Città globali
Benché molti affermino che nel nuovo secolo il fatto urbano stia radicalmente cambiando la propria natura, non si può scrivere della città del 21° sec. senza fare riferimento alla sua formazione e al costituirsi delle idee intorno a essa nel secolo precedente. La data del 1° gennaio 2000 resta altamente convenzionale nonostante i miti che accompagnano l’inizio di un nuovo millennio, così ciò che si può scrivere del futuro è che esso è nello stesso tempo assai incerto ma anche fondato. Sicuramente nel futuro della città ci attendono problemi di mitigazione degli impatti ambientali, un cambiamento di molte strutture di servizio e dei luoghi di convegno collettivo, il ritorno, sia pure in modi nuovi, di strategie di previsione dei loro sviluppi fisici, di nuovi tipi di assetto della mobilità, di nuove tensioni verso la privatizzazione degli spazi ma anche di una qualche risoluzione delle aree difficili del mondo per povertà e per intolleranza.
Comunque si vogliano giudicare queste previsioni, si spera che le pratiche di architettura possano continuare a giocare un ruolo nello stesso tempo critico e civilmente propositivo anche in futuro. Ma può anche darsi che questo non avvenga e altre forze modellino, anche morfologicamente, il futuro urbano del pianeta, come già minacciano di fare. Né peraltro si può prescindere dal punto di vista europeo dal quale muove il presente saggio, anche per misurare la sua distanza dai fenomeni più rilevanti con cui oggi ci si scontra: le grandi metropoli asiatiche e quelle del Terzo mondo, i fenomeni connessi alla globalizzazione e i neocomunitarismi, fondamentalisti o meno, ma soprattutto l’evidente crisi della nozione stessa di città, tra dispersione e superconcentrazione, ambedue volte a renderla inconoscibile. È stato scritto molto (e con fatalismo) sulle ragioni dello strapotere tecnico-economico delle ideologie del mercato e dell’informazione come fondamento dell’indebolita coscienza delle storie delle diversità culturali e sociali, ma anche sulla loro capacità di interpretare positivamente tale strapotere. Sovente ciò è stato contrapposto alle forme di internazionalismo critico che hanno caratterizzato la cultura europea dei secoli passati. Le pratiche della globalizzazione sembrano comunque proporre per il momento prospettive ideali di compimento assai lontane da quello «stato universale e omogeneo» che il filosofo Alexandre Kojève (Introduction à la lecture de Hegel. Leçons sur ‘La phénoménologie de l’esprit’, professées de 1933 à 1939 à l’École des hautes-études, réunies et publiées par Raymond Queneau, 1947; trad. it. 1996, p. 543) vedeva compiersi con il trionfo dei principi della libertà e dell’eguaglianza, ma anche come esaurimento della dialettica storica e, nello stesso tempo, come passaggio dalla felicità alla contentezza, al voler comprendere ogni cosa senza desiderare di modificare alcunché.
Anche per la città europea è comunque necessario affrontare, dopo le modificazioni imposte dalla città industriale a quella storica, le difficoltà promosse dalla dispersione deregolamentata sino all’abusivismo dell’espansione dell’ultimo trentennio, quelle dell’eccessiva concentrazione delle funzioni centrali, dell’espulsione delle classi povere e, in generale, delle funzioni abitative dai centri storici; la difficile compatibilità positiva con il preesistente e talvolta la negazione di ogni suo valore. E ancora: le contraddizioni tra mobilità e struttura storica della città, tra iconologia ambientale ed esigenze crescenti di servizi, la perdita di equilibrio tra iniziative private e pubbliche e, persino, il contrasto tra urbs e civitas che sembrano non amarsi, né riconoscersi più. Infine l’assurda competizione imitativa nei confronti di altri modelli insediativi, tipici delle città degli Stati Uniti, ma anche l’abbandono sia degli ideali che connettevano moderno e riforma urbana sia delle grandi esperienze della città del sociale come, per es., Amsterdam o Copenaghen, e l’oblio dei valori provenienti dalla fitta rete degli insediamenti della città europea e dalla forza della loro storicità: compresa anche la difficoltà di riconoscere le possibilità e le contraddizioni di tutto questo, a cui si riesce ad accedere quasi soltanto attraverso le rappresentazioni, oppure che si riesce a sperimentare solo affrontandone volta per volta le difficoltà.
Gli studi sulla città
Si può, anzi si dovrebbe, esaminare la questione generale dello stato della città all’inizio del 21° sec. da molti punti di vista – come si è fatto peraltro assai utilmente almeno negli ultimi tre secoli – e capire se essi restituiscano o meno una visione convergente del fenomeno urbano: storia, antropologia, sociologia, economia, pianificazione territoriale, politica e naturalmente, sia pure con distanza critica, il punto di vista dei suoi abitanti e delle loro variabili opinioni, originali o indotte, lamentele, violenze, necessità e desideri. Né il pensiero della filosofia e della letteratura, né quello della religione debbono essere assenti dalla riflessione sulla città e sui suoi destini, così come la natura nelle sue varie forme e, in generale, le variabili opinioni intorno al valore del paesaggio rispetto a essa e alle sue interpretazioni figurative e poetiche; perché è molto importante per la città la sua appartenenza a una geografia, in una dialettica relazione con la campagna abitata, anche se proprio questo, dopo il dibattito svoltosi in Unione Sovietica intorno alla ‘disurbanizzazione’ negli anni Venti del Novecento, è stato negli ultimi decenni messo in discussione dalle pratiche dello sprawl (diffusione incontrollata) e dai sostenitori della città infinita.
La letteratura intorno alla questione urbana da questi diversi punti di vista è immensa, con una influenza crescente del pensiero sociologico e una decrescente di quello politico, e costituisce comunque il terreno e il materiale preminente per alcuni architetti che cercano un disegno per le contraddizioni della città di oggi. L’ottica con cui le scienze sociali guardano allo stato delle relazioni tra gli individui ha come compito essenziale quello della lettura di una condizione e anche di esprimere un giudizio su di essa e, talvolta, di mettere in evidenza le possibilità di una risoluzione che spetta però alla politica avanzare. Ma sarebbe un errore pretendere di ribaltare tale giudizio sulla pratica artistica delle forme dell’architettura e volere da esse solo una rappresentazione dello stato delle cose, un nuovo realismo deduttivo, quando la lettura delle contraddizioni che circondano i cittadini può essere materiale importante del disegno della città. Disegno che dovrebbe essere inteso nell’antico significato di progetto della sua forma fisica, dei suoi destini e possibilità, costruito per punti specifici, attraverso la regolazione di parti urbane più o meno grandi, in un confronto continuo con le altre forze pubbliche e private che promuovono o si oppongono a partire da interessi economici specifici o da obiettivi di interesse collettivo. Si scrive dovrebbe, perché l’interesse collettivo sembra essersi spostato verso una sorta di somma di opinioni che si pretendono assolutamente soggettive, forse proprio perché, al contrario, massimo è diventato il potere della cultura di massa non nei suoi aspetti civili, ma in quelli di omogeneizzazione artificiosa di comportamenti e valori.
Poiché questo saggio si muove dal limitato punto di vista del disegno urbano, le questioni da affrontare sono anzitutto due: da un lato, la relazione di dipendenza critica che esso ha nei confronti dell’enorme massa di studi intorno alla città, tanto numerosi da essersi organizzati in vere e proprie discipline; dall’altro, quella che connette il punto di vista del disegno della città (se ancora di questo si può parlare) con la tradizione dell’architettura e delle discipline che a essa sono connesse, o già si sono staccate, come la pianificazione territoriale, il landscape o il disegno degli oggetti di consumo. Bisogna considerare che, rispetto alle discipline dell’architettura e del disegno urbano, l’importanza di altre che si occupano della città è molto aumentata, provocando in genere una doppia tentazione nella cultura architettonica: sia quella di impadronirsi, sovente in modo approssimativo, delle conclusioni di quelle discipline per usarle in seguito come fondamenti della propria, sia quella della chiusura di fronte a esse attraverso una ‘malintesa estetizzazione’ del proprio fare. Salvo, nei casi peggiori, giustificare a posteriori questo fare con l’interpretazione ideologica della realtà. È, invece, principalmente dal ristretto punto di vista del disegno urbano, nel senso specifico del termine, che si vorrebbe qui scrivere o, ancora meglio, del modo con il quale le culture delle discipline dell’architettura utilizzano e scelgono tra quegli immensi materiali di esperienza e di ricerca precedentemente descritti.
Non bisogna dimenticare che, tra le pratiche artistiche, l’architettura è la più direttamente esposta, positivamente o negativamente, ma comunque in modo inevitabile, al confronto con le diverse riflessioni disciplinari e con le condizioni sociali prima ricordate, e che l’esito del suo lavoro si scontra concretamente con esse mediante i principi e i modi di essere propri della costruzione, dell’abitabilità, dell’uso e della rappresentazione di cose e di ipotesi: buone e cattive, nobili o meno che esse siano ma sotto la forma che compete all’architettura come disciplina, cioè sotto la forma della forma architettonica, si potrebbe dire.
