione a giudizio l’imputato, il suo difensore e la «parte» offesa, il sistema di notificazioni prevede che il termine per comparire che deve intercorrere tra la notificazione del suddetto provvedimento e l’udienza di cui all’art. 555 c.p.p. sia di sessanta giorni, riducibile a quarantacinque – previa adeguata motivazione da parte del pubblico ministero – nei casi di urgenza.
Quanto ai destinatari, va anzitutto sottolineato come l’esigenza di notificare il provvedimento in parola non solo all’imputato, ma anche al suo difensore, sia da ricondurre al fatto che il decreto svolge la funzione e di citare l’imputato al dibattimento, e di avvisarlo della facoltà di accedere ai riti alternativi. La notificazione del provvedimento alla persona offesa va invece letta in vista di una maggiore tutela di tale soggetto nell’ambito del processo qui considerato.
Venendo ora al termine per comparire, ciò che immediatamente colpisce è come esso sia assolutamente ampio, laddove lo si rapporti ai termini per comparire riguardanti vuoi l’udienza preliminare, vuoi il dibattimento nel rito che si svolge mediante richiesta di rinvio a giudizio.
Con riferimento poi all’ipotesi in cui il pubblico ministero possa ridurre il termine di comparizione – da sessanta a quarantacinque giorni – in caso di urgenza e previa motivazione, va evidenziata, per un verso, l’assoluta genericità del concetto di «urgenza», e per l’altro, la circostanza che, mancando il richiamo espresso all’urgenza, la violazione del termine più lungo sarà certamente sanzionabile ai sensi degli artt. 178, co. 1, lett. c) e 180 c.p.p., mentre, venendo omessa o risultando insufficiente la motivazione relativa all’urgenza, si dovrà applicare l’art. 125, co. 3, c.p.p. (Riviezzo, C., Il processo penale dopo la “legge Carotti” (III), R) Art. 44, in Dir. pen. e processo, 2000, 418).
4.4 Deposito degli atti, formazione del fascicolo e trasmissione
A norma dell’art. 552, co. 4, c.p.p., «[i]l decreto di citazione è depositato dal pubblico ministero nella segreteria unitamente al fascicolo contenente la documentazione, gli atti e le cose indicati nell’art. 416, comma 2». Se da un punto di vista interpretativo, la disposizione in parola non sembra destare alcun problema, sotto il profilo sistematico, essa risulta invece piuttosto interessante. Pare d’altronde corretto affermare che il deposito degli atti compiuto ai sensi dell’art. 552, co. 4, c.p.p., pur rappresentando ancora un momento di discovery del materiale raccolto nel corso delle indagini, ha perso parte del proprio significato in seguito all’introduzione del deposito degli atti che avviene ex art. 415 bis c.p.p.
Al deposito degli atti segue la formazione del fascicolo che risulta di esclusiva competenza del pubblico ministero.
Il fascicolo del dibattimento e il decreto di citazione notificato vengono materialmente trasmessi dal pubblico ministero al giudice dell’udienza di comparizione subito dopo la notificazione del decreto stesso, non essendo più necessario attendere lo spirare del termine dilatorio previsto presso il rito pretorile per l’attivazione dei procedimenti alternativi (art. 555, co. 1, lett. e, c.p.p.), ai quali oggi si può invece accedere in sede di udienza di comparizione.
5. Gli atti urgenti
Collocato nell’ambito del codice dopo l’art. 553 c.p.p., ma destinato a regolare un momento processuale che precede la trasmissione degli atti, l’art. 554 c.p.p. riconosce al giudice per le indagini preliminari la competenza ad assumere gli atti urgenti a norma dell’art. 467 c.p.p., nonché a provvedere sulle misure cautelari, fino al momento in cui il decreto di citazione, unitamente al fascicolo per il dibattimento, non perviene al giudice dell’udienza di comparizione. Nel tentativo di evitare incertezze e vuoti di competenza in una fase di transizione, la disposizione in esame sembra tuttavia riferirsi all’art. 467 c.p.p. soltanto per identificare i casi e le modalità per l’assunzione delle prove non rinviabili. È difficile infatti ignorare come il momento processuale cui allude l’art. 467 c.p.p. sia successivo rispetto a quello cui fa riferimento l’art. 554 c.p.p..
6. L’udienza di comparizione
6.1 La funzione deflativa del dibattimento
L’udienza di comparizione a seguito di citazione diretta, disciplinata dall’art. 555 c.p.p., realizzando uno spazio in contraddittorio prima dell’eventuale fase del giudizio, funge da momento di razionalizzazione dello svolgimento dei dibattimenti.
