citta
Centro abitato di dimensioni demografiche non correttamente definibili a priori, comunque non troppo modeste, sede di attività economiche in assoluta prevalenza extra-agricole e soprattutto terziarie, e pertanto in grado di fornire servizi alla propria popolazione e a quella di un ambito più o meno vasto che ne costituisce il bacino d’utenza (o l’area di influenza). La c. è uno degli elementi umani dello spazio geografico: in partic. un elemento insediativo ed economico; è, o può essere, anche un elemento politico (perché sempre vi si concentrano almeno alcune attività di governo, da quelle locali a quelle nazionali o internazionali) e, ancora, culturale, sia in quanto luogo elettivo della produzione di cultura sia in quanto sede di beni culturali accumulatisi nel tempo. Da tale molteplicità di funzioni si comprende come la c. risulti uno degli elementi-guida dell’organizzazione dello spazio.
La c. ha subito nel corso del tempo varie trasformazioni, spesso differenti nelle diverse aree geografiche. Essa, peraltro, quale che fosse il suo contesto geografico e storico, nacque sempre come organismo terziario, per rispondere al bisogno di luoghi di consumo di beni agricoli e di produzione di altri beni, non agricoli, nonché di servizi; e, quasi certamente, nacque anche come luogo di concentrazione del potere. Man mano le c. crebbero di importanza rispetto alle loro aree d’influenza, con le quali stabilivano relazioni sempre più strette, assumendo un ruolo privilegiato, di controllo, o addirittura di dominio, che diventò un ruolo politico sempre più incisivo, rafforzato e materializzato dalla presenza di presidi militari e di strutture difensive (le mura) che ne avrebbero condizionato per lunghissimo tempo lo sviluppo topografico. Nell’ambito geografico mediterraneo e vicino-orientale lo sviluppo urbano fu particolarmente significativo e diede luogo alla originale proliferazione delle poleis, le c.-Stato, tipiche soprattutto dell’antica Grecia, ma presenti anche in altri Paesi dell’area suddetta, in alcuni dei quali, anzi, si ebbero i casi di più appariscenti dimensioni, quelli di Babilonia e Roma, evolute da piccole c.-Stato a capitali di vastissimi imperi. In genere, però, le c.-Stato, come del resto per lungo tempo tutte le c., erano di dimensioni demografiche e territoriali modeste e si presentavano come elementi puntiformi nello spazio geografico, radicalmente diversi dal resto del territorio per la concentrazione di popolazione e di manufatti edilizi, alcuni dei quali di fattezze inconfondibili, come il mercato e gli edifici per l’esercizio del culto e dei pubblici poteri. La modestia dell’estensione territoriale comportava l’impossibilità di accogliere popolazione oltre un certo limite, e dunque l’esiguità demografica, e la necessità che, raggiunto tale limite, una parte degli abitanti emigrasse e andasse a fondare nuovi centri urbani, denominati dai greci con un termine, quello di «colonie», che in seguito muterà il proprio significato, assumendone uno spiccatamente politico. La fondazione delle «colonie» ebbe conseguenze notevolissime per la diffusione di caratteri etnico-culturali, in partic. la lingua, e per i legami politico-economici, sia pure a volte non scevri di conflittualità tra c.-madri e nuovi centri. Tale modello urbano nato con le c. dell’età classica si mantenne a lungo in Europa e nei Paesi mediterranei, fin quando la formazione di Stati più vasti, l’indebolimento della funzione difensiva delle mura, il sia pur lento accrescimento demografico e la ricerca di nuovi spazi commerciali non produssero un travaso di popolazione e abitazioni extra moenia, in aree contigue, ma esterne, all’antico nucleo urbano. Si tratta già di un modello diverso, ma ancora derivato dalla c. antica e lontano da quella che sarebbe stata la c. moderna, nata con la rivoluzione industriale europea del Sette-Ottocento, caratterizzata da un