Città della storia e città contemporanea
La nozione di città, e quelle di territorio e di natura che hanno rappresentato per millenni gli elementi dialettici strettamente connessi rispetto a essa, si presentano anche come narrazione storica con cui fare i conti e invocano anzitutto (con buona pace di ogni pretesa di omogeneità futura) un’enorme eterogeneità di casi. Oggi, assai più di un tempo, è aumentata proprio con la globalizzazione la coscienza delle differenze, insieme con quella dello stato di pericolo ecologico dell’intero pianeta. Città piccole e grandi, villaggi, frammenti urbani, resti di insediamenti, postmetropoli grandissime, ricche o poverissime, in declino o dallo sviluppo grande e rapido, città da ricostruire dopo insensate distruzioni belliche, città pianificate o autocostruite da bidonvilles senza confini e di incerta conoscenza; o, al contrario, città dalla lenta crescita sulla permanenza delle proprie tracce; e poi città-regione, megalopoli, reti di città interconnesse o separate da grandi spazi vuoti interni, città nuove, di colonizzazione, città-fortezze e new towns di drenaggio della popolazione in via di inurbamento o di espansione di grandi metropoli; e, infine, tessuti abitativi agricoli, ma anche boschi, colline, fiumi, montagne variamente abitate.
Scriveva nel 1864 Fustel de Coulanges che «la città nei primi tempi non era affatto un luogo di abitazione, ma il santuario in cui siedono gli dei della comunità, la fortezza che li difende e che è santificata dalla loro presenza, il centro dell’associazione, la residenza del re e dei sacerdoti, il luogo in cui si celebra la giustizia» (La cité antique; trad. it. 1972, p. 144). Ma, come Max Weber insegna, oltre che simbolico-religiosa, la città è anche città economica di produzione, di mercato e di rendita, città istituzionale e politica, con diversi equilibri tra questi fattori. La città è però per Weber anzitutto un luogo che vuole rappresentare degli ideali sia pure con obiettivi distanti fra loro. Peraltro senza ideali non vi è discorso politico (si potrebbe dire, sfidando temerariamente lo stato attuale della politica) e neanche ‘architettura’ nel senso più nobile di questo termine. A tutto questo ha fatto seguito, a partire dal 19° sec., con la città industriale, una stagione di studi nobilissimi sulle diverse tecniche di urbanizzazione delle città ma anche sulle sue possibili riorganizzazioni utopiche, da François-Marie-Charles Fourier a Robert Owen, e sulle lotte per un welfare state urbano, e infine il radicalizzarsi dei tentativi di una sua razionalizzazione da parte del movimento moderno nel 20° sec., e il sorgere dell’urbanistica e poi della pianificazione come discipline separate.
Un punto di vista molto frequentato da secoli (ma in rapida estinzione nel 21°) è anche quello dell’utopia urbana come rappresentazione dell’utopia sociale o come città ideale secondo la tradizione del Rinascimento (basti pensare alla vasta letteratura sull’argomento e badare alla distinzione tra i due fatti) o quello del disegno delle città organizzate morfologicamente in funzione militare o religiosa. Negli ultimi anni, è vero, l’utopia è degradata a previsione aziendale o a utopia tecnologica, con l’ossessione del futuro, oscuro o risolutore. In realtà, gli ideali utopici hanno, nel nuovo secolo, con la presunta caduta delle ragioni della storia, perduto gran parte del loro slancio progettuale. Da un lato essi sono influenzati dall’utopia del disastro descritta dal cinema e dalla letteratura, ma da un altro è l’utopia supertecnologica che si propone come risolutiva (positivamente o negativamente) e sembra rapire il nostro futuro anche sul piano del disegno della città; contro un’utopia che richiede invece un’ipotesi di ordine sociale al di là di quelli esistenti. L’utopia è comunque vissuta nei nostri anni come struttura rigida, non corrispondente alle simpatie per la fluidità e il cambiamento costante, anche se apparente, come valore assoluto. Ma «con l’estinguersi dell’ossigeno della storia», scrive il filosofo Franco Volpi (Il nichilismo, 1996, p. 145) commentando il pensiero dei sostenitori della fine della storia, «si spegne anche il fuoco dell’utopia». Inoltre, almeno in Europa, le occasioni di fondare nuove città sono diventate quasi nulle, anche se di recente importanti insediamenti si sono costituiti di fatto intorno a nodi infrastrutturali: valga per tutti l’esempio di Roissy-en-France, intorno all’omonimo aeroporto, nella regione dell’Île de France. Più interessanti certamente avrebbero potuto essere le occasioni offerte dai Paesi asiatici o africani, che dalle utopie sembrano però essersi volontariamente tenuti lontani; né utopiche, se non in quanto esibizione del denaro, possono essere definite le dissennate supercostruzioni che stanno cambiando le città degli Emirati Arabi Uniti. Da ultimo, poi, si espandono le utopie antiurbane (religiose, comunitaristiche o di selezione per ricchezza), sino a discutere della fine della città, della sua possibile dissoluzione come dimensione, senza fine o come dispersione territoriale favorita dalle comunicazioni immateriali di massa.
Un piccolo libro dal titolo Cities, pubblicato da «Scientific American» nel 1965, faceva, in modo esemplare, il punto sullo stato del sistema urbano nel mondo, sulle sue prospettive per il successivo trentennio e per le attitudini culturali di coloro che negli Stati Uniti se ne occupavano. Previsioni come l’aumento della popolazione urbana (che oggi dovrebbero essere corrette nella distribuzione geografica come nelle quantità globali), dello stato di alcune grandi metropoli come Calcutta o della costituzione di tendenze neocomunitaristiche come il caso di Lewittown (New York). Ma si scriveva in quegli anni anche di grandi nuove speranze progettuali, come quelle delle teorie dell’urban renewal (vale per tutti l’esempio del progetto urbano di Louis Kahn per Philadelphia), della fondazione di nuove città, come Ciudad Guyana in Venezuela, di nuovi modi di guardare la vita urbana, come nel caso di Kevin Lynch, o di ipotesi di organizzazione formale delle postmetropoli.
Teorie vere e false
L’attuale discussione sullo stato delle città, la loro fruizione a livello globale, le loro prospettive, sembrano aver abbandonato, salvo alcuni casi (esemplare quello di Bernardo Secchi), ogni preoccupazione per la costruzione di un ambiente fisico riconoscibile connotato da prospettive di ‘utopia della realtà’, e quindi ogni tentativo di costruzione anche di un’immagine fisica comprensibile del proprio futuro. Ma come definire i confini della città del 21° sec. quando si è prodotta sotto i nostri occhi (violando la tradizione latina del limes come fondamento della città) quella che Guido Martinotti definisce, nel volume da lui curato La dimensione metropolitana. Sviluppo e governo della nuova città (1999), la cessazione della coincidenza tra popolazione e territorio, prima con la formazione del periurbano (concetto funzionale oltre che spaziale), poi con lo spopolamento della campagna, infine con la crescita della mobilità fisica, l’espansione dei city users e della comunicazione immateriale? La città è diventata un campo di forze, ma come queste si trasformino in disegno urbano costruito non è ancora chiaro.
In un bel libro dal titolo Modelli di città. Strutture e funzioni politiche (1978), frutto di una ricerca universitaria, il curatore Pietro Rossi pone il problema della crisi della città alla luce dei nuovi strumenti del calcolo elettronico, dell’internazionalizzazione dei mercati finanziari, della comunicazione immateriale di massa, del perfezionamento e delle crisi dei sistemi di mobilità. Tutte cose di cui oggi si discute sino a immaginare la città futura come puro sistema informativo, sostitutivo di ogni luogo fisico di incontro. Nello stesso tempo, tuttavia, Rossi scrive anche dei processi di disgregazione sociale, di omogeneità indotta dei comportamenti e della difficoltà di costruire criteri di scelta, che ne sono una delle pericolose conseguenze. A questo sembrano aver fatto seguito le teorie (false) della scomparsa della città fisica, come identità riconoscibile, e l’idea dello spazio immateriale dell’abitare urbano in quanto ‘città dei bit’, città virtuale (idea sostenuta, per es., da William J. Mitchell in City of bits. Space, place, and the infobahn, 1995; trad. it. 1997), e prima ancora quelle delle varie forme di organizzazione della megalopoli (già negli anni Sessanta del 20° sec.) o della non organizzazione della città infinita, estensione indifferente caratterizzata dai ‘non luoghi’ descritti da Melvin M. Webber (The urban place and the non-place urban realm, in Explorations into urban structure, ed. M.M. Webber, 1964, pp. 79-153; trad. it. 1968) – una nozione di recente messa di nuovo al centro di ogni discussione identificando nei ‘superluoghi’ la loro ottimistica assoluzione o un nuovo nome per l’antica nozione di centralità – ‘non luoghi’ in cui sono parcheggiati i rifugiati del pianeta con la sparizione della relazione tra urbs e civitas: cioè quasi tutti i luoghi della città del 21° secolo. Il fatto di abitare i flussi, infatti, fa dell’esule una figura esemplare che esclude il cittadino in quanto titolare non solo dei doveri civili e dei diritti politici ma perfino come Homo faber dell’opera urbana, e del suo valore di testimonianza.
