CITTÀ (fr. cité, ville; sp. ciudad; ted. Stadt; ingl. city, town)
L'etimologia della parola italiana (dal lat. civitas) ci fa risalire solo a uno dei due concetti fondamentali che tale parola racchiude. La città infatti può essere considerata e studiata o dal lato materiale, archeologico, topografico e urbanistico, come sede di aggregazione umana, o nella genesi e nello sviluppo dell'aggregazione stessa, quale fenomeno storico-giuridico, assurto in alcune civiltà (tipica quella greca) a nucleo caratteristico e fondamentale della vita sociale di quel periodo.
Nel presente articolo la trattazione della città antica greca e romana contempla quindi ambedue gli aspetti ora accennati, materiale e ideale, dell'ente città, che nella civiltà greca dell'epoca classica s'identifica senz'altro con lo stato, mentre in quella italico-romana viene presto subordinato e inquadrato nei rapporti con Roma e nella compagine dell'Impero. L'identificazione della città con lo stato, ricompiutasi in alcuni aspetti della storia medievale con il Comune, ha consigliato di rimandare a questa voce per la parte storico-giuridica, limitandosi qui a quella puramente urbanistica. Come d'altra parte il superamento definitivo dell'identificazione di città con stato, avviato nel Rinascimento e compiutosi nell'età moderna, ha ristretto di nuovo in questo articolo al solo aspetto urbanistico la trattazione della città moderna, essendo confluiti tutti i principali elementi storici, giuridici e sociali che ne formavano la fonte ideale nel più vasto organismo e concetto di stato (v.).
Sommario. - Preistoria, p. 472; Antico Oriente: Egitto, p. 472; Hittiti Babilonesi e Assiri, p. 473; La città greca: Archeologia e topografia, p. 473; La "polis" città-stato, p. 476; La città etrusca, p. 479; La città romana: Archeologia e topografia, p. 481; La città romana come ente giuridico, p. 483; La città medievale, p. 486; La città nel Rinascimento, p. 490; La città nell'800 e nell'epoca moderna, p. 492.
Preistoria.
Ben poco sappiamo della disposizione degli abitati preistorici: d'altronde soltanto nell'età neolitica e in alcune regioni sorgono i primi agglomerati di capanne, come quelli della valle della Vibrata in Abruzzo, che possono considerarsi quali rudimentali villaggi; ché, fino a quando luoghi di rifugio e di abitazione furono esclusivamente le caverne o i ripari sotto roccia, naturali o artificiali, non si può parlare di abitato umano, nemmeno se tali caverne ci appaiono, come pure in qualche caso, raccolte in gruppo lungo i margini di una valle o sulle pendici di un monte.
I fondi di capanna neolitici non mostrano in generale di essere distribuiti l'uno accanto all'altro secondo un piano prestabilito, ma a caso o come dettavano la necessità, il gusto personale o altre circostanze che ci sfuggono. Se mai in essi si scorge un ordine, questo è il più semplice che si possa immaginare, l'allineamento: questa è certamente la prima forma di agglomerato umano che sia esistita: vicino ad essa, in alcune regioni, troviamo invece la disposizione a cerchio. Ma se per città ha da intendersi non tanto la semplice unione di più capanne quanto la salda e regolare organizzazione di tale riunione, occorre scendere all'età dei metalli e più precisamente all'età del bronzo, perché la città possa dirsi costituita. Essa compare con le palafitte (v.) dell'Europa centrale ed alpina, e con le terramare (v.) italiche, entità topograficamente ben definite, chiuse come sono all'intorno dall'aggere e dal fossato e all'interno divise in insulae da strade incrociantisi ad angolo retto. In questa età anche i cavernicoli e i capannicoli sembra si raccolgano in unioni che potremmo dire urbane, come ci rivelano i recenti rinvenimenti di Cetona.
Col tempo questa organizzazione si evolve e si perfeziona: nella prima età del ferro si costituiscono i cosiddetti pagi che in gran parte sono il primo nucleo delle città dei tempi storici.
Antico Oriente.