gran numero di fabbriche e di residenze operaie: una c. profondamente diversa da quella antica perché non è più un organismo esclusivamente terziario, ma anche, e spesso, secondario, in quanto sede di attività produttive di trasformazione. Le nuove c. industriali si accrescono rapidamente di abitanti, soprattutto per immigrazione dalle campagne, e, in conseguenza di tale afflusso e dell’occupazione di nuovi spazi contigui per l’insediamento di industrie, si espandono nelle aree limitrofe, soprattutto lungo gli assi di comunicazione, e catturano centri vicini, trasformandoli in propri sobborghi e favorendo la formazione di agglomerazioni urbane e talora di conurbazioni. Con la successiva evoluzione industriale e con la terziarizzazione dell’età cosiddetta postindustriale (ultimi decenni del 20° sec.) si manifestano nuove tendenze: un sensibile aumento della popolazione occupata nelle attività di servizio; il decentramento e la conseguente rilocalizzazione delle industrie, in partic. quelle pesanti; una decongestione delle c. più grandi, con trasferimento della popolazione in centri di minori dimensioni i quali offrono vantaggi economici e di qualità della vita. È un processo che, in particolare nell’ambito dei numerosi e pregevoli studi di geografia urbana della scuola anglosassone, ha fatto parlare, non del tutto propriamente, di controurbanizzazione, perché di una nuova forma di urbanizzazione comunque si tratta. In definitiva, la c. torna a essere, anche se in forme ovviamente assai diverse rispetto al passato, un organismo eminentemente terziario. Del resto, che si accetti o meno il termine controurbanizzazione, già al passaggio del millennio si avvertono i segni di una nuova inversione di tendenza, da cui si evince soprattutto la stretta interazione tra forme e aspetti della evoluzione urbana e dei processi produttivi, che comporta continui e non irrilevanti mutamenti. Il fenomeno urbano assume aspetti territoriali nuovi: non è più, o non è più soltanto, un fenomeno puntiforme, perché stili e modi di vita tipicamente urbani si diffondono in vaste aree. Alle antiche relazioni verticali tra c. maggiori egemoni e c. minori in vario modo da esse dipendenti si affiancano relazioni orizzontali che legano strettamente tra loro c. anche del medesimo livello demografico e funzionale, in un insieme reticolare così ricco di interconnessioni da formare un vero e proprio sistema. Nei Paesi avanzati, e in partic. in quelli di più antica tradizione urbana, pur restando pronunciata la funzione di guida dell’organizzazione territoriale da parte delle c. maggiori, la dicotomia tra c. e campagna (termine generico che qui si usa per indicare l’ambiente extraurbano) si è sensibilmente attenuata.
La popolazione urbana (cioè la popolazione che abita in centri urbani convenzionalmente considerati c.) dell’intera Terra nei primi anni del Novecento ammontava ad appena un decimo di quella totale; a metà del Novecento raggiungeva il 30%; nel 1990 era già il 50%, eguagliandosi così la popolazione urbana con quella rurale in una corsa secolare apparentemente inarrestabile. Permangono peraltro notevoli difformità tra i Paesi avanzati (dove in media la popolazione urbana supera l’80%, con punte massime prossime al 100% in alcuni Paesi europei come la Gran Bretagna e il Belgio o in Stati da sempre molto urbanizzati per i loro caratteri geografico-fisici o le peculiari vicende del loro popolamento) e Paesi arretrati (in media circa il 40%, con minimi in alcuni stati afroasiatici). Il numero delle c., e in partic. delle grandi c., è aumentato enormemente. Le informazioni al riguardo non sono del tutto affidabili, perché non si è d’accordo sui criteri da adottare per stabilire se un centro abitato meriti di essere considerato c., criteri che dovrebbero essere essenzialmente funzionali, cioè fondati sul ruolo svolto, per il quale mancano parametri adeguati. Si ricorre pertanto abitualmente al semplicistico criterio demografico, spesso fuorviante perché centri pressoché ugualmente popolosi possono rivelarsi entità urbane a tutti gli effetti in certi contesti geografici e soltanto grossi aggregati extraurbani in altri; e inoltre perché le modalità di rilevamento differiscono notevolmente da Paese a Paese. Una soglia demografica frequentemente adottata è quella dei 10.000 abitanti, al di sopra della quale si distinguono poi le c. piccole, le c. medie, le c. grandi e le metropoli. Altri termini, come agglomerazione urbana, conurbazione, c.