In tutto questo è poi significativo il passaggio dalla città dei cittadini all’uso della città come luogo di lavoro, di scambio, di divertimento distinto dalla residenza, la città dei city users, la città considerata, anziché sede di vecchi e nuovi tipi di produzione, luogo di attività terziaria e/o turistica (con gli immigrati dai Paesi più poveri che ne vivono ai margini), nodo di interscambi economici e, in taluni casi, vero e proprio luogo di comando globale. Sono queste le svolte cruciali, dopo la metà del Novecento, che segnano anche l’inizio del nuovo secolo con una nuova ricchezza di possibilità ma contemporaneamente con una progressiva estraneità tra città e cittadini.
La scomparsa della città fisica («La città globale non è un luogo ma un processo», scrive Manuel Castells in The information age. Economy, society, and culture, 1° vol., The rise of the network society, 1996; trad. it. 2002, p. 146) e la topofobia che la guida sono idee che vengono da lontano e si sono generalizzate, con lo svincolarsi nel 20° sec. dello spazio dalla visione dei contesti (come provano anche molti dei prodotti degli architetti di successo mediatico dei nostri anni), e provengono dalla concezione dello spazio come ‘frame infinito’ (eredità della visione di una parte importante anche del pensiero moderno), anziché come dimensione ambientale da ordinare, proprio a partire dalla disomogeneità della densità dei suoi materiali costitutivi. Il progetto moderno si è opposto all’indifferenza rispetto ai contesti per mezzo dell’idea di architettura come dialogo ordinato con le condizioni, nella coincidenza tra abitare, costruire e formare. L’ordine, per l’architettura della città, è forma, anche se questo non significa necessariamente omogeneità, ma articolazione indispensabile delle parti affinché esse appaiano tutte dotate di intenzionalità.
In alcuni testi, come in quello di Saskia Sassen, la sociologa autrice di The global city (1991; trad. it. 1997), si sostiene invece che dopo la relativa stagnazione delle città a metà del 20° sec. si deve riconoscere oggi una riemersione delle città come luoghi strategici di crescita. La città, cioè, diventerebbe un amalgama di molteplici frammenti situati sui diversi circuiti extraurbani globalizzanti. Città globali (che non coincidono necessariamente con le metropoli quantitative) al di là anche dei poteri di regolazione degli Stati-nazione, anzi come segno tangibile della crisi di quelli. Naturalmente si privilegia in questo saggio il punto di vista dell’economia finanziaria e la cultura della città – anche se Sassen ne sottolinea le capacità di mettere in evidenza concreta contraddizioni e ingiustizie – è concepita soprattutto come nodo di reti di potere e sede della possibilità, nonostante tutte le contraddizioni, di crescita economica: e anche l’architettura fa parte di tutto questo. Ma, anche se la città è positiva occasione di confronto sociale, si rispecchia nel mutamento incessante dei luoghi di incontro, nella loro progressiva instabilità e sovrapposizione a quelli del consumo, nel loro indebolimento a causa della privatizzazione dell’ascolto informatico e della omogeneizzazione dei comportamenti sospinti dalle comunicazioni di massa. Tutto ciò non solo per quanto riguarda il senso dello spazio pubblico aperto, ma anche per quelli che un tempo erano definiti i condensatori sociali, la chiesa, la scuola, il museo o i luoghi di lavoro, divenuti sempre più mutevoli e instabili. Ne è prova il passaggio dalla necessità di una strategia di collocazione territoriale della produzione nella città industriale a quella della deterritorializzazione della produzione dei nostri anni (alla ricerca del minor costo della mano d’opera), assai diversa dalla totale autonomia promessa dalla scienza dell’automazione, in funzione della produttività in crescita infinita.
La crescita delle città
Ma forse sarà anche necessario, a questo punto, per scrivere della città del 21° sec., riesaminare il fascino sempre ottimistico e positivo dell’idea di crescita, specie se vertiginosa, che è stata negli ultimi anni anche crescita delle differenze di ricchezza e di possibilità, e ripensare quindi anche alle sue responsabilità, comprese, per es., le conseguenze dell’abbandono della campagna, del suo svuotamento che sembra divenire vuoto in attesa di costruzione o paesaggio turistico nei casi migliori. Inoltre la deregolazione in economia (se compiuta entro le regole di una governance globale capace di guidare i propri limiti in modo civile) ha comunque un significato assai diverso da quella dello sviluppo fisico della città e della sua architettura, che deve affrontare, nonostante tutto, tempi di durata e mutamenti di significato assai più duraturi. Naturalmente la grande metropoli (cioè quella che potremmo definire la postmetropoli) è forse anche, in modo ancor più accentuato di un tempo, il luogo di elezione della politicizzazione dei diritti, ancor più nella situazione interetnica in espansione. Tuttavia, questo non sembra incidere che marginalmente su una riconquista della necessità del disegno urbano e insieme dello spazio pubblico oggi privatizzato, come forma delle parti della città. Gli incroci fra le informazioni e la costituzione delle opinioni sembrano piuttosto formarsi sempre più attraverso la comunicazione immateriale, e le conseguenze sull’assetto fisico della città e sui suoi spazi collettivi sembrano secondari e anzi del tutto marginali.
Come è noto, ormai più del 50% della popolazione del mondo abita in città, e se ne prevede un ulteriore aumento, specie nei Paesi più poveri, sino al 75% nel 2050. La cultura del progetto urbano, di fronte a tutto questo, sembra essersi ritirata nell’ideologia della constatazione e nella predilezione per l’oggetto monumentale singolare. Non bisogna dimenticare che negli anni Sessanta del Novecento vi è stato un grande allarme per l’aumento della popolazione urbana, seguito vent’anni più tardi da un allarme di segno contrario per la fuga dalle città, allarme che si è ora nuovamente invertito. Il termine città, peraltro, come già affermato, è stato sempre incerto nella definizione dei suoi confini e ha comunque cambiato continuamente significato. Questo non solo in rapporto alla natura della città antica, ma anche per quanto riguarda la sua relazione con la campagna e con il paesaggio, coinvolti in un rapido cambiamento di senso e di uso.
Fuori dall’Europa, un numero sempre più rilevante di grandissime città supera i 10 milioni di abitanti: ciò vale, per es., per la regione metropolitana di Los Angeles come per quelle di Shanghai e Pechino, ma anche del Cairo, che le sono vicine per popolazione ed estensione. Città dall’aumento quantitativo impetuoso, sovente fuori controllo, o città della povertà assoluta come quelle africane e come molte sudamericane, ma anche città enormi eppure bene organizzate come quelle cinesi o giapponesi, comunque luoghi della speranza di mobilità economica e sociale, e, nello stesso tempo, della violenta competizione e dello smarrimento sociale del sé: città-regione, città-metropoli, senza, però, alcuna realizzazione della megalopoli (con il termine megalopoli nella Grecia antica si indicava il nome del più grande centro abitato dell’Arcadia) come rete interconnessa di centri, già prevista da Jean Gottmann sin dal 1957 (Megalopolis or the urbanization of the Northeastern seaboard, «Economic geography», 1957, 33, 3, pp. 189-200).
Tuttavia, qualcuno sostiene, forse anche a ragione, che polis e metropolis (l’invenzione del regista cinematografico Fritz Lang è ancora viva) sono non la seconda un’estensione della prima, ma un’opposizione a essa. Non più quindi dialettica tra natura e cultura ma, nella postmetropoli, autoreferenzialità della cultura come volontà di potenza.
Di fronte all’espandersi infinito del consumo di suolo della supercittà e delle sue strutture di servizio e di trasporto, le nuove forme dell’ecologia propongono un’esigenza ineludibile che investe, al di là della città, l’intero mondo produttore innestando una serie di difficili contraddizioni che sembrano però preoccupare poco lo sviluppismo delle postmetropoli. Anche se sovente la parola ecologia si trasforma in un aggettivo da aggiungere come viatico multimediale a qualsiasi azione, senza che questo abbia prodotto né un autentico miglioramento dell’ambiente fisico, né tanto meno una nuova morfologia urbana capace di organizzarne gli enti ambientali.
