Città e territorio nel Dominio da mar
Tra la seconda metà del Cinquecento e i primi decenni del secolo successivo, una delle maggiori difficoltà che la Repubblica Veneta incontra nel governo del suo Dominio da mare è quella di mantenere nei territori nei quali è presente un regime di equilibrio tra una grande moltitudine di soggetti; un equilibrio che è stato raggiunto per parti durante i secoli dell'espansione e per il quale occorre lottare quotidianamente, perché non arriva mai ad essere stabilito del tutto. Inviati per qualche anno dalla Serenissima a rappresentarla nelle città e nelle fortezze poste lungo la costa Adriatica e ad esercitarvi un controllo e un'azione politica ed economica, i nobili veneziani continuano per secoli a scontrarsi con realtà differenti, spesso fatte di antichi rancori. In Dalmazia, lungo la costa albanese, come nelle isole del Levante, i gruppi etnici diversi sono in generale destinati a convivere in aree limitate da vincoli naturali o da ostacoli geografici. I magistrati della Repubblica si appoggiano variamente alla struttura sociale e di potere originaria, con strumenti giuridici articolati e gradi di sfruttamento economico non uniformi, facendo leva talvolta su rivalità già insorte, tal altra lasciandosi guidare dall'intuito, nel far proprie abitudini stratificate, o nel tener conto delle aspirazioni locali. Nei confronti dei sudditi, essi cercano di mettere a punto, sia pure faticosamente e con infinite contraddizioni, gli strumenti di un'amministrazione non troppo conflittuale, i cui effetti si misurino nella vita quotidiana (1). Infatti, nei Domini "ben instituti" è bene ricorrere sempre ai magistrati della Dominante e dunque anche alle sue antiche leggi, perché questo tiene unito lo Stato "in un solo corpo", ricordano nel 1620 i consultori in jure in risposta ad un conte di Traù che vorrebbe fare ritorno allo statuto quattrocentesco della città, ma se altre consuetudini sono venute ad interromperne l'osservanza, l'appellarvisi suonerebbe come introdurre "novità" inaccettabili: dunque la soluzione più saggia sta nell'eliminare qualsiasi rigidità di comportamento. Per altro verso, ad esempio, non è opportuno introdurre a Tine il calendario gregoriano ("per servitio" di Dio e del pubblico, per tranquillità degli abitanti di rito diverso e concordia con altri sudditi delle regioni circostanti): in questo caso, gli usi antichi sono motivati perché consentono coincidenze nelle attività civili, nelle feste pasquali, nelle scadenze di pagamento di affitti e livelli (2)...
Con criteri di flessibilità e con lentezza, i Veneziani finiscono per incidere pesantemente sulla distribuzione spaziale degli insediamenti e sulla loro forma. Essi procedono per analogia con i modelli conosciuti, anche nell'organizzazione fisica del vivere civile; nella prassi di cantiere, ricorrono a qualche innovazione, ma solo progressivamente e con cautela. Alla fine del XVI secolo, alcuni dei porti dominati sono teatro di violenze perfino da parte di Inglesi e Francesi, che ormai navigano in Levante con incredibile "familiarità", oltre che di continue incursioni provenienti dall'impero ottomano e di scorrerie corsare, ed è spesso proprio in questi casi che vengono realizzate nuove costruzioni difensive ed interventi edilizi, che la Signoria sempre più valuta, però, nel quadro di scelte generali di strategia urbana e territoriale (3). Ai giovani inviati da Venezia che, con un meccanismo di rotazione periodica, iniziano la loro carriera politica nello Stato da mare è chiaro, d'altra parte, quale dovrebbe essere il vero modo di "reggere" le aree dominate e che cosa significhi (almeno programmaticamente) non solo conseguirvi, ma soprattutto mantenervi la pace. Lo dice bene Alvise Giustinian, con fiducia nella scelta originaria (4); lo ribadisce, dopo di lui, il nobiluomo Francesco Zen (5): "conservare nella forma di governo l'istesso ordine di questa Serenissima Repubblica". Conservare soprattutto una "prudenza" nei confronti dell'intera popolazione, un'equità di comportamento indispensabile quando si ha a che fare con gente diversa, che coabita negli stessi luoghi, una strategia di alleanze consapevole dell'oscillare delle convenienze. Nobili veneti che vivono "otiosi" e Greci attivi e pieni di "astutia" nelle loro vantaggiose contrattazioni; Armeni ed Ebrei, Turchi ed Albanesi, Bulgari e Boemi, castellani "poverissimi" e cittadini ricchi, contadini, distrettuali, soldati delle custodie, persone "inutili": tutti devono avere di che sopravvivere, tutti devono potersi ridurre "in sicuro". E quando, come a Cipro o in altre città del Dominio, s'è perduto il popolo, per "divertire" i malumori può valer la pena di mantenere il vescovado (6). Già ad una prima lettura, le numerose note di fine mandato stese dai rappresentanti della Repubblica di ritorno dalle compiute missioni e conservate nello specifico fondo dell'Archivio di Stato di Venezia, delle Relazioni dei provveditori da terra e da mare, appaiano ripetitive, quasi assillate dalla questione del rapporto con i vari ceti sociali e professionali, con popoli di razza, religione, abitudini contrastanti (7). Del tutto analoghi suonano i dispacci dei rettori e le delibere riportate nei registri del Senato mare. Così che a sua Serenità, accanto a "sudditi fedeli e molto a lei devoti", contenti di un regime che talvolta con accenti retorici definiscono come "mansueto" e "benigno", ne segnalano continuamente altri "scandalosi e di mala natura"; insistono sul ripetersi di conflitti civili tra nobili e cittadini, su contrasti che si verificano come fatti di ordinaria amministrazione, sul fastidio di quotidiane "querelle". Il ricorso ad apposite ambascerie, a vere e proprie riforme del sistema elettorale, alla costituzione di collegi rettoriali (come a Scutari), o ad un coordinamento strategico tra circoscrizioni (come in Dalmazia e Albania), all'esclusione di alcuni dal consiglio della città, o all'ammissione di altri alla conduzione degli uffici amministrativi, diventano un impegno cui per almeno due secoli è impossibile sottrarsi (8).
Perché spesso sono insicure sia le città, sia le campagne: vero è che nobili, cittadini, o villani abitano di solito in luoghi distinti, ma vero è anche che la trasposizione di affari privati in atti pubblici è così frequente da minare qualsiasi autorità. Si rischia di consentire alleanze di comodo tra nobili poveri e Morlacchi, tra contadini rifugiatisi in città dopo le occupazioni turchesche e Uscocchi, tra "zappatori" e clero, con l'aiuto talvolta perfino di magistrati veneziani opportunisti o - secondo le testimonianze di alcuni (9) - semplicemente rinunciatari per ragioni di ordine pubblico e di pace sociale. Troppo spesso - sostengono capitani e rettori - per far fronte ad un bisogno d'uomini e di braccia si finisce per lasciare impuniti i più efferati delitti; o per non farsi carico del danno materiale prodotto alle camere fiscali dall'esercizio del contrabbando; o per non valutare con attenzione il rischio di rivolte o tumulti provocati dalla penuria di case, dal mancato ripristino di ville e insediamenti rurali, dalla lontananza delle terre da lavorare; o per non prendere i necessari provvedimenti contro troppo facili guadagni, o contro l'organizzazione delle classi inferiori in società segrete pur di evitare imposizioni e gravezze, o contro l'esito aberrante di insoddisfazioni più che giustificate; o contro lo svolgimento da parte degli stessi cittadini, qualche volta persino simultaneamente, di mansioni tra loro contraddittorie, come quella del sindaco deputato al controllo delle navi che entrano nel porto e dell'esattore (10). Accade ad esempio che, per reclutare rematori per le galere di Stato, ci si dimentichi di amministrare correttamente la giustizia, tenendo in prigione chi di dovere, o di fare lavorare i sudditi alla realizzazione di fabbriche pubbliche, o che si sottovalutino le conseguenze di forme di coabitazione coatta (come gli omicidi perpetrati dalle classi popolari, per difendere le loro donne molestate da giovani aristocratici), o che non si prendano in considerazione gli effetti di un eccessivo amore per Bacco e della conseguente distribuzione in città delle rivendite di vino (11). Insomma, il pericolo di dissidi tra i popoli dominati s'annida ovunque e non è che uno dei molti indizi di una convivenza difficile (12). E se per la Dominante l'"unione" dei sudditi è un beneficio "universale", è però molto difficile dirimere le discordie; ma di volta in volta può essere opportuno introdurre novità nei modi del vivere civile, o al contrario evitarle in via assoluta. Si richiede allora una grande sensibilità nei confronti dei diversi strati sociali; una circospetta consapevolezza di odi "antichi e inespugnabili" accumulati negli anni, la capacità di rispondere alle "lacrimevoli" istanze dei residenti, molto denaro da investire per migliorare le condizioni di abitabilità degli uni e degli altri e per separarli nei luoghi a ciascuno destinati. Si richiede, in definitiva, una serie di provvedimenti giuridici molto articolati, ma anche un buon numero di scelte sociali, economiche e di intervento nel costruito.
E per tutte queste ragioni che l'insistenza circa l'opportunità di istituire nelle città del Dominio alcuni dei servizi urbani primari accompagna la preoccupazione di mantenere baluardi, castelli e fortezze; in alcuni periodi prevale sulle stesse reiterate petizioni di denaro per la costruzione o la manutenzione di dispositivi bellici. Così, ad esempio, nel 1553 il sindaco di Dalmazia, Giovanni Battista Giustinian, ribadisce l'opportunità che la camera fiscale provveda a pagare, a Zara e a Sebenico, come a Spalato, non solo giudici, cancellieri, ufficiali delle rispettive comunità (il che è ovvio, essendo costoro da sempre ritenuti necessari a dirimere le controversie e ad amministrare a nome della Repubblica la giustizia civile), ma anche persone deputate alla sicurezza sociale e all'educazione: e cioè un medico, un chirurgo, un farmacista, un maestro di scuola (13). Antonio Lippomano, tornato nel 1628 da conte e capitano di Spalato, fa notare al senato l'importanza di pagare adeguatamente e regolarmente ogni mese i guardiani dei lazzaretti, se si vuole evitare che, costretti da necessità elementari, questi facciano ricorso all'aiuto dei Turchi e abbandonino gli edifici in condizioni di orribile degrado: il loro malcontento costituirebbe un'esplicita minaccia alla sicurezza sanitaria delle città, oltre che a quella delle galere e delle merci trasportate (14). Ed è ancora nello stesso spirito che, per far fronte alle difficoltà dei tempi di carestia e di peste, Paris Malipiero l'anno dopo decide di ricorrere a veri e propri provvedimenti assistenziali nella piazza di Cattaro: prima ancora di poter affrontare le questioni in termini di nuove fabbriche specifiche (un ospedale d'isolamento), egli predispone, da un lato, un maggior numero di alloggi per le milizie, onde evitare che vagando per la città esse diffondano il contagio; dall'altro, dispensa ai "miserabili abitanti" tre once di biscotto e quattro di fave per persona al giorno; per garantire la sussistenza della popolazione, giunge addirittura, il 13 febbraio successivo, a raddoppiare la dose di cibo distribuito, d'accordo del resto con il "prudente" suggerimento del provveditore alla sanità Lorenzo Contarini (15).
Per governare, dunque, i magistrati veneziani si preoccupano, almeno a parole, di offrire garanzie sociali, il che non può che tradursi in uno sforzo di organizzazione e di conduzione dei servizi urbani primari. Questo avviene - è facilmente comprensibile - accanto a scelte più propriamente di politica economica, soprattutto in luoghi come Spalato, le isole vicine, gli insediamenti nella riviera di Traù, in cui la presenza dei Turchi è indissolubilmente legata all'andamento delle attività mercantili, o in quelle colonie veneziane come Corfù, Zante, Cefalonia, Candia i cui sudditi d'origine varia svolgono i propri affari risiedendo e transitando con disinvoltura dall'una all'altra. Perché il problema della rigida divisione tra i ceti non è mai disgiunto da quello delle loro alleanze, oscillanti e strumentali, con gli stranieri: i Costantinopolitani, gli Uscocchi, gli Albanesi, i Greci, gli Ebrei levantini e ponentini, di volta in volta visti come collaboratori, o come nemici "odiati e sprezzati".
Non sempre scelte importanti, come quella dell'introduzione a Spalato di una "scala" di prezzi, pesi e misure per regolamentare i traffici mercantili dell'intero Adriatico, arrivano ad essere materia di dispute in collegio o in senato della città dominante (16). Suggerita dall'ebreo Daniel Rodriga che, spagnolo d'origine, si va muovendo da una piazza all'altra del Mediterraneo, la proposta si misura, a due anni di distanza dalla battaglia di Lepanto, con l'ipotesi di trasformare un porto decaduto, con i fondali in buona parte interrati, privo di attrezzature sanitarie e di un solido ceto mercantile, schiacciato alle spalle dalla "pressione turchesca", in un punto nodale per una "rivalutazione delle vie terrestri" dell'intero territorio dominato (17). Tuttavia, un dispositivo dichiarato vantaggioso per Venezia in tempo di pace (l'istituzione cioè di un vero e proprio nuovo porto franco lungo l'Adriatico), potrebbe forse risultare pericoloso in tempo di guerra e, soprattutto, non essere accettato di buon grado da parte della nobiltà locale. In quel caso, per la verità, le difficoltà poste dalla gestione da parte di Giudei di servizi urbani importanti si coniugano con le necessità di regolamentare la presenza dei Levantini viandanti, oltre che nella stessa Spalato e in tutto il territorio dalmata, anche nelle case del Ghetto vecchio della città Dominante, con tutto ciò che questo comporta. Si tratta, cioè, non solo di confermare loro i permessi acquisiti ormai da una quarantina d'anni, d'abitare con le famiglie a Cannaregio nella nuova area a loro destinata, di "praticarvi" liberamente, facendo riti, cerimonie, tenendo sinagoghe secondo gli usi consueti (18), ma di garantire loro una navigazione "sicura" negli Stati da terra e da mare (19). Se cioè a Spalato le classi alte mal recepiscono le imposizioni di un Giudeo "povero ", che per anni ha "maneggiato" con i Turchi, la questione diventa oggetto di discussioni più che decennali e di partiti contrapposti nei consigli della stessa città lagunare, perché significativa probabilmente di un rapporto che va oltre la questione specifica. Ne è certo consapevole Alvise Loredan quando, nell'agosto del 1580, facendosi interprete di un'opposizione generale all'iniziativa per ragioni di sicurezza, dichiara che, avendo raccolto numerose opinioni in merito, è proprio il difficile rapporto tra Spalatini ed Ebrei a spaventarlo. Ed è altrettanto esplicito un suo successore, Marco Barbarigo, che ben sapendo quanto sia urgente intervenire nella manutenzione del molo e nell'escavo dei fondali, percepisce tuttavia le implicazioni di una scelta di rilancio del porto di Spalato, capisce cioè quali siano le reali difficoltà (sociali, più che d'investimento) di portare a compimento un'opera di quell'importanza (20).
A Venezia, del resto, dove giungono lettere, informazioni, notizie contraddittorie, alla fine degli anni '80 del Cinquecento è ormai ben chiaro che il ruolo dei mercanti ebrei è divenuto di primaria importanza, nel quadro del declinante commercio d'oltremare e che anzi su di essi si deve premere per un tentativo di rilancio (21). Consapevole delle relazioni intessute da Levantini e Ponentini con l'impero ottomano, del loro capitale, delle loro competenze in fatto di tecnica commerciale, il senato non solo consente loro di risiedere in città, con tasse in qualche caso più basse di quelle imposte agli stessi mercanti veneziani, ma - deciso a sviluppare la propria economia - concede uno dei privilegi di scambio con il Levante (22).
