Città, Regno di Sicilia, demaniali
Le peculiari vicende del Regnum Siciliae rendono opportuna una rapida premessa sulle strutture del Regnum prima del riassetto federiciano. Va avvertito, infatti, che le popolazioni del Meridione italiano comprendevano due principali componenti: una autoctona-bizantina e un'altra longobarda, mentre la Sicilia, dal IX all'XI sec., conosceva la presenza islamica.
Anche se nelle fonti si parla di civitates, la qualifica parrebbe indicare solo le capitali dei principati e dei ducati longobardi (Benevento, Capua, Salerno) erette a sedi arcivescovili (von Falkenhausen, 1983, p. 302). Da esse si differenziavano le città-stato di Amalfi, Gaeta, Napoli, che si regolavano a diritto romano fruendo di autonomia politica e amministrativa. Città quali Bari, Bisignano, Brindisi, Gallipoli, Otranto, Reggio Calabria, Stilo, Taranto, Troia, legate all'amministrazione imperiale, si regolavano a diritto bizantino. La Sicilia, prima dei musulmani, era governata da un patricius o stratigoto, costituendo, con la Calabria, un thema articolato in province e municipi: un anonimo cosmografo riferiva di plurimae civitates sedi di vescovi e governate da magistrati locali (Genuardi, 1921, p. 35). A fronte dell'invasione musulmana, talune città (Catania, Messina, Palermo) riuscivano a trattare condizioni di resa, accettando il pagamento della gisìa e mantenendo condizioni di autonomia (Amari, 1854, pp. 470 s.), così come faranno con i normanni, e Goffredo Malaterra narra che nel 1071 "proximo mane primiores [panormitani] foedere interposito utrisque fratribus [Roberto et Rogerio] locutum accedunt, legem suam nullatenus se violari vel relinquere velle dicentes, scilicet, si certi sint, quod non cogantur vel iniustis et novis legibus non atterantur" (Goffredo Malaterra, 1925-1928, p. 53). In un diploma di Ruggero del 1093 si fa riferimento a "civitates, seu urbes, seu castella, seu casalia" e in una bolla di Eugenio III del 1151 si legge un elenco di "urbes seu municipia a Messana usque ad Flumen Tortum" (Rocco Pirro, 1633, pp. 393, 843). Ed ancora, al-Idrīsī ricorda "centotrenta tra cittadi e rocche, senza contar i manzil, né i rahal, né le case rurali" esistenti in Sicilia al tempo di Ruggero, facendo ipotizzare che si indicassero quali città i centri abitati di maggiore rilievo amministrativo ed economico, sedi di vescovati, probabilmente difesi da mura e fossati e con proprie magistrature e consuetudini (Genuardi, 1921, pp. 54-55). La conquista normanna unificava i territori nella struttura politico-istituzionale del Regnum, senza cancellare l'esistente rete di autonomie cittadine e le Assise ruggeriane (v. Assise di Ariano) danno conto del composito sistema socio-politico disponendo la vigenza delle leggi regie "moribus, consuetudinibus, legibus non cassatis, pro varietate populorum nostro regno subiectorum, sicut usque nunc apud eos optinuit" (assisa 1; Le Assise, 1984, pp. 26, 70). I normanni imponevano il diritto regio, territorializzandolo, a tutti i sudditi della monarchia, ma conservavano un sistema di personalità del diritto, garantito anche da specifici privilegia, con riferimento a città e individui. Città e terre del Regno, con i loro abitanti, erano ascritti al dominium del rex Siciliae, che poteva disporre ad libitum delle terre costituite in regium demanium. Talune città venivano concesse in beneficium a vescovi e abbati o infeudate, mentre tutte le altre erano ascritte al regio demanio, secondo un modello riportabile all'organizzazione politico-amministrativa bizantina, cui il legislatore normanno s'ispirava, in una visione imperializzante della regalità (Marongiu, 1955, pp. 213 ss.; Caravale, 1966, p. 48). Per le universitates l'appartenenza al demanio comportava un più o meno ampio grado di autonomia, costituendo uno status privilegiato, e nel linguaggio corrente l'aggettivo 'demaniale' veniva assunto a sinonimo di 'libero'.