Sotto il profilo funzionale, l’udienza di comparizione si caratterizza anzitutto in chiave deflativa del dibattimento. Prima che, nell’ambito dell’udienza qui considerata, il giudice provveda alla dichiarazione di apertura del dibattimento stesso, il pubblico ministero e l’imputato possono presentare richiesta di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p., nonché, soltanto l’imputato, richiesta di giudizio abbreviato o domanda di oblazione (art. 555, co. 3, c.p.p.).
L’udienza di comparizione rappresenta la prima parte dell’udienza dibattimentale, come d’altronde risulta indirettamente confermato dal tenore dell’art. 555, co. 5, c.p.p., che rinvia alle disposizioni contenute nel libro sul «giudizio», in quanto compatibili, per tutto ciò che non è espressamente disciplinato dalla disposizione che regola l’udienza in esame.
Sempre in chiave deflativa del dibattimento, va letto anche l’art. 555, co. 3, c.p.p., che impone al giudice di verificare, in caso di reati perseguibili a querela, se il querelante sia disposto a rimettere la querela e il querelato ad accettare la remissione.
6.2 La funzione preparatoria del dibattimento
L’udienza di comparizione può svolgere anche una funzione preparatoria del dibattimento, laddove, nell’ambito dell’udienza qui considerata, le parti non abbiano scelto un epilogo alternativo del procedimento o non abbiano raggiunto un accordo conciliativo. Escludendo tali opzioni, le parti che vogliano introdurre mezzi di prova dichiarativi in dibattimento, devono depositare nella cancelleria del giudice dell’udienza di comparizione, almeno sette giorni prima della data fissata per lo svolgimento di quest’ultima, le liste dei testimoni, periti o consulenti tecnici, nonché delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. di cui intendono chiedere l’esame; il termine in oggetto è stabilito a pena di inammissibilità.
Fin da un primo sguardo alla disciplina richiamata, emerge chiaramente come due siano gli elementi sui quali occorre soffermarsi: l’uno, relativo ai tempi per la presentazione delle liste; l’altro, riguardante il contenuto delle stesse.
Sotto il primo profilo, vale la pena di sottolineare come il legislatore abbia scelto di omologare i termini per la presentazione delle liste nel rito monocratico a quelli per la presentazione delle liste nell’ambito del rito collegiale.
Quanto poi al profilo riguardante il contenuto delle liste, preme subito osservare come nell’ambito del dettato normativo esistano alcune divergenze rispetto alla disciplina prevista dall’art. 468 c.p.p. in punto di liste testimoniali relative al procedimento ordinario.
Anzitutto, non è stabilito – come accade invece nel co. 4 bis del suddetto articolo – che la parte debba indicare, tra i mezzi di prova di cui può chiedere l’ammissione, anche gli eventuali verbali di prove di altro procedimento penale. Posto che la ratio sottesa a tale disciplina è volta a salvaguardare il diritto alla controprova pure rispetto a detti verbali e che questa garanzia non ha motivo di mancare nell’ambito del rito monocratico per citazione diretta, sembra corretto affermare che, in forza del rinvio operato dall’art. 555, co. 5, c.p.p., la regola fissata dall’art. 468, co. 4 bis, c.p.p., debba valere anche nel contesto qui considerato.
Sempre in tema di omissioni da un punto di vista normativo, va segnalata l’assenza dal testo dell’art. 555, co. 1, c.p.p., di ogni riferimento alle «indicazioni delle circostanze su cui deve vertere l’esame». Nonostante il dato normativo, riteniamo che l’indicazione delle circostanze abbia «un ruolo imprescindibile (per formulare una linea di difesa coerente) e per un corretto esercizio del diritto di ottenere l’ammissione della prova contraria sul tema proposto dalla controparte» (Siracusano, F., L’udienza di comparizione e il dibattimento davanti al giudice monocratico, in Le recenti modifiche al codice di procedura penale. Commento alla legge 16 dicembre 1999, n. 479. Le innovazioni in tema di giudizio, a cura di G. Pierro, II, Milano, 2000, 92). L’assenza di tali dati precluderebbe inoltre al giudice la possibilità di effettuare un sindacato incisivo in ordine alle testimonianze vietate dalla legge e a quelle manifestamente sovrabbondanti. Da qui, l’impiego del richiamo di cui all’art. 555, co. 5, c.p.p., per ritenere applicabile, anche nel contesto in esame, il contenuto dell’art. 468 c.p.p., laddove impone alle parti di indicare nelle liste «le circostanze su cui deve vertere l’esame» e al giudice di verificare, su richiesta, l’esistenza di testimonianze vietate dalla legge o manifestamente sovrabbondanti.
