Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La città nell’Europa del Seicento appare sulla difensiva. Dal punto di vista politico, proseguendo una tendenza già avviata, perde sempre più autonomia di fronte ai nuovi organismi nazionali o sovranazionali e, dal punto di vista economico, perde alcune funzioni produttive. I mutamenti politici e quelli economici offrono però anche opportunità di cui alcune città approfittano.
Crisi della città?
Gli storici hanno spesso individuato nella città la specificità e il lievito stesso della civiltà occidentale. Per Weber la città in senso proprio è “qualcosa di specificamente occidentale” nel suo aspetto politico di comunità libera. Per Braudel in Occidente “capitalismo e città furono, in fondo, la stessa cosa”.
Durante il Seicento tuttavia la città europea si trova minacciata su due fronti. Sul versante politico l’autonomia delle città cede il passo di fronte all’avanzata dello Stato territoriale. Sul piano economico, la tradizionale divisione del lavoro tra città e campagna (alla prima l’industria, il commercio, la finanza, insomma i settori più dinamici dell’economia, alla seconda l’agricoltura) è rimessa in discussione dai mutamenti nell’organizzazione della produzione.
La crisi del Seicento è dunque anche una crisi della città? La risposta non è semplice. Come per molti altri aspetti del Seicento europeo, è difficile ricondurre le vicende delle città a un percorso unitario. Ci sono città che effettivamente vedono drasticamente ridimensionato il loro ruolo economico e politico, e altre che espandono in modo straordinario la loro influenza in Europa e al di fuori. A ben vedere però, questi andamenti contrastanti sono il risultato del dispiegarsi di un processo di integrazione degli spazi economici e politici che caratterizza questo secolo. In questo senso le vicende urbane riassumono ed evidenziano le tensioni che percorrono l’intera società europea.
Se è vero che nel complesso l’urbanizzazione europea nel Seicento non progredisce, a differenza di quanto era avvenuto nel secolo precedente, questo dato non deve ingannare. Nel corso del Seicento si verifica infatti una duplice, rivoluzionaria trasformazione nella geografia e nei sistemi urbani: un deciso spostamento verso le regioni settentrionali e atlantiche dei poli urbani più importanti e un aumento della quota di popolazione urbana che risiede nelle città maggiori. Il sistema urbano europeo appare dunque a fine secolo molto più gerarchizzato, quantomeno oligarchico, se proprio non siamo disposti ad accettare l’idea di un’unica città dominante – Amsterdam – sull’insieme del sistema-mondo europeo. Ed è interessante rilevare come questa gerarchizzazione si riproponga a livello regionale e anche nelle aree avviate al declino. In Lombardia come nel Brabante, le capitali regionali, Milano e Bruxelles, resistono molto meglio di quanto non facciano le città minori.
Mutamenti strutturali: città in crescita e città in declino
Vediamo qualche dato. Alla fine del Cinquecento poche città superano i 100 mila abitanti: Londra, Parigi, Milano, Venezia, Napoli, Roma, Palermo e Lisbona. Cinque su otto si trovano in Italia, sei rientrano in quella che potremmo chiamare l’Europa mediterranea e comunque tutte si trovano entro i confini della vecchia Europa, nei territori che un tempo fecero parte dell’Impero di Roma.
Un secolo dopo il paesaggio appare mutato. Alle otto città citate si aggiungono Amsterdam, Madrid e Vienna. Mentre però Milano, Venezia, Roma, Napoli e Palermo si limitano sostanzialmente a mantenere le loro posizioni, Londra triplica il numero dei suoi abitanti, Parigi li raddoppia, e il risultato di Amsterdam, che passa da 65 mila a 200 mila abitanti, è ancora maggiore se si tiene conto che la città olandese con i vicini centri di Rotterdam, L’Aia, Leida e Haarlem, costituisce una vera e propria regione metropolitana di circa 400 mila abitanti. A fine Seicento, almeno due città (Parigi e Londra) superano il mezzo milione di abitanti, un livello mai raggiunto da nessuna città della cristianità occidentale, mentre un secolo prima solo la capitale francese superava, e di poco, i 200 mila. È senza dubbio un fatto rilevantissimo, soprattutto se consideriamo che durante questo secolo la popolazione europea e il tasso di urbanizzazione rimangono quasi stazionari. La formazione di quelle che per l’epoca sono autentiche megalopoli comporta mutamenti strutturali di grande rilievo nella geografia delle relazioni economiche. Sfamare e riscaldare gli abitanti di una città di queste dimensioni pone problemi logistici giganteschi data la tecnologia agricola e dei trasporti dell’epoca.