Egitto. - L'unilateralità degli studî archeologici è causa dell'incertezza che avvolge la storia dell'urbanesimo egiziano. Nemmeno le grandi città che hanno avuto una così larga importanza nella storia di quel popolo, Menfi e Tebe, sono state esplorate con criterî di studio urbanistico. Tuttavia, in linea di massima, possiamo distinguere due grandi classi di città: quelle di formazione ad accrescimento e quelle create ex-novo e secondo un piano determinato. Al primo gruppo apparterrebbero precisamente le grandi capitali: là ogni monarca decideva la costituzione fuori dell'antica città, alla distanza di tre o quattro chilometri, di un nuovo quartiere residenziale. Il nuovo palazzo reale, circondato d'abitazioni di dignitarî, da templi e da edifizî pubblici, diventava senz'altro il centro di una nuova città accanto all'antica. La distanza tra le due finiva col colmarsi a poco a poco con abitazioni. Ciò spiega la grandezza favolosa di queste capitali alle quali (p. es., Tebe) gli storici greci assegnano misure veramente eccezionali.
Al secondo gruppo, quello delle città create ex-novo, appartengono moltissime creazioni urbane, che, munite di franchigie ed agevolazioni fiscali, erano destinate ad essere popolate da abitanti chiamati da altre regioni. Tutto questo ricorda da vicino appunto le nuove creazioni medievali delle città franche e delle città nuove. Decreti reali (la maggior parte sono da assegnarsi tra la V e la X dinastia) c'informano sulla creazione di queste città nuove, delle quali notevole è il gruppo delle cosiddette città delle piramidi.
Riguardo alla planimetria in generale possiamo anzitutto rilevare la notevole differenza di proporzione tra le grandi arterie principali costituenti gli assi delle città e le vie laterali che v'immettono. Sono queste grandi arterie le vie processionali: la vita politica e religiosa dell'impero egiziano esigeva appunto strade di ampia sezione e di lungo sviluppo adatte alle solenni cerimonie delle incoronazioni, dei trionfi, delle processioni religiose. Di qui i lunghi viali larghissimi che conducono, sotto la guardia d'innumerevoli sfingi, agli accessi dei templi e dei palazzi.
Esempio tipico di una di queste grandi concezioni urbanistiche si ha nell'Alto Egitto a Ekhut-Aton (ora Tell el-‛Amārnah), città costruita da Amenofi IV (sec. XV a. C.), le rovine della quale presentano una serie di strade principali orientate da nord-est a sudovest lungo il corso del Nilo, intersecate ad angolo retto da un notevole numero di vie secondarie di sezione molto minore (da m. 1.50 a m. 10) e di andamento discontinuo. All'opposto di queste ultime, le vie principali hanno un andamento press'a poco rettilineo e una notevole larghezza, tanto che la più importante di esse, quella cosiddetta "del gran Sacerdote", la via processionale vera e propria, misura più di 45 metri di larghezza. Questa sproporzione nelle varie sezioni stradali era certo dettata dalle necessità circolatorie che si potrebbero compendiare in necessità di carattere religioso processionale.
In Kahun (nel Fayyūm) abbiamo invece il più tipico esempio di città delle piramidi. Il piano di questa creazione urbana, la più antica da noi conosciuta (fondata da Sesostri, XII dinastia, 2500 a. C.), è rappresentato da un rettangolo (m. 280 × 360) esattamente orientato a nord, traversato da est a ovest da una strada principale che conduce all'acropoli e sulla quale sboccano perpendicolarmente le strade secondarie nord-sud. Verso ponente era un grande quartiere operaio la cui ossatura stradale era costituita da una via principale nord-sud nella quale immettevano perpendicolarmente le stradette secondarie residenziali. Questo quartiere operaio era diviso mediante un grosso muro dal resto della città. Simile a Kahun era la città operaia di Tell el-‛Amārnah.
Riguardo all'aspetto delle strade, agli elementi decorativi scultorî dei viali di Sfingi, dobbiamo aggiungerne un altro di primaria importanza, e cioè l'alberatura dei grandi viali (descrizione di Erodoto, II, 138). Inoltre la notevole quantità di giardini privati doveva conferire, con la loro vegetazione, ai quartieri residenziali un aspetto gaio e fresco.
Concludendo, dunque, riguardo alla città egiziana possiamo notare tre caratteristiche fondamentali: la prima è la specializzazione dei quartieri, la seconda l'esattezza dell'orientamento, la terza il predominio del piano a scacchiera.
La civiltà egiziana era basata quasi completamente sull'organizzazione religiosa: non poteva quindi la religione restare estranea alle concezioni urbanistiche. L'orientamento perfetto delle piramidi e di altri monumenti, come l'orientamento delle città, dipendono esclusivamente da un movente religioso. L'Egiziano metteva i suoi edifici e le sue città in relazione con l'universo mediante l'orientazione matematica. Tutta l'edilizia egiziana è permeata da questa religione solare così profondamente, da far accettare la direzione nord-sud delle grandi arterie, direzione che le esigenze del clima avrebbero dovuto sconsigliare. Piano con scacchiera orientata quindi; e non è da escludersi che esso abbia potuto influire, direttamente o indirettamente, sui sistemi quadrangolari che in Grecia precedono Ippodamo di Mileto.
Hittiti, Babilonesi e Assiri - Di fronte alle città quadrangolari orientate dell'urbanesimo egizio si trova presso gli Hittiti la prima espressione di una forma nuova: quella delle città circolari con le cinte murarie concentriche.
Oltre ad alcune figurazioni egiziane, che ci presentano città hittite a forma circolare perfetta, i risultati degli scavi e delle esplorazioni confermano la presenza del sistema concentrico. In particolare quello della città di Zengīrlī, nell'estrema Siria settentrionale, è l'esempio più chiaro e più noto. La cinta di questa città ci mostra l'esistenza di un'acropoli centrale difesa da un muro; intorno all'acropoli, in forma di cerchio perfetto, giravano due anelli concentrici di mura tra i quali correva un cammino di ronda. Alla città si accedeva mediante tre porte, una delle quali esattamente orientata a sud. A questo esempio si possono aggiungere altri (Qadesh, Karkemish), gli studî dei quali, se non ci dànno la pianta esatta delle strade, tuttavia ci lasciano supporre l'andamento radiante delle strade dal centro alle porte della città.
Questa forma circolare sembra corrispondere veramente all'epoca di massimo splendore della civiltà degli Hittiti (dal sec. XX al XIV a. C.); più tardi invece, sotto la dominazione egiziana e assira, gli Hittiti stessi adottarono la forma quadrangolare delle città del nord della Siria per influenza diretta dei conquistatori. Infatti gli Assiri, che avevano anch'essi il tipo circolare, specialmente per le città fortificate, adottarono per le grandi città la pianta quadrangolare a scacchiera propria dei Babilonesi e risalente forse ai Sumeri.
Oltre alla descrizione che di Babilonia ci ha lasciata Erodoto (I, 178 segg.), nella quale la città viene descritta come una scacchiera quadrata (del perimetro di 85 km.) traversata in diagonale dall'Eufrate, noi abbiamo i dati archeologici che ci confermano la forma quadrangolare della città (perimetro di 18 km.). In particolare gli scavi della missione tedesca, condotti con spirito di studio urbanistico, hanno messo in luce quasi completamente il quartiere di el-Merkez, dal quale si desume evidentissimo l'andamento generale a scacchiera della rete stradale (non ostante le distruzioni e le trasformazioni delle epoche neobabilonese, persiana e greca), andamento impostato sulla direttrice della grande via sacra processionale che attraversava tutta la città. La stessa regolarità si può desumere, dall'andamento dei muri di cinta, nelle città della Mesopotamia quali ad es. Khorsābād.
I Babilonesi e gli Assiri hanno inoltre portato nella costruzione delle loro città un notevole spirito pratico non disgiunto dal loro senso religioso-matematico. Se la matematica, fusa con la religione, presiedeva a tutte le funzioni civili e quindi anche all'edilizia, d'altro lato un grande senso pratico consigliava di provvedere a una quantità di particolari, atti a migliorare la vita cittadina. Cosi troviamo la pavimentazione stradale bene sviluppata e un grande studio per la canalizzazione cittadina. Acque e canali erano ben curati nell'interno della città come nelle campagne, dove una fitta rete di canali di bonifica e d'irrigazione avevano permesso lo sviluppo della vita in zone abitabili solamente a condizione di una perfetta manutenzione generale.
Concludendo, per quanto riguarda l'urbanesimo dell'Oriente classico, noi possiamo dire che le due forme, quadrangolare e circolare, erano presenti in tutta l'antichità sebbene distribuite in varia misura. Assegnare alla forma circolare il carattere di forma spontanea elementare, come vorrebbero alcuni studiosi (cfr. Pottier), paragonando l'evoluzione della città a quella della casa, non sembra possibile. Le due forme sembrano egualmente originarie, legate entrambe, forse, a concezioni religiose solari. La forma quadrangolare, attraverso la Grecia e gli Etruschi e Roma, prenderà il sopravvento, finché, nel Medioevo, la forma radiocentrica sarà riportata in primo piano, costituendo una delle basi dell'urbanistica del Rinascimento e dell'epoca moderna.
Bibl.: G. Maspéro, Histoire ancienne des peuples de l'Orient, 7ª ed., Parigi 1905; W. M. F. Petrie, tell el Amarna, Londra 1894; id., Illahun, Kahun and Gurob, Londra 1891; P. Timmen, Tell el Amarna vor den deutschen Ausgrabungen, Lipsia 1917; G. Perrot e C. Chipiez, Histoire de l'art dans l'antiquité, Parigi 1881 segg.; A. Pottier, L'art hittite, Parigi 1927; R. Koldewey e O. Puchstein, Ausgrabungen in Sendschirli, in Mitteilungen aus den Orientalischen Sammlungen, XIV, Berlino 1911, pp. 237-380; R. Koldewey, Das wieder erstehende Babylon, 4ª ed., Lipsia 1925.
La città greca.
La parola greca πόλις racchiude a un dipresso ambedue i concetti che già abbiamo detto confluire nell'italiano "città", e cioè: 1. la città in senso materiale, vale a dire l'insieme degli edifici e delle aree, disposti secondo un piano più o meno organico e cinti di regola, ma non necessariamente, da mura fortificate; 2. la città in senso giuridico, cioè una comunità di uomini liberi militarmente e politicamente organizzata per il raggiungimento di scopi comuni. In questo secondo senso polis è lo "stato", secondo la concezione che di esso ebbero i Greci dell'età classica.
I due sensi non sono né indipendenti, né necessariamente connessi. Non sono indipendenti perché la polis in senso materiale è per i Greci dell'età classica centro di vita economica, politica e sacrale di una comunità rigidamente chiusa in sé stessa. Solo chi appartiene alla comunità ha diritto di risiedervi insieme coi soggetti alla sua autorità famigliare, liberi o schiavi; di trafficare nell'agorà che è il centro della polis; di entrare nei pubblici edifici e frequentare i luoghi sacri.
Il forestiero invece è escluso dalla città o tollerato purché paghi una tassa che è segno d'inferiorità (il μετοίκιον per avere il diritto di residenza stabile; lo ξενικόν per poter trafficare nell'agorà); il cittadino decaduto dai diritti (ἄτιμος) deve tenersi lontano dall'agorà e dai luoghi sacri.
Ma i due sensi di polis non sono neanche necessariamente connessi. Infatti l'organizzazione politica dei cittadini, che nell'età classica vien riassunta nel nome di polis, preesiste al periodo nel quale i Greci sono raggruppati per città.
Lo stato greco non acquista carattere di stato territoriale se non nell'età ellenistica. L'esistenza di un territorio nettamente circoscritto e di un centro murato in possesso della polis e destinato ai suoi scopi economici e politici, se pur costituisce il precedente storico dell'organizzazione politica per città, non è da un punto di vista giuridico elemento necessario della polis-stato. Per noi moderni un'organizzazione di uomini che non abbia come base un territorio ben delimitato non è uno stato; ma per i Greci a render perfetta la nozione di stato era sufficiente l'organizzazione politica dei consociati. "Lo stato non è altro che la somma dei cittadini" (Arist. Polit., IV, 1274 b).
Archeologia e topografia. - Le città della Grecia o ebbero origine spontanea, grazie a favorevoli condizioni del luogo, oppure sorsero per un atto di volontà. Esempî della prima categoria si possono riscontrare nella Grecia propria, e si tratta spesso di città formatesi sopra più antichi centri dell'età micenea (come Atene, Megara, Argo, Corinto, Tebe, Sparta). Alla seconda categoria appartengono le colonie; non quelle che si costituirono in seguito alle antichissime emigrazioni sulle coste dell'Asia Minore, bensì le colonie vere e proprie, fondate dal sec. VIII in poi. Appartengono peraltro alla stessa categoria le città formatesi per via di sinecismo, ossia per la riunione di piccoli abitati.
Molto scarse sono le notizie di fonte letteraria sulla loro costruzione. Del sistema edilizio di Ippodamo di Mileto sappiamo quel poco che ci riferiscono Aristotele (