Sempre in un’ottica di funzione preparatoria del dibattimento, va letto anche il co. 1 dell’art. 555 c.p.p., laddove stabilisce che quando si debba procedere al giudizio le parti, dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento, indicano i fatti che intendono provare e chiedono l’ammissione delle prove, oltre a concordare l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, nonché della documentazione relativa all’attività di investigazione difensiva.
7. Il dibattimento
Nell’ambito del procedimento per citazione diretta a giudizio, la fase dibattimentale segue l’udienza di comparizione e in forza della clausola di rinvio contenuta nel co. 1 dell’art. 559 c.p.p. essa si svolge secondo le norme stabilite per il procedimento davanti al tribunale in composizione collegiale, «in quanto applicabili».
L’art. 559 c.p.p. si sofferma poi a disciplinare – in modo eccentrico rispetto alle regole ordinarie – tre momenti tipici del dibattimento: la redazione del verbale, le modalità dell’esame e il deposito della sentenza.
Rispetto al primo momento, viene stabilita l’opportunità di redigere il verbale di udienza in forma riassuntiva – anche fuori dei casi previsti dall’art. 140 c.p.p. – laddove sussista il consenso delle parti, nonché la valutazione del giudice circa l’inutilità di una redazione in forma integrale. Questa disciplina cerca di coniugare tra di loro esigenze di semplificazione processuale collegate allo sviluppo del rito monocratico ed esigenze di libertà di valutazione da parte del giudice circa l’adozione delle modalità di verbalizzazione.
Passando ora ad analizzare la questione relativa alle modalità di svolgimento dell’esame, va subito premesso come l’art. 559, co. 3, c.p.p. riconosca al giudice la facoltà di procedere direttamente all’assunzione di questo mezzo di prova – «sulla base delle domande e contestazioni proposte dal pubblico ministero e dai difensori» – ove sussista una concorde volontà delle parti. La disciplina in oggetto, in palese deroga allo schema di cui all’art. 498, co. 1 e 2, c.p.p., pare debba trovare sì attuazione in base a un accordo che si instauri tra le parti, ma che non sia tuttavia estraneo al gradimento del giudice dibattimentale, essendo d’altronde questi l’unico soggetto capace di valutare la concreta realizzabilità dell’operazione.
L’ultimo profilo espressamente disciplinato dall’art. 559 c.p.p. è contenuto nel co. 4 e riguarda il deposito della sentenza, la quale può essere sottoscritta dal presidente del tribunale in caso di impedimento del giudice, a condizione che la causa della sostituzione venga menzionata. Al proposito, l’unico problema che si presenta concerne l’identificazione del presidente in caso di tribunale con più sezioni. Seguendo la linea indicata dall’abrogato art. 567 c.p.p. in relazione al procedimento pretorile, il presidente in esame dovrebbe identificarsi con quello del tribunale ordinario del circondario, anche se non è mancato chi ha ritenuto che potrebbe essere meno complicato identificare detto soggetto con il presidente della sezione del tribunale ordinario cui appartiene il giudice impedito (Siracusano, F., L’udienza di comparizione e il dibattimento davanti al giudice monocratico, cit., 112).
8. I procedimenti speciali
8.1 Giudizio abbreviato
Il giudizio abbreviato nell’ambito del procedimento monocratico privo di udienza preliminare trova il fulcro della propria regolamentazione nell’art. 556, co. 2, c.p.p. Tale norma, mediante il rinvio agli artt. 555, co. 2, 557 e 558, co. 8, c.p.p., individua le modalità di attivazione del rito in esame con riferimento rispettivamente al procedimento monocratico instaurato a seguito di citazione diretta, al procedimento per decreto e al giudizio direttissimo: in particolare, la richiesta di rito abbreviato deve essere effettuata, nel primo caso, durante l’udienza di comparizione in un momento che precede la dichiarazione di apertura del dibattimento; nel secondo caso, con l’atto di opposizione al decreto penale di condanna; nel terzo caso, subito dopo l’udienza di convalida dell’arresto in flagranza. Ne deriva che il giudice competente a decidere sulla richiesta in parola varierà a seconda delle situazioni, risultando allora o il giudice del dibattimento nel primo e nell’ultimo caso, o il giudice per le indagini preliminari, nell’altra ipotesi. Occorre tuttavia evidenziare che laddove il giudizio direttissimo venga instaurato ai sensi dell’art. 558, co. 9, c.p.p., la richiesta di giudizio abbreviato non dovrà essere avanzata a norma dell’art. 558, co. 8, c.p.p., ma prima che sia dichiarato aperto il dibattimento, come prevede in generale l’art. 452, co. 2, c.p.p.