-regione, regione-c., area metropolitana, megalopoli, indicano entità urbane fondate su particolarità morfologiche o funzionali o amministrative piuttosto che demografiche, anche se sono accomunate tutte dal possedere un numero di abitanti molto elevato. Non si ravvisa coincidenza tra Paesi ad alto tasso di popolazione urbana e Paesi che ospitano grandi metropoli: limitandosi a quelle che superano, nell’intera agglomerazione urbana, i 5 milioni di abitanti (poco meno di 70; dati del 2007), una trentina sono ubicate nell’Asia meridionale e orientale (di cui 11 in Cina e 7 in India) e 7 nell’America Latina (3 in Brasile) e non più di una quindicina in Europa e America Settentrionale. Di tali metropoli gigantesche (la maggiore di tutte è Tokyo, con oltre 33 milioni di abitanti nel complesso della sua agglomerazione), poi, solo pochissime – ai primi posti la stessa Tokyo, New York, Londra, Parigi – sono da considerarsi c. globali: organismi urbani che posseggono la capacità di esercitare influenze a scala planetaria, concentrando le funzioni più rare e di grado più elevato, quelle assicurate dalle cd., attività quaternarie (come l’alta dirigenza politica ed economica internazionale, l’alta ricerca scientifica e tecnologica, l’alta finanza) e diffondendo informazioni e impulsi che hanno una ricaduta anche a livello intercontinentale.
La c. più antica del mondo, intesa come un impianto urbano più o meno regolare, con abitazioni e cinta di mura, che assolve svariate funzioni, è probabilmente Gerico, dove alcuni resti sembrano risalire alla prima metà del 7° millennio a.C. Assai più tardi (3800-2600) si datano gli inizi delle c. di Ur (Iraq), Ugarit (Siria), Mersin (Cilicia), ecc. Più tardi ancora nascono gli abitati di Menfi (2850 ca.) e dei principali centri della «civiltà dell’Indo», come Harappa e Mohenjo-Daro, che risalgono alla metà del 3° millennio. Verso la fine del Calcolitico le c. sono ormai numerose, sia nell’Anatolia, sia nel Medio Oriente, sia anche nel bacino dell’Egeo.
Nel mondo greco conosciamo c. cinte da mura sin dall’Elladico Medio. Le c. micenee si innestarono su questi stessi centri elladici, o sorsero altrove: ne conosciamo assai bene lo sviluppo a partire dall’Elladico Tardo. Ma le c. micenee (Micene, Tirinto, Orcomeno ecc.) erano cittadelle fortificate che racchiudevano solo la dimora dei sovrani e di coloro che gravitavano attorno a essi. La c. vera e propria, cioè la polis come la chiamarono i greci, centro abitato per lo più cinto da mura con il territorio dipendente, comunità di individui e famiglie unita da legami etnici, religiosi, economici, sorse relativamente tardi (11°-8° sec. a.C.). Nel 6°-5° sec. a.C. si contavano però già numerosissime poleis. In genere la polis era disposta attorno a una rocca, chiamata poi acropoli per distinguere la polis alta e più antica dalla polis sviluppatasi intorno e più in basso. Con la fine della guerra del Peloponneso (404 a.C.) comincia il declino della polis classica: prima per il progressivo distaccarsi dei singoli dalla partecipazione attiva alla sua vita, poi per l’assoggettamento ai macedoni. Nell’età successiva i sovrani dei regni ellenistici fondarono poleis nei loro territori: ma ebbero un carattere diverso, soprattutto militare, anche se contribuirono alla penetrazione culturale ellenica nell’Oriente.