Così, quando nel 1583 l'iniziativa della "scala" di Spalato viene provvisoriamente accantonata e le fabbriche della Dogana e del Lazzaretto che ne sono parte integrante restano qualche anno interrotte, per la rinuncia e la partenza dello stesso Rodriga, improvvisamente a San Marco ci si accorge con rimpianto che a subirne le conseguenze non è solo la metropoli dalmata, ma l'intero suo entroterra. Ha subito paurosi ritardi la promessa risistemazione di strade fangose, di ponti sui fiumi, di passi inaccessibili tra Sarajevo e la stessa Spalato. E gli effetti riguardano poi gli accordi su dazi, gabelle e assicurazioni marittime con i Bossinesi, o quelli di Harenta, o con i ministri di Clissa; nonché la concorrenza con Ragusa nell'attirare grosse imbarcazioni destinate al trasporto di schiavi, animali, pellami, corde; in definitiva le relazioni commerciali con l'Oriente e i più generali processi migratori verso la Dominante (23). Nel 1590, alla data del suo completamento, l'opera si rivela un buon affare; un segno inequivocabile della sua riuscita è il fatto che le spese effettuate dal Rodriga per la costruzione della Dogana, tre anni dopo, gli saranno in parte rimborsate (24). Non possono del resto non sottolinearlo Baldassar Contarini nella sua lettera al collegio, una volta tornato da conte di Spalato (1597) e, poco dopo, nei primi decenni del secolo successivo, quelli appunto del massimo splendore di Spalato, Simon Luzzatto con orgoglio "nazionale" e il doge Nicolò Contarini con equilibrata saggezza (25).
Nel caso di altri centri della stessa Dalmazia, le questioni restano in generale oggetto di controversie locali, magari orientate sul posto da accorti rettori e provveditori generali, che si limitano una volta tornati in patria a dar conto del loro operato. Qui è più semplicemente l'"industria" degli abitanti dei territori dominanti a garantirne la sussistenza alimentare; non solo, ma perfino lo scambio con i supposti "nemici" dei prodotti su cui ancora si regge l'economia-mondo veneziana (lane, cuoio, cordame, carne, formaggio, vino e, soprattutto, biade in grandi quantità), lo sfruttamento delle ricche risorse disponibili, o i tentativi di migliorare la produzione agricola, poggiano necessariamente sui contadini, dopo tutto da considerare anch'essi una delle potenzialità del Dominio (26).
È una popolazione composita, dunque, quella di questo vasto Stato da mare, in cui razze, abitudini, riti religiosi spesso non sono più nettamente identificabili; una popolazione che, per essere retta, deve prima di tutto essere conosciuta nella sua distribuzione geografica e nelle opportunità, naturali o costruite dalla mano dell'uomo, di cui può godere: spiagge, baie, acque, montagne, pianure; città, borghi, castellanie; mura, infrastrutture, servizi, insediamenti produttivi; stato di conservazione dell'esistente, effetti di un terremoto, o danni di guerra. È certo che la necessità d'informazioni che traspare nei documenti del senato, come richiesta sistematica di notizie, consegue ad una speranza di gestione responsabile degli investimenti da parte della Signoria. La stessa esigenza è presente da un lato nelle relazioni di fine mandato dei provveditori generali, dei conti, dei duchi e dei sindaci, che dichiarano di aver cominciato ad effettuare, come primo loro compito, una visita nella giurisdizione di cui erano stati nominati responsabili, di aver voluto vedere ed annotare "diligentemente" l'esistente e i bisogni, di essere tenuti al corrente d'ogni movimento o variazione; dall'altro, spesso con accenti più circostanziati, nelle note degli ingegneri, o perfino dei bombardieri, sovente inviati al seguito di capitani a rilevare il territorio, prima di formulare un'ipotesi di progetto difensivo. Nelle pagine delle une e delle altre, la volontà di documentare è leggibile nella costruzione logica e perfino nell'ordine degli argomenti trattati. E tanto lo schema della comunicazione è noto, che talvolta pare sufficiente menzionare un certo problema in termini generali: anche i "silenzi" possono essere parlanti (27). Il bisogno di sapere, riscontrabile per tutti i centri del Dominio, corrisponde per noi in alcuni casi (per esempio per l'isola di Candia, o per quella di Corfù) ad una ricchezza assolutamente straordinaria di fonti disponibili. Conoscere in modo preciso il territorio, le sue risorse (disponibilità d'acqua, terreno fertile, stato di conservazione delle saline); misurare la distribuzione degli abitanti e le loro capacità lavorative (uomini "da fatti", donne e putte "inutili", vecchi, Ebrei); procedere ad un catastico degli "alberi buoni per il pubblico servitio" serve "di lume" e richiede talvolta una capacità notevole d'inventare mezzi di informazione. Così, apporre il segno di San Marco sopra gli stabili di proprietà della Signoria quando non è possibile catasticarli, serve a "memoria perpetua, [...> havendosi scoperto per questa via e messo in chiaro quello che non era saputo da chi si doveva" (28).
Le diverse relazioni scritte sono accompagnate spesso da un gran numero di dati quantitativi; talvolta anche da schizzi effettuati in loco, da disegni manoscritti a lapis (con tracce di misurazioni, correzioni e ripensamenti, o con la linea tratteggiata di una rotta di navigazione), da piante accurate del territorio agricolo, da viste a volo d'uccello dei principali insediamenti, da prospettive acquarellate delle coste e delle loro insenature. Ed è spesso difficile distinguere queste planimetrie analitiche, dalle molte carte a destinazione più propriamente nautica che, se pur schematizzate nei rilievi montuosi, sono spesso invece assai precise nelle linee di costa e ricchissime nelle indicazioni toponomastiche. In generale segnalano, le une e le altre, la presenza di corsi d'acqua, di punti di riferimento fondamentali, o di segni emergenti nel territorio (un altopiano, un castello, i resti di un tempio, il labirinto di Cnosso). Sono prodotte queste ultime da stranieri (il tipografo ufficiale del re) o da Veneziani (nei laboratori cartografici, che ormai esistono in città dalla metà del Cinquecento): pubblicano portolani di buona fattura, isolari, riprendono vecchi intagli in legno, li ristampano con qualche aggiunta o modifica, magari sapendo che essi sono destinati più ad "amatori" che esclusivamente alla navigazione. Sono talvolta anche soltanto planimetrie parziali di un tratto di costa tra due capi, con l'indicazione di una pianura nell'entroterra, o di una baia più profonda, o di un'isoletta capace di proteggere un imbocco, o di uno scoglio che costituisce ostacolo allo sbarco, o che invece facilita le capacità di rifornimento. Riportano succinte descrizioni geografiche, una leggenda, qualche cenno sugli usi e costumi dei luoghi.
Del resto, perfino le numerose figurazioni a rilievo, che per oltre due secoli si sono continuate a realizzare all'interno e all'esterno di numerosi edifici del centro lagunare, testimoniano la volontà di illustrare e far conoscere in modo tangibile ai Veneziani i luoghi del loro Stato da mare. Che siano state eseguite per celebrare una vittoria o per ricordare l'azione di un nobile provveditore o guerriero, scolpite da un tagliapietra sconosciuto o da un architetto famoso, sono egualmente significative le vedute di Smirne e di Cipro nel monumento al doge Pietro Mocenigo, posto di fianco al portale della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, i bassorilievi di Santa Maura e di Cefalonia nel sarcofago di Benedetto Pesaro ai Frari, quello di Scutari nel fronte della Scuola degli Albanesi, quello di Candia assediata nel monumento ad Alvise Mocenigo di San Lazzaro dei Mendicanti, la strisciata di piante prospettiche di Zara, di Spalato, di Corfù, di Candia scolpite nella facciata principale di Santa Maria del Giglio. E tra i moltissimi modelli in legno colorato, realizzati dai provveditori alle fortezze nei primi decenni del Seicento e conservati poi all'Arsenale, non sono pochi quelli in cui, accanto al disegno di baluardi e spianate, è chiara l'intenzione di rappresentare il paesaggio e i caratteri della struttura insediativa, in cui cioè l'interesse civile accompagna o giustifica le motivazioni belliche (29).
L'informazione è prima di tutto uno strumento di governo, perché consente di prendere decisioni. Tanto è vero che il sopralluogo, l'"osservazione" de visu, talvolta la relazione giurata, sono necessari, ma non sempre sufficienti; un "consulto" con chi vive nell'isola, sia esso d'origine veneziana o cittadino greco (perito, esperto, tecnico, ma anche e soprattutto governatore), può essere un utile supporto (30). Ma l'informazione può anche essere ragione di diletto e d'orgoglio per la propria sovranità. Così, quando nel 1594 Angelo degli Oddi padovano pubblica il suo Viaggio nelle provincie di mare, non è certo solo l'illustrissimo signor conte Honorio Scotto, cui la sua fatica è dedicata, che egli cerca di compiacere, ma i molti possibili lettori nelle cui mani il libro possa capitare anche per caso. Vi descrive con "ogni suo studio ed intento" gli insediamenti veneziani, turcheschi, imperiali e ragusei nei quali ha effettuato numerose visite e le loro qualità di "lochi ameni e fruttiferi"; registra i nomi d'ogni città e d'ogni insenatura, la capacità e il grado di sicurezza garantito da ogni singolo porto, precisa quali sono i casi in cui "ci si può far acqua e legne". Tutto questo per fare cosa utile alla Signoria; ma egli sa bene di aver come interlocutori i molti uomini che "si dilettano di saper et veder sempre cose nuove"; ed è forse proprio per costoro che vi aggiunge "molte altre annotazione belle" (31). Una curiosità alimentata cioè da pratiche antiche e dalle ben note difficoltà dell'andar per mare, consapevole tuttavia che proprio dal mare viene la fortuna di Venezia; una curiosità nutrita in definitiva dalle intuizioni di una civiltà marittima; una curiosità consolidatasi anche attraverso peregrinazioni e itinerari non tutti programmati (32).
Allo stesso modo, ad una scala più di dettaglio, quando l'ingegner Giorgio Corner nel 1625 rileva il regno di Candia, egli indulge con piacere - si direbbe - e con mano felice sugli aspetti formali dei suoi soggetti: sui sestieri, sulle strade principali, sulla bipartizione tra città vecchia e nuova, su chiese e conventi, sul complesso degli edifici pubblici, sugli orti con i loro pozzi posti oltre il perimetro murario, sulle ruote dei mulini, in un disegno il cui diletto è siglato dal fregio della pagina, dal decoro dello stemma della dedica, dal cartiglio del titolo, dai simboli che animano le distese acquee (sirene, draghi, cavalli marini, imbarcazioni corsare) (33).
Del tutto analogo è il compiacimento per i caratteri urbani che ci pare di cogliere in opere storiografiche più o meno generali, ma attente all'informazione locale. La Historia ab origine mundi di Giorgio Clontza cretese è esemplare da questo punto di vista: nell'affresco universale egli inserisce numerosi riferimenti alle vicende del suo regno, accompagnandoli con piccoli e minuziosi disegni ad inchiostro, talvolta acquarellati, a documentare con straordinaria efficacia momenti della vita civile (la processione del Corpus Domini, la città al tempo della peste, la partenza del rettore Pasquale Cicogna), le parti interne delle città di Candia e di Canea o qualche loro edificio (il duomo, la piazza San Marco, la porta Panigrà) (34).
Non è da meno la Historia di Corfù di Andrea Marmora, membro della nobiltà locale, che volendo segnalare il ruolo determinante del porto dell'isola dopo la tragica conclusione della guerra di Candia allude con allegorie scritte e disegnate alla centralità inevitabile di Corfù tra Oriente e Occidente (35).
I temi ricorrenti con maggior frequenza nelle delibere ufficiali, nelle descrizioni, nelle relazioni consuntive sono quelli economici, relativi ai costi della vita civile. Lo scambio di prodotti alimentari e i rapporti con le magistrature veneziane responsabili (provveditori alle biave, agli olii, al sale, alle fortezze) ne costituiscono un capitolo fondamentale. Il reddito garantito dallo Stato da mare non ha mai costituito la parte maggiore delle entrate della Repubblica e, anzi, le percentuali fornite da Marin Sanudo per un periodo intorno al 1464 Si sono nei due secoli successivi spostate a favore del Dogado e della Terraferma (36). L'importanza delle colonie marittime va valutata piuttosto in termini di scambio commerciale: esse costituiscono volta a volta una base di traffico inevitabile, o una testa di ponte strategica, o un porto di rottura di carico tra imbarcazioni di grande e di piccolo tonnellaggio o, ancora, il luogo della riserva di alcuni prodotti. Si spediscono grano, frumento, riso, miglio, fagioli o relative sementi da Venezia a Candia, che non ne dispone a sufficienza; vino, uva passa, olio, sale da Candia, che ne è produttrice, a Venezia (37). Tenendone conto in appositi registri, si inviano le "pietre cotte", o la ferramenta, o il legname necessario alle fabbriche in Istria e in Dalmazia e la bianca "pietra viva" nei centri lagunari per farla lavorare ai numerosi tagliapietra che vi tengono bottega. Ma accade anche di scoprire, facendo un sopralluogo tecnico, che negli arsenali di Zante giace inutilizzata da anni una gran quantità di tavole, che val la pena di far recapitare a Venezia. Nell'isola abbondano vino, olio, uva passa; ma manca il grano, che non può non costituire la preoccupazione primaria dei provveditori che vi si recano, poiché il prodotto, sufficiente a coprire il fabbisogno per non più di otto, nove mesi all'anno, stabilisce l'inevitabile dipendenza di quel centro dalla Morea (38).
Da Cipro si fanno arrivare considerevoli quantità di zucchero, cotone, sale; da Corfù anche vino, aceto e uva passa; da Brazza (dove nel 1565 era stata introdotta la piantagione dell'olivo) giunge una parte consistente dell'olio che, passato attraverso la Ternaria di Rialto, sarà poi variamente distribuito. All'interno di uno schema spesso molto ripetitivo, di continui solleciti all'invio "con i vascelli che si potranno trovare pronti" (39), senza dilazione alcuna, di quantità variabili di merci "necessarissime" ai bisogni di diversi paesi, i documenti registrano gli andamenti straordinari: le sorprese d'un cattivo raccolto, la mancata disponibilità d'un prodotto, la dannosa crescita dei prezzi o le conseguenze del calmiere, o gli effetti della presenza di navi inglesi nelle vicinanze di un porto, o di un itinerario diverso dal solito effettuato per rispetto dell'armata regia. Ne conseguono numerosi tentativi di porre rimedio (transitorio, o di più ampio respiro) alle difficoltà d'approvvigionamento nelle diverse aree del Dominio, alla pericolosa dipendenza dalle relazioni commerciali con il Turco, o alle necessità di consumo straordinario da parte della Dominante.