Come spiegare questi sviluppi? La tipologia delle città in ascesa e di quelle in decadenza è sufficientemente chiara. Le città che crescono durante il Seicento appartengono a due categorie: le capitali di stati territoriali in via di formazione o consolidamento, e le città portuali e mercantili che si trovano al centro del sistema internazionale di scambi e in continua espansione. Le città “sconfitte” sono invece soprattutto quelle della fascia urbana che va dall’Italia centro-settentrionale alle Fiandre passando per la valle del Reno e la Germania meridionale, con le diramazioni a nord verso il Baltico – le città anseatiche – e a sud nella Penisola iberica.
Parigi (Versailles compresa) rappresenta al più alto grado il primo tipo di città in crescita: è la capitale della più grande, più popolosa e più efficacemente centralizzata monarchia europea. A un livello inferiore si possono citare altri esempi come Vienna, Berlino, Copenaghen, Stoccolma, Roma (ormai ridotta al ruolo di capitale di una formazione regionale), Napoli, ma anche le Residenzstädte dei Principati tedeschi.
Le capitali dimostrano un’enorme capacità di attrazione sugli uomini, le merci e le risorse economiche, e anche intellettuali, dello Stato. Gli apparati statali affinano faticosamente le loro capacità di controllo e di prelievo sulle risorse dei territori a essi soggetti. Inoltre il richiamo esercitato dalla corte, centro dove si dispensano favori e posti di potere e prestigio, ma anche dove si elaborano modelli culturali, di consumo e di comportamento, fa sì che vi si concentrino in misura crescente i nobili e, in generale, gli appartenenti alle élite. I destini incrociati di Valladolid, la (quasi) capitale della Spagna di Carlo V, e Madrid, la città eletta capitale dai suoi discendenti, mostra l’importanza del fattore politico per le fortune urbane. La prima tra il 1550 e il 1700 perde quasi i due terzi della sua popolazione, la seconda la moltiplica per tre. La capitale realizza infatti una formidabile concentrazione della rendita, nelle sue diverse forme.
Il rafforzamento dello Stato territoriale può però avere ricadute positive anche per altre città dello Stato. Guardiamo ancora una volta a due esempi francesi. Lione, grazie al favore dei Valois e dei Borbone, diventa la seconda città di Francia, snodo nevralgico delle relazioni commerciali e finanziarie con l’Italia, dalla quale importa i capitali e le competenze manageriali e artigianali che faranno la sua fortuna. E poi Marsiglia, porta della Francia sul Mediterraneo e il Levante, nella duplice funzione di porto mercantile e base militare per la flotta. Entrambe le città, nel corso del Seicento raddoppiano all’incirca la loro popolazione e in gran parte lo devono al favore e alle attenzioni loro riservate dalla monarchia.
Come dobbiamo valutare lo straordinario incremento di questi centri urbani? Si tratta di una centralizzazione parassitaria, di una forma potenziata del tradizionale dominio esercitato dalla città sulla campagna, o la formazione di questi giganti urbani è uno stimolo alla crescita economica degli Stati che li hanno alimentati? Anche in questo caso la risposta non è univoca. In certi casi (Madrid e Napoli) sembra lecito parlare di città “parassite”. Queste capitali sono sviluppate a spese di Stati sempre più impoveriti e la loro contrazione durante il Seicento (Madrid cala da 130 a 100 mila abitanti e Napoli da 280 a 215 mila) mostra i limiti invalicabili di questo modello di crescita urbana.
La vicenda di Londra racconta tuttavia una storia diversa. “Tra breve – prevede Giacomo I all’inizio del Seicento – Londra sarà tutta l’Inghilterra”. È una profezia che in fondo testimonia dell’acutezza di un sovrano spesso sottovalutato. In effetti, tra il Cinquecento e il Settecento, Londra raddoppia la sua popolazione ogni mezzo secolo. Una progressione stupefacente, soprattutto se si considerano le ridotte dimensioni del Regno e la posizione ancora relativamente marginale che esso ha nel contesto europeo e mondiale. Neppure la terribile pestilenza del 1665 e l’incendio del 1666 ne arrestano lo slancio.