Si discute invece a proposito della morfologia della metropoli di ‘democratizzazione edonistica’ dello spazio urbano e dell’emergere dell’impero dei ‘simulacri dei soggetti’ con le loro diversità apparenti come fonte di quell’idea di provvisorietà che ha come programma non il disegno ma la scenografia come progetto urbano. Ma, forse più che di autonomia dei soggetti, si tratta della loro sottrazione a ogni dialettica sociale, così come in precedenza si è trattato del sottrarsi della cultura alla dialettica nei confronti della natura, e quindi della produzione di un disegno della città come accumulazione di immagini di oggetti sostituibili con la programmatica negazione di ogni progetto responsabile. E tutto questo porrebbe un’insormontabile difficoltà proprio alle forme visibili della cultura al momento della scomparsa della natura in quanto altro: l’ostacolo della ripetizione pura senza differenze se non puramente estetiche.
Forse sarebbe anche possibile immaginare la metropoli stessa (e ancor più la città dell’espansione senza regole dello sprawl che ci perseguita) come ‘nuova natura’ e lavorare per descrivere al suo interno contesti limitati e riconoscibili le cui reti di interconnessioni si presentino come culle di nuovi fondamenti, di nuove polis o di nuove nature. Ma naturalmente questo è, per ora, ottimismo eccessivo.
Bisogna subito dire che la questione della città dall’espansione infinita tocca ora anche i problemi della città europea nonostante il loro relativo equilibrio quantitativo. Per essa sono forse più importanti le trasformazioni finite, specie quelle delle periferie consolidate e della loro natura. Ma è ancora isolabile un profilo della città europea? È ancora possibile parlare della fittezza della rete insediativa di città piccole o grandi interconnesse, ma fisicamente separate che l’hanno da sempre caratterizzata? È ancora possibile parlare dell’identità della città europea come prossimità fisica, come mescolanza funzionale e sociale, come dialettica tra monumenti e tessuti? È ancora possibile fare appello all’importanza della permanenza delle tracce di cui parlava nel 1929 l’urbanista Marcel Poëte (Introduction à l’urbanisme; trad. it. 1958), alla griglia urbana come misura delle differenze rispetto al terreno geografico, parlare ancora della ‘misura umana’ di lecorbusieriana memoria? Oggi tutto ciò risulta assai difficile, perché ogni architettura urbana è travolta dalla preoccupazione di rispecchiare l’incessante avanzamento economico e tecnico inteso come valore assoluto, e da una progressiva indifferenza per il disegno urbano, se non (con poche eccezioni) per la sua conservazione storico-monumentale, però, in quanto fondamento del turismo come bene economico.
Difficoltà globali
Le difficoltà della città europea sono piuttosto note: oltre a quelle ben visibili dei trasporti, dei servizi, dell’ecologia ambientale e della irrisolta modernizzazione nei suoi vari aspetti, vi sono quelle dell’espansione esterna incontrollata, delle eccessive concentrazioni delle funzioni centrali, dell’espulsione delle classi più povere dal centro urbano e, in generale, delle funzioni abitative da quelle stesse aree e della difficile compatibilità positiva con il preesistente. A questo si deve aggiungere una volontaria ma assurda rinuncia alle ipotesi complessive di regolazione dello sviluppo e persino al disegno urbano delle parti. Inoltre la competizione estetica tra marchi riduce sovente l’architettura urbana a una collezione di oggetti ingranditi, cioè alla negazione della città. Comunque, anche in Europa, se le periferie delle vecchie città industriali sono figlie della ripetizione indifferente, dei danni delle aree monoclasse, dell’assenza di articolazione funzionale e della scarsità dei servizi e delle interrelazioni, la città postindustriale degli anni Duemila lo è dell’estensione periferica infinita (periferia infinita anziché città infinita fatta di comunità decomposte) che si differenzia in peggio, perché figlia dell’ideologia della deregolazione, dello sviluppo selvaggio, senza che nessuna delle difficoltà poste dall’eredità della città industriale sia stato risolto. La città infinita non è, almeno per ora, né un modello né un progetto ma solo una constatazione, là dove sono in generale peggiorate le condizioni di traffico, i costi di insediamento, di inquinamento, il consumo di territorio e dove è naufragata, con lo sviluppo, ogni volontà di produrre una qualità morfologica e ambientale adeguata, pur nella dimensione ancora leggibile della maggioranza delle città del nostro continente.
Nel caso dell’espansione senza regolazione dello sprawl europeo non si tratta ovviamente di fenomeni paragonabili agli slums delle grandi metropoli africane, asiatiche e sudamericane, anche se casi dimensionalmente marginali di questa natura sono presenti in alcune periferie di città europee, soprattutto a causa delle difficoltà di spostamento dai Paesi del Terzo mondo della popolazione più povera. Gli slums delle città del Terzo mondo, per estensione, assenza totale di infrastrutture e povertà assoluta, hanno assunto in alcuni continenti dimensioni tali da divenire emergenza sociale di primo piano, evidenza dello stato di sfruttamento capitalista dei Paesi tecnologicamente avanzati; in tali bidonvilles convivono i profughi urbani cacciati dal centro delle città e gli uomini dei campi attratti dalla città come speranza estrema di sopravvivenza. Un terzo dei nati nel primo decennio del 21° sec. ha ormai la probabilità di venire al mondo in una baraccopoli. A Città di Messico, nel 2006 vivevano negli slums 4 milioni di persone, né la situazione di Caracas o della periferia di Lima era migliore. Per molte città africane, ma anche dell’Estremo Oriente (come in Malaysia o nelle Filippine), il conto della popolazione residente è diventato impossibile. La gravità di queste situazioni non può avere una risposta solo architettonica ma anzitutto politica, anche se l’assenza di un’architettura della città ha le proprie responsabilità.
Non molto diverse sono le condizioni di vita al Cairo, città divenuta capitale dei Fatimiti nel 7° sec. d.C., con straordinari monumenti di architettura, oggi con quasi 12 milioni di abitanti (stime UN-HABITAT 2008), dove (secondo una ricerca del 2008 della London school of economics) il 60% della popolazione vive in abitazioni abusive con 1 m2 di verde medio a persona (a Londra sono 50 m2). In Egitto solo il 5% dell’intero suolo del Paese è abitabile (e questo in parte giustifica la corsa alla capitale), ma si confronta con un’autocrazia che si preoccupa più del controllo che dell’amministrazione. Istanbul, con più di 10 milioni di abitanti, ha però forse il primato dei trasferimenti in città, con circa 300.000 persone ogni anno. La popolazione più abbiente tende a svuotare il centro e a trasferirsi nelle comunità sorvegliate esterne, ponendo il problema del restauro del centro storico; inoltre si è anche attivata una costruzione selvaggia desiderosa di un’immagine di modernità del tutto artificiosa.
A Johannesburg, la ‘città dell’oro’ sorta nella se-conda metà del 19° sec., il centro cittadino è suddivi-so in piccole Lagos, Kinshasa, Mogadiscio, Karachi e Pechino, secondo le provenienze multietniche che sono seguite alla fine dell’apartheid, senza trovare per ora una forma urbana organica.
A Caracas circa i 4/5 della popolazione vivono con 2 dollari al giorno, in condizioni di precarietà nonostante gli sforzi compiuti dall’amministrazione. Tutta la città, si può dire, è plasmata da una tendenza all’informalità, all’assenza, cioè, di una forma, ma anche da un’organizzazione urbana, il cui motivo di base è però soprattutto la precarietà del lavoro, reso visibile da quella delle attrezzature.
Molto diverso è il caso dell’espansione imponente della metropoli asiatica, solo però in alcuni Paesi come la Cina, la Corea del Sud, il Giappone. L’India è un caso a parte: in grande trasformazione ma con la presenza di fortissimi squilibri (come peraltro in Cina tra città e campagna). Mumbai, la città con più abitanti, ha una popolazione per 1/3 con meno di vent’anni, una forte immigrazione dalla campagna in grave crisi, uno spazio pubblico che occupa solo l’1% della superficie urbana (S. Mehta, Mumbai, India, in Città. Architettura e società, 2006, p. 248), ma anche almeno un progetto complessivo (Vision Mumbai) come tentativo di affrontare i problemi urbani entro il 2013.
Tokyo ha compiuto il suo salto metropolitano decisivo in poco più di cento anni, aumentando di oltre 20 volte la sua popolazione, sovrapponendo una forte, ma discontinua, concentrazione di edifici alti ai microspazi privati e pubblici densi e bassi, tipici della sua struttura. L’assenza di un centro storico (nel senso occidentale del termine) ne ha favorito la relativa dispersione in centri diversi. I suoi problemi cruciali sembrano essere essenzialmente le infrastrutture stradali e la notevole densità del trasporto aereo, con il progetto di un terzo aeroporto.
Kuala Lumpur ha invece compiuto il suo salto di densificazione più di recente, mantenendo tuttavia un certo controllo negli squilibri urbani, con il modello di Singapore davanti agli occhi, anche se con una sorveglianza meno rigida sulla vita urbana.