È proprio il "governo del denaro" e delle "entrate pubbliche", ad esempio, e l'"assestamento" di una provincia tra le più importanti, dato il disordine e la confusione conseguenti la guerra, a costruire il mandato con il quale Giacomo Foscarini, cavaliere, "intendentissimo delle cose del mondo", viene inviato a Candia nel 1574. Egli è stato scelto, pur non avendo coperto precedenti incarichi per mare, a sostituire il "povero vecchio" generale Sebastiano Venier come personaggio gradito "a quelli di Spagna", ad un tempo, per esservi provveditore generale, inquisitore e sindaco (40); con un incarico inteso dunque esplicitamente come di rilevamento e d'indagine (appunto di necessaria conoscenza), prima ancora che di decisioni e provvedimenti operativi. Ma una sorte analoga tocca circa dieci anni dopo a Nicolò Correr conte di Spalato che, al di là del titolo, ritiene indispensabile misurare le entrate della circoscrizione che deve amministrare, cominciando con un rilievo preciso e sistematico perfino del quadro geografico degli insediamenti religiosi (arcivescovado, diocesi, parrocchie, monasteri di frati e di monache), sapendo a priori che i conventi possono costituire una ragione di pericolo o, al contrario, uno straordinario punto di forza; e nella stessa circoscrizione non gli è da meno il provveditore straordinario Alvise Cocco, che nel 1648 procede ad una consulta generale, con l'aiuto del "validissimo" e fedele ingegner Magli: una revisione e un rendiconto delle condizioni della città e del suo porto. Ma anche Gerolamo Pisani, inviato a Cattaro, non può non considerare la desolazione prodotta dai frequenti terremoti e quindi circoscriverne e disegnarne in modo puntuale gli effetti (41). Nello stesso modo, a distanza di qualche decennio, il nobile Paolo Basadonna nota, con rimpianto, che a Zante il calo della popolazione conseguente alla peste ha comportato ad un tempo una diminuita attività commerciale, lo spopolamento di alcune ville, l'inaridimento di terreni in passato ben più fertili; in definitiva un impoverimento (che il magistrato si sforza di quantificare) generale dell'isola e delle famiglie che vi abitano. In questo caso, d'altra parte, la struttura della popolazione era stata particolarmente studiata nel passato e l'unità delle precedenti analisi diventa assolutamente palese: se ne conoscevano le percentuali per età nel 1582, gli spostamenti dal castello verso la marina nel 1592, la disponibilità a recar servizio alla Serenissima come "stradiotti", o in qualità di "cernide", o nelle galere, o nelle fabbriche nel 1601, o invece il suo essere incline alla collaborazione con principi d'altri paesi nel 1618 (42). Perfino in un'isoletta piccolissima come Cerigo, dove l'abitudine era quella di non render conto a fine mandato della situazione riscontrata e lasciata in eredità al proprio successore, alla svolta del secolo, quando l'importanza della "relazione" è decisamente un fatto acquisito, il nobile Simon Cappello decide che occorre cambiare: procede dunque ad una descrizione geografica del "suo" loco, delle circoscrizioni amministrative, della distribuzione degli abitanti; ad una misurazione del deficit delle finanze pubbliche; ad una riflessione sui movimenti nel porto da parte dei molti stranieri che vi circolano (Turchi, Francesi, Inglesi, Spagnoli e Italiani sudditi d'altri principati) e alle carenze delle sue strutture di guardia e di difesa (43). Alla lunga, l'obiettivo è poi sempre quello di un incremento di rendita.
La messa in produzione di terreni trascurati, il ripopolamento forzoso di aree abbandonate con insediamenti agricoli (come a Candia), o militari (come in Istria), la tentata riqualificazione di casali e monasteri degradati, o il ricambio delle essenze nelle zone impoverite sono provvedimenti da mettere in atto a questo fine : dovrebbero infatti facilitare l'avvio di processi di valorizzazione agricola di alcune zone. Ne abbiamo un riscontro nelle osservazioni compiaciute di Zuanne Mocenigo del 1589, circa il miglioramento della produzione rurale nel regno di Candia (44); lo riflettono anche le discussioni del senato, cui le scelte sono riportate, talvolta forse per un'approvazione formale, più in generale per non sottrarsi ad un doveroso rapporto nei confronti di chi detiene il potere, o alla necessità di insistere su ordini troppo spesso disattesi (45). Il che corrisponde, peraltro, ad un'intenzione di controllo sistematico dei conti. Ed è questo un aspetto importante della politica economica veneziana nei confronti del suo Dominio: all'elenco delle uscite della Serenissima, per acquisto di merce o invio di denaro, deve corrispondere un elenco di spese effettuate, che sarà anch'esso trasmesso alla Signoria con la prima nave in partenza (46).
A documentarlo, restano i numerosi registri tenuti dalle camere fiscali, relativi alle entrate che i territori dominati assicurano alla Repubblica, ai crediti e alle uscite complessive. Sono libri organizzati per voci: i "livelli" di castelli e casali sparsi nel territorio, o di provenienza ecclesiastica; le "decime" pagate all'arcivescovo o ai suoi canonici; i "dazi" derivanti dai diversi prodotti (vino, aceto, uva passa, frutta, formaggi, salumi, spezie, cuoio) e dal funzionamento di alcuni servizi pubblici, prevalentemente mercantili (beccheria, pescheria, pesa pubblica, misurazioni, diritti portuali). I dati sono raccolti in tabelle, per anno e per località di provenienza, sistemati spesso con rubriche a latere, in ordine alfabetico. Tra i molti atti dettati da intenzioni d'ordine "fiscale", vanno catalogate anche alcune informazioni statistiche sulla quantità della popolazione (compresa quella transitoria, come angarici, o soldati); gli elenchi dei debitori e dei creditori; i libri dei conti con l'indicazione delle quantità di un determinato prodotto (le biade, o il frumento) consegnato ad un fondaco, mese per mese.
Non è tanto che il bilancio finanziario generale debba essere in pareggio a importare, anche se, certo, la questione della parità tra entrate e uscite è sempre posta con insistenza, quanto la scelta di un'amministrazione unica, in cui la partita di giro si chiude, purché vi sia un equilibrio misurabile in termini di costi/benefici. Per esempio, il controllo della carne nel mercato della capitale, che può tradursi talvolta nell'abbassamento dei prezzi nelle beccherie di San Marco e di Rialto, dovrebbe servire a regolamentare anche l'approvvigionamento di animali da lavoro (47).
Analogamente, la costruzione di nuove saline e il ripristino delle vecchie, siano esse di proprietà pubblica o condotte da "particolari", in concessione o a livello perpetuo, consente d'incrementare la quantità di sale, che giunge a Venezia. La questione si fa urgente, trattandosi di un prodotto di largo consumo e di scambio internazionale, nel senso che richiede anche una documentazione più aggiornata circa le isole del Levante - Candia (Suda e Spinalonga), o Corfù - soprattutto dopo la perdita di Cipro: impone un censimento delle abitazioni di chi vi lavora, della disponibilità d'acqua dolce, delle possibilità di carico e trasporto della merce. Così ancora il disboscamento di vaste aree dell'isola di Corfù si spiega, in parte, con necessità d'approvvigionamento del legno (per la costruzione navale), in parte, con un aumento del suolo agricolo (per la coltivazione della vite e dell'olivo): ed è proprio questo il processo che intendono mettere in luce le topografie o le "dimostrazioni" geografiche del XVII secolo, quando registrano la componente boschiva del paesaggio agrario.
Si tratta cioè di un'ottica di politica territoriale, in cui i luoghi fertili ed attivi vanno rilevati e conosciuti perché sono quelli anche che "rinforzano" la città al di fuori di essa. Infatti, vi si riconoscono prima di tutto obiettivi di autosufficienza alimentare delle terre dominate, perché questo corrisponde ad uno stato di relativo benessere interno; e in secondo luogo, di servizio alla Dominante per sottrarla alla dipendenza da altri paesi fornitori, perché solo così s'arriva davvero a difendersi dai nemici esterni: dalla forza dell'impero ottomano, dalle scorrerie corsare, dai pericoli del contrabbando. Da questo punto di vista, la Repubblica Veneta è cioè uno Stato che si amministra complessivamente, nelle sue articolazioni, come organismo chiuso, perché criterio generale è che "conviene" non avere debiti di soggezione economica ed essere in grado di battere qualsiasi azione concorrenziale. Sono queste del resto le scelte che implicano inevitabilmente una conoscenza dei processi in atto e un tentativo di controllo delle dinamiche presenti, prima d'ogni possibile intervento sull'assetto del territorio; il rilevamento della forma del paesaggio rurale e un giudizio sulle logiche di localizzazione degli insediamenti, prima di procedere alla realizzazione di cisterne, fondaci, magazzini, depositi per una migliore conservazione delle merci indispensabili (48).
Tanto più che la circolazione e lo scambio costituiscono comunque una base di conoscenza, anche quando non riguardano prodotti, ma notizie: l'isola di Zante, ad esempio, è localizzata in posizione opportuna per ricevere avvisi dai porti vicini e lontani, soprattutto circa le cose marittime e i movimenti delle armate turchesche e spagnole, consente dunque d'essere informati su qualsiasi possibile accidente e di poterne poi dar conto alla Signoria (49).
Perché la convinzione che traspare da scelte che si sovrappongono continuamente ad altre di più vecchia data - magari contraddicendole - è che la difesa del territorio è sì garantita da fabbriche, costruzioni, dispositivi artificiali, interventi della mano dell'uomo, ma si somma e s'intreccia sempre con il potenziamento dei caratteri del sito: l'escavo delle darsene, l'approfondimento di un'insenatura, la realizzazione di un molo come prolungamento di una sporgenza di roccia (50). In tutto questo sembra essere sempre presente ed esplicita la pretesa di valorizzare anche l'immagine dell'esistente; una riaffermazione di fiducia nei poteri di una natura considerata di per sé provvidenziale.
Alcune relazioni, redatte sulla base di note ed appunti presi in loco, rilevano più di altre la densità d'urbanizzazione, le circoscrizioni amministrative e i loro nuclei abitati (città, borghi, castelli, casali), la loro forma e dimensione. Dedicate spesso ad un capitano al cui seguito è stato effettuato il sopralluogo, o ad un provveditore in carica, il quale viene di solito menzionato in un cartiglio a colori o evocato con lo stemma miniato della famiglia, ricordano anche i segni della stratificazione storica e del passaggio di antiche civiltà. Per esempio, all'inizio del Seicento è l'ingegnere Francesco Basilicata (51) a restare impressionato dalla consistente ed articolata presenza urbana nell'isola di Candia; lo afferma da ῾tecnico', ma con l'enfasi e l'entusiasmo di chi compie una visita che lo riempie d'orgoglio. Egli rileva che: "Sonovi ancora [...> molte Vestigie et Rovine come Acquedotti, Ponti, Muraglie, et altre Antichità, quali dimostrano d'esser state Città" (52), a questo annettendo la ragione stessa dello splendore del regno.
Del resto, anche chi, mosso da preoccupazioni politiche, più che puramente tecniche, descrive una situazione di desolazione e miseria sulla quale occorre intervenire al più presto, usa proprio la stessa terminologia, parlando di "rovine" e "vestiggi" (53).
Il passaggio tra Cinque e Seicento è infatti un periodo in cui al declinare di industrie e commerci in molti punti del Dominio da mare, s'aggiungono altre non meno gravi calamità (54). È dunque prima di tutto una preoccupazione per la sopravvivenza dei possedimenti, quella che muove Venezia a rinforzare i segni della propria presenza, stabilendone nessi di continuità con un patrimonio che ha radici lontane. Ma evidentemente non si tratta solo di ῾ragion di stato'; i cenni retorici con cui i luoghi sono descritti corrispondono alla volontà di individuare le tracce della propria storia, le memorie d'una cultura antica. È significativo che nel 1580 Luca Michiel senta il bisogno di ricordare ai suoi concittadini che il regno di Candia è non solo uno degli Stati più belli e potenti d'Europa, ma il "maggior nervo [...> della forza et reputatione" di tutta la cristiana Repubblica (55). O che il nobile Leonardo Querini nella sua relazione del 1583 menzioni colonne di marmo di diversi colori e statue sepolte sotto terra, a testimoniare la presenza, verso ponente, di una grande famosa città e, ancora colonne, statue, lavoro di mosaico a segnare il luogo d'un ricco mercato, e una porta fabbricata di mattoni, una chiesa antichissima, tracce di cisterne (56)... O ancora che nel 1586 Onorio Belli (57), medico, botanico, grecista disegni e descriva nelle sue lettere ben 6 teatri, più o meno vicini alla "scrittura di Vitruvio", e il tempio di Lebano, con la scultura d'un grande serpente (58). Anche di Spalato, che vive tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo il suo momento di massimo splendore commerciale, più o meno nello stesso torno di tempo si nota con ambiguo rammarico che la città non si identifica più solo con l'aulico palazzo di Diocleziano: per secoli processi di degrado, atti di vandalismo, trasformazioni, nuove aggiunte hanno investito lo straordinario insediamento imperiale romano. Dopo lunghi anni di apparente disinteresse per gli antichi resti, in cui le denunce indignate di un capitano per la sottrazione delle enormi pietre squadrate delle mura erano suonate come voce tardiva e ormai inutile, accade che le antiche statile siano rilevate accuratamente.
Non è solo l'indebolimento d'un presidio militare importante che muove ora l'attenzione dei responsabili, ma anche la perdita di decoro e d'ornamento d'una città eccezionale; anche se poi, per "salvare" quelle figure dalle mire straniere, si decide di trasferirle a San Marco. Così avviene che le pietre del torrione d'angolo, demolito nel 1619 da Alvise Zorzi, sono attentamente numerate e, secondo una prassi secolare di oculato risparmio, riutilizzate con "rispetto" nella fabbrica della chiesa della Salute; ma quelle, di cui pure si era proposto l'utilizzo nella costruzione del lazzaretto Nuovissimo, non saranno reimpiegate per il "dispiacere" che col levarle avrebbe ricevuto la città medesima, trattandosi dei suoi "antichissimi ornamenti" (59).
L'attenzione della Serenissima nei confronti del contesto urbano, in tutte le sue articolazioni (sociale, politica e conoscitiva), porta necessariamente ad un impegno diretto nella realizzazione di opere pubbliche. All'interno degli insediamenti del Dominio veneziano da mare questo impegno è ricorrente. Per i centri della costa Adriatica (Istria, Dalmazia, Albania), come per quelli delle isole di Levante, la spesa destinata alle "fabbriche" civili, anche se ben difficile da quantificare, è certo una voce percentualmente significativa degli investimenti effettuati dalla Repubblica Veneta nel lungo arco temporale del suo governo. Questa scelta corrisponde ad una esplicita volontà di manifestare la propria presenza, anche nei periodi in cui le città sono intese non tanto come piazza fortificata, cioè come "riparo" contro i nemici, quanto come "colonia" che in tempo di pace è destinata al "ricovero" degli abitanti, da valutare quindi sulla base del sito, degli edifici, della rete stradale (60). Alloggiamenti per i soldati, palazzi del provveditore generale, del capitano o del camerlengo, ospedali, rughe di botteghe, logge dei mercanti, fondaci, dogane, forni, pozzi, cisterne, accanto al rifacimento di una porta, di un tratto della trama viaria, di una piazza, della canalizzazione delle acque sporche, costituiscono i numerosi capitoli di un programma, spesso frammentario, ma articolato di pianificazione della città. È stato notato che ben pochi erano, nel corso del XVI secolo, i margini di coerenza geografica, o geopolitica che lo "spazio" veneziano presentava nel suo insieme (61), non esisteva coesione al suo interno; la sua identità era semmai un obiettivo da perseguire con fatica, quotidianamente; eppure alcuni "segni" della presenza della Serenissima sono tuttora visibili nei punti estremi dell'impero.
Percepibili talvolta ad uno sguardo, più come richiamo o come impressione, che come elementi di appartenenza ad un linguaggio codificato (di cui del resto Venezia non è certo portatrice), essi ci pongono alcuni quesiti circa i modi dell'intervento veneziano sulle forme insediative; è riconoscibile o meno una strategia urbana della Dominante nelle città dominate e fino a che punto tale strategia è parte di un programma di coesione sociale e politica, oltre che attinente ai modi della configurazione spaziale? Quali ne sono gli elementi cardine? Qual è il ruolo giocato dall'edilizia pubblica, il significato civile che le è attribuito, i suoi modelli di riferimento, i comportamenti tecnici, i materiali della costruzione e i luoghi d'approvvigionamento?
Esistono luoghi urbani sui quali i finanziamenti convergono con maggior frequenza, su cui si concentra l'attenzione dei politici e dei tecnici inviati da Venezia. Primi, tra questi, i porti: l'opportunità di ingrandire le darsene, il bisogno di acconciare i moli per la sicurezza dei vascelli contro l'impeto del mare e per lo scarico delle mercanzie, l'esigenza di garantirne la manutenzione negli anni, il pericolo dell'interramento e la continua necessità d'escavo, il ricorso a "cavacanali" sono tutte questioni ritenute vitali per l'esistenza stessa del Dominio, per la sua sopravvivenza materiale, per l'articolazione dei suoi punti forza. Vi si riconosce una consapevolezza, che viene da esperienze di antica data, circa il fatto che momenti d'equilibrio tra terra e mare vanno trovati e mantenuti giorno per giorno. La canalizzazione delle acque piovane, la raccolta di quelle sporche attraverso una rete di "scoladori", lo spostamento di terreni mossi e di campi coltivati all'interno del perimetro urbano, la costruzione di rive, di approdi, di ponti levatoi sono dispositivi ben noti a chi ha consuetudine con la città lagunare (62).