Ciascuna delle città regie o demaniali godeva di un proprio riconosciuto corpus di privilegi e, di norma, i cives erano autorizzati a regolarsi secondo le consuetudinesloci e giudicati, in prima istanza e in civilibus, da magistrati cittadini. Le norme sulla cittadinanza regolavano le forme partecipative dei cives (Romano, 1994, p. 126) e questi, fossero milites non feudati, mercatores, burgenses, artifices o, genericamente, boni homines, potevano accedere alla proprietà allodiale e partecipare attivamente alla vita amministrativa locale. Al sostanziale mantenimento delle strutture amministrative e normative conseguiva una difformità nella gestione delle istituzioni cittadine, con città rette da stratigoti o da vicecomiti o da baiuli, in genere assistiti da curiae di iurati e iudices (Genuardi, 1921, pp. 76 ss.).
Il tema delle città demaniali ha costituito oggetto di dibattito storiografico, senza però produrre sistematiche trattazioni, essendo i temi maggiormente sviluppati quelli attinenti al fondamento del potere normativo delle universitates e alle origini e alla natura delle consuetudini, talvolta con impianti metodologici che presupponevano i rapporti fra città e Corona in chiave necessariamente conflittuale. L'appiattimento secondo parametri interpretativi connessi al modello dei 'liberi comuni' ha indotto taluni autori a sostenere che le città meridionali non produssero una vera legislazione statutaria (Besta, 1925, pp. 654 ss.). Un mutamento d'opinione si deve a Calasso (1928 e 1929) che ha ipotizzato uno sviluppo del potere normativo delle città meridionali in due fasi: una prima condizionata dal rigido accentramento regio e una seconda dalla ripresa delle autonomie e, in concomitanza con l'indebolimento del potere centrale, dalla nascita di una legislazione statutaria. Il riconoscimento alle città di un potere normativo assumeva rilievo anche sotto il profilo della loro natura politica, per lo stretto nesso fra potestas condendi statuta e autonomia politica.
Una fra le più antiche citazioni di consuetudines, in un testo normativo, si ha nell'assisa De legum interpretatione di Ruggero, mentre Ugo Falcando attesta una pluralità di fonti narrando che Ruggero "aliorum quoque regum ac gentium consuetudines diligentissime fecit inquiri, ut quod in eis pulcherrimum aut utile videbatur sibi transumeret" (1845, p. 287), in funzione della redazione delle Assisae. Proprio in età normanna, insieme alle istituzioni pubbliche, alla legislazione regia e a una lingua comune, si consolidavano nuclei di consuetudini derivanti dalla fusione di quei boni mores, diritti personali e consuetudines la cui vigenza era esplicitamente riconosciuta dalle Assisae.
Una forte compressione delle autonomie sarebbe da ascriversi a Federico II che non solo avrebbe ribadito l'obbligo di non contraddittorietà delle consuetudini al diritto regio ma altresì prescritto un'espressa approbatio delle stesse (Calasso, 1940, pp. 53 ss.). Un'ipotesi fondata sulla cost. Puritatem con cui Federico disponeva che i magistrati giudicassero "secundum constitutiones nostras, et in defectu earum secundum consuetudines approbatas, ac demum secundum iura communia" (Const. I, 63; Constitutionum, 1773, p. 123). La norma, che trova riscontro anche nelle cost. Cum circa, Ut universis e Iudices, di fatto riproponeva un'assise di Ruggero, di cui Federico condivideva, ampliandola, la visione maiestatica e ribadiva, rafforzandolo, il disegno di governo.
Marino da Caramanico, ponendo l'interrogativo se "consuetudines valent in Regno que his constitutionibus non repugnant" (gl. Et consuetudinibus, a Const. I, Pröem., in Constitutionum, 1773, p. 7), riportava i termini della controversia se la conformità alla normativa regia fosse richiesta solo per le "consuetudines scilicet que precedunt leges" o anche per quelle successive, concludendo nel senso "de consuetudinibus tam precedentibus quam sequentibus istas constitutiones", e aggiungeva che "ita servamus in magna regia curia". Senza alcun accenno a controlli preventivi sulle consuetudini, circostanza che avrebbe reso priva di significato la quaestio, mentre faceva riferimento a un controllo di natura giurisprudenziale della Regia Gran Corte. Peraltro, il participio approbatae, nello specifico contesto, può ben valere 'osservate', come nella cost. Ut universis (Romano, 1993, pp. XLI* ss.).