Per le città cinesi del 21° sec., dopo la nota svolta economica di Deng Xiaoping e la politica di concentrazione nelle grandi città della modernizzazione, occorre fare un discorso del tutto particolare. La grandissima estensione, la rapidità sconvolgente di espansione, di rinnovamento interno e di trasformazione sociale, l’immissione violenta di forze economiche straniere, l’ambizione (sovente confusa in architettura con l’esibizionismo) delle istituzioni e della stessa popolazione basata sulla fiducia nelle proprie capacità di riconquistare un posto importante nel mondo, le necessità travolgenti del traffico, della fornitura di energia, degli approvvigionamenti di materie prime, sono le questioni cui la città cinese ha dovuto far fronte nella sua radicale trasformazione. È comunque stupefacente come tutto riesca a funzionare con un alto livello di efficienza (gli aeroporti che servono i 10-15 milioni di abitanti delle maggiori città sono assai più funzionali di quelli di Milano o di Londra, anche se con non lievi deficit ambientali). Una città come Pechino copre ormai con il suo costruito circa 17.000 km2, Shanghai è giunta a quasi 15 milioni di abitanti, ma le città al di sopra dei 5 milioni sono più di una decina.
Non si può dire che le grandi metropoli asiatiche abbiano sviluppato in modo organico un qualche tipo di progetto di grande insieme urbano (salvo alcuni sporadici casi come le new towns intorno a Shanghai); sembra, anzi, di sicuro a causa del vertiginoso sviluppo, che si siano limitate a cercare di sorvegliarne l’espansione, talvolta anche con qualche successo, ma non molto di più. Gli stessi grandi interventi parziali di urban renewal in occasioni eccezionali (per es., grandi esposizioni, manifestazioni sportive intercontinentali ecc.) non presentano una volontà di regolazione morfologica complessiva e sono resi sempre più, giustamente, difficili dalla resistenza della popolazione agli spostamenti forzosi. È per primo il processo di pianificazione fisica a non essere in grado di (oppure a non voler) formulare ipotesi complessive.
Naturalmente non è possibile ignorare i problemi urbani del grande complesso delle nazioni un tempo appartenenti all’Unione Sovietica e oggi divise in Stati dall’incerta, anche se ambiziosissima, aspirazione all’identità nel loro provincialismo architettonico neomonumentale, in oscillazione tra l’imitazione commerciale dei monumenti statunitensi e il decorativismo nazionalista postsovietico. Diverso ovviamente il caso della Russia in cui allo sviluppo colossale di Mosca, ricco, esibizionista e con uno scarsissimo controllo nel disegno urbano, corrisponde la depressione di molte delle città di provincia circostanti, nonché l’interesse della cultura architettonica tutto rivolto verso l’edificio singolare.
A proposito degli Stati Uniti, si scrive moltissimo della vita urbana delle grandi città, da Chicago a Los Angeles, da New York a San Francisco, Boston o New Orleans e molte altre; città divise tra il modello verticale e quello diradato di insediamenti più o meno grandi e riconoscibili come città nel vasto territorio del Paese. Naturalmente, al di là degli estremi del modello di Lewittown o di Disneyland e della vita delle fattorie di campagna, tutti sociologicamente di grande importanza nelle loro specificità, ogni insediamento grande o piccolo ha forse un’unica origine comune, quella coloniale, con la trama ortogonale di tipo europeo nelle grandi città e con la main street come asse strutturale nelle piccole. La promozione dei grandi investimenti (soprattutto privati) ha preso il sopravvento, come testimoniano i grandi monumenti architettonici più recenti, mentre gli investimenti pubblici sono concentrati su infrastrutture e servizi. Nello stesso tempo sembrano tramontati, negli ultimi anni, gli interessi della cultura degli architetti per l’urban design e per la pianificazione della città, e i tentativi di applicare a essa la teoria dei sistemi o quella dell’informazione, caratteristici dei primi anni Sessanta del Novecento, come testimoniano, per es., libri quale The future metropolis (1961; trad. it. 1965), a cura di Lloyd Rodwin. È a quegli stessi anni che risale l’idea della città-territorio (o città-regione) che percorse anche la cultura europea e che teorizzò l’organizzazione progettuale di vasta scala anche sulla base delle esperienze degli anni precedenti, dal piano di Thomas Adams per la regione di New York del 1930 a quello, in Europa, di Amsterdam del 1935, sino al Greater London plan di Patrick Abercrombie del 1944 e al Fingerplan di Copenaghen del 1951.
Ovviamente dietro l’ideologia della deregolazione che presiede oggi la città infinita dello sprawl esiste una pianificazione nascosta, fondata sulla falsa convinzione che l’interesse della produzione e quello del consumo coincidano automaticamente con l’interesse civico che ancora negli anni Sessanta era alla base delle idee di organizzazione per mezzo del progetto della città-territorio. È anche probabile che, al di sopra di una certa scala, per estensione territoriale o per numero di abitanti, i criteri di intervento urbano cambino di natura, e che la possibilità di pianificazione, nei casi di crescite impetuose, non possa pretendere di estendersi in modo integrato sull’insieme della forma urbana, ma debba limitarsi a lavorare sui singoli settori di intervento oppure per porzioni estese ma parziali della città, nonostante gli sforzi effettuati nelle scelte strategiche complessive.
La questione generale poi delle capacità, dei costi e delle conseguenze di consumo del suolo delle infrastrutture potrebbe costituire un limite all’espansione geografica e di popolazione delle grandi città. Reti che permettano gli spostamenti fisici di uomini e merci, strade, autostrade, ferrovie, trasporto navale, aereo, e i relativi luoghi deputati di sbarco, sosta e partenza, e le loro funzioni, con la disponibilità dei terreni e i conflitti ecologici relativi, ne sono uno degli aspetti più evidenti anche in quanto presenza visiva in tutte le città. A esso si aggiungono le questioni relative alle forniture di energie e di acqua e quelle connesse agli smaltimenti dei rifiuti di ogni tipo e, naturalmente, i luoghi deputati a queste funzioni, dalle centrali di tutti i tipi ai depuratori, dalle reti di fognatura ai vari sistemi di smaltimento, sino ai luoghi di reperimento delle energie fossili con tutti i limiti delle diverse capacità di fornitura, sino alle contraddizioni, distruttive per la sopravvivenza del pianeta, delle espansioni senza fine di questi stessi cicli.
Tutto questo non esclude affatto le responsabilità, i ritardi e le incapacità della classe professionale intorno al senso delle scelte morfologiche, oltre che civili, nell’area del disegno urbano e dell’architettura costruita cui dovrebbe far riscontro la presa di coscienza dello stato fluido dei rapporti sociali e delle loro contraddizioni, con cui la stessa classe professionale si scontra, o a cui essa si sottopone con conveniente condiscendenza. Basta guardare le foto aeree della periferia di Phoenix o di Bogotá e quelle del centro di Tokyo o delle aree esterne di Lagos per convincersene.
A partire da tutto questo forse bisognerebbe dire che è l’idea stessa di città a non essere più un insieme interconnesso e riconoscibile di rappresentazione di relazioni, ma solo quello della quotidiana sopraffazione della postmetropoli realizzata. Ogni elemento costitutivo è gridato contro il vicino senza che l’insieme raggiunga la grandezza del combattimento, ma solo quella sgangherata della competizione pubblicitaria. Meraviglia, nello stesso tempo, la capacità dell’architettura di trasmettere ostilità e presunzione senza fine in modo tanto compiuto. Ma forse si tratta della violenza che con diversissime motivazioni (e anche senza), dai fondamentalismi al tifo negli stadi, domina proprio la scena urbana. In una conferenza dell’aprile 2006 tenuta alla Birkbeck university di Londra, Eric J. Hobsbawm (2007) esponeva un quadro agghiacciante della violenza urbana in crescita esponenziale dagli anni Settanta del 20° sec., concludendo con la notizia umiliante che ben 7 milioni di famiglie vivevano negli Stati Uniti in complessi ‘blindati’, il cui accesso era rigorosamente selezionato.
Ma anche ogni singola architettura non è più così in alcun modo isolabile e giudicabile. Da un lato il contesto la divora senza distinzione qualitativa: essa non presenta più un punto di vista sul mondo, ma il mondo stesso nei suoi aspetti di dissoluzione. In questo ‘nuovo pittoresco’ (pittoresco non a partire dalla pittura, ma da altre forme di multimediale rappresentazione) il ruolo del progetto è di divenire cellula di un’organizzazione totalitaria dei valori e degli obiettivi dei poteri preminenti. Non vi è più traccia del senso della necessità, ma solo di quello dell’accumulazione, nell’estensione senza fine della volontà di stupefazione senza meraviglioso: meraviglioso è l’insieme di questa assenza di specificità singolare.