Verso la metà del 3° sec. a.C., terminata la conquista romana della penisola, l’Italia era divisa in territorio romano e federato: le numerose c. che vi si trovavano erano in condizioni diverse di fronte a Roma. Nel territorio romano, accanto alle tribù territoriali si trovano molti comuni, alcuni di cittadini optimo iure, altri di cives sine suffragio, privi cioè del diritto elettorale attivo e passivo. Alla prima categoria appartenevano sia comuni preesistenti a cui era stata donata la cittadinanza romana sia colonie di cittadini romani. I comuni sine suffragio, detti anche municipia in quanto i cittadini avevano solo gli oneri (munia) della cittadinanza, godevano tuttavia di più ampia autonomia di quelli optimo iure. Al territorio federale appartenevano circa 150 Stati (c., ma anche distretti etnici) legati a Roma con un trattato: un foedus aequum o, più spesso, iniquum. Essi avevano soprattutto l’obbligo d’inviare contingenti militari; in compenso non pagavano tributo, avevano autonomia amministrativa e potevano battere moneta; non potevano però stringere accordi tra loro e dovevano ricorrere all’arbitrato di Roma. Nelle province si distinguevano c. stipendiariae (suddite del popolo romano), foederatae (legate da un trattato per lo più iniquo), liberae et immunes (con una libertà non garantita da un trattato, ma concessa dai romani).
In tutta l’area dell’antico impero romano, a partire dal 5° sec., le migrazioni dei popoli germanici, una dilagante crisi economica e demografica e il sovvertimento irreparabile della struttura sociale provocarono un’eclissi generale della vita cittadina e moltissime furono le c. abbandonate. Il diffondersi del feudalesimo accrebbe ulteriormente la crisi delle c., che si ridussero essenzialmente a centri fortificati per la difesa e la dimora dei potentati locali. Solo dopo il 1000, si assistette in Europa a una nuova potente espansione della vita cittadina; fu il periodo in cui quasi tutte le attuali c. del continente sorsero o risorsero, sviluppandosi da antichi e nuovi centri. In alcune regioni d’Europa, esse raggiunsero presto un grado di autonomia politica che, nel giro talvolta di pochi decenni, le portò a dar vita a un rinnovamento dell’antica forma della c.-Stato. Il fenomeno, in Italia, si fondò nella sua prima fase su una base sociale composta in larga prevalenza da ceti di proprietari fondiari, feudali e non. Quando questi decisero di mettere in comune (da cui il nome di «Comune») i diritti di cui già godevano, quelli di cui facilmente si potevano appropriare e quelli di cui potevano disporre grazie all’alleanza con altri ceti, ci si trovò di fronte a una concentrazione di potere politico che, alla prova dei fatti, si rivelò irreversibile. Il prudente contegno delle autorità superiori le spinse a concedere privilegi alle nuove communitates, che lentamente si identificarono con le c. e ne assunsero completamente la gestione politica e amministrativa. Questo stato di fatto ebbe riconoscimento ufficiale con la Pace di Costanza (1183), con la quale l’imperatore Federico I rinunciò ai tentativi di restaurare, nell’alta e media Italia, l’autorità del Sacro romano impero. A quest’epoca, però, nei Comuni italiani era già intervenuto un grande mutamento politico-sociale. I ceti che avevano dato vita al Comune lo avevano retto, durante il primo secolo della sua vita, con un regime detto «consolare», in crisi nel 12° sec. per il progressivo affacciarsi alla vita pubblica di ceti (mercanti, artigiani, lavoratori e possidenti), per i quali la ricchezza mobiliare era più importante di quella fondiaria. Accanto al primo Comune ne sorsero altri (del popolo, dei mercanti, delle arti) che ne usurparono i poteri. I contrasti di classe non furono risolti né dalla moltiplicazione delle istanze politiche all’interno del Comune, né dall’istituzione (12° sec.), in luogo dei consoli, di un podestà, scelto di regola fuori del Comune. Nella seconda metà del 13° sec. la fase «podestarile» fu ovunque in via di esaurimento; lentamente si diffuse la «signoria», che comportò una rinuncia all’autogoverno da parte della comunità cittadina.