Per quanto riguarda poi le modalità di svolgimento del giudizio, se il silenzio normativo sul punto induce a ritenere applicabili – in forza del rinvio di carattere generale di cui all’art. 556, co. 1, c.p.p. – le disposizioni del titolo I del libro VI, il richiamo esplicito da parte dell’art. 558, co. 8, c.p.p. delle disposizione previste dall’art. 452, co. 2, c.p.p., non fa altro che confermare la soluzione appena prospettata.
8.2 Applicazione della pena su richiesta
Mancando l’udienza preliminare, particolari si presentano, sotto certi profili, rispetto alla disciplina ordinaria, i momenti e le sedi per giungere alla pena concordata: insomma, se i presupposti e gli effetti del patteggiamento restano anche in tale contesto i medesimi, il rinvio di carattere generale – contenuto nell’art. 556, co. 1, c.p.p. – alle disposizioni ordinarie che lo regolano, assume valore secondario e integrativo nei confronti della disciplina tipica.
Al riguardo, se è certo che oggi la richiesta di applicazione della pena possa avvenire anche nell’ambito delle indagini preliminari, qualche riflessione ulteriore meritano invece le particolari situazioni processuali, collegate al patteggiamento, che seguono all’esercizio dell’azione penale mediante citazione diretta, richiesta di decreto o di giudizio direttissimo (art. 556, co. 2, c.p.p.).
Quanto alla prima ipotesi, l’imputato e il pubblico ministero possono presentare la richiesta di patteggiamento fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento e su di essa decide il giudice di tale fase. La richiesta avanzata dopo l’emissione del decreto di citazione – di regola sfruttando il consenso anticipato del pubblico ministero ivi contenuto –, ma prima della trasmissione degli atti al giudice dell’udienza di comparizione, viene invece valutata dal giudice per le indagini preliminari.
Con riferimento poi alla richiesta di applicazione della pena che segue all’emissione del decreto penale di condanna, essa va avanzata con l’atto di opposizione.
Riguardo infine all’opportunità di richiedere l’applicazione della pena nell’ambito del giudizio direttissimo, l’art. 558, co. 8, c.p.p. – cui rinvia l’art. 556, co. 2, c.p.p. – vincola l’imputato a formalizzare detta scelta subito dopo l’udienza di convalida dell’arresto. Se il co. 6 dell’art. 558 c.p.p. stabilisce che dopo la convalida si procede immediatamente al giudizio, il problema sarà allora definire i rapporti tra la previsione del co. 7 – che prevede la facoltà per l’imputato di richiedere un termine a difesa non superiore a cinque giorni, il cui esercizio comporterebbe la sospensione del dibattimento fino all’udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine –, e la previsione dell’ottavo comma che impone – come abbiamo visto – di richiedere il patteggiamento subito dopo l’udienza di convalida. Posto che l’esigenza di garantire un effettivo diritto di difesa e una consapevole scelta delle opportunità di definizione alternative al giudizio non può essere in tale sede processuale compressa, riteniamo che, nonostante la lettera della legge, non si debba escludere la possibilità di richiedere il patteggiamento anche dopo il termine a difesa.
8.3 Procedimento per decreto
Al di là del fatto che nell’ambito del procedimento monocratico per i reati previsti dall’art. 550 c.p.p. non sia possibile giungere, a seguito di opposizione a decreto penale di condanna, a un vero e proprio giudizio immediato, sembra comunque ragionevole affermare – in forza del rinvio contenuto nell’art. 557, co. 3, c.p.p.: «[s]i osservano le disposizioni del titolo V del libro sesto, in quanto applicabili» – che, di regola, il rito in esame debba seguire le medesime cadenze procedimentali a prescindere dal fatto che il reato risulti perseguibile mediante richiesta di rinvio a giudizio o con citazione diretta.
8.4 Giudizio direttissimo
L’art. 558 c.p.p. detta la disciplina del giudizio direttissimo davanti al tribunale in composizione monocratica per i reati perseguibili e mediante richiesta di rinvio a giudizio e con citazione diretta.
L’attuale art. 558 c.p.p., ha previsto l’opportunità di adottare il giudizio direttissimo negli stessi casi in cui ciò si rivela possibile nell’ambito dei procedimenti attribuiti al tribunale in composizione collegiale.