Tutto nella metropoli sembra dover essere grande, enorme, fuori scala anche da sé, eccezione nell’eccezione, moltiplicazione di un ipertesto che annulla ogni possibilità di differenza. Non vi è forma edilizia che non sia stata utilizzata, deformata, ingrandita, decorata, coronata, variata in infiniti modi: ma l’interrelazione è del tutto assente. È possibile allora che il non-disegno urbano e l’architettura dell’anticittà divengano di fatto il più efficace ritratto dello stato attuale degli aspetti meno amabili della convivenza sociale, e che quindi l’accumulazione divenga l’unico criterio della città globale del 21° secolo?
Quando si discute delle trasformazioni forti della vita (sociale e fisica) della metropoli dei nostri anni, pur ammettendo che si tratta di trasformazioni presenti, costantemente o a strappi, anche in altri processi della storia, si fa riferimento al carattere specifico di quelli attuali: rapidità e grande scala delle transizioni. Ma forse proprio la loro rapidità è così dispersa, frammentaria, contraddittoria, da far sembrare protagonista di questa trasformazione qualcuno che cammina furiosamente avanti e indietro in una stanza senza sapere bene dove sta andando e ritrovandosi sempre nello stesso posto.
Le città europee
Ma, per tornare alla questione europea (che presenta nelle sue due maggiori città, Londra e Parigi, i due modelli della confederazione di villaggi e della concentrazione), la risposta (o meglio, l’incapacità di risposta) e la responsabilità delle nostre discipline oltre che delle istituzioni, sono comunque assai gravi. Gravi per non essere state capaci di immaginare una nuova idea di ordine riconoscibile alla grande scala del territorio e alle sue relazioni con la città. Gravi perché, a partire da questa incapacità (o conveniente indifferenza), sovente la cultura architettonica di successo sostiene l’idea della città come sommatoria di eventi il più possibile dissimili e instabili, fondati solo sull’originalità della convenienza di mercato.
Anche in Europa non sono certo assenti segnali di difficoltà, ma essi attengono soprattutto a due fenomeni interconnessi: il liberismo ideologico della deregolazione e la dispersione degli insediamenti senza pianificazione territoriale a grande scala in un territorio di dimensioni limitate e dotato, come si è già detto, di una fitta rete di insediamenti e di una qualità morfologica fortemente storicizzata. La lenta crescita della popolazione europea (alimentata soprattutto grazie alle immigrazioni) non è in nessun modo paragonabile a quelle rapidissime prima esaminate, così come l’affollamento delle città a partire dall’inurbamento dalle campagne. Sono piuttosto i fenomeni turistici a essere in crescita e a provocare punte di crisi in alcune città storiche. Si veda per tutti il caso di Venezia, dove, secondo i dati della municipalità, nel 2006 si è constatata la presenza di 19 milioni di turisti, con una quota crescente di ‘mordi e fuggi’ giornalieri e punte di 150.000 persone al giorno, da sommare alle 20.000 persone che raggiungono giornalmente le isole per ragioni di lavoro. Tutto ciò contro una popolazione residente di circa 65.000 abitanti, in progressiva decrescita.
La regione intorno a Bruxelles, e più in generale l’area urbanizzata tra Francia e Germania (la blue banana), ma anche le regioni ben regolate dell’anello delle città olandesi, l’area che dalla Costa Brava scende verso Barcellona e Valencia, i casi, ormai storici, della regione della Ruhr e di quella di Lille-Roubaix-Tourcoing, e in Italia la Pianura Padana nel suo insieme, le aree del Veneto orientale, quelle a nord di Milano sino al confine dello Stato, per non parlare delle strade-mercato del Centro Italia o delle conurbazioni intorno a Napoli, non sono che alcuni esempi tra i molti. Pianificazioni comunali in contraddizione reciproca, difficoltà di coordinamento tra politiche diverse, ma anche mobilità nel lavoro e nel divertimento, costo della casa nelle città, l’aspirazione alla casa singola e alla proprietà dell’abitazione come affermazione di un’autonomia omogenea di massa: molte sono le cause che muovono verso la deregolazione, dilagando sino a sommergere la ricchezza della rete insediativa dei piccoli centri, che proprio dalle nuove condizioni offerte dalla comunicazione immateriale potrebbero assumere nuovo valore. In ogni modo, la città infinita dello sprawl consuma una grande quantità di quel bene finito che è il territorio, un bene che sembra ancora, a prima vista, a basso costo, ma difficilmente recuperabile, che esige alti costi di investimento nelle infrastrutture disperse e interrotte, senza gerarchie e senza pianificazione.
Tuttavia, le motivazioni che spingono il suo dilagare non mancano di ragioni oggettive. Anzitutto gli elevati costi della vita urbana, ma anche la congestione, l’inquinamento, l’inflazione normativa, la difficile relazione casa-lavoro, l’assenza di verde e altre ancora. Ma la città diffusa della deregolazione produce comunque danni permanenti a fronte di necessità solo apparentemente cogenti e per loro natura volontariamente provvisorie. Non bastano certo le esigenze delle nuove imprese e delle loro economie insediative a compensarli, né quella del basso costo dei terreni, né la promessa di una libertà personale senza confini, l’ossessione dello spazio della privacy e della proprietà della casa. Omogeneità nei materiali urbani, povertà e causalità nei principi insediativi ne restano in ogni caso il principale carattere compositivo, ove sovente sono le strutture della viabilità e i centri commerciali a costituirne i nodi eccezionali. Non mancano certo i tentativi di ribaltare secondo un giudizio positivo il fenomeno, ideologizzandone le ragioni di libera iniziativa volta all’imprenditoria, compreso lo sfruttamento immobiliare, fino a teorizzarne i criteri di espansione come ‘città infinita’ e assumerne i caratteri morfologici come forma di estetica della constatazione, dello straripare del flusso, ribaltandoli sulla stessa città storica.
Presente e passato
Franz Kafka ci ha insegnato, parlando della burocratizzazione del mondo, che la libertà dell’uomo può essere tanto illimitata quanto impotente, perché si tratta di quella libertà che l’economista Amartya Sen definisce come libertà negativa (in opposizione alla libertà come progetto), cioè come pura assenza di impedimenti che cercano il vuoto senza storia in cui espandersi. Gli ingredienti dell’estensione periferica esterna – i capannoni, i depositi, i luoghi frammentati di produzione, i centri commerciali, le tangenziali, i parcheggi, gli svincoli, le pompe di benzina, le villette, i vuoti in attesa di utilizzazione – sembrano l’emblema stesso della fine dell’identità dei luoghi e del loro trasferimento verso la nozione di riconoscibilità solo di sé stessi: ogni ipermercato o ogni aeroporto è infatti identico a sé stesso nel mondo. Forse lo deve essere, non solo per la riconoscibilità aziendale ma anche per quella sociale; forse la sua riduzione a immagine dell’efficienza mercantile dipende solo dall’immaturità nello sviluppo del tipo o forse dall’imitazione di modelli di vita televisivi che si sono trasformati da pulsioni apparentemente istituzionali in cemento sociale. Anche se tutto questo può essere indirizzato verso un obiettivo di qualità e verso un ordine morfologico comprensibile (ma la stessa comprensibilità contro il caos è un valore divenuto oggi incerto come qualità positiva), bisogna non solo confessare che la cultura architettonica non ha ancora trovato i modi per pensarli con chiarezza e per attuarli, ma avere anche il sospetto che siano proprio i massimalismi (sia quelli dell’entusiasmo per lo sviluppo senza limiti sia quello dell’ossessione del futuro come modo di sfuggire alle contraddizioni del presente) a impedirlo, non meno delle nostalgie del passato.
Al contrario, senza dialettica con il terreno del presente e del suo passato storico e geografico non vi è nemmeno progetto di futuro. Questo passato è l’ineludibile terreno su cui camminiamo, anche se per nostra fortuna non ci dice nulla sulla direzione da prendere. Esso coincide per la città europea, ma certo non solo per essa, con la storia della sua lenta stratificazione, con la presenza dei suoi monumenti e del loro significato collettivo, assai prima che turistico, e come permanenza delle sue tracce fondative e della loro modificazione necessaria. E la necessità è naturalmente qui pensata dal punto di vista architettonico, in quanto forma del valore. Anche se non se ne vedono per ora né le forze politiche né più in generale quelle culturali interessate, a giudizio di chi scrive la nozione di modificazione necessaria (e ogni forma di creatività è sempre modo di essere della modificazione), e quindi quella di ricostruzione critica della città europea, la renovatio urbis, coincide con l’idea del progetto come dialogo e confronto critico tra fondamenti della disciplina e trasformazione delle condizioni in cui agisce, cioè con il riconoscimento dell’esistenza dell’altro come geografia, come storia e come condizione sociale, in quanto materiale indispensabile a ogni futuro. Questo punto di vista dovrebbe essere il fondamento di un nuovo realismo critico, l’opposto, cioè, di ogni realismo ideologico, ma anche del relativismo cinico con cui oggi si trasforma la constatazione dello stato delle cose e del loro sviluppo incessante in valore comunque positivo da rappresentare: sovente contro la città e il suo disegno. Nonostante queste convinzioni, si è ben consci comunque del divario sempre più ampio che si è stabilito tra i tempi sempre più, fluidamente o meno, accelerati del funzionamento sociale e quelli lenti e, per destino di qualità, durevoli delle opere di architettura e ancor più di quelle necessarie al compimento di un progetto urbano.