Il signore, espressione di un partito cittadino o di leghe di partiti intercomunali, assicurò ai suoi sostenitori la vittoria ma, appena possibile, tese a dare vigore esclusivamente al suo potere personale e familiare, diventando così ereditaria. Il fattore dinastico trovò il suo pieno riconoscimento quando, a partire dal 14° sec., i signori si fecero dare dall’imperatore (o, più raramente, dal papa) un’investitura nuova del potere: la signoria si trasformò così in principato. Signorie e principati portarono a compimento il processo della conquista del contado da parte della c. e dell’assorbimento dei Comuni minori e dei loro territori. La c. conquistò così uno spazio economico, in cui si affermarono le esigenze cittadine a scapito di quelle della campagna, mentre le forze feudali, che nella campagna avevano il loro fondamento, vennero distrutte. Con la signoria maturò la formazione dello Stato regionale che, tranne il breve periodo napoleonico, caratterizzò l’assetto politico italiano fino all’unificazione del 1860. Come quelli italiani, anche i Comuni transalpini videro scemare la loro autonomia quando, nelle rispettive regioni, s’impiantò lo Stato moderno e vi fece valere le sue esigenze di unità e di accentramento (16° sec.). Da allora, con un’evoluzione il cui punto decisivo è stato segnato dalle riforme della Rivoluzione francese e di Napoleone, le c. si sono convertite, ovunque in Europa, in articolazioni amministrative dei grandi organismi politici costituiti dagli Stati territoriali. Intensa, a differenza di quella politica, è però continuata la vicenda economica e sociale della c. europea che, nel 13° sec. e nel seguente, si diffuse come forma di vita caratterizzante o fortemente significativa, anche in quelle parti del vecchio continente che meno l’avevano fino allora sperimentata. Dopo la grave crisi demografica del 14° sec. (che, comunque, colpì le c. meno delle campagne), l’urbanesimo riprese vigore nella fase di nuova espansione che l’Europa conobbe nel 16° secolo. Le c. europee conservarono la tradizionale funzione di centro amministrativo e residenza dei maggiori proprietari fondiari dei dintorni e del ceto burocratico. Le capitali segnavano, in genere, il culmine della gerarchia sia amministrativa sia politico-sociale. Questa stratificazione della vita e della tipologia della c. europea trovava poi il proprio corrispettivo sociale nella prevalente importanza ovunque assunta, a partire dal 16° sec., dai patriziati. Assai più dei commerci transoceanici furono poi la rivoluzione industriale e il fenomeno, con essa largamente interdipendente, dello sviluppo demografico iniziato nella seconda metà del 18° sec. a dar vita a tutta una nuova generazione di c., trasformando la fisionomia di quelle precedenti. Crebbe enormemente la popolazione cittadina, non più improntata a economia agricola; si ridusse l’importanza delle funzioni amministrative rispetto a quelle manifatturiere e mercantili e ai servizi economici, sociali e culturali; la struttura amministrativa e la vita quotidiana subirono una radicale trasformazione.
Nel corso del 20° sec. il processo di urbanizzazione è apparso sempre più legato all’espansione del terziario, e alla fortissima attrazione esercitata dalle c. (e in particolare dalle grandi c.) non solo in quanto luoghi di produzione, ma anche in quanto luoghi di consumo e di affermazione dei modelli di vita dominanti. A tali processi ha corrisposto una crescita ulteriore dell’importanza politica delle città. La diffusione del sistema capitalistico su scala mondiale ha contribuito potentemente a estendere i processi di urbanizzazione dalle regioni di più antica industrializzazione al resto del mondo, dove, tuttavia, essi hanno assunto un carattere assai più violento e squilibrato, legato più alla fuga dalle campagne che non ad autonome capacità di attrazione. Di qui lo sviluppo delle gigantesche bidonvilles, villas miserias, favelas ecc. che, assai più dei moderni centri urbani di modello europeo o nordamericano, caratterizzano tante metropoli del Terzo Mondo; di qui anche la fortissima crescita demografica che le contraddistingue, portandole a raggiungere e a superare, in termini di popolazione, le più antiche metropoli dell’Occidente industrializzato.