Al riguardo, va rilevato come di solito nel giudizio direttissimo davanti al giudice monocratico siano gli ufficiali o gli agenti di polizia giudiziaria a presentare direttamente in dibattimento la persona arrestata per ottenerne la convalida dell’arresto e il contestuale giudizio sulla base dell’imputazione formulata dal pubblico ministero. Ove il giudice non tenga udienza, gli ufficiali o gli agenti di polizia giudiziaria che hanno operato l’arresto dovranno provvedere ad avvertire lo stesso giudice affinché egli fissi l’udienza di convalida entro le quarantotto ore successive; in attesa dell’udienza, pare lecito ritenere, in deroga a quanto previsto dall’art. 386, co. 4, c.p.p., che l’arrestato possa essere trattenuto dalla polizia giudiziaria presso le proprie camere di sicurezza e non tradotto nella casa circondariale o mandamentale (Nappi, A., Guida al codice di procedura penale, VII ed., Milano, 2000, 550). I suddetti organi di polizia citano poi la persona offesa e gli eventuali testimoni, danno avviso al difensore dell’imputato, nonché vengono autorizzati dal giudice a riferire oralmente circa l’accaduto prima che l’arrestato sia sentito. Se la relazione degli organi di polizia è volta ad offrire al giudice la possibilità di valutare gli elementi di fatto e di diritto posti a fondamento dell’avvenuta limitazione della libertà dell’arrestato, l’audizione di quest’ultimo è invece tesa ad offrire al giudice elementi e circostanze destinate ad evitare una decisione positiva in punto di convalida.
Piuttosto che presentarlo in udienza, gli organi di polizia giudiziaria, comandati in tale direzione, possono mettere l’arrestato a disposizione del pubblico ministero entro ventiquattro ore dal momento in cui ha avuto inizio la privazione della libertà; ciò avviene, di regola, laddove il rappresentante dell’accusa sia intenzionato a raccogliere ulteriori elementi probatori per ottenere una più corretta valutazione della fattispecie delittuosa caratterizzata da una certa complessità e gravità dei fatti (Della Monica, G., Il giudizio direttissimo dinanzi al tribunale ordinario in composizione monocratica, in Le recenti modifiche al codice di procedura penale. Commento alla legge 16 dicembre 1999, n. 479. Le innovazioni in tema di riti alternativi, a cura di R. Normando, III, Milano, 2000, 225). L’opzione segnalata pare in grado di determinare tre situazioni differenti: può accadere che il pubblico ministero chieda la convalida dell’arresto al giudice per le indagini preliminari entro quarantotto ore, ma non il giudizio direttissimo in quanto reputa necessarie ulteriori investigazioni; che il pubblico ministero chieda la convalida dell’arresto al giudice per le indagini preliminari entro quarantotto ore e prosegua nelle indagini, presentando poi l’imputato a giudizio direttissimo entro il termine di quindici giorni previsto dall’art. 449, co. 4, c.p.p.; che il rappresentante dell’accusa, sempre entro quarantotto ore, chieda direttamente la convalida dell’arresto nonché il contestuale giudizio direttissimo al giudice del dibattimento, reputando di non dovere proseguire oltre nelle indagini. Va peraltro segnalato che anche nel caso in cui l’arrestato sia messo a disposizione del pubblico ministero, potrà comunque essere la polizia giudiziaria – previa autorizzazione del giudice – a presentare l’arrestato stesso al giudizio.
In punto di convalida il giudice deve comunque decidere entro quarantotto ore dal momento in cui riceve la richiesta, ma non, per quel che qui importa, in camera di consiglio (arg. ex art. 558, co. 1 e 4, c.p.p.).
In caso di mancata convalida dell’arresto, il giudice è tenuto a restituire gli atti al pubblico ministero, a meno che non intervenga un accordo tra quest’ultimo e l’imputato, teso ad esaurire ugualmente il processo con le forme del rito direttissimo in un’ottica di abbreviazione dei tempi. Ove invece la convalida abbia esito positivo, si procede immediatamente al giudizio nell’ambito del quale all’imputato è riconosciuto il diritto di ottenere un termine per approntare la propria difesa non superiore a cinque giorni, la qual cosa implica la sospensione delle attività dibattimentali sino all’udienza successiva alla scadenza del termine.
8.5 Giudizio immediato
Nell’ambito delle disposizioni riguardanti il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, non esiste alcuna norma dedicata al giudizio immediato. Tale soluzione risulta assolutamente logica ove si consideri che caratteristica di quest’ultimo giudizio è l’eliminazione dell’udienza preliminare, peraltro assente nei procedimenti per i reati perseguibili con citazione diretta.
Fonti normative
Artt. 549-559 c.p.p.; artt. 159-163, d.lgs. 28.7.1989, n. 271, Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale.
Bibliografia essenziale
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