La città è, si sa, un concetto assai più vasto di quello fisico-spaziale cui sovente gli architetti la riducono. Gli attori che in diversi modi la vivono hanno della città una visione, nello stesso tempo, più complessa e flessibile. La stessa influenza dei media sulla modificazione di senso provocata dall’informazione che essi stessi trasmettono aumenta certamente le difficoltà di disporre della facoltà di previsione: anche se questo non elimina il dovere di fare ipotesi. Le società comunque vivono le proprie micromutazioni e i flussi quotidiani in modo più diretto, rivendicano in modi diversissimi il loro droit à la ville, come scriveva Henri Lefebvre (Le droit à la ville, 1968; trad. it. 1970). Nella città, si sa, emergono continuamente anche processi inventivi e associativi che sono connessi a un accesso diretto alla casualità, che fanno sovente emergere nuovi aspetti importanti dell’inconscio collettivo ma anche delle possibilità del suo capitale sociale: tutte cose che aspettano una risposta anche dal disegno urbano.
L’intreccio di frammentazione e omogeneità dei comportamenti, i mutamenti nel mondo del lavoro sono, con tutte le loro contraddizioni, le basi delle nuove forme dello scambio sociale. Per es., lo spazio urbano collettivo è, come si è detto, in via di privatizzazione o di desertificazione. La sua trasformazione va da una scelta stabile di monumento civile a quella di un attributo temporaneo, mutevole nel tempo, di un luogo della città, con un’insistenza sui suoi caratteri di episodica discontinuità. La manutenzione è diventata poi una delle principali industrie della città; la congiunzione intrattenimento-commercio e la violazione della privacy sono diventate le più importanti forme di socializzazione. Territorio e produzione di beni si sono completamente disgiunti dal loro consumo. Ovviamente, anche se si può guardare a tutto questo come forma di libertà e di tolleranza piuttosto che di patologia, non è detto che non si possano immaginare alternative urbane.
Tutte queste cose e molte altre si costituiscono come problemi la cui impalcatura fisica dovrebbe essere fornita comunque dall’architettura nella forma del disegno urbano, che con la propria stabilità e lunga durata fissi i parametri del mutamento anziché tentare di imitarne esteticamente la dinamica come fanno molti architetti. Credere, come oggi sembra praticarsi, che le forme dell’architettura si siano messe a tremare e a fratturarsi per rappresentare l’instabilità dei nostri tempi sarebbe un insulto all’intelligenza dei processi costitutivi della pratica artistica dell’architettura, processi che non sono mai stati di rispecchiamento deduttivo, se non quelli della costituzione del peggiore kitsch. Ma si tratta poi di rappresentazioni o di esorcismi? Oppure di un complicato insieme di svago e misticismo, di euforia del disastro e dell’oblio delle ragioni delle contraddizioni? O semplicemente di impotenza nei confronti del mutamento?
Il problema non è comunque di battersi contro tutto questo per normalizzarlo, ma di essere capaci di trasformarlo in materiale attivo per una nuova architettura urbana, criticandolo nel concreto del progetto. Gli architetti, è vero, hanno il difficile compito di confrontare l’antica tradizione insediativa della città con uno sviluppo edilizio quantitativo tanto impetuoso da espandersi negli ultimi decenni con una quantità di costruito maggiore che nei precedenti duemila anni. Ma questo comunque in misura non paragonabile alle quantità poste in gioco dalle metropoli non europee, per le quali la regolazione delle quantità in espansione esponenziale richiederebbe una coscienza della propria identità culturale collettivamente diffusa, di lungo periodo e una forte indipendenza critica in modo contraddittorio proprio nei confronti dell’ossessione dello sviluppo incessante della cultura dominante come valore assoluto. Questo è un compito che non ha trovato ancora modi di essere coerenti con i principi insediativi neanche della città europea, né gli architetti sono stati capaci di utilizzarne positivamente tutte le possibilità e prevederne così gli assetti di fronte alle nuove condizioni. Peraltro non si è costituita un’edilizia capace di risoluzioni civili comuni come lo fu il materiale del tessuto urbano storico sino al 19° sec., almeno con l’occhio della distanza storica con cui lo si guarda. Tutto ciò è stato sostituito dalla pretesa della singolarità imitativa delle soluzioni, per ragioni di mercato dell’oggetto e dell’architetto professionista.
È anche pensabile che la qualità e l’identità architettoniche degli ambienti urbani siano diventate, per l’opinione della maggioranza rumorosa con cui ci si confronta, dei valori del tutto secondari. Si parla solo di congestione del traffico urbano ed extraurbano, di inquinamento, di costi infrastrutturali, di problemi di energia, di sicurezza personale. Tutte questioni importantissime, ma non uniche, che non devono comunque essere disgiunte da una tensione verso la qualità della morfologia urbana (non meno di quella territoriale da cui la prima non può essere distinta) e che dovrebbero rappresentare valori di qualche stabilità con cui confrontare gli incessanti micromutamenti.
Bisogna riconoscere che è proprio il significato della nozione di qualità della morfologia urbana a essere divenuto incerto assai più di un tempo. Va subito detto che la distanza storica ci restituisce talvolta un’immagine unitaria di alcune delle città antiche come Venezia, Aix-en-Provence, Cambridge, Praga, Siena, o ma in genere anche queste città sono composte da parti altamente eterogenee e contraddittorie, cementate oggi dal trionfo della volgarità.
Ma la città può essere bella? Forse. È certamente attrattiva, affascinante, misteriosa, ci regala il senso della possibilità, della perdizione, dell’incontro, della variazione, ma certamente non si possono applicare alla città le categorie critiche con cui si giudica un quadro o un’opera musicale che è pure soggetta anch’essa all’interprete esecutore come l’architettura. D’altra parte è divenuto difficilissimo ottenere un consenso sulla qualità della produzione delle arti, o meglio tale consenso si è trasferito su piani e su pratiche diverse continuamente transitorie, che si pretendono fondate sulla trasgressione delle regole fortemente eterodirette dalle immagini mediatiche delle comunicazioni di massa. Per tutte queste ragioni la qualità dei giudizi è diventata nello stesso tempo convenzionale e divergente anche sul tema della città bella.
Questa decadenza non è senza alternative, se, per es., si attribuisce ancora qualche valore strutturale e non solo turistico alla città storica, grande o piccola che sia; se ci si pone l’obiettivo della ricostruzione critica del suo insieme, con lo sguardo dell’oggi; se si guarda alle sue possibilità di rinnovamento interno piuttosto che a quelle di espansione infinita, utilizzando i vantaggi anche economici offerti dal contesto stratificato e dal terreno infrastrutturato; se si pensa alla città rinnovata come progetto di dialogo con tutte le nuove possibilità offerte dalle condizioni di interconnessione dei nostri anni. Ma costruire nel costruito significa anche resistere alla crescente divergenza tra mutazione delle destinazioni d’uso e monumenti, resistere alla specializzazione delle parti, all’espulsione delle classi meno abbienti dai centri storici, guardare criticamente ai principi insediativi che caratterizzano le nostre città come a un fondamento delle nuove edificazioni.
Costruire nel costruito della città storica implica però, al di sopra di una certa scala, un’idea di multipolarità capace di rinnovare strutturalmente le stesse periferie proponendo nuove centralità (‘i centri storici delle periferie’) fatte di mescolanza di tessuti sociali e di funzioni (comprese le funzioni di eccellenza) in grado di rendere la relazione tra le varie parti urbane necessaria e dotata di una sufficiente porosità di fronte alle micromutazioni incessanti. Si tratta di una proposta che deve tenere in alta considerazione la dialettica tra la rete globale della città e l’identità locale, che deve tornare ad attribuire alla lentezza e alla stratificazione un ruolo importante e che deve considerare materiale essenziale del progetto di architettura non solo il costruito, ma anche la relazione tra i costruiti e lo spazio del progetto del suolo come forma del luogo della comunità. Di tali relazioni si deve fare, dal punto di vista di questa ipotesi, il fondamento morfologico del rinnovamento urbano e a partire da esse individuarne gli attori: pubblici o privati che siano.