Le necessità difensive contro possibili nemici esterni influirono originariamente sulla scelta dell’ubicazione delle c. che, in epoche remote e poi nel Medioevo, si svilupparono in luoghi elevati e di difficile accesso. Parallelamente, i numerosi casi di centri sviluppatisi in pianura determinarono la realizzazione di grandiose opere difensive che divennero, nello stesso tempo, la premessa e il risultato dello sviluppo della c. stessa. Rari, ma da non trascurare, sono anche i casi in cui la c. trasse i suoi primi incentivi di sviluppo da motivi religiosi o culturali (i grandi centri religiosi o le c. degli studi, i cui impianti originari vennero progressivamente trasfigurati dal mutare delle condizioni che ne motivarono la nascita). Le esigenze architettoniche, a cui la formazione della c. risponde, sono estremamente varie a seconda delle tradizioni dei vari popoli e delle loro concezioni, non solo artistiche, ma anche sociali e religiose. Il processo formativo delle c. può sinteticamente ricondursi a due tipi: l’uno consiste nella progettazione unitaria del nucleo abitato, in vista delle sue funzioni immediate; l’altro nello sviluppo spontaneo, sotto l’impulso di bisogni che affiorano progressivamente. In molti casi i due processi si sono interrelati, modificando sensibilmente la conformazione di nuclei primitivamente e unitariamente creati, anche in virtù e in conseguenza della progettazione parziale di quartieri giustapposti o mescolati ai complessi formatisi in precedenza. La fisionomia urbana delle c. sviluppatesi gradualmente senza un piano preciso, come nel caso delle più vecchie c. europee del Medioevo e, proseguendo oltre, fino per lo meno alla nascita di una specifica disciplina, appare subordinata più alle caratteristiche dei luoghi (orografia, vie di transito preesistenti, condizioni e necessità particolari dei vari quartieri ecc.) che alla volontà degli uomini, la quale infatti si è spesso adattata a quelle caratteristiche. In relazione a queste realtà, come per ogni altra opera architettonica, lo scopo del progettista diviene la creazione di un ambiente ordinato secondo forme «geometriche» rispondenti a esigenze particolari di carattere pratico ed estetico. Tale concezione geometrica dell’ambiente urbano si ritrova già in c. antichissime dell’Oriente, in Mesopotamia, in Cina, in Egitto, o in abitati preistorici europei. Ma un’applicazione sistematica di simili criteri ha inizio nel periodo greco classico, e prosegue nella pianificazione urbana delle c. e specie delle colonie romane. In questi esempi, che si ritrovano in tutto il mondo classico antico, il tracciato a scacchiera appare essere la base della progettazione della città. Dopo il periodo medievale la concezione della c. ideale, a schema rigorosamente geometrico, riappare inizialmente nei disegni e poi anche in qualche realizzazione rinascimentale (addizione erculea a Ferrara; Sabbioneta; Palmanova). Nel periodo barocco, fino all’affermarsi dell’urbanistica ottocentesca, la progettazione urbana d’impostazione geometrica, ma a contenuto prevalentemente ornamentale e scenografico, è piuttosto riservata a singoli problemi di preminente valore suggestivo, come le arterie di comunicazione fra piazze monumentali o il rapporto fra la residenza del principe e la c. preesistente. Il Settecento si concentra sul tema della c. non soltanto come oggetto di intervento urbano, pratico o ideale (trattati utopistici sullo schema di c. immaginarie), ma anche come soggetto pittorico e letterario. È nell’edilizia ottocentesca che la concezione geometrica della c. si manifesta su una scala sino ad allora inusuale, nella creazione di vasti nuovi quartieri che si sviluppano intorno ai