La concentrazione di potere d’acquisto induce profonde modificazioni nella struttura dei mercati, soprattutto quelli delle derrate alimentari. La domanda londinese promuove infatti una maggiore specializzazione nell’agricoltura delle regioni circostanti e un aumento della produttività agricola. Questo stimolo non si limita peraltro all’agricoltura, ma investe anche i prodotti industriali, i trasporti e un settore che sarà di grande importanza per i futuri sviluppi industriali: quello dell’estrazione del carbone. Ma il rapporto causale esistente fra la crescita di Londra e lo sviluppo economico inglese è certamente circolare, un tipico esempio di retroazione positiva: come ha scritto Fernand Braudel, “Londra crea il mercato nazionale e ne è creata”.
Le città atlantiche
Londra, almeno a partire dalla seconda metà del Seicento, gioca su due fronti e cumula gli effetti benefici dei due fattori di crescita urbana: quello politico, in quanto capitale, e quello economico, in quanto grande centro commerciale e manifatturiero proiettato sugli spazi oceanici.
Qualcosa di simile vale anche per Amsterdam, capitale del giovane Stato delle Provincie Unite. Ma qui il fattore politico è certamente secondario. Le Province Unite hanno un territorio e una popolazione troppo limitati per alimentare uno sviluppo analogo a quello di Londra o Parigi. Inoltre la struttura federale delle Province Unite impedirebbe quel drenaggio centralistico delle risorse all’origine della crescita delle altre capitali. Nel caso di Amsterdam l’elemento trainante è senza dubbio la posizione centrale, se non proprio egemonica, che la città riesce a conquistarsi nell’economia-mondo creata dagli Europei sulla scia delle scoperte geografiche. Amsterdam è il terminale della più grande flotta mercantile d’Europa, l’emporio dove affluiscono e da dove ripartono merci da e per ogni angolo del mondo, spezie dell’Insulindia, cotone indiano, sete persiane, zucchero brasiliano, grano baltico… Durante il XVII secolo Amsterdam merita senz’altro la definizione di emporium mundi o almeno, volendo essere meno eurocentrici, quella di emporium Europae. È anche il principale centro finanziario, almeno dopo la metà del secolo, e lo resterà fino alla seconda metà del Settecento, quando dovrà cedere il posto a Londra. L’affermazione di Amsterdam nel Seicento ricorda nelle cause e nelle modalità quella precedente di un’altra città, con cui condivide molte analogie urbanistiche e a cui è stata spesso paragonata: Venezia. Due città che devono la loro fortuna alla capacità di imporre la loro intermediazione commerciale fra spazi e civiltà lontane.
Amsterdam è senz’altro l’astro più brillante, ma accanto a lei nel Seicento cresce una nebulosa di città atlantiche che affidano le loro sorti alle rotte oceaniche. Innanzitutto le altre città delle Province Unite, che abbiamo già citato, a cominciare da Rotterdam e l’Aia. E poi Dunquerque, Saint-Malo, Nantes, Bristol, Amburgo... Questo elenco avrebbe compreso anche la più dinamica e intraprendente fra le città marittime francesi, La Rochelle, se non fosse incorsa nelle ire di Richelieu.
Le città declinanti
Il rovescio della medaglia consiste ovviamente in quei centri urbani che nel Seicento subiscono un declino della loro popolazione, o almeno un ristagno. Abbiamo già visto come la maggior parte di questi centri si trovi in quelle regioni che fino al Cinquecento erano state all’avanguardia dello sviluppo economico e dell’urbanizzazione: Italia centro-settentrionale, Renania e Germania meridionale, Paesi Bassi meridionali, Hansa… In alcuni casi, come quelli di Augusta o di Cremona (città di grande rilievo finanziario e industriale ancora alla fine del Cinquecento), si tratta di autentici tracolli. Ma anche Verona, Vicenza, Piacenza, Monaco, Colonia, Lubecca e tante altre ristagnano o declinano. Neppure la collocazione atlantica è garanzia di prosperità se il destino di una città è legato a quello di una potenza sul viale del tramonto. Siviglia, tra Seicento e Settecento cala da 135 a 72 mila abitanti. A nord Danzica, a lungo il più importante porto del Baltico, diviene nel Settecento l’ombra di se stessa, con 40 mila abitanti – metà rispetto al secolo precedente.
