Vedi Citta del Vaticano dell'anno: 2013 - 2014
Città del Vaticano
Lo stato della Città del Vaticano è il più piccolo stato al mondo sia in termini di popolazione sia di estensione territoriale. La sovranità nel paese spetta alla Santa Sede, il vertice della Chiesa cattolica, in virtù di quanto sancito all’articolo 3 dei Patti lateranensi, firmati nel 1929 tra questa e l’Italia. Lo stato della Città del Vaticano e la Santa Sede, quindi, sono due entità separate, entrambe soggetti di diritto internazionale, con il primo che funge da base territoriale e patrimoniale per garantire alla seconda l’indipendenza, l’autonomia e la sovranità necessarie alla sua attività e alla sua missione.
Dal punto di vista istituzionale il Vaticano è equiparabile a una monarchia assoluta, con il pontefice che, a capo della Santa Sede per via elettiva, ne detiene i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.
In seguito alle dimissioni di Joseph Ratzinger, rassegnate il 28 febbraio 2013, i cardinali riuniti in hanno eletto come Pontefice Jorge Mario Bergoglio, salito al soglio pontificio il 13 marzo 2013 con il nome di Francesco.
Principale organo legislativo è la pontificia commissione per lo stato della Città del Vaticano, mentre il governatorato dello stato della Città del Vaticano – composto da soli cardinali di nomina papale – è incaricato della gestione amministrativa dello stato. Primo collaboratore del pontefice per il governo della Chiesa e responsabile delle attività politiche e diplomatiche della Santa Sede è il segretario di stato: una carica, considerata alla stregua di quella del primo ministro dei sistemi repubblicani, ricoperta dall’arcivescovo Pietro Parolin dal 15 ottobre 2013, che ha sostituito il cardinale Tarcisio Bertone, in ruolo dal 2006. Sebbene non abbia un proprio sistema di tassazione, il Vaticano gode di una serie di introiti economici che si basano, oltre che sui contributi previsti dalla convenzione con l’Italia, su investimenti internazionali, sulle offerte dei fedeli, sul patrimonio ecclesiastico e le rendite a questo connesse, e ancora sulle rimesse dalle oltre 4600 diocesi di tutto il mondo. Il Vaticano batte moneta propria e dal 2000 ha stipulato un’unione monetaria con l’Italia, sancendo così la sua adesione all’euro. I cittadini dello stato della Città del Vaticano sono attualmente poco più di 800. La cittadinanza vaticana viene concessa ai cardinali residenti in Vaticano e a Roma, ai residenti stabili in Vaticano per ragioni di carica, dignità e impiego e a coniugi e figli di cittadini.
La sicurezza del Papa all’interno del palazzo apostolico e durante i suoi viaggi è garantita prevalentemente dallo storico corpo della guardia svizzera, fedele al papato dalla sua fondazione nel 1506 e che oggi si occupa di sorvegliare i palazzi papali e mantenere l’ordine durante le cerimonie religiose. Al corpo della gendarmeria dello stato della Città del Vaticano è invece affidato il mantenimento della sicurezza all’interno del territorio dello stato e nelle sue pertinenze extraterritoriali. In piazza San Pietro la gendarmeria vaticana si avvale della collaborazione di uno specifico organo di sicurezza della polizia di stato italiana: l’ispettorato di pubblica sicurezza Vaticano.