Confrontando tra loro le vedute e le piante di Spalato precedenti (per quanto imprecise) e successive alla realizzazione della "scala", si nota come ciò che nel suo insieme ha subito i cambiamenti più sensibili sia proprio il porto della città, con il molo che lo conclude: parallelo alla riva e, secondo le dichiarazioni della prima metà del XVI secolo, troppo mal ridotto per sostenere la forza delle onde marine, questo aveva visto succedersi lavori saltuari, per tentativi, con escavi e restauri della banchina, condotti più con scopi militari o di difesa dal fortunale di quella parte dell'insediamento che s'affacciava sul mare, che nell'intenzione di risollevare la situazione commerciale. Ma con sempre maggior frequenza, dopo il 1580, la questione dell'interramento del bacino è posta in relazione con l'andamento, la forma e la dimensione dei moli, e soprattutto con le fabbriche mercantili che vi saranno realizzate, fino all'insistenza del 1602, del 1605, del 1611 e gli interventi non duraturi di Scipio Fredi del 1614 e a quelli più consistenti (perché legati ad una prospettiva cittadina più generale) del conte Girolamo Querini del 1640. Avvalendosi del sapere tecnico di un "cavacanali" come Carlo Silvestrini, l'ultimo progetto è infatti un vero e proprio piano di ristrutturazione portuale, coerente con l'opera di riorganizzazione urbana ormai avviata. Nello specifico, esso prevede di allungare sia il Molo Grande che quello della Sanità e di realizzare un declivio dei fondali, così da smorzare contemporaneamente i venti e i flutti dell'acqua. Sta di fatto che il porto di Spalato passa nel giro di un secolo da una forma irregolare ad una assai più definita; acquisisce una nuova fisionomia in cui la darsena, più chiusa, ha dimensioni che restano ora sostanzialmente eguali a se stesse per molti decenni, consente alle navi di giungere fin sotto il muro della dogana e dei nuovi magazzini, con maggior comodo del carico e dello scarico, e al traffico che vi concorre d'essere sempre sotto il controllo della nuova torretta d'angolo. Allo stradone in riva al mare, risistemato nel suo percorso, viene inoltre conferita una pendenza tale da evitare il trascinamento delle immondizie verso il bacino acqueo nei giorni di pioggia e i conseguenti pericoli di un suo interramento; la canalizzazione di scolo doveva invece riversarsi oltre il castello, nel luogo detto "delle beccherie", con il vantaggio anche di lasciar sgombra una striscia di terra via via sempre più frequentata (63). L'operazione investe di fatto l'intera città.
Anche a Zara le vicende portuali sono di lungo periodo: già negli anni Trenta del Cinquecento, un lungo dibattito aveva visto fronteggiarsi personalità importanti per la storia delle difese veneziane, come Francesco Maria della Rovere e Vincenzo Cappello, circa il ruolo strategico-mercantile di quell'insenatura, rispetto alle altre della costa dalmata. Da allora, varie ipotesi alternative erano state valutate: perfino quella della costruzione di una darsena completamente nuova, in buona parte artificiale, con molo fondato in mare, nella parte sud-occidentale della città. Nel frattempo, e per almeno un secolo, le pendenze del terreno, i problemi d'interramento, l'eliminazione delle immondizie, delle acque piovane, degli scoli non irregimentati verso il mare, le necessità d'escavo, le rigide norme circa attività o insediamenti permessi o proibiti vicino alla costa, la manutenzione del molo, la preoccupazione di mantenere l'Arsenale in condizioni d'efficienza permanente non vengono meno, anzi suggeriscono che ci si rivolga di volta in volta ad ingegneri esperti (a Lorini, al Malacreda) per un parere (64). Ma non è solo nelle grandi città che occorre intervenire: anche nell'isoletta di Cerigo, poco più che uno scoglio abitato da sole 7.500 anime, il nobiluomo Iseppo che vi è stato provveditore, più o meno negli stessi anni, lamenta la necessità di rafforzare il porto, per proteggere uomini e mercanzie dai corsari e dai soprusi turcheschi e per offrire un rifugio alle navi grandi e piccole che si muovono tra Candia e Corfù.
E anche a Zante, all'inizio del secolo, il beneficio "universale" coincide con quello del suo porto, con la conservazione cioè del molo, del lido, degli squeri nei quali si fabbricano nuove imbarcazioni o si tirano a terra quelle che richiedono interventi di manutenzione, con la salvaguardia dagli abusi edilizi. Sono ritenuti assolutamente necessari provvedimenti che impediscano di occupare terreni che devono restare sgombri, di costruire fabbriche senza la necessaria licenza, di abitare lungo la marina; la comodità dei privati di negoziare non può essere un pretesto per invadere spazi pubblici di interesse collettivo; né può essere tollerata la pratica di gettare in acqua terra o pietre, o di rizzare nel mare ripari o palizzate, con il rischio di ostacolare l'andamento delle maree e il flusso acqueo; occorre insomma, garantire un'assoluta libertà di passaggio ai pedoni e ai cavalli lungo la riva; di traffico continuo agli infiniti vascelli che si spostano nel bacino (65).
E dove il prolungamento o la costruzione di un molo non è sufficiente a rendere tranquilla e sicura un'insenatura troppo aperta, come a Canea, l'ingegnere costruttore farà ricorso all'istallazione di una pesante catena che farà appositamente realizzare dai maestri dell'Arsenale di Venezia, per garantire la necessaria protezione alle navi ivi attraccate (66).
Conseguente o parallela alle scelte descritte, attinenti alle attrezzature portuali, è l'attenzione del tutto particolare che i magistrati veneziani prestano in modo continuativo anche ai luoghi di mercato: nuovi depositi di biscotto, magazzini di biade, fondaci delle farine, uffici di dogana, riutilizzo di vecchi immobili come luoghi di accatastamento delle merci o come serie di botteghe, allontanamento delle beccherie site spesso fronte mare, nella piazza, operazioni di riordino e di sgombero.
Al di là dei risultati raggiunti, spesso ben lontani dalle intenzioni, non v'è dubbio che la tentata messa in opera di questo insieme d'attrezzature urbane esplicita la volontà di manutenzione e di efficienza dei luoghi dell'economia-mondo veneziana, cui accanto agli elementi di comodo, non devono mancare quelli di decoro (67). Un giudizio sull'esistente, sulla distribuzione delle destinazioni d'uso, sulla separazione e/o inevitabile commistione d'attività e dei suoi effetti è quanto formulano i magistrati nelle loro relazioni di fine mandato. Il loro primo riferimento è Venezia: città dominante, certo, ma, nelle fonti esaminate, considerata anche città-mercato tra le più importanti del Mediterraneo, città portuale, città costruita sull'acqua e, per questo, capace di fornire suggerimenti, misure ed esperienze particolari. È un riferimento implicito che si trova nell'iter di decisione e di progetto, nel fare quasi sempre ricorso ad un'apposita magistratura straordinaria, nella scelta di operatori e periti che, poco a poco, grazie ai loro spostamenti e ai consulti forniti, diventano gli esperti delle questioni da mare, nelle pratiche di costruzione, prima ancora che nell'adozione di modelli di configurazione, o d'un linguaggio architettonico. Ciò che li guida sono i riferimenti a modi di operare conosciuti e consolidati perché sperimentati: in laguna, ma talvolta anche nelle città del Dominio da terra (68), tanto in opere di riorganizzazione complessiva della struttura urbana, che in una serie di fabbriche pubbliche separate.
A Candia, la fortificazione medioevale è elemento di bipartizione tra "città vecchia" e "borghi"; organizza la rete viaria, in corrispondenza della "porta de piazza"; costruisce il punto di incrocio dei percorsi urbani principali tra "ruga maistra" (perpendicolare alla costa) e tracciato dell'antica cinta. Dopo Lepanto, il riutilizzo di queste mura non è solo una scelta di saggio risparmio; lo straordinario complesso edilizio avviato dal Foscarini e materialmente cominciato a costruire dal futuro doge Pasquale Cicogna è ritenuto urgente e necessario per ripristinare un "ordine" civile nella città (69). Ne costituisce una vera e propria ossatura fisica, poiché comprende le principali attrezzature urbane di mercato in un unico manufatto - unico, ma non formalmente unitario -: i) viene restaurato il vecchio fondaco delle farine, in cui non è solo il leone marciano infisso sul fronte principale a dare un'impronta veneziana; più piccolo certo di quello di San Marco, l'edificio è però costruito sullo stesso impianto distributivo (grande spazio di deposito a tutta altezza gestito dalla Signoria e fontegherie intorno date in appalto ai singoli) ed ha un'analoga severa facciata. quasi totalmente priva di aperture; 2) il sottostante "voltone" di passaggio, con annessi, da un lato, il posto di guardia dei soldati; dall'altro, una loggia con un gruppo di botteghe che sostituiscono in parte vecchi stazi precari in legno; 3) il nuovo grande edificio a tre piani, destinato a contenere botteghe a piano terra e magazzini per biade e frumenti ai piani superiori (70).
Il disegno, costituito da una serie paratattica di portici ad arco, dotati di banco d'esposizione e di vendita a livello stradale e di deposito nella volta superiore, è del tutto simile a quello cui s'è fatto ricorso per le Fabbriche vecchie dello Scarpagnino, da pochi decenni realizzate a Rialto, nel mercato della Dominante (71). Ma simili sono anche la solida semplicità delle finiture, i modi, i tempi, i materiali, le tecniche utilizzate, i meccanismi previsti per la gestione successiva. Negli stessi anni, del resto, le richieste di denaro alla Signoria per la costruzione o il completamento di spazi di mercato altrove nel Dominio sono reiterate e frequenti; i rappresentanti della Repubblica ne sostengono il significato civile, prima che strettamente economico. Depositi, serie di botteghe, fondaco dei grani, piazze per "sbarcar le merci", orologio, uffici di dogana sono oggetto d'investimento: a Rettimo, a Cefalonia, a Zante, a Traù.
A Spalato, addirittura, si subordina alla costruzione di edifici per il controllo di merci e persone in entrata la controversa introduzione di una regola di pesi, misure e tariffe di cambio - la famigerata "scala", di cui già si è detto -, ma è poi l'intera forma della città ad esserne toccata. Qui infatti la Repubblica impone in modo pesante la propria presenza nei luoghi del mercato: con l'alleanza stabilitasi tra Veneziani ed Ebrei, a scapito degli Spalatini, con i nuovi bisogni (nel 1594 si lamenta che la città manchi ancora di un fondaco), con i nuovi interventi sarà la piazzetta medioevale aperta a tutti ad essere sacrificata.
La dogana è un edificio "bellissimo", quasi un fondaco, dotato di cisterna e di torretta sul porto: 24 stanze, altrettanti magazzini ed una "caverzeria" dove ospitare i Morlacchi con i loro cavalli, al piano terra; al piano superiore sono alloggiati i mercanti con le loro mercanzie (72). La fabbrica era stata realizzata a spese di Daniel Rodriga (che sarà poi rimborsato dalla Signoria visto il successo dell'impresa) e aveva dato formalmente inizio alla "scala". Aveva soprattutto contribuito alla definizione dell'intera morfologia portuale di Spalato, essendo posta nell'angolo sud-orientale della città e da essa separata dal già menzionato stradone che correva ai piedi delle mura, verso la darsena. Gli altri edifici, che nel giro di pochi anni vengono completati, prendono le mosse da queste prime opere: i magazzini per il sale già esistevano, ma nel 1590 devono essere ristrutturati e ampliati, anche per essere in grado di competere con quelli di Narkaska e di Narenta (73); i nuovi depositi, aggiuntisi ai piedi della muraglia in riva al porto, giungono a lasciar libera, di quella facciata, la sola porta d'accesso alla città; altri ne vengono situati in località le "Grotte" (74); un lazzaretto è posto proprio in riva al mare, così da facilitare lo scarico e la disinfezione delle merci.
E l'aumento dei traffici, delle galere da mercato che vi approdano, del bisogno di magazzini in cui accatastare la merce è un dato di fatto, se nel 1607, il senato dà ordine al provveditore generale in Dalmazia di non chiudere la "scala" di Spalato, malgrado vi sia ormai giunta la peste. Visto il brillante avviamento dell'iniziativa, si prescrive una maggior cautela, e cioè che tutte le merci che vi giungono siano accolte nel lazzaretto per la disinfezione e trasferite a Venezia solo dopo un regolare periodo di contumacia. Con il risultato che il primitivo recinto risulta insufficiente e, dopo la supplica congiunta di cittadini, dei mercanti turchi e dei V savi alla mercanzia, il senato deve prenderne in considerazione l'ampliamento. Spalato è città nella quale esiste una rigida divisione di ceti, nella quale le pretese dei nobili e cittadini impongono la massima circospezione da parte dei rettori, nella quale l'andamento del commercio con i Turchi e con le isole vicine di lane, carni, biade, vino influisce sull'andamento generale dei prezzi in Levante; in cui, tuttavia, proprio come a Rialto, incentivare le attività, regolamentandole, cioè predisponendo garanzie, potrebbe comportare (e a posteriori ha certamente comportato) un aumento del numero dei mercanti, delle galere che vi approdano, quindi di case e botteghe affittate, quindi di ricchezza per tutti.
Ma né Candia, né Spalato sono casi isolati, anche se probabilmente restano due degli esempi più articolati e significativi.
A Sebenico, l'importanza del mercato e delle sue fabbriche agisce come fattore d'equilibrio tra prodotti di facile o difficile approvvigionamento: in un territorio che non produce grano a sufficienza, se non per il bisogno di due mesi all'anno, e dove scarseggiano gli animali da macello, un fondaco (eretto nel 1597) consente di conservare il grano acquistato nei paesi turcheschi e altrove secondo le migliori occasioni; le beccherie possono essere rifornite dai Morlacchi di castrati, manzi, vitelli teneri e a basso prezzo; le botteghe dispongono di vino e malvasie prodotti localmente in gran quantità.
A Zara, per ragioni di pulizia e d'igiene, nel 1629 Si ipotizza l'allontanamento delle beccherie dalla piazza della Marina, si predispone una nuova pavimentazione e una serie di scoli nelle strade intorno a piazza delle Erbe.
A Zante, l'istituzione del fondaco delle biade risale al 1576 e sembra quasi andare di pari passo con quella di altri enti di "provvidenza pubblica". Infatti, i magistrati veneziani dichiarano di esercitare un'azione di "sollievo" varia e diversificata nell'isola, contro i conflitti etnici, contro l'attività feneratizia degli Ebrei, poi contro quella dei Greci e infine perfino contro il mercato "fraudolento" dei villici che ne seguono l'esempio. Nel 1553, nel 1555, e di nuovo nel 1586 si succedono regolamenti, imposizioni, limitazioni alle singole minoranze; nemmeno il controllo esercitato dai notai sembra essere risolutivo tanto che (come già era accaduto altrove) a un secolo di distanza, l'esito quasi inevitabile è il ricorso ad una costruzione: in questo caso, un "sacro" monte di pietà.
A Cattaro, il fondaco delle farine e le beccherie sono costruite come parte integrante della cinta fortificata; per ragioni di sicurezza, o di risparmio riutilizzando parzialmente esistenti strutture di fondazione e murarie; come tali, essi diventano un settore assolutamente nodale della città, non solo per ovvie ragioni funzionali, ma perché ne hanno cambiato il rapporto tra mercato e antico tessuto edilizio. Un orologio aggiunto nella piazza, appresso il palazzo, risulta di non poco ornamento (75).
A Corfù, s'annette importanza al trasferimento del mercato e ad una riorganizzazione e concentrazione d'attività commerciali all'ingrosso lungo la riva di Spilea, come atto di sgombero e di valorizzazione di un'area che negli anni '50 del XVI secolo era considerata sito malfamato e marginale nella città: man mano vi trovano posto i complessi di magazzini e botteghe, la grande beccheria, un fondaco del grano. Un atto architettonico e simbolico che si riassume nella costruzione della piazza intorno al 1588 (ricordata dal Marmora) "con due cisterne nel mezzo copiose e ricche per gl'intagli e figure di pietra che le rendon più belle".