La crisi demografica può essere la manifestazione di una crisi di funzioni economiche quando i flussi commerciali prendono altre vie, o di una crisi politica quando una città perde la sua presa sul territorio grande o piccolo che prima controllava, o del cumularsi dei due fattori. Un aspetto particolarmente importante, soprattutto per le città italiane, è il declino manifatturiero. Queste antiche città industriali non sono in grado di far fronte alla duplice concorrenza della produzione di manufatti nelle campagne e di quella dei nuovi centri olandesi e inglesi.
La perdita di dinamismo economico e di autonomia politica si traduce anche in un irrigidimento delle strutture sociali. I ceti dirigenti si chiudono sempre più, proseguendo una tendenza già delineatasi in precedenza, in patriziati che in molti casi escludono mercanti e altri operatori economici dalla gestione della politica cittadina, il che significa che gli interessi commerciali e produttivi sono ancora meno politicamente tutelati. L’involuzione e il declino delle città della Hansa di fronte all’aggressività commerciale olandese e a quella politica di Danimarca, Brandeburgo e soprattutto Svezia, è un altro esempio eloquente delle difficoltà degli Stati cittadini.
La città e l’industria
Nel corso del Seicento la città vede dunque ridimensionato il suo ruolo politico rispetto alle nuove formazioni statali, e talvolta perde il monopolio di alcune attività economiche. Sarebbe però imprudente, anche nel caso italiano, parlare di una crisi globale della città e tanto meno di una rivincita delle campagne.
Dal punto di vista economico, del commercio, della finanza e della manifattura, le città europee mantengono infatti una posizione centrale. Se è vero che quella tra città e campagna “è una divisione del lavoro sempre da ricominciare”, come ha scritto ancora Braudel, anche nel periodo moderno questa divisione del lavoro è pur sempre a vantaggio dei centri urbani. La novità forse più importante rispetto ai trascorsi medievali si ha nel settore industriale: l’indebolimento delle corporazioni artigiane e la preminenza della figura del mercante imprenditore si accompagnano infatti in molte zone europee al trasferimento di diverse attività produttive dalla città alle campagne. Questa ruralizzazione di parte della produzione industriale non deve però trarre in inganno: questo processo è infatti pur sempre promosso e controllato da operatori economici residenti nei centri urbani. Solo il mercante imprenditore residente in città dispone dei capitali e delle conoscenze di mercato necessari per organizzare la produzione su vasta scala di beni industriali, soprattutto tessili, nelle campagne.
Occorre notare inoltre come questo trasferimento dell’industria in zone rurali interessi solo alcune fasi dei processi di lavorazione e alcuni prodotti. In campagna si producono beni di largo consumo: è il caso delle tele di lino o dei tessuti di lana di minor pregio. Per quanto riguarda i prodotti più sofisticati, come i tessuti di seta, i tessuti di lana più fine, le lavorazioni metallurgiche più raffinate e le varie forme di artigianato artistico, questi continuano a essere prodotti entro le mura cittadine, da artigiani altamente qualificati. Anche i centri urbani italiani in declino conservano per tutto il secolo un primato a livello europeo in certe produzioni che richiedono un’altissima specializzazione, si pensi alla vetreria veneziana, a certi velluti genovesi o ai tessuti auroserici milanesi. Inoltre spesso solo alcune fasi della lavorazione vengono affidate a lavoratori residenti in campagna, come del resto era già avvenuto anche in epoca medievale.