vecchi nuclei per fornire spazi abitativi alle popolazioni rapidamente crescenti, secondo le varie classi nelle quali la società ottocentesca veniva suddividendosi, con il progressivo sostituirsi dell’industria all’artigianato, con il differenziarsi delle aree sempre più vaste occupate dall’industria, la rapida conversione dei fondi edificabili, la sperequazione di valore fra le varie aree cittadine edificabili ed edificate. I problemi del traffico interno presero allora un valore predominante, per l’aumentato movimento dei mezzi di trasporto urbani, pubblici e privati. Da tali problemi di traffico, e da una sempre maggiore considerazione dei dati igienici dell’abitazione, è governato il processo formativo della c. moderna, i cui quartieri, studiati sui tracciati geometrici delle vie e in tutti i particolari delle caratteristiche edilizie delle nuove costruzioni, si differenziano secondo le varie funzioni e destinazioni: d’affari, di abitazione, industriali, culturali, sanitari, ferroviari e così via, in modo da costituire un unico organismo rispondente in ogni sua parte alla sua funzione di residenza di molte migliaia e in alcuni casi di milioni di persone. Un interessante esperimento di radicale separazione dei centri a destinazione residenziale da quelli direzionali, d’affari o industriali si ebbe sullo scorcio del 19° sec. con la creazione della c.-giardino, complesso urbanistico caratterizzato da costruzioni di limitato volume (in genere villette con giardino) distribuite entro aree libere secondo un rapporto dimensionale prestabilito a carattere largamente estensivo, con viali alberati e spazi verdi. La c.-giardino nacque in Inghilterra verso la fine dell’Ottocento (il tentativo di J. Ruskin nel 1871 per la costruzione del sobborgo-giardino di Oxford; la c.-giardino di Letchworth, 1902, e Welwyn, 1919, ispirate alle teorie della garden city di E. Howard; Hampstead, 1907, presso Londra). I principi fondamentali della c.-giardino si diffusero in tutta Europa, ma la primitiva idea di autosufficienza si modificò nell’attuazione pratica, e le c.-giardino divennero sobborghi delle grandi metropoli, quali per es. Margarethenhöhe a Essen, Floréal e Logis a Bruxelles, Monte Sacro a Roma. Agli eccessi dell’inurbamento si tentò di reagire successivamente con la creazione della c. satellite, agglomerato urbano impiantato nelle vicinanze di una grande c., a essa legato per le attività commerciali o industriali. In Inghilterra, per es., fu tentata nel secondo dopoguerra la costruzione di vere e proprie c. (new towns) come organismi produttivi e residenziali autonomi, capaci d’assorbire parte della popolazione e del traffico dei centri maggiori, ma l’esperimento, pur avendo dato esempi architettonici di indubbia validità, ha avuto risultati limitati dal punto di vista urbanistico, non essendo riuscito a evitare l’espansione della grande c. e neanche il conglobamento da parte di quest’ultima della c. satellite. Risultato dell’enorme sviluppo di alcuni rami di attività, e della conseguente necessità della separazione di queste attività dal contesto urbano, è la creazione di centri complessi a destinazione univoca (c. universitaria, c. ospedaliera ecc.). Accesi dibattiti, particolarmente in Italia, ha suscitato il problema del rapporto tra il centro antico preesistente e la crescita della c. moderna. Generalmente inadeguati allo smaltimento dell’intenso traffico veicolare, soffocati dalla stretta degli edifici sorti intorno a essi a ritmo serrato e spesso senza un’adeguata pianificazione, i vecchi centri sono stati nel recente passato oggetto di studi, teorie, analisi, progetti orientati alla loro salvaguardia, riqualificazione, conservazione o riuso.