E, ancora, nel porto di Argostoli, il principale dell'isola di Cefalonia, sono situati in corrispondenza dei moli magazzini, uffici daziari e botteghe; nel 1599 vi è istituito anche un fondaco del grano (76).
Un principio importante, ribadito spesso, e che giustifica il ricorso a nuove costruzioni a destinazione d'uso specifica, è quello di non occupare locali impropri, nati per altro uso: e questo vale per le abitazioni, dalle quali spesso i privati cittadini che le occupano sono cacciati per far posto ai soldati, o per le chiese (più o meno dense d'umidità) che spesso sono temporaneamente destinate a magazzini di polveri o di grani (77). Identificare la presenza della Repubblica nelle attività di scambio; recuperare denaro alle casse della camera fiscale con la vendita all'incanto delle nuove botteghe e volte, di stazi o banchi nei fondaci delle farine, nelle beccherie, nelle pescherie, o con la riassegnazione di terreni ed immobili, sono modelli di comportamento, prima che di configurazione dei luoghi, che s'avvalgono dei meccanismi consueti, esattamente come a Venezia. Per questo, propongono rapporti di proprietà, spazi, modi di costruire, dettagli architettonici noti; ed esattamente come a Venezia nei momenti di crisi, l'operazione di assegnazione dei luoghi può essere difficile per mancanza di compratori e richiedere più bandi successivi. Ma la lunga pratica insegna che proprio nelle fabbriche e nel fatto che esse siano utilizzate consiste principalmente l'"ornamento della città"; predisporli all'uso, dunque, e garantirne la manutenzione, perché gli stabili sottoposti ad usura, distrutti dal tempo, non devono essere lasciati a "manifesta et irreparabile rovina".
E poi la cura dei magistrati veneziani è volta agli edifici puntuali, ad attrezzature funzionalmente più specifiche di quelle finora prese in considerazione nei paragrafi precedenti; anche se spesso il presupposto della costruzione è da trovare proprio in una strategia più generale di rilancio del ruolo portuale e mercantile della città in cui l'opera viene realizzata. A Corfù, a Candia, a Zara, nelle vicinanze delle parti più antiche della città, la Repubblica costruisce un ospedale per i soldati, per i galeotti, per i condannati, o per i civili, ai quali chiede di contribuire, trattenendo una quota in denaro dai loro salari, o imponendo loro qualche giornata di lavoro (78). A Cefalonia, a Corfù, a Zante, a Zara, a Castelnuovo, a Spalato, a Sitia realizza, negli anni a cavallo tra Cinque e Seicento, un lazzaretto: una struttura elementare, dotata del luogo di culto, di torri di guardia, di cortili; un recinto solo parzialmente coperto, o dei "tesoni" ai margini dell'abitato, più o meno lontani dai "borghi" fuori le mura, o, addirittura, come nella madre patria, confinati in isola (79). Sono spesso opere la cui realizzazione si trascina negli anni, lasciando le tracce murarie senza tetto, o restando da compiere il selciato, perché i materiali non giungono in tempo utile, riattate poi rapidamente nel momento del bisogno (80). I molti interventi su di esse della seconda metà del Settecento, connessi al riassetto portuale, sono da collegare alla rinnovata preoccupazione per l'andamento dei commerci, spesso in risposta alle nuove giurisdizioni esercitate lungo l'Adriatico, ma non sono che il rifacimento di quanto già esisteva in alcuni casi da quasi duecento anni. Ne conservano in generale la semplicissima struttura: numerose stanze ove isolare i malati, tenendoli divisi tra loro e da convalescenti e sospetti, uno spazio arioso di prevenzione e di cura, uno o due medici stipendiati e l'occorrente minimo all'assistenza degli ospiti; una separazione di percorsi, la vicinanza ai moli e alle spiagge, o alla costa di sbarco, la possibilità d'esporre all'aria le merci. Collocati in aree di primaria importanza per i traffici veneti, per le rotte d'esportazione, o per l'incremento della produzione agricola, o nei punti di rientro delle migrazioni stagionali dei braccianti dal territorio ottomano, o ancora come basi in una strategia di organizzazione del sistema difensivo, nei casi più importanti (Zara, Spalato), i lazzaretti s'inseriscono in un cordone di sanità, di cui fanno parte anche "stangate" mobili destinate alla segregazione dei contadini provenienti dalle zone infette, e "caselli". In definitiva, un sistema elastico, che si riaccende in occasione di epidemie e che, in periodi di normalità, torna invece ad essere costituito da semplici posti di guardia per le transazioni mercantili e l'inoltro di merci ritenute non suscettibili di contagio; un sistema di cui l'edificio ospedaliero non è che il più strutturato degli elementi che lo costituiscono.
A Zara, il complesso extraurbano, non lontano dalla famosa fontana dell'imperatore, è composto da un unico corpo di fabbrica a due piani, con un cortile quadrangolare cintato. A Spalato la fabbrica, fondata nel 1592 nel quadro dei molti investimenti effettuati intorno al porto, era probabilmente già costituita fin dall'inizio da tre cortili di contumacia ed espurgo, essendo destinata ad accogliere le enormi carovane turche; fu aggiunta forse successivamente, in concomitanza di una seconda ondata operativa in città tra 1607 e 1611, una quarta corte libera, detta "del Forno", la quale organizzava intorno a sé il corpo di guardia, l'alloggio dell'emiro turco, alcuni magazzini, i locali di servizio, il controllo di dogana con punta a mare per l'imbarco delle merci purificate. Infatti, in un periodo in cui, nonostante l'epidemia in atto, il senato aveva espresso la volontà di non rinunciare all'andamento dei flussi mercantili, erano state proposte due soluzioni alternative circa l'ampliamento del lazzaretto: l'una - quella vincente, sposata dai provveditori veneziani - lo prevedeva tra la dogana e le mura, in posizione tale da occupare in parte la piazzetta del mercato e restringere lo stradone che costeggiava il mare; l'altra, fatta propria dagli ambasciatori spalatini, lo voleva dietro al vecchio edificio, sul mare, poco discosto dalla città. Ragioni di costi, di apparente maggior disponibilità di spazio, decidono in questa fase a favore del primo progetto; alla chiusura quasi completa di porte e finestre verso l'esterno, corrisponde un unico sbocco verso il mare; due posti di sentinella ripristinano settori delle vecchie mura e perfino la vecchia torre del palazzo di Diocleziano (81). È un complesso di grandi dimensioni, sia rispetto alla città, che alla propria articolazione interna, predisposto sia per i mercanti che giungono per via di terra, che per quelli che arrivano per mare; eppure solo pochi anni sono sufficienti a farlo apparire di nuovo del tutto inadeguato, al punto che, su parere congiunto di più magistrati, con l'appoggio dell'ingegner Don Camillo e dopo un'esauriente perlustrazione dei luoghi, il senato giunge a ritenere la realizzazione di un lazzaretto Nuovissimo non più dilazionabile. E allora si arriva a costituire un sistema di disinfezione (che ha incorporato anche un preesistente convento), in cui ciascuno dei tre ospedali, il Vecchio, il Nuovo e il Nuovissimo, svolge una parte del compito complessivo, a seconda delle necessità di permanenza o del tipo di merci interessate. Ma ancora non basta, e la necessità di successivi ampliamenti verso est di corpi di fabbrica esistenti richiederà l'invio da Venezia di molti ducati (82). È certo che con la realizzazione del complesso ospedaliero, oltre che con le strutture portuali, con la fabbrica della dogana, con i magazzini e gli uffici di dazio già menzionati è l'intera forma urbana che si è andata modificando sensibilmente. Anche l'edilizia residenziale infatti si è sviluppata in direzione nuova, rispetto alla precedente espansione e al rigido schema del palazzo di Diocleziano, polarizzata tra il porto e le costruzioni recenti: ed è qui, in una città che si è totalmente rinnovata negli anni da noi presi in considerazione che, secondo i documenti e le cronache, si muovono in un incessante e colorato viavai carovane, folle di mercanti e navi cariche di ricchezze. A Cattaro, un'attrezzatura più semplice risponde però alle stesse esigenze funzionali: un unico corpo di fabbrica chiude uno dei due lati di un recinto trapezoidale prospicente un canale ed è collegato con un ponte al deposito delle merci. A Cefalonia, il pubblico manufatto esiste; ma è di "non soda struttura" se nel 1714 risulta essere rovinato al punto da richiederne la completa ricostruzione ad opera d'un ingegnere militare: la scelta su dove localizzare il nuovo lazzaretto cade però sul luogo dove restano le vestigia di quello seicentesco, "lontano quanto basta dall'abitato e dalle soprese dei Corsari sicuro".
Inoltre, cimiteri, distinti secondo riti religiosi, vengono costruiti a Traù, a Candia, a Zara: all'esterno del perimetro murario, come vera e propria attrezzatura urbana che discende da regole sanitarie osservate con rigore (83). Le carceri a Canea, i depositi di armi, attrezzi, munizioni a Candia, a Corfù, a Zara, un pontile di scarico dei sali a Potamò, i mulini a Cefalonia costituiscono altrettante attrezzature urbane o territoriali, spesso realizzate ex novo in contemporanea con operazioni d'ampliamento del porto, o con la stessa ridefinizione della cinta muraria. Anche se distribuite in modo non omogeneo, sono destinate ad organizzare nel suo insieme la struttura insediativa dello Stato da mare in un arco temporale non lunghissimo (una trentina d'anni, a cavallo tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento), in cui sembra essere maturato nell'intenzione dei più un disegno relativamente esplicito di rinnovamento, centrato su una specializzazione funzionale del territorio e sulla separazione nella città tra le parti più antiche, il centro medioevale e i borghi (84).
È coerente con queste scelte la volontà di dotare di pozzi, fontane e cisterne tutti i centri abitati (85). Non v'è pianta di città o di edificio singolo che non ne indichi la localizzazione, o il condotto d'approvvigionamento. L'assillante problema della disponibilità d'acqua di cui soffrono le isole del Levante e le città costiere, è affrontato alla fine del XVI secolo con il rigore di chi conosce i pericoli e l'importanza della sua qualità, con la secolare sensibilità di chi - come ricorda con estrema efficacia il Sanudo - "è in aqua et non ha aqua" (86) ed è quindi particolarmente sensibile alle questioni climatiche e ai vincoli stagionali.
La necessità di lavori eseguiti a regola d'arte, con assoluta perizia tecnica, come forma di controllo, risulta dai disegni e dalle notazioni formulate un po' dappertutto. A Corfù, non bastando la vena che esce dalla roccia del baluardo Spilea, occorre accomodare per il bisogno ordinario tutte le cisterne della cittadella e tenere in efficienza il bellissimo pozzo copioso d'acque fatto fare dal bailo Andrea Navagero. A Cefalonia, la cisterna annessa alle mura va opportunamente assicurata. A Zante, basta sfruttare opportunamente le caratteristiche naturali del luogo: incanalando le acque piovane che scendono dai monti, è facile predisporre un piccolo acquedotto. A Zara, a sud-est della città, nella zona detta delle Colovare, nello stesso punto in cui già nel Medio Evo si trovava una sorgente, fu istallata nel 1546 una fontana per il rifornimento delle navi: un pozzo poligonale, coperto da un padiglione monumentale con cupola (87).
Di alcuni di questi progetti sono del resto incaricati gli ingegneri più noti, tra quelli al servizio della Repubblica, per i quali pare esistere una circolarità di esperienze, una competenza specifica e settoriale (88). Valgano alcuni esempi. La cisterna detta dei cinque pozzi a Zara è realizzata dopo il 1537 dai Sanmicheli, con serbatoi di grande capacità, i quali sono poi in grado di vuotarsi in un istante, per essere "purgati": l'acqua pluvia vi concorre e vi è trattenuta in due recipienti; grossi muri sostengono le due grandi volte che s'incontrano sui piloni nel centro; dall'altro lato un muro a secco tramanda l'acqua filtrata per la ghiaia nei cinque recipienti o pozzi condotti sopra il piano dell'abitato. Se, per i due ingegneri, Michele e il nipote Gian Giacomo, "le opere romane di questo genere" avevano costituito un modello di riferimento, non possiamo non vedere un precedente di carattere tipologico, funzionale e di dettaglio architettonico anche negli esempi delle città di Terraferma (il quartiere militare di Porta Nuova e il castello di San Felice, entrambi a Verona) (89). Analogamente esemplari sul piano tecnico sono gli studi condotti per la raccolta idrica a Corfù tra 1565 e 1583 da Francesco Barbaro e dai provveditori alle fortezze; l'impegno per la realizzazione di cisterne e "condutti" dei molti rettori che si sono succeduti a Rettimo, a Canea; l'insieme di attrezzature proposte per la città di Candia, una vera e propria rete di servizio. "Scoperta certa vena d'acqua viva bonissima [...> condotta alla loza e pubblica piazza [...vi fu> fabbricata una bella fontana di pietra viva, [... incanalata poi anche> al molo fuori porta". Con l'acqua della fontana si vanno riempiendo le cisterne pubbliche e private, i cinque (e poi sette) invasi delle cisterne San Zorzi da costruire in corrispondenza della fossa vecchia e le altre sparse accanto alle case, per le quali, come per i pozzi, s'impone una continua, accurata manutenzione. Progetti iniziali e d'ampliamento sono spesso corredati da conteggi dei bisogni civili e militari e da elenchi delle spese da sostenere per l'escavo, da indicazioni estremamente precise circa i materiali, la "manifattura", la "smaltatura" del fondo, gli "scolatori" e le bocche delle cisterne, i dettagli di porte e "gattoli" (90). Del resto una delle ultime opere compiute dall'ingegner Verneda (91), poco prima della definitiva caduta in mano turca della metropoli del Regno, è la "fabbrica sontuosa" della fontana "nuova" Priuli, vicino alla porta di Tramontana, opera della quale si sottolinea emblematicamente l'assoluta irrinunciabilità civile, all'atto dell'estrema, disperata difesa militare. Dove una lunga tradizione, le competenze accumulate nei secoli dai proti delle magistrature deputate (92), l'invenzione di macchine per la pulizia dei pozzi, le conoscenze tramandate di generazione in generazione tra i membri delle associazioni d'arte si è tradotta in specificazioni meticolose e di dettaglio.
Accanto agli edifici d'uso collettivo, è poi il tessuto residenziale ad imporre le scelte più significative di strategia urbana: meritano un'attenzione particolare i nuovi alloggiamenti per le milizie, da destinare transitoriamente anche a privati, se necessario (93). Che la casa possa costituire ragione di conflitto tra popolazione locale, i molti stranieri presenti nei territori dominati, i Veneziani o, invece, motivo di benessere è un fatto noto ai magistrati. Come lo è il fatto che quantità complessiva e qualità degli spazi abitativi sono ad un tempo determinanti le condizioni del vivere civile in tempo di pace (94).
Nel 1538, il conte di Zara, Gerolamo Cicogna, esprime "odio" per chi ha autorizzato i soldati a risiedere in città e, dunque, a "sacheggiar la vita" (95). Circa trent'anni dopo, quella figura autorevole di politico che era Giacomo Foscarini, di cui già si è parlato, il quale copriva allora la carica di provveditore generale in Dalmazia, cosciente che interferenze tra ceti diversi e componenti etniche separate comportano ovunque difficoltà di governo, dimostra un atteggiamento analogo per il problema abitativo nel caso di Traù (96). Nonostante la città fosse allora, dopo Lepanto, "vuota" di cittadini, ben difficilmente vi si potevano "accomodare" i soldati utilizzandone i luoghi. Occorreva piuttosto realizzare un edificio nuovo nel forte, separato quindi, ma non lontano dalla residenza civile: per questo, erano necessari specifici materiali edilizi. Inviato a "far ordine", il provveditore sa che il suo compito primo è quello di rendere la città vivibile per tutti e, cioè, "netta" dal punto di vista fisico e da quello sociale; il che significa rilocalizzare alcune attività (e tra queste proprio quelle abitative) e avviare, ad un tempo, una serie di miglioramenti tecnici.