Città e mercato
Ancora più che per le sue attività manifatturiere, la città si caratterizza per la sua funzione di centro di mercato. Mercati settimanali o quindicinali si tengono in molti borghi o villaggi delle campagne, ma questi sono in grado di soddisfare solo le esigenze più elementari. Quando c’è bisogno di prodotti o di servizi più sofisticati (un medico, un avvocato…), anche gli abitanti della campagna sono costretti a recarsi nella città più vicina, nei mercati o nelle botteghe. E del resto il capoluogo è anche il mercato di sbocco per la produzione agricola della regione circostante. Ogni città, anche la più piccola, è quindi il punto di riferimento commerciale, oltre che religioso e amministrativo, di un territorio più o meno esteso ed è questa funzione basilare a garantirne la sopravvivenza anche in caso di perdita di altre, più prestigiose funzioni, e di conseguente declassamento nella gerarchia urbana, come avviene appunto per molte città italiane nel corso del Seicento.
Tra queste funzioni più volatili, vi sono quelle legate al grande commercio internazionale. Una città, oltre che un luogo di mercato regionale, può essere anche il nodo di una rete di scambi di livello superiore, interregionale, internazionale o addirittura intercontinentale. Solo una minoranza di centri urbani partecipa a questi “giochi dello scambio” a vasto raggio. La maggioranza rimane confinata al ruolo di modesto capoluogo provinciale. Al vertice della gerarchia urbana i posti sono numerati e sono pochi, anzi, nel Seicento diminuiscono ed è questo il senso di quella gerarchizzazione di cui abbiamo già detto. Il controllo dei traffici più remunerativi è la posta in gioco di un’aspra competizione economica ma anche militare, per la quale le città italiane sono male attrezzate e quindi sospinte in una posizione sempre più marginale e subordinata. Questa subalternità trova una paradossale conferma, oltre che nella crisi di molte città, in quello che è il più spettacolare successo urbano italiano del secolo: Livorno. Insignificante borgo di 4000 abitanti nel Seicento, nel Settecento ha quadruplicato la sua popolazione e nel mezzo secolo successivo crescerà ancora di oltre il 50 percento. Ma Livorno deve il suo successo al fatto di essere diventata il porto privilegiato degli operatori nordici, soprattutto inglesi, che importano manufatti ed esportano prodotti agricoli e materie prime. Livorno è in fondo un port of trade di un paese ormai periferico.
Città e finanza
Ancora più selettivo e oligarchico è il traffico della merce più sofisticata e preziosa: il denaro. Un traffico quasi immateriale che richiede conoscenze iniziatiche e che condiziona in profondità i destini politici ed economici d’Europa. Certamente la finanza è, ancora più della manifattura e del commercio, una prerogativa urbana. Nello stesso tempo però l’alta finanza tende a svincolarsi da uno spazio geografico e politico preciso, a dar vita a quella che è stata definita “la repubblica internazionale del denaro”. L’attività finanziaria e creditizia si appoggia inizialmente su quella commerciale e industriale, ma tende a emanciparsi da queste e a svilupparsi in modo autonomo. Così il primato finanziario degli Italiani, e di Genova in particolare, sopravvive al declino della loro economia reale. Durante tutta la prima parte del secolo al vertice di questa repubblica internazionale troviamo infatti ancora un ristretto gruppo di finanzieri genovesi strettamente legati alla potenza spagnola. La ricchezza e la potenza dei finanzieri si svincola però sempre più dalla città reale. Non a caso fino agli anni Venti del secolo il centro di quest’attività finanziaria sono fiere (dette di “Bisenzone”) che portano il nome della città francese (Besançon) che aveva dato loro i natali; esse si svolgono a Piacenza a partire dal 1579, e sono popolate da Genovesi.
Anche il predominio finanziario di Amsterdam prende l’avvio dall’abbondanza di credito che si viene a creare in un grande centro commerciale e industriale. Se si volesse stabilire una data simbolica per il passaggio delle consegne dai Genovesi agli Olandesi si potrebbe scegliere il 1631, quando viene ultimato il nuovo edificio della Borsa. Bisogna ricordare però che alla grandezza finanziaria di Amsterdam danno un contributo importante i finanzieri portoghesi di origine ebraica e, ancora una volta, i capitali dei Genovesi. Con il primato finanziario di Amsterdam, anch’esso destinato a prolungarsi nel secolo successivo e a sopravvivere alla perdita della supremazia commerciale e industriale, si ha anche il declino della fiera periodica e i mercati finanziari divengono permanenti.