La personalità internazionale della Santa sede si esercita nei suoi diritti di diplomazia attiva e passiva. Le ambasciate estere dei 180 paesi con i quali il Vaticano intrattiene relazioni ufficiali sono accreditate presso la Santa Sede; inoltre, la sua rete diplomatica si è notevolmente ampliata nell’ultimo trentennio grazie soprattutto al pontificato di Papa Giovanni Paolo II, particolarmente significativo non solo per la cristianità, ma anche per le dinamiche politiche internazionali più generali. I numeri della diplomazia vaticana dimostrano l’attivismo della Santa Sede sotto la sua guida: dagli 84 paesi con i quali aveva pieni rapporti diplomatici nel 1978, si passò a 174 alla fine del suo pontificato. Ultimi aggiunti, durante il pontificato di Benedetto XVI, sono il Montenegro, gli Emirati Arabi Uniti, il Botswana, la Russia e il Sud Sudan. Di natura speciale, invece, sono i rapporti bilaterali tra la Santa Sede e lo stato di Palestina. La Santa sede intrattiene poi rapporti con organizzazioni internazionali quali le Nazioni Unite, l’Unesco, la Fao e l’Omc, e con organizzazioni regionali quali la Lega araba e l’Unione Africana. La Santa sede ha stabilito altresì relazioni con il sovrano ordine di Malta, l’Unione Europea e Taiwan, che vede proprio nel Vaticano l’unico stato europeo che ancora mantiene una delegazione ufficiale a Taipei. Per motivi differenti, la Santa Sede non ha invece relazioni bilaterali ufficiali con alcuni paesi, quali Cina, Arabia Saudita, Vietnam, Afghanistan e Corea del Nord.
La Santa Sede, infine, gode di autonomia – ma non di sovranità – su un territorio maggiore rispetto a quello del solo stato di città del Vaticano. Le zone extraterritoriali, appartenenti formalmente al territorio italiano ma nelle quali la Santa Sede gode di speciali privilegi, raggiungono un’estensione di oltre 10 km2. Tra queste, vi è il centro di trasmissione di Radio vaticana a Santa Maria di Galeria.
Il posizionamento della Santa Sede sulla scena internazionale è questione che attraversa tutta la storia delle relazioni internazionali dell’Italia e dell’Europa, con una configurazione particolare dopo il 1870. L’antica ostilità sabauda alla presenza della chiesa cattolica ai tavoli internazionali voleva evitare la ‘internazionalizzazione’ della questione romana: ma non riuscì ad ottenere altro che risentimento e fu parte integrante sia del successo di Benedetto XV, la cui condanna della guerra mondiale come ‘inutile strage’ garantì al papato un rilievo inimmaginato sia della dilazione del trattato la cui stipula fu consegnata al fascismo con le note conseguenze. Dopo il 1929 e fino al termine della seconda guerra mondiale, la neutralità papale (al netto della diatriba postbellica sul ‘silenzio’ di Pio XII durante le persecuzioni razziali) e la presenza del papa in una Roma abbandonata dal potere regio guadagnò un protagonismo inatteso al cattolicesimo della ricostruzione italiana e non solo. Giacché il disegno europeo, pensato da tre statisti che parlavano in tedesco e pensavano in cattolico come Adenauer, De Gasperi e Schuman, che agli occhi papali implicava il sogno di una riconquista cristiana dell’Europa, decolla e si afferma con un protagonismo del cattolicesimo democratico al quale non è estranea la diplomazia vaticana e l’apprendistato multilaterali sta di un Roncalli. Più a valle nel secolo 20, dopo aver dato un contributo decisivo alla soluzione della crisi di Cuba e all’avvio della distensione, la Santa Sede costruisce, attorno alla figura di Agostino Casaroli e del suo articolato gruppo di lavoro, una vera Ostpolitk: fallisce nel tentativo di mediare in Vietnam, ma con la conferenza di Helsinki del 1975 rientra a pieno titolo sulla scena internazionale. Poi, col papato polacco che inizia perché di fatto è quella politica consente all’arcivescovo di Cracovia di venire al concave, la Santa Sede prende una dimensione di presenza immateriale globale che ha un ruolo non piccolo non tanto nella fine del sistema sovietico, ma nel carattere incruento del crollo dell’impero dell’URSS e in settori non meno cruciali, da quelli del Cono Sur a quelli delle guerre dell’area che ormai si estende dall’Afghanistan alla Siria.