Qualche anno più tardi nel regno di Candia, è il grande quartiere San Giorgio a diventare un atto dimostrativo ed efficace: "cosa bellissima [...> importante [...> al fine di levar la disperazione dagli animi, [...esso anche> adorna mirabilmente la città". Voluto, dopo il 1575, dallo stesso Foscarini occupa uno dei luoghi più comodi, in area centrale, dietro le mura vecchie. Un lungo corridoio di distribuzione da ogni lato dell'edificio consente l'accesso alle stanze (97). Il complesso termina, ad un'estremità, con il corpo di fabbrica della casa del capitano, a spiegare la cui presenza non sono indifferenti obiettivi di controllo. Costruito secondo usi locali, in legno, cioè, e terrazzato, sopra un primo livello con pilastri in pietra (98), l'opera sarà ben presto "fradicia", quando non addirittura "caduta a terra". Essa dovrà essere ripristinata a distanza di soli quarant'anni, tra il 1625 e il 1626, secondo il progetto dell'ingegner Francesco Basilicata, il quale dichiara di informare materiali e tecniche ai "modi di costruire" della madre patria (99).
Tipologia, organizzazione interna, ingombro rievocano alcune abitazioni d'uso collettivo seicentesche nella campagna veneta. Spiovente del tetto, regolarità del porticato, ritmo delle aperture soprastanti binate, finitura in pietra di pilastri, chiavi di volta e cornici come unica forma di decoro ricordano alcuni dettagli di case a schiera costruite a Venezia, all'insegna della solidità e del massimo risparmio, nella seconda metà del Cinquecento. Ma i modelli di riferimento investono, si direbbe, soprattutto le tecniche edilizie, la struttura portante, un uso consapevole dei materiali disponibili (legno per i solai intermedi, coperto di tegole, pietra "lavorata di grosso e bene" per pilastri, 'archi, spallette e bancali), più che il linguaggio architettonico cui s'attribuisce forse un'importanza marginale. Il sapere e l'atteggiamento empirico dei proti al servizio della Repubblica possono e devono avere valore esemplare; anche se l'esito risente poi della circolazione delle maestranze, d'intrecci, di scambi inevitabili, di comunicazioni nell'area adriatica che si svolgono non tutte a senso unico.
Così accade nel quartiere Pasqualigo di Corfù, che con quello or ora esaminato presenta alcune analogie di localizzazione nel contesto urbano e di distribuzione interna. Realizzato come lungo corpo di fabbrica a tre piani, in prosecuzione del palazzo del provveditore generale, accanto alla darsena della fortezza vecchia, con una distribuzione regolare e simmetrica degli accessi e delle finestre delle abitazioni, esso è occupato in parte al piano terra da magazzini di galletta; costruito in modo analogo, richiede interventi di restauro nell'estate del 1632, quando si registra l'invio di grandi quantità di materiali da Venezia (100). Così, ancora, per il quartiere della Sabiona di Canea, tipologicamente simile (101) e per i Quartieroni, realizzati solo agli inizi del Seicento, dopo quasi cinquant'anni di insistenza circa la loro urgente necessità, tra la cittadella e la porta di Terraferma a Zara. Anch'essi erano costituiti da un edificio lungo e stretto, a tre piani con alloggi in serie lungo un corridoio, 22 in totale, per la cavalleria al piano terreno, per gli ufficiali al primo, per la soldatesca sopra ancora; anch'essi comprendevano alcuni magazzini al piano terra e terminavano con un palazzo del generale (102). Insomma uno schema distributivo semplice che si ripete molto simile a se stesso in tutti i casi analizzati. Ma la casa di città impone investimenti continui anche a Cattaro, dove è dappertutto "conzonta" alle mura e dove realizzare la "spianata" richiede un certo numero di demolizioni e il ripristino altrove. In quel caso, s'impone anche la costruzione di un palazzo per il rettore e per il cancelliere; in una tradizionale commistione d'attività, ad esso s'aggiungono, già in sede di progetto e poi con aggiunte successive tra il 1577 e il 1590, la camera pretoria e gli uffici per le pubbliche strutture (103). Qualche anno dopo, nella stessa Cattaro, Alvise Barbaro occupandosi delle abitazioni dei semplici soldati, come di quelle del rettore, del cancelliere e del cavaliere, ribadisce l'importanza di liberare locali che possono utilmente essere destinati ad altro uso e divenire così assai più redditizi in termini d'affitto. Eppure a distanza di soli quattro anni Zuanne Magno, di nuovo lamenta disordine e precarietà; e ancora nel 1627 il tono delle richieste di Pietro Morosini e nel 1629 di quelle di Paris Malipiero è tutt'altro che differente, essendo consapevoli entrambi che sui problemi abitativi si reggono gli equilibri precari della loro gestione (104).
Dovunque occorre essere pronti a spendere per la casa, soprattutto a spendere in modo più oculato: a Budua, dove i sindaci hanno provveduto all'invio di legname per la propria residenza; a Sebenico, dove i soldati abitano disuniti e sparsi per la città e la Serenissima è costretta ad inviare ben 55 ducati all'anno di affitto; a Zara dove, se anziché spedire denaro per l'affitto, si mandasse legname per accomodare le numerose stanze in cattive condizioni, si potrebbero risolvere i problemi dei soldati e dei cavalieri (105).
A Zara, l'organizzazione del cantiere, le molte maestranze, l'estrema frammentazione dei contratti, descritti nelle assai più tarde testimonianze settecentesche, sembrano avere, per secoli, riproposto modi di costruzione sperimentali nella città lagunare: alla spedizione di materiali destinati alle pubbliche fabbriche, fa seguito la cernita degli stessi da parte del "primo ingegnere"; in seguito, "protti, tagliapietra, muratori, fabri, legnaioli di cadauna specie in gran numero a spalle del Prencipe che tutto paga, vi si impiegano. Ne va gran tempo [...>" (106). Sembra cioè che struttura gerarchica delle decisioni e controlli incrociati vadano di pari passo con una moltitudine di competenze e di responsabilità parziali, in un'organizzazione del lavoro lenta, faticosa, i cui risultati non si misurano in termini d'efficienza.
In alcuni casi - Zara è sicuramente uno dei più significativi - la straordinaria densità abitativa della città vecchia suggerisce anche una strategia per il territorio circostante. Si ricorre ad una politica di colonizzazione della campagna, cioè all'edificazione o al riadattamento di ville e fattorie (107). Come già accaduto nella fertile campagna dei Lassiti, nel regno di Candia, dove tentativi di riforma della produzione agricola avevano imposto una riflessione sui caratteri e sulle potenzialità degli insediamenti sparsi, nonché significative opere di restauro e il ripristino di masserie e di case a "corte" (108), anche nella piana verso Sebenico, una scelta di riuso insediativo corrisponde al tentativo di un più adeguato sfruttamento delle risorse agrarie. Grandi ville abbandonate, muri a secco facili da ripristinare, serragli da completare, casoni cui basta aggiungere un tetto possono essere, per la gente che li ha lasciati, uno strumento di persuasione ad istallarvisi nuovamente, purché vedano che vi giunge denaro e legname, che è possibile organizzarvisi con animali e strumenti da lavoro. E intorno a Spalato, accanto ad un grosso borgo, le ville e i castelli dell'arcivescovo, i conventi di monache, altri nuclei consentono ai contadini di lavorare la terra, in una campagna che (come quella veneta) è intensamente abitata, utilizzata a fini produttivi, disegnata. Si ha l'impressione che in questi casi la trasposizione del modello operativo del magistrato sopra i beni inculti incida in modo determinante sui comportamenti; che talvolta essa non sia disgiunta perfino dalla speranza di riproporre una qualche forma di "magnificenza" civile dell'architettura extraurbana: si parla di "palaggi delitiosi", di statue, di giardini, di fontane, anche quando si conosce la situazione di danno o ruina, o di particolare degrado di un territorio. Per altro verso, categorie speciali di cittadini richiedono provvedimenti particolari. Si stabilisce un "loco separato per li hebrei" che abitano a Corfù, perché, come ci ricorda il Marmora, i Corfiotti sono "poco amici dei Giudei". Un ghetto appartato viene destinato a quelli di Spalato, divenuti particolarmente ricchi e potenti e legati ai Levantini di Venezia, perché emarginandoli si fa cosa grata agli Spalatini. Con 29 o 30 appartamenti cui siano annessi magazzini da dare in affitto, vicini alla dogana, essi potranno mercanteggiare liberamente e ripagare la Signoria delle tante spese effettuate. E che in quegli anni i conflitti abitativi e il sistema di alleanze risultassero particolarmente difficili da governare e per questo imponessero provvedimenti e limiti che avevano a che fare con lo spazio urbano, lo confermano i consultori in jure, quando richiamano all'ordine l'arcivescovo di Spalato a proposito del monitorio che egli ha da poco emanato contro gli Ebrei: giusto è affiggere in città nei luoghi deputati le bolle papali circa le cose proibite ai Giudei, se queste hanno risvolti civili, ma non se riguardano questioni spirituali.
Un borgo fuori le mura è riservato ai vagabondi di Zara, come a quelli di Spalato (109). Non senza esitazioni, un quartiere oltre la cinta è lasciato ai contrabbandieri di Candia; più volte vi si ipotizzano demolizioni o si fissano limiti rigidi agli interventi privati. I magistrati della Serenissima si preoccupano di far abitare in modo degno tutti coloro che, sparsi per la città, provocherebbero disordini e scandali, o contrabbando, e che invece, se obbligati nelle molte case "rotte" da riattare all'uopo, potrebbero arrecare beneficio all'intera città. Attraverso la casa perseguono in modo esplicito un duplice vantaggio, in termini di recupero a fini residenziali di un patrimonio in rovina e in termini di pace sociale. In effetti, quando si parla d'abitazione, le politiche sociali e le politiche urbanistiche s'intrecciano di continuo. Restrizioni per l'edilizia residenziale in aree di rispetto lungo tutta la fascia costiera e deroghe o concessioni parziali sono pratiche cui il senato e i provveditori fanno ricorso in modo oscillante (110), al fine d'organizzare l'insediamento urbano. Nella città, separare abitanti diversi appianando i conflitti che tra loro esistono, senza ledere i diritti dei singoli, significa sforzarsi di "peccare piuttosto in misericordia che in severità", significa anche da un lato far ricorso a strategie urbane generali, dall'altro mettere a disposizione manufatti edilizi specifici per offrire un minimo di garanzie alle minoranze, purché se ne conoscano le diversità (111).
In definitiva, nell'insieme degli interventi edilizi presi finora in considerazione, emergono come tratti comuni un'estrema cautela nell'innovazione, una lentezza considerevole nella presa di decisioni operative e poi nell'esecuzione, una sfiducia per i cambiamenti radicali. Quest'inerzia che attiene alle scelte di governo, come alle forme del costruito, viene spesso giustificata come volontà di recupero dei valori del passato, come rispetto per la "tradizione" (nel senso etimologico del termine), oltre che come sintomo di saggezza (all'insegna del risparmio) nel riutilizzo delle vecchie pietre. Sono del resto comportamenti ben noti a Venezia.
Soprattutto trattando di un periodo di consolidamento istituzionale, non è sempre facile non restare condizionati da una sorta di autolegittimazione che traspare nelle fonti utilizzate: tuttavia, al di là delle cose dette dai magistrati che difendono i modi del loro operato, è certo vero che in materia di fabbriche i Veneziani oscillano continuamente tra incapacità, incertezze, scelte precise, ma frammentarie; ma è anche vero che negli stessi anni, nei punti strategici del Dominio si riscoprono valori dimenticati, nonché qualche volta materiali e modi di costruire oramai completamente sconosciuti; e che senza cancellarli vi si vogliono sovrapporre le tracce del proprio passaggio. Nella sua relazione di sindaco in Dalmazia, Giovanni Battista Giustinian lo ricorda con una precisione analitica superiore a quella di altri magistrati, segnalandoci dunque una sensibilità particolare e sua personale alla perfezione delle tecniche costruttive e un'inedita attenzione sperimentale, ma non esulando di fatto dallo schema del tipico rapporto di fine mandato, che da un lato rende conto dell'esistente e di ciò che è stato compiuto in nome della Signoria, dall'altro elenca con toni più o meno drammatici quanto resta da fare.
A Sebenico, il duomo è di marmo bianco tutto, dentro e fuori, un'architettura meravigliosa le cui pietre sono legate con una calce speciale impastata con chiara d'uovo; nella bella piazza è stata fabbricata una straordinaria loggia, proprio sopra uno scoglio sul mare. A Salona, i volti e gli archi di pietra finissima del teatro fanno la magnificenza stessa della città; la sola grande colonna marmorea in tre pezzi rimasta ancora in piedi indica l'antico arsenale verso la marina; molti archi di meravigliosa bellezza, sostenuti da colonne altissime, evocano l'acquedotto che portava acqua dalla stessa Salona a Spalato.
E lì, nella città di Diocleziano, il tempio di Giove, posto in mezzo al palazzo, è di forma rotonda a guisa di moschea, marmoreo, incatenato con ferri e piombo e con un legante tra pietra e pietra fatto con la chiara d'uovo anziché con la solita calcina, la cui composizione è ora totalmente sconosciuta. Il tempio è attualmente usato come chiesa cattedrale: le sue pietre sono poste in tal ordine e con sì giuste proporzioni, da essere sempre uguali, prese da sotto o da sopra indifferentemente, cominciando da terra o dalla sommità; le 14 colonne di ben 13 piedi e mezzo, tutte d'un pezzo, che lo circondano a corona, sono fatte d'un impasto marmoreo anch'esso, ma più duro, tanto da non poter essere lavorato col ferro, come si è avuto modo di sperimentare recentemente; reggono una cornice, sulla quale poggia il coperto, con un camminamento che gira tutt'intorno al tempio stesso. Dello stesso materiale sono costruite le 8 colonne interne. "Superbissimi" sono gli architravi, i capitelli e le cornici, sopra le quali posano altre 8 colonne più basse, quattro delle quali di marmo serpentino e quattro di porfido che a loro volta, con i loro architravi, capitelli e cornici, sostengono il colmo del tetto. Nell'ammirazione profonda per gli elementi costruttivi e per le forme, per la loro capacità di resistere all'usura del tempo che incontra nei luoghi di sua competenza, il Giustinian esprime con un'enfasi davvero emblematica tutta la sua volontà di conservazione.
Ma allora non è soltanto la fantasia dei pellegrini in viaggio per Gerusalemme che resta colpita dall'importanza dei segni d'antiche civiltà: la ricchezza insediativa diventa tra Cinque e Seicento una ragione d'orgoglio e di splendore, anche per la Repubblica e in qualche modo ne condiziona gli interventi. Candia, l'isola delle "cento antiche Città", dal XV secolo in poi è rappresentata nell'iconografia, è celebrata dai viaggiatori d'ogni paese per l'enorme numero, l'articolazione e la bellezza dei suoi borghi: ma la consistente presenza urbana lungo le coste del "Golfo", le stratificazioni della storia, i segni nei monumenti costruiti, il lavoro incorporato nei muri, nelle porte, nelle chiese, nei teatri, nei palazzi e nelle case private, nei templi, nelle statue e nelle fontane sono a lungo considerati dai tecnici veneziani una memoria da conservare, un ornamento da non distruggere. Chi, non veneziano, ma perito al servizio della Repubblica è stato inviato a compiere un sopralluogo nell'isola e a formulare proposte di intervento progettuale descrive con entusiasmo "Vestigie et Rovine, come Acquedotti, Ponti, Muraglie et altre Antichità, quali dimostrano d'esser state città". Con gli stessi toni, anzi, con maggior precisione nell'informare circa i dettagli architettonici, altri stranieri assunti dalla Serenissima registrano la permanenza, dopo tanti secoli, di "spettabili reliquie di superbi edifici" nella città antica di Pola, colonia dei Romani. "Questa Repubblica celebre in tutto il mondo ama gli ornamenti del suo potentissimo Dominio" (112). Ed è su tutto questo che nel lungo periodo si stratificano usi, conflitti e nuovi simboli; le fabbriche, gli interventi edilizi lasciano un'impronta nella struttura urbana e la modificano; i modi, i tipi, i materiali imprimono tracce nell'architettura; gli stemmi, i fregi, i leoni alati si esibiscono come memorie nel costruito, lanciano messaggi e si propongono, ogni tanto, come tentativi dichiarati di "incoraggiare" con l'esempio la popolazione dominata.