Non bisogna mai dimenticare che è necessario mantenere però una distanza critica tra ipotesi costruite dall’architettura e interessi correnti. Scriveva Theodor W. Adorno alla fine degli anni Sessanta del Novecento: «Un’architettura degna dell’uomo ha, degli uomini e delle società, un’opinione migliore di quella corrispondente al loro stato reale». E più avanti: «Non tutta la ragione è dalla parte dell’architettura, né tutto il torto da quella degli uomini, i quali subiscono comunque il torto di venir mantenuti sia a livello conscio che inconscio in uno stato di minorità, e perciò di non avere la possibilità di identificarsi con il loro stesso interesse. Proprio perché l’architettura, oltre che autonoma, è anche, effettivamente, legata a uno scopo, non può semplicemente negare gli uomini come sono; anche se, in quanto autonoma, deve farlo» (Ohne Leitbild. Parva aesthetica, 1967; trad. it. Parva aesthetica. Saggi 1958-1967, 1979, p. 120).
Responsabilità
Vi sono altre gravi responsabilità, più strettamente attinenti alla nostra attività di architetti in quanto pratica artistica, che è opportuno richiamare.
Anzitutto l’ossessione competitiva dell’espressione personale e della forzosa diversità soggettiva che sembra aver fatto cessare da parte delle azioni dell’architettura ogni relazione critica nei confronti del contesto. L’architettura di successo mediatico sembra muoversi verso il rispecchiamento delle opinioni indotte, ma dominanti, e questo viene contrabbandato come posizione volta alla realtà empirica ma soprattutto al futuro: naturalmente un futuro definitivo configurato come realizzazione dell’ideologia del mercato e come sottomissione a esso della scienza, della tecnica e delle stesse arti. Anche il ricorso salvifico al digitale (con tutta l’induzione linguistica coatta che esso comporta) ribadisce ancora una volta la confusione tra mezzi (con il loro non innocente utilissimo uso) e fini, anche se si deve riconoscere alla storicità dei mezzi tutto il peso culturale che compete loro. Ma proprio per questo ogni pratica artistica deve prendere da essi la distanza critica necessaria.
Molti pensano, dopo la caduta delle tensioni ideali di liberazione e di progresso della tradizione del moderno, che l’architettura non abbia alcuna capacità di proporre qualcosa al sociale e ancor meno al politico. È, cioè, caduta in disgrazia la tesi delle avanguardie del Novecento del valore e della forza politica delle opere dell’arte in quanto tali. Contrariamente alla tradizione oppositiva e ideale dell’avanguardia degli anni Venti del Novecento, gli apparenti atteggiamenti di diversità e di infrazione delle regole di oggi sono digeribili per la maggioranza rumorosa perché solo estetici, transitori, anzi, corrispondenti alle richieste del mercato. Anche se utilizzano proprio i linguaggi inventati, con intenzionalità critica, quasi un secolo fa. Non vi è alcuna regola da infrangere: tutto è stato infranto, non ci sono più scandali significativi, l’unico scandalo sarebbe la ricostruzione di regole altre: prima di tutto proprio quelle del disegno della città.
Il design, nel senso peggiore di questo termine un tempo nobile, è diventato la sintesi più significativa di questo atteggiamento, cioè dell’idea che il nuovo sia solo un valore aggiunto dell’oggetto di consumo, fondato sul continuo rinnovamento dell’immagine. Tutto è diventato estetico: e quando tutto è estetico, niente è più bello o brutto. Ciò ha investito in pieno anche la pratica del disegno urbano e territoriale, immaginata come la sommatoria di oggetti ingranditi in competizione. A questo si debbono aggiungere la complessità e i tempi lunghi delle realizzazioni, tempi che sono contrari all’impazienza dei nostri anni, ma anche alla nostra capacità di essere fedeli a principi per il lungo tempo necessario alla realizzazione dei progetti urbani. E ciò deriva anche dall’irrisolta divaricazione tra le intenzionalità di chi concepisce il piano complessivo di un intervento e chi ne realizza in genere i singoli edifici, perseguitati dalla mania della diversità ma anche dalle incertezze tipologiche e dai mutamenti dei mercati. A questo si aggiungono i processi di consenso che sovente oscillano tra garantismo e avventurismo, in una sostanziale incapacità di comprensione reciproca dei ruoli tra architettura, istituzioni e collettività. Riprodurre la varietà dei sistemi urbani è anche spesso una delle false aspirazioni di chi ha la responsabilità di vasti insiemi urbani: false perché la varietà urbana è prodotta dalla stratificazione storica e la sua ri-produzione è solo una scelta imitativa di tipo puramente stilistico.
Questo ha dato luogo a sua volta a un’estetica che muove tra esagerazione e constatazione, che cerca di far coincidere creatività e originalità: ma al mondo ci sono molte idee originali inutili e persino dannose.
Il progetto urbano è invece una forma di modificazione della realtà, è la presa di coscienza delle ragioni dell’altro, della sua esistenza, al di là di ogni realismo di rispecchiamento. Mai come in questi anni si sono visti costruire tanti pezzi di città, per non parlare degli edifici, né gli architetti sono stati tanto popolari da invadere persino i settimanali. Tuttavia, come proprio la città di oggi ci insegna, vi è più da temere da una eccessiva confusione competitiva tra i linguaggi dei diversi oggetti architettonici, che dalla disciplinata leggibilità e gerarchia tra le parti, in funzione della costruzione di un insieme che possegga un’identità attrattiva, capace di durare e aperta all’immaginazione sociale proprio a partire dalla propria stabilità dialogante. Tante cose capricciosamente diverse, si sa, producono il rumore indistinto dell’uniformità: articolazioni ed eccezioni necessarie si fondano invece sulla chiarezza della regola insediativa rispetto alla quale si misurano le differenze interpretative.
A tutto questo è necessario rispondere con una teoria dell’architettura che si fondi sul dialogo critico tra essenza della disciplina e contesto storico e fisico; tra fondamenti e critica alle condizioni. La regola è essenzialmente il contrario dell’uniformità: è ciò che permette al ritmo, alle sequenze, alle varietà di istituirsi; è ciò che rende visibile l’identità della città per mezzo della ‘cosa’ architettonica.
Forse è lo stato del soggetto ‘uomo occidentale’, la sua estraneità a sé che rende difficile avere immagini concrete dell’altro ma ottiene invece, agendo, sempre solo immagini di sé stesso. È della presenza indispensabile di questo ‘altro’ che la città deve essere scena e durevole testimonianza. È utile chiedersi, cioè, se è possibile costruire un sistema di resistenze e difendere gli spazi del rallentamento contro l’attualità incessante con un insieme di risposte fondatamente alternative a partire dalla ricostruzione stessa della specificità della pratica artistica del disegno urbano, con la fondazione di nuove regole insediative, senza alcun rifiuto nei confronti dei problemi posti anche da nuove condizioni sociali e urbane con i loro interrogativi, utilizzando tutte le possibilità straordinarie offerte da essi e dal pensiero scientifico, ma anche dalle speranze di cambiamenti profondi. È evidente il carattere di utopica radicalità di questa posizione, ma pure il riconoscimento della responsabilità del proprio ruolo in questo contesto da parte degli architetti.
Si è visto come la mediatizzazione dei linguaggi, il fantasma della virtualità, l’ossessione della comunicazione della visibilità e del potere come valore in sé, la globalizzazione ridotta a nuova forma di colonizzazione siano i caratteri più diffusi dei nostri anni, che si proiettano con il loro cambiamento incessante e inessenziale sulla nostra incapacità di costruire un’idea fondata del nostro futuro. Costruire un’architettura urbana civile, semplice, senza la ricerca dell’applauso è ciò che i migliori architetti anche oggi cercano di fare, senza smarrirsi nella società dello spettacolo, credendo nuovamente nella città dei cittadini e parlando con le opere di ciò che solo l’architettura può dire.
Ma cosa succede quando i fini civili si rivelano continuamente mobili negli obiettivi operativi mentre si mantengono fissi e omogenei solo a livello dei principi strutturali dell’economia, della finanza e del consumo? La risposta più ovvia è quella che si vive ogni giorno, ossia la rispondenza nella rappresentazione della forma della città a quei valori ritenuti strutturali. Ma è possibile anche, al contrario, la messa in evidenza dei loro aspetti contraddittori rispetto alla qualità della vita urbana, con la costituzione, per mezzo del progetto, di una distanza critica rispetto al quotidiano, guardando a ciò che non è in alcun modo presente, ma che può evocare l’idea che si ha di libertà e di giustizia e di verità, senza rifugiarsi nell’utopia dell’evasione, né rispecchiare solo il presente. Ben consci che alla condizione futura dell’architettura della città, ovviamente, non c’è risposta definitiva, se non quella di tornare a soffrire le contraddizioni del presente mantenendo, per parafrasare la celebre espressione di Walter Benjamin, una totale mancanza di illusioni nei confronti della propria epoca e ciononostante pronunciandosi criticamente per essa.
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