Ciò nonostante la rilevanza delle dimensioni religiose nella politica internazionale continua ad essere sottostimata dagli esperti e sempre più spesso anche dagli addetti ai lavori. Essa viene guardata con sguardo superficiale sia per ciò che riguarda l’analisi dei grandi aggregati denominazionali, sia per ciò che concerne l’intelligenza delle movenze politiche di nicchie specifiche (wahhabiti, salafiti e alauiti nell’islam; evangelicali, chiese profetiche, movimenti, in ambito cristiano), sia per ciò che riguarda una grandi chiese dotata di una struttura di rappresentanza internazionale. Ragioni storiche e la più classica ‘ignoratio elenchii’ determinano dunque l’illusione che la politica della Santa Sede sia rilevante perché la diplomazia pontificia porta in giro per il mondo le idee di un monarca globale che fiuta e orienta i tempi. Così non è: la posizione politica della Santa Sede è di così grande impatto – basti pensare cosa sarebbe il mondo se davanti all’insorgenza quaedista il papato avesse assunto toni da crociata anziché farsi antenna di un pacifismo globale – perché raccoglie, filtra e valorizza un insieme di impulsi e voci altrimenti ignorate. Di queste voci e impulsi i suoi nunzi diventano la valvola e il papa l’amplificatore. L’elezione di Jorge Mario Bergoglio al papato nel 2013 segna da questo punto di vista una restaurazione una conferma e una prospettiva.
La restaurazione è quella che ha visto non solo tornare alla segreteria di stato un diplomatico di prima grandezza come Pietro Parolin: uscito di scena Tarcisio Bertone, che di Benedetto XVI era un confidente leale prima che un braccio politico, il sistema delle nunziature ha ritrovato accesso al papa e un dialogo con un superiore che parla la lingua della diplomazia con accento casaroliano.
Uomo dell’accordo col Vietnam, negoziatore discreto con la Cina, Parolin ritorna dall’America Latina dove si era sperato di esiliarlo, con una agenda che restituisce un ruolo al sistema che filtra la nomina dei vescovi e la politica vaticana. La conferma di un ruolo antico e nuovo dei nunzi (la crisi della chiesa non è solo una crisi nella qualità degli offiziali di curia, ma soprattutto una crisi nella qualità dei vescovi) dà il senso che la riforma del governo centrale, nel segno della collegialità e di un esercizio del potere papale spogliato delle costumanze principesche rinascimentali, non si accontenta di re-ingegnerizzare qualche dettaglio, ma sa guardare alla chiesa nel suo insieme.
La prospettiva nuova che papa Francesco porta è scritta nella sua biografia e dunque della sua mentalità. Scegliere un papa non europeo ha comportato l’ascesa al vertice di un realtà mondiale di un uomo che non ha la storia dell’Europa nella sua mentalità: non ha vissuto la catastrofe della Shoah, la rinascita della democrazia, la frattura fra est e ovest, la prossimità allo scacchiere mediorientale, e via dicendo. Dunque dopo il flebile antieuropeismo di Ratzinger, l’a-europeismo di Bergoglio cambia il quadro di un continente che, perfino nelle dimensioni polemiche, poteva sempre contare su Roma come riferimento di ispirazione o di antagonismo. Il Papa argentino, poi, ha in sé un atteggiamento completamente nuovo verso gli Stati Uniti: libero dal debito della seconda guerra mondiale, consapevole del prezzo pagato dal suo continente alla politica di sicurezza nazionale da Nixon a Reagan, ha mostrato da subito avere altri parametri e di considerare la nuova Russia un possibile partner per interventi decisi e spregiudicati, come quella che ha fermato l’attacco alla Siria.
Il papato di Francesco segna dunque una novità che non si esaurisce nello stile fraterno e modesto che il vescovo di Roma usa: è un cambio di paradigma che inciderà e ha già inciso sugli equilibri internazionali, anche se chi dovrebbe dare a questa componente del sistema delle relazioni internazionali il giusto peso – dopo una dozzina d’anni segnati prima dalla malattia di Wojtyła, poi dalla ritrosia di Ratzinger – rischia di aver perso gli strumenti per farlo. E di pagarne politicamente lo scotto.