Come interpretare questi segni? Esito di scelte attente ed articolate di strategia urbana, sia pure attuata attraverso infinite esitazioni? O strumento limitato d'una politica, che s'avvale consapevolmente anche di riferimenti architettonici e linguistici? O piuttosto necessità di esibire una presenza di dominio, che pare talvolta particolarmente precaria e quasi quotidianamente messa in discussione dai molteplici interessi in gioco?
Credo che nelle numerose opere pubbliche realizzate tra Cinque e Seicento nelle città e nel territorio che ci interessano si ritrovino spinte contraddittorie, tutte presenti nei criteri della Dominante e capaci di spiegarne alcuni comportamenti. Le motivazioni sono avvalorate, nell'un caso e nell'altro, da attestati e delibere ufficiali. Forse, più semplicemente, in ogni magistrato veneziano inviato nelle città dello Stato da mare, a "distinguerne le qualità" per governarle, si nasconde un'attitudine a "partire" sempre da un primo modello, che resta implicito ... quello conosciuto e sentito come totalizzante della stessa Venezia. In definitiva, anche in questo caso, come spesso nei confronti dei paesi coloniali, pare riscontrabile un'attitudine a riproporre (o ad esportare) esperienze, procedure, tecniche, linguaggi, modi di operare rassicuranti, perché già sperimentati nella madre patria.
1. Gaetano Cozzi, La politica del diritto nella Repubblica di Venezia, in Id., Repubblica di Venezia e Stati italiani, Torino 1982, pp. 227-261.
2. A.S.V., Consultori in Jure, f. XIII, c. 627, 8 gennaio 1620 (m.v.); cc. 98-99, 19 gennaio 1617 (m.v.).
3. Ennio Concina, città e fortezze nelle "tre isole nostre del Levante", in AA.VV., Venezia e la difesa del Levante, Venezia 1986, pp. 184-194.
4. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 79, Relazione di Alvise Giustinian, fu provveditore generale a Candia, 9 settembre 1591, c. 1.
5. Ibid., b. 81, Relazione presentata et letta nell'Ecc.mo Collegio da Francesco Zen, ritornato da duca di Candia, 6 aprile 1622, c. 1.
6. Ibid., b. 80, Relazione di Lorenzo Contarini, ritornato da provveditore generale, 18 aprile 1636, c. 47; Consultori in Jure, f. XV, c. 312, 22 novembre 1622.
7. Valga per tutti l'esempio delle Relazioni dei rettori e provveditori di Cattaro che si sono succeduti tra il 1588 e il 1602 (tutte contenute nella b. 65 del citato fondo Collegio, Relazioni, dell'A.S.V.) e simili a quelle relative ad altri luoghi del Dominio: in particolare le Relazioni di Andrea Gabriel, 23 luglio 1588; di Zuanne Lippomano, 1594; di Alvise Barbaro, 5 luglio 1596 e di Antonio Grimani, 12 agosto 1602.
8. Ibid., b. 65, Relazione di Andrea Gabriel; b. 87, Relazione del N.H. Paulo Basadonna, ritornato da provveditore in Zante, 24 ottobre 1622.
9. Ibid., b. 71, Relazione di Antonio di ca' Pesaro, conte e capitano di Sebenico, 22 dicembre 1593.
10. Ibid., b. 63, cc. 48r-58r, Relazione di Vincenzo Morosini, capitano di Zara, 1589; b. 87, Relazione del N.H. Paulo Basadonna.
11. Ibid., b. 71, Relazioni di Vettor Dolfin da Sebenico, 29 dicembre 1597; Lorenzo Baffo da Sebenico, 9 marzo 1604; Lunardo Giustinian, conte e capo di Sebenico, 25 marzo 1606; Girolamo Lippomano, conte e provveditore di Sebenico, 27 gennaio 1613 (m.v.); Pietro Morosini, conte di Sebenico, 1620.
12. Ibid., b. 70, Relazione di Giovanni Battista Giustinian, sindaco in Dalmazia, 1553; b. 63, cc. 44r-47v, Relazione di Alvise Loredan q. Lorenzo, fu conte e capitano di Spalato, 1580.
13. Ibid.
14. Ibid., b. 72, Relazione di Antonio Lippomano, conte e capitano di Spalato, 11 marzo 1628.
15. Ibid., b. 65, Relazione di Paris Malipiero, 1629.
16. Ibid., b. 63, cc. 44r-47v, Relazione di Alvise Loredan q. Lorenzo; cc. 64v-76v, Relazione di Nicolò Correr, conte e capitano di Spalato, 13 giugno 1583; b. 72, Relazione di Lunardo Bollani, conte e capitano di Spalato, 3 aprile 1600.
17. Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, I-II, Torino 19762, pp. 323-334.
18. A.S.V., Senato Terra, reg. 31, c. 155v, 20 luglio 1541.
19. Ivi, Senato Mare, reg. 50, cc. 58v-60r, 27 luglio 1589; Inquisitori agli Ebrei, b. 45, cc. 386r-387v, 27 luglio 1589; e a dieci anni di distanza la "ricondotta" in Senato Terra, reg. 69, cc. 94r-95v, 6 ottobre 1589.
20. Ivi, Collegio, Relazioni, b. 72, Relazione di Alvise Loredan, 18 agosto 1580 e di Marco Barbarigo, 31 luglio 1586, ritornati entrambi da conte di Spalato.
21. Ivi, V Savi alla Mercanzia, II serie, b. 63, f. 108, c. 7, 20 giugno 1590.
22. Renzo Paci, La scala e la politica veneziana in Adriatico, "Quaderni Storici", 13, 1970, pp. 48-105; Benjamin C.I. Ravid, The First Charter of the >ewish Merchants of Venice 1589, "Association for the Jewish Studies Review", I, 1976, pp. 187-222; Brian Pullan, Gli Ebrei d'Europa e l'Inquisizione a Venezia dal 1550 al 1670, Roma 1980; Pier Cesare Ioly Zorattini, Processi del Sant'Uffizio contro Ebrei e Giudaizzanti, Firenze 1982; Renzo Paci, Gli ebrei e la "scala" di Spalato alla fine del Cinquecento, in Gli Ebrei a Venezia, a cura di Gaetano Cozzi, Milano 1987, pp. 829-834.
23. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 63, Relazione di Nicolò Correr; b. 72, Relazione di Bartolomeo Pisani, conte e capitano di Spalato, 13 luglio 1629.
24. Ivi, V Savi alla Mercanzia, b. 162, 6 marzo 1593.
25. Ivi, Collegio, Relazioni, b. 72, Relazione di Baldassar Contarini, ritornato da conte di Spalato, 16 giugno 1597; Simon Luzzatto, Discorso sopra il stato degl'hebrei et in particolar dimoranti nell'inclita città di Venetia, Venetia 1638, c. 18v; Nicolò Contarini, Historie veneziane, in Gaetano Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, p. 341.
26. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 79, Relazione di Zuanne Mocenigo, ritornato provveditore generale a Candia, 17 aprile 1589.
27. Ibid., b. 63, Relazione del N.H. Hieronimo Tiepolo, ritornato da provveditor di Cefalonia, 8 novembre 1584; b. 81, Relazione di Francesco Molino, ritornato da generale a Candia, 1632, C. 2V.
28. A puro titolo d'esempio, tra le relazioni più sensibili a questioni di tale tipo, cf. ibid., b. 79, Relazioni di Luca Michiel, ritornato da provveditore generale del Regno, 13 agosto 1580; Relazione di Alessandro Priuli, ritornato da provveditore generale del Regno, novembre 1603; b. 81, Relazione di Dolfin Venier, ritornato da duca di Candia, 9 gennaio 1610; cf. inoltre ivi, Senato Mare, reg. 99, cc. 197v e 198r, 3 agosto 1641; e la tabella demografica in AA.VV., Venezia e la difesa del Levante, Venezia 1986, p. I07.
29. Per gli inventari depositati all'Arsenale, stilati il 10 gennaio 1797, cf. Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2955; Giuseppe Gerola, I plastici di fortezze venete al Museo Storico Navale di Venezia, Venezia 1931; Ennio Concina, La macchina territoriale, Bari 1983, p. 183; Pietro Marchesi, Fortezze veneziane, 1508-1797, Milano 1984, pp. 197-213.
30. A.S.V., Senato Mare, reg. 104, cc. 101v-102r, 4 maggio 1646; reg. 102, c. 173r-v, 2 settembre 1644.
31. Viaggio de le Provincie di Mare della Signoria di Venetia [...> di Angielo degli Oddi Padovano, Venetia 1594, Udine, Archivio Arcivescovile, ms. 109.
32. Ennio Concina, Navis. L'umanesimo sul mare, Torino 1990, cap. II.
33. Giorgio Corner, Il regno di Candia, Candia 1625, Venezia, Museo Correr, ms. it. VI. 75 (= 8303).
34. Giorgio Clontza, Historia ab origine mundi, Venetia 1590, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. gr. VII. 22 (= 1466).
35. Andrea Marmora, Della Historia di Corfù, Venetia 1672.
36. Citato in Alvise Zorzi, Una città, una Repubblica, un Impero. Venezia 697-1797, Milano 1980, p. 116.
37. Come emerge da uno spoglio sistematico degli argomenti trattati nei documenti del fondo Senato Mare dell'A.S.V., ad esempio tra 1560 e 1660.
38. Ivi, b. 87, Relazione del N.H. Bernardo Contarini, ritornato dal reggimento di Zante, agosto 1582; Relazione di Antonio da Molin, provveditore a Zante, 11 gennaio 1642 (m.v.); Relazione di Zuanne Molin, marzo 1644, con allegata la Relazione di Nicolò Gentilini, ingegner; Relazione di Francesco Donato, ritornato da provveditore di Zante, 2 agosto 1614.
39. Ivi, Senato Mare, reg. 44, 12 luglio 1580, c. 222v.
40. Mai nessuno prima di luì aveva coperto contemporaneamente i tre incarichi, a ciascuno dei quali corrispondono ben precise mansioni, come spiega lo stesso Foscarini nella premessa alla sua relazione: Rellatione dell'Eccellentissimo Signor Giacomo Foscarini Provveditor Generai in Candia l'anno 1575, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. VII. 631a (= 7476). Cf. anche F. Braudel, Civiltà e imperi, I, p. 149; Zvi Ankori, Giacomo Foscarini and the Jews of Crete. A Reconsideration, in Sami Michael, The Diaspora Research Institute, Tel Aviv 1981, pp. 9-118.
41. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 63, Relazione di Nicolò Correr, 13 giugno 1583; b. 65, Relazione di Gerolamo Pisani, rettore e provveditore di Cattaro, 19 giugno 1590. Cf. anche Alessandra Sartori, Spalato rinascimentale, tesi di laurea, Dipartimento di Storia dell'Architettura dell'IUAV, a.a. 1986-1987.
42. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 87, Relazione del N.H. Paulo Basadonna; Relazione del N.H. Bernardo Contarini; Relazione del N.H. Bartolomeo Paruta, ritornato da provveditore del Zante, 11 dicembre 1592; Relazione di Francesco Loredan, venuto provveditor dal Zante, 27 giugno 1601; Relazione alla S.V. di me Almorò Barbaro del mio ritorno dal reggimento del Zante; 24 aprile 1618.
43. Ibid., Relazione del N.H. Simon Cappello, ritornato da provveditore a Cerigo, 11 luglio 1601.
44. Ibid., b. 79, Relazione di Giovanni Mocenigo, ritornato da provveditore generale del Regno, 17 aprile 1589, c. 84v.
45. Per il sale, ad esempio, oltre che per il rapporto tra colture di biave e impianto di vigne, cf. ivi, Senato Mare, reg. 55, c. 87v, 12 luglio 1594; c. 196r, 11 agosto 1595; c. 236v, 23 novembre 1595; ma anche, a distanza di molti anni, reg. 102, c. 26r, 5 marzo 1644; cc. 177v e 178r-v, 10 settembre 1644; c. 40r-v, 3 dicembre 1644.
46. Ibid., reg. 44, c. 121v, 14 marzo 1579; c. 222V, 12 luglio 1580; reg. 47, cc. 144v-145r, 21 febbraio 1585.
47. Ipotesi riformulate anche queste più volte nei decenni successivi: cf. ad esempio le iniziative prese nel 1626 dal capitano Nicolò Valier nei riguardi di terreni "inafittati, inculti e non seminati": ivi, Collegio, Relazioni, b. 81, Relazione di Nicolò Valier, ritornato da capitano di Candia 1626. O le proposte fatte per l'Istria al governo veneziano nel 1620 dal consigliere militare Pietro Matteucci, citate in G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, p. 236.
48. A.S.V., Senato Mare, reg. 37, c. 252r, 31 gennaio 1566 (m.v.).
49. Ivi, Collegio, Relazioni, b. 87, Relazione del N.H. Piero Bondumier, ritornato da provveditore di Zante, 22 febbraio 1602.
50. Cf. l'opinione di Sforza Pallavicino su Corfù (1557) in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 3245.
51. Probabilmente palermitano di nascita, ma sicuramente a Candia, al servizio della Repubblica, almeno dal 1612 al 1638.
52. Francesco Basilicata, Relatione di tutto il Regno di Candia, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. VII. 1683 (= 8976), c. 17.
53. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 81, Relazione di Antonio Mocenigo, ritornato da capitano generale del Regno, 1615.
54. F. Braudel, civiltà e imperi, I, pp. 149-151.
55. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 78, Relazione di Luca Michiel, ritornato da provveditore generale del regno di Candia, 13 agosto 1580, cc. 54v-55r.
56. Leonardo Querini, Descrittione di tutta l'Isola di Candia di tutte le sue città, Castelli, Ville, Monti, Fiumi principali et altre cose notabili et la quantità, perfettione delle fortezze sue, come può essere assaltata l'Isola da Turchi, et come difesa, i presidi che vi sono, le forze et utile che ne cava la Signoria et altri particolari di momento, fatta da un nobile Venetiano, Dedicato al capitano generale del regno di Candia Pietro Zane, 1 maggio 1583, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 9445.
57. Onorio Belli (1550-1604) di Vicenza è il fratello di Valerio amico e biografo di Andrea Palladio. Le sue lettere e i disegni di antichità di Candia sono conservati in Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. D. 138, inf. 3.
58. Antonio Magrini, Scritture inedite in materia di Architettura di Onorio Belli, Ottorino Bruno Orefici ed Ottone Calderari, Padova 1847; Federico Berchet, La loggia veneziana di Candia, "Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 61, 1901-1902, pp. 1-17.
59. A.S.V., Senato Mare, reg. 73, c. 90, 18 agosto 1615.
60. Ivi, Collegio, Relazioni, b. 81, Relazione di Antonio Mocenigo, ritornato da capitano di Candia, 20 giugno 1615.
61. Alberto Tenenti, The Sense of Space and Time in the Venetian World of the Ffteenth and Sixteenth Centuries, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, p. 19 (pp. 17-46) (trad. it. Il senso dello spazio e del tempo nel mondo veneziano dei secoli XV e XVI, in Id., Credenze, ideologie, libertinismi tra medioevo ed età moderna, Bologna 1978, pp. 75-118).
62. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 66, Relazione di Giacomo Foscarini, provveditore generale in Dalmazia; b. 62, Relazione di Nicolò di Priuli, 1 marzo 1575 (entrambe relative alla città di Traù); b. 63, Relazione di Nicolò Marcello, capitano di Zara, 4 dicembre 1585, c. 175v; Relazione di Vincenzo Morosini, 1589, cc. 48r-58r; b. 66, Relazione di Lorenzo Venier, provveditore generale in Dalmazia e Albania, 1 marzo 1616 (relative tutte alla città di Zara); b. 65, Relazione di Vincenzo da Canal, rettore e provveditore di Cattaro, 11 aprile 1 584 (relativa a Cattaro); b. 72, Relazione di Andrea Renier, conte e capitano di Spalato, 23 settembre 1602; Relazione di Paolo Trevisan, conte e capitano di Spalato, 9 maggio 1605; Relazione di Marino Garzoni, 19 dicembre 1619 (relative a Spalato).
63. Ibid., b. 72, Relazione di Lunardo Bollani, ritornato da conte e capitano di Spalato, 3 aprile 1600; Relazione di Andrea Renier; Relazione di Paolo Trevisan; Relazione di Cesare Dolfin, conte e capitano di Spalato, 22 aprile 1611; Senato Mare, reg. 71, c. 78v, 21 gennaio 1612 (m.v.); Dispacci dei rettori [di Dalmazia al Senato>, b. 46, Relazione di Gio. Pietro Marchi, 23 luglio 1641; Relazione di Girolamo Querini, 18 luglio 1641 (accompagnata da un disegno del porto).
64. Ivi, Collegio, Relazioni, b. 66, f. 9, cc. 4v-5r, Relazione di Lorenzo Venier, provveditore generale in Dalmazia, 1 marzo 1616; cf. anche Marina Morcellin, Zara rinascimentale, tesi di laurea, Dipartimento di Storia dell'Architettura dell' IUAV, a. a. 1986-1987.
65. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 87, Relazione presentata dal N.H. ser Iseppo, ritornato da provveditor a Cerigo, 9 aprile 1620; Relazione di Francesco Loredan, 27 giugno 1601; Senato Mare, reg. 39, c. 97r, 7 settembre 1569.
66. Ivi, Senato Mare, reg. 39, c. 97r, 7 settembre 1569.
67. Ivi, Collegio, Relazioni, b. 66, Relazione di Domenico da Molin, conte di Spalato, 1596; Relazione di Giacomo Foscarini, citato per le Beccherie di Traù; Senato Mare, reg. 78, cc. 60v-61r; reg. 81, c. 120, per le Beccherie di Corfù; b. 65, Relazione di Antonio Grimani, rettore e provveditore di Cattaro, 12 agosto 1602.
68. Ivi, Collegio, Relazioni, b. 65, Relazione di Andrea Gabriel, provveditore di Cattaro, 15 novembre 1601, che dichiara di aver fatto costruire edifici a Cattaro analoghi a quelli in precedenza fatti fare a Bergamo.
69. Rellatione dell'Eccellentissimo Signor Giacomo Foscarini.
70. A.S.V., Provveditori da terra e da mar, 1577, f. 740, dis. sciolto n.n., datato sul verso 22 aprile 1577. Il progetto è allegato alle carte (del periodo marzo-agosto 1577) del cavalier Giacomo Foscarini, provveditore generale, inquisitore e sindaco del regno di Candia, nelle quali si specifica che, delle 29 botteghe previste, 9 sono già completate, 14 sono in costruzione e 6 da fabbricare ex novo, come risulta dalle indicazioni riportate sul disegno. Si specifica inoltre che due dei piani superiori sono da realizzare con solaio a travi in legno, il terzo sarà coperto a volta. Cf. Donatella Calabi, Il Regno di Candia e le "fatiche" del governo civile: le "cento città", le popolazioni, le fabbriche pubbliche, in AA.VV., Venezia e la difesa del Levante, Venezia 1986, pp. 97-106.
71. Donatella Calabi - Paolo Morachiello, Rialto: le fabbriche e il ponte, Torino 1987.
72. A.S.V., V Savi alle mercanzie, b. 162, 28 ottobre 1577; 6 marzo 1593; Collegio, Relazioni, b. 72, Relazione di Daniel Da Molin q. Zuanne conte e capitano di Spalato, 11 ottobre 1594; b. 66, Relazione di Domenico da Molin; b. 72, Relazione di Lunardo Bollani; b. 72, Relazione di Andrea Renier.
73. Ivi, Senato Mare, reg. 54, c. 73v, 24 luglio 1593.
74. Ivi, Dispacci dei rettori, b. 12, Relazione di Giacomo Contarini, 20 febbraio 1614 (m.v.); Senato Mare, reg. 71, c. 26v, 20 settembre 1612.
75. Ivi, Senato Mare, reg. 59, c. 23v, 4 marzo 1599 (per Cefalonia); Collegio, Relazioni, b. 66, Relazione di Giacomo Foscarini (per Traù); b. 71, Relazione di Ambrosio Corner, conte di Sebenico, 15 gennaio 1617 (m.v.) (per Sebenico); b. 63, Relazione di Vincenzo Morosini; b. 72, Relazione di Alvise Zorzi, ritornato da provveditore a Zara, 1629 (per Zara); Senato Mare, reg. 61, c. 130, 7 dicembre 1601; Collegio, Relazioni, b. 87, 27 luglio s.d. ma 1771 (con riferimenti al 1576 per il fondaco delle biade e al 1670 per il Monte di pietà) (per Zante); b. 65, Relazione di Zuanne Loredan, rettore e provveditore di Cattaro, 10 ottobre 1592; Relazione di Alvise Barbaro; Relazione di Antonio Grimani; Relazione di Francesco Dolfin; Relazione di Pietro Morosini rettore e provveditore di Cattaro, 1 giugno 1627 (per Cattaro); Relazioni di Alvise Loredan q. Lorenzo, 1580, cc. 44r-47v, e di Nicolò Correr, 13 giugno 1583, cc. 64v-76v, entrambi e, in tempi successivi, conte e capitano di Spalato (per Spalato).
76. Ivi, Senato Mare, reg. 78, cc. 60v-61 r; reg. 81, c. 120; Venezia, Museo Correr, ms. P.D.C. 862/4-5.
77. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 65, Relazione di Antonio Grimani, rettore e provveditore di Cattaro, 12 agosto 1602.
78. E. Concina, Città e fortezze, pp. 184-194; A.S.V., Senato Mare, reg. 37, c. 183 (per Corfù), 20 maggio 1566; reg. 46, cc. 64v-65r, 15 luglio 1583; Collegio, Relazioni, b. 80, Relazione di Jacopo da Riva cavaliere, 10 novembre 1653 (per Candia).
79. A.S.V., Senato Mare, 16 settembre 1569, reg. 39, c. 101 v, 16 settembre 1569; reg. 49, cc. 112v-113, 10 settembre e 23 dicembre 1588; 161 r (per Corfù); Collegio, Relazioni, b. 63, Relazione di Alvise Loredan (per Spalato); Relazione di Vincenzo Morosini (dalla quale si evince la localizzazione del "lazzaretto Vecchio" di Zara); Raffaello Monanni, Descrizione topografica di Candia, Candia 1631, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. VII. 889. (= 7798) (per Sitia). Cf. inoltre: Ennio Concina, Lazzaretti degli Stati da mar, in AA.VV., Venezia e la peste, Catalogo della Mostra, Venezia 1979, pp. 178-185.
80. Come certificano le numerose testimonianze dei conti, dei capitani, dei provveditori alla Sanità di Spalato: A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 72, Relazione di Andrea Renier, provveditore alla Sanità, 24 settembre 1611; Relazione di Marin Mudazzo, conte e capitano e provveditore alla Sanità di Spalato, 26 giugno 1614; Relazione di Marino Garzoni, conte e capitano di Spalato, 19 dicembre 1619; Relazione di Antonio Lippomano, conte e capitano di Spalato, 11 marzo 1628.
81. Ivi, Provveditori da terra e da mar, f. 423, Relazione di Marc'Antonio Venier, 13 ottobre 1609; Senato Mare, reg. 6g, c. 77, 30 gennaio 1609 (m.v.), c. 129v, 12 agosto 1610; Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 3246/1, 1609; cf. anche Misc. P.D., 306/c X, Relazione di Cesare Dolfin, 1611; A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 72, Relazione di Andrea Renier provveditore alla Sanità, 24 settembre 1610.
82. A.S.V., Senato Mare, reg. 72, c. 47, 1 maggio 1614; V Savi alle mercanzie, b. 162, 1 maggio 1614; Collegio, Relazioni, b. 72, Relazione di Marin Mudazzo, conte e capitano e provveditore alla Sanità di Spalato, 26 giugno 1614; Dispacci dei rettori, b. 14, Relazione di Giacomo Contarini, conte di Spalato, Ottavio Mocenigo, conte degli Uscocchi e Francesco Tron, conte di Traù, 22 aprile 1615; Collegio, Relazioni, b. 72, Relazione di Marin Garzoni, conte e capitano di Spalato, 19 dicembre 1619; Senato Mare, reg. 82, c. 215, 28 ottobre 1624; b. 72, Relazione di Antonio Lippomano, conte e capitano di Spalato, 11 marzo 1628.
83. Ivi, Collegio, Relazioni, Relazione di Giacomo Foscarini.
84. AA.VV., Venezia e la difesa del Levante, scheda 208.
85. D. Calabi, Il Regno di Candia, e E. Concina, Città e fortezze, rispettivamente pp. 103-104 e schede 186 e 187 e pp. 186-187.
86. Marino Sanudo, Cronachetta, a cura di Rinaldo Fulin, Venezia 1880, p. 63.
87. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 63, c. 98, Relazione del N.H. Benedetto Erizzo, ritornato da provveditore e capitano a Corfù, s.d. [ma 1582-1584>; Relazione del N.H. Hieronimo Tiepolo; Relazione del N.H. Bernardo Contarini, ritornato dal reggimento di Zante, agosto 1582; M. Morcellin, Zara rinascimentale.
88. Michele Sanmicheli ingegnere veronese (con il nipote Gian Girolamo) è coinvolto nella progettazione di opere di fortificazione e delle cisterne di Zara; a Giacomo Fiumicello è affidata la sovrintendenza di quelle alla Versiada (Corfù); Angelo degli Oddi, ingegnere veneziano, al seguito del provveditore generale Benedetto Moro nel 1600-1602, firma il disegno (allegato alla minuta d'una lettera datata 8 giugno 1600) per quelle di Candia e Francesco Basilicata, originario forse di Palermo, ma attivo in Levante almeno dal 1612, il disegno (datato 1627) di ampliamento delle stesse; le schede di D. Calabi, in AA.VV., Venezia e la difesa del Levante, pp. 119-120.
89. Francesco Ronzani - Girolamo Lucciolli, Le fabbriche civili, ecclesiastiche e militari di M. Sanmicheli, Torino 1892, p. 13, tav. IV.
90. E. Concina, Città e fortezze, pp. 186-187; D. Calabi, Il Regno di Candia, pp. 119-120.
91. Soprintendente alle fortificazioni e all'artiglieria, progettista, di lui restano disegni e scritture relative alle mura e ai baluardi di Candia, Canea e di molte piazze del Dominio veneziano da terra e da mare.
92. In particolare: avogadori di comun e provveditori alla sanità.
93. A.S.V., Senato Mar, reg. 45, c. 76V, 16 ottobre 1591.
94. D. Calabi, Il Regno di Candia.
95. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 61, cc. 2v-3v, Relazione di Gerolamo Cicogna, conte di Zara, 17 novembre 1538.
96. Ivi, Collegio, Relazioni, b. 66, Relazione di Giacomo Foscarini.
97. Si tratta di 100 stanze, 50 per piano, 200 in totale.
98. Per ragioni di costo è frequente il ricorso a fabbriche in cui il solo piano terra è costruito "involto reale".
99. Rellatione dell'Eccellentissimo Signor Giacomo Foscarini, cc. 65v-66r; A.S.V., Provveditori da terra e da mar, f. 787, dis. 2 e lettera al doge di Francesco Basilicata, in cui egli sostiene l'opportunità dei restauri, poiché i coperti "di questo paese" fatti sopra travi di legno vanno facilmente in rovina; le pietre si trovano in abbondanza e a basso prezzo, quelle dei vecchi pilastri possono essere recuperate, la mano d'opera costa molto poco.
100. A.S.V., Senato Mare, reg. 90, cc. 116r-117r, s.d.
101. Ibid., reg. 64, cc. 110v- 112r, 20 agosto 1604.
102. Ivi, Collegio, Relazioni, b. 66, Relazione di Giovanni Dolfin, 1556; b. 72, Relazione di Ottavio Mocenigo conte di Zara, 4 novembre 16o8; Relazione di Tommaso Querini conte di Zara, 29 gennaio 1620 (m.v.).
103. Ibid., b. 62, Relazione di Benetto Erizzo, rettore di Cattaro, 1577; Relazione dei Sindaci, ritornati dalla Dalmazia, 1580, cc. 44r-47r; b. 65, Relazione di Gerolamo Pisani, rettore e provveditore di Cattaro, 19 giugno 1590; Relazione di Zuanne Loredan.
104. Ibid., b. 65, Alvise Barbaro 1596, Zuanne Magno 1600, Pietro Morosini 1627, Paris Malipiero 1629.
105. Ibid., b. 62, Relazione dei Sindaci; b. 71, Relazione di Andrea Soranzo, 12 gennaio 1599 (m.v.); Relazione di Cristofalo da Canal del reggimento di Sebenico, 7 marzo 1602; b. 70, Relazione di Giovanni Battista Giustinian sindaco in Dalmazia (da Zara), 1553.
106. Mijo Novak, Sudstvo, Drzavna uprava i gradnje u mletackoj Dalmaciji I Albaniji, Zagabria 1960, pp. 253-255: Lettere di Pancrazio Nobili ad un amico che lo ricercava d'esatta informazione della carica di provveditore generale in Dalmazia e Albania, l'anno 1741, Villa Bella, 16 gennaio 1740 m.v., Lettera XIV.
107. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 63, Relazione di Vincenzo Morosini, 1589; b. 66, Relazione di Lorenzo Cocco, capitano a Zara, 1581, cc. 137-138 (il magistrato autorizza spese nelle ville di San Filippo e Giacomo, di San Cassiano, dei Conti, nei ridotti di Drilo, Peterzano, Santa Schiavina, Passadoro); Relazione di Alvise Barbaro, conte di Zara, 1582 (conta in quell'anno nel territorio di Zara 11 ville abitate).
108. R. Monanni, Descrizione topografica di Candia; A.S.V., Provveditori alle fortezze, b. 43; Collegio, Relazioni, b. 63, cc. 48r-58v, 1589.
109. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 63, c. 76v, Relazione di Nicolò Correr; b. 66, Relazione di Domenico da Molin; b. 72, Relazione di Francesco Morosini, conte e capitano di Spalato, 7 settembre 1621; Relazione di Giacomo Michiel, conte e capitano di Spalato, 1624; Consultori in Jure, f. XIII, cc. 10-11, 3 marzo 1617.
110. Ivi, Senato Mar, 11 marzo 1577, reg. 43, c. 84v; Collegio, Relazioni, b. 66, Relazione di Domenico da Molin, conte di Spalato, 1596, c. 3r; Senato Mare, 4 marzo 1595, reg. 55, c. 161r, 4 marzo 1595, reg. 56, c. 154v, 16 gennaio 1596 (m.v.); b. 72, Relazione di Francesco Morosini, conte e capitano di Spalato, 7 settembre 1621. Cf. anche D. Calabi, Il Regno di Candia, e i documenti ivi menzionati a proposito del "Borgo Marulà" nella città di Candia.
111. A.S.V., Provveditori al sale, b. 61, reg. 4, c. 34v, 5 febbraio 1495 (m.v. 1494). La delibera si riferisce al mercato realtino, ma sottolinea l'auspicio d'un comportamento che sempre i magistrati veneziani dovrebbero porre a guida dei propri atti.
112. Giovan Battista Giustinian, sindaco di Dalmazia; F. Basilicata, Relatione di tutto il Regno di Candia, cc. 17-18; Antoine Deville, Descriptio portus et urbis Polae, Venetiis 1633.