Il dato fa comunque emergere il pregnante ruolo attribuito ai giudici da Federico, che non esitava a punire duramente, ma non più con la morte (Const. I, 48; Constitutionum, 1773, p. 104), sia i magistrati che osavano esercitare arbitrariamente poteri giurisdizionali sia quanti incautamente glieli avessero attribuiti; pene più severe erano previste per chi "auctoritate consuetudinis alicuius vel ex collectione aut electione populi" avesse eletto potestà, consoli, rettori cittadini o avesse accettato di esercitare quegli uffici.
Pluralità di normative e di magistrati che la monarchia normanna aveva voluto controllare e ridurre a sistema, in una struttura istituzionale che accanto ai feudi vedeva una vasta rete di città demaniali, mentre il riordino delle magistrature centrali e periferiche, pur favorendo una sostanziale omogeneità strutturale, ad esempio attraverso l'estensione della magistratura baiulare, tendeva principalmente a garantire alla Corona un consistente gettito fiscale oltre che un accettabile controllo del territorio. Al di là della presenza cittadina di magistrati i cui nomi restavano legati al lessico bizantino (catepani, pretori, stratigoti) le universitates erano amministrate con la baiulatio, che sia i re che i feudatari d'ordinario appaltavano o vendevano (Martin, 1994, p. 180). I baiuli, se demaniali, amministravano anche la giustizia civile e penale minore, assistiti da giudici locali e sotto la vigilanza di camerari e giustizieri istituiti, come nota Romualdo Salernitano (1866, p. 423), da Ruggero per conseguire la pace e la sicurezza. Di particolare autonomia godevano, per privilegio, talune città dalle forti tradizioni di autogoverno, quali Gaeta, Messina, Napoli, mentre la presenza vescovile non assumeva un ruolo politico particolarmente significativo, in conseguenza del fatto che la monarchia, in forza dell'apostolica legatia, esercitava un controllo sui vescovi, col diritto di veto sulle nomine vescovili e la concessione alle cattedrali delle decime sulle entrate regie nonché dei proventi della giurisdizione sugli ebrei.
Il "pernicioso contagio comunale" si propagava nel Regnum in concomitanza con la crisi dinastica: in una situazione di sostanziale anarchia, le città demaniali accentuavano i propri poteri di autogoverno. Se Bari, Brindisi o Gaeta, stipulando (con Ragusa, Venezia e Pisa) accordi di natura internazionale, si atteggiavano a 'repubbliche', Teramo otteneva dal vescovo di potersi eleggere un podestà, mentre Napoli si nominava un capitano e Gallipoli si sceglieva un proprio giudice (Martin, 1994, pp. 182 s.) e sappiamo di convenzioni di alleanza fra le stesse città del Regno (Tramontana, 1983, p. 662).
Lo scontro fra le varie fazioni in lotta per il potere portava le universitates demaniali a farsi fautrici dell'uno o dell'altro contendente, alla ricerca della conferma di prerogative fiscali e giurisdizionali di fatto usurpate per il vuoto di potere esistente, senza sostanzialmente tentare la via della 'sovranità comunale'. Anche le città demaniali, quantunque la carenza di potere potesse favorire un ruolo politico autonomo, finivano per muoversi in una logica d'impianto feudale che le portava a richiedere privilegia in cambio di fidelitas. In situazioni di crisi, ad esempio, Enrico VI, nel 1197, e Federico II, nel 1201, confermavano ai cives di Caltagirone "omnes bonos usus et consuetudines vestras et omnes libertates, concessiones et privilegia" (La Mantia, 1900, p. CCLXXIV). Comprendiamo così gli interventi operati, dal 1220, da Federico II per il riordino dell'amministrazione del Regnum, assurgendo le città demaniali ad elemento centrale di un progetto che, preliminarmente, tendeva a restaurare gli assetti amministrativi dell'età normanna. A partire dalle Assise di Capua Federico poneva, infatti, taluni punti fermi riguardo alle strutture cittadine nel Regno.
Con l'assise Cum satis (Const. I, 50; Constitutionum, 1773, pp. 105 s.) Federico disponeva che "officiales tantum a nostra maiestate statutos, vel de mandato nostro magistros iustitiarios, iustitiarios, camerarios, baiulos et iudices ubique per Regnum nostrum volumus esse". Affrontando il problema delle usurpazioni di giurisdizione, prescriveva che "amodo potestates, consules, seu rectores in locis aliquibus non creentur, nec aliquis sibi auctoritate consuetudinis alicuius vel ex collatione populi officium aliquod aut iurisdictionem usurpet". Il castigo minacciato ai ribelli era severissimo: "Quaecumque autem universitas in posterum tales ordinaverit, desolationem perpetuam patiatur et omnes homines eiusdem civitatis angarii in perpetuum habeantur". Non meno dura era la punizione prevista per chi avesse indebitamente ricoperto una magistratura: "eum vero qui aliquid de officiis supradictis susceperit" si diceva "capite puniri censemus". E che Federico non minacciasse invano lo sperimentavano, ad esempio, sia gli abitanti di Celano, distrutta nel 1223 (Tramontana, 1983, pp. 680 s.), sia quelli delle città ribelli che subivano il castigo "quod locus ipse perpetuo desoletur" (Historia diplomatica, V, 1, p. 565). Di contro, l'assisa 18 confermava quali magistrati cittadini i baiuli, nominati dai camerari, ferma restando la giurisdizione penale ai giustizieri (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 32). Un indirizzo ribadito nel Liber Augustalis, con le costituzioni Locorum baiuli, Baiulus, De officio baiulorum (Const. I, 65, 66, 67; Constitutionum, 1773, p. 125 ss.). La nomina dei notai delle città demaniali, come quella dei giudici, era riservata al sovrano e la cost. In locis demanii ne prevedeva sei per città, fatta eccezione per Napoli, Salerno, Capua, cui se ne concedevano otto (Const. I, 81; ibid., p. 142).
L'azione restauratrice di Federico dovette essere incisiva se, in occasione della crisi prodottasi con l'invasione pontificia, un certo numero di città, fra le quali Foggia, si ribellarono nel tentativo di affermare la propria autonomia, provocando una reazione dura. La potenzialità ribelle delle universitates veniva affrontata ab imis con il riempimento dei fossati difensivi e l'abbattimento delle mura.
Il progetto di riforma del 1220 era perfezionato con la promulgazione delle Assise di Melfi, con cui Federico non si limitava più a voler restaurare l'ordine normanno, ma intendeva perfezionare le strutture statali rafforzando i poteri della monarchia. In tal senso, ad esempio, la cost. Privilegia (Cost. I, 108; ibid., p. 182) toglieva a tutte le città (e specificatamente a Messina, Napoli, Aversa e Salerno) il privilegio di foro, affermando l'unicità della giurisdizione regia. Con la cost. Locorum baiuli veniva confermato, in generale, il sistema di affidamento dell'ufficio della baiulatio, da parte dei camerari o della Regia Curia, in credentiam vel in extalium (Const. I, 65; ibid., p. 125) mentre la cost. Saepe contingit (Const. I, 71; ibid., p. 131) fissava in tre il numero dei baiuli delle città maggiori, con tre giudici elettivi di durata annuale, con l'eccezione di Napoli, Salerno e Capua, alle quali erano riconosciuti cinque giudici. Una differenza che si manteneva anche nel numero dei notai.
Ai giudici, che non potevano essere ecclesiastici né di condizione servile o soggetti alla giurisdizione feudale, veniva imposta la conoscenza dello ius commune, dello ius regium e delle consuetudini locali, la cui cognizione doveva risultare da 'lettere testimoniali' attestanti anche la fedeltà al sovrano e i buoni costumi del candidato. La cost. Generalia iura conferiva alle universitates una limitata capacità giuridica, riconoscendo loro la facoltà di stare in giudizio mediante sindaci (Const. II, 2; ibid., p. 189). Convocando, nel 1232, un generale colloquium a Foggia, Federico richiedeva che "de qualibet civitate, vel castro duo de melioribus accedant [...] pro utilitate Regni et commodo generali" (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 369).
Prevedendo variazioni nei dazi e nelle gabelle e, quindi, l'imposizione di nova iura, le Assisae di Foggia, pubblicate nell'ottobre a San Germano, assumevano una peculiare rilevanza per la valenza fiscale. La partecipazione di cives alle Curie generali, ove s'imponevano nova iura, portava verso l'adozione di meccanismi di rappresentanza che Federico sembra volesse limitare alla partecipazione alle 'assemblee parlamentari' di due "de melioribus de qualibet civitate", probabilmente designati dalle universitates o scelti dai magistrati periferici (Romano, 2002, pp. 51 ss.).
Innovando, nel 1240, con la novella Magistri camerarii, Federico vietava ai camerari di vendere gli officia baiulationum (Const. I, 63; Constitutionum, 1773, p. 124) ritenendo indignum che "sacratissimum quisquam iustitiae ministerium precii venalitate mercetur". S'imponeva, pertanto, il conferimento della magistratura baiulare "viris fidelibus et opinionis electae, prudentioribus et generosioribus ac ditioribus prout locorum conditio ministrabit, qui sint de demanio nostro tantum" e prevedendo, con la novella Occupatis nobis, un solo baiulo e tre giudici per città (Const. I, 97.1; ibid., p. 162). In seguito, con la novella Iudices ubique, baiuli e giudici risultavano ufficiali regi stipendiati, di durata annuale e, ove possibile, iurisperiti (Const. I, 97.3; ibid., p. 164). Era proprio l'adozione di meccanismi efficaci di centralizzazione ad indurre, probabilmente, alcune città, che si ritenevano spogliate di taluni privilegi goduti nell'età dei Guglielmi, a tentare la via della resistenza. E la rivendicazione dello status di libertà dell'epoca guglielmina assurgeva a topos della pubblicistica politica meridionale, trovando riscontro nella quasi totalità delle richieste di conferma di privilegi e finendo per dare sostanza alla 'costituzione storica' della nazione siciliana. Nel 1232 era repressa la sommossa messinese di Martino Mallone e, sintomo di una diffusa insofferenza delle città siciliane "qui odio imperatorem habebant" (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 161), si ribellavano Lentini, i cui abitanti venivano deportati nella città di nuova fondazione Augusta, e Centuripe, rasa al suolo come Capizzi, i cui abitanti venivano trasferiti a Palermo. Nei castighi regi incorrevano anche Catania, Siracusa, Nicosia e Troina. Nel 1233 erano distrutte le mura di Troia e nel 1239 era bruciata Città S. Angelo, di cui si trucidavano gli abitanti (Tramontana, 1983, pp. 680 ss.).
Se le Assise capuane avevano segnato l'inizio della restaurazione del demanio, le Costituzioni melfitane, del 1231, e quelle di Foggia, del 1240, non si limitavano a riordinare lo status delle universitates demaniali ma, con una varietà di provvedimenti riguardanti l'annona, l'igiene pubblica, i pesi e le misure, l'ambiente, le nomine degli ufficiali locali, tendevano a realizzare un penetrante controllo sulla vita cittadina che si voleva regolare, con criteri di uniformità che lasciavano ridotti ambiti decisionali ai locali ceti dirigenti. Una molteplicità di costituzioni comprimeva l'iniziativa politica delle città la cui vita risultava meticolosamente regolata da direttive regie, riprese e perfezionate nel tempo.
Provvedimenti a favore dell'incremento o mantenimento della consistenza del demanio portavano alla demanializzazione, nel 1239, di Catania, sottratta alla giurisdizione del vescovo, come anche alle rivendicazioni di uomini del demanio passati in terre feudali.
Significativamente, nel 1240, il diritto longobardo, ancora presente nell'elencazione del 1231, era cassato dall'elenco delle normative che i baiuli dovevano applicare. Ugualmente indicativa di un sistema centralizzato era la prescrizione, sempre del 1240, di una presenza itinerante fra le città del giustiziere (Const. I, 52.1; Constitutionum, 1773, p. 108), vero arbitro dell'attività giudiziaria, cui la novella Magister iustitiarius, del 1244, definendolo "iustitiae speculum", affidava un quasi illimitato potere disciplinare su tutti i giudici (Const. I, 42; ibid., p. 93). Peraltro, l'articolazione degli uffici e delle funzioni in capo a più magistrati impediva la concentrazione di poteri in un solo soggetto, limitando la possibilità che qualcuno potesse proporsi come leader politico cittadino.
Altrettanto rilevante risultava la costruzione di un apparato giudiziario territorializzato che, concretamente, riportava tutta la giustizia al sovrano, preoccupato di assicurare ai sudditi equità e ordine e di avere la certezza dell'osservanza delle sue leggi. Alla preoccupazione di avere dei magistrati tecnicamente attrezzati (secondo un intento già evidenziato col riordino dello Studium generale di Napoli nel 1224), la cui preparazione era attestata con un'esame della Curia regia, corrispondeva l'esigenza di assicurarsi una rete capillare di funzionari fedeli esecutori delle leggi, lasciando modesti spazi alle giurisdizioni locali limitate agli affari civili e a un primo grado di giudizio. Una costruzione uniforme che conosceva eccezioni solo nelle situazioni privilegiate riconosciute ad alcune città maggiori i cui cittadini potevano godere di significativi privilegi di foro. A parte la possibilità di costituirsi in giudizio per il tramite di sindaci, le universitates demaniali erano presenti nei colloquia generalia convocati dal sovrano con rappresentanti che, come si diceva nei mandati convocatori, dovevano accorrervi "ut serenitatem vultus nostri respicia[nt] et nostram audias voluntatem" (Mandata ad praecipuos officiales; Historia diplomatica, V, 1, p. 795).
Un ruolo più incisivo alle rappresentanze cittadine era riconosciuto nella cost. Etsi generalis cura, delle Assise di Messina (v.) del 1234, non ricompresa nelle edizioni del Liber Augustalis (ibid., IV, 1, p. 461), che istituiva delle curie generali provinciali. Resta, tuttavia, il dubbio se queste abbiano mai funzionato (Colliva, 1964, pp. 146 ss.) e, comunque, la partecipazione a tali colloquia era un dovere per i sudditi. Federico restava essenzialmente legato a visioni medievali della maestà regia e della legge, che riteneva riportabili a un ordine divino che si esprimeva attraverso la voluntas dell'imperatore titolare dell'indivisibile iurisdictio. Una concezione che gli impediva di comprendere le realtà cittadine, percepite solo come fonte di possibili turbamenti, e di concepire modelli di rappresentanza che andassero al di là di quelli delle autonomie feudali (Romano, 2002, p. 59). La facoltà di nominare sindaci e nuncii, unitamente alle notizie di decisioni adottate in assemblea, farebbe ipotizzare l'esistenza di consigli cittadini e si è ritenuto che potessero deliberare a maggioranza (Besta, 1907, p. 301). Posto che tali "corpi municipali" (Gregorio, Considerazioni, 1858, p. 204) siano esistiti e che "i cittadini a deliberare delle cose pubbliche poteano alle volte radunarsi in consiglio", non abbiamo però conoscenza di luoghi deputati a funzioni pubbliche ed è probabile che le adunanze cittadine avvenissero in chiesa, senza identificazione di loci politici d'autonomia, quali i palazzi comunali. Peraltro le esigenze fiscali portavano il sovrano a cercare nelle città fonti di rendita, imponendo nova statuta, con pesanti dazi sui consumi e tassazioni sulle merci in entrata e in uscita e sulle transazioni, mentre la generalis collecta veniva trasformata in un'imposta annuale sul patrimonio. All'incremento delle gabelle conseguiva l'aumento degli incaricati alle esazioni, con un meccanismo di burocratizzazione gradito solo a chi traeva lucro dagli appalti, godeva dei proventi di un ufficio regio, fruiva del prestigio connesso alla magistratura.
La limitazione delle libertates e l'aumento della pressione fiscale portavano, alla morte di Federico, all'esplodere di istanze autonomistiche che trovavano fondamento, forse più che nel desiderio dei patriziati cittadini di affermare meccanismi di autogoverno, in una diffusa insofferenza dell'esoso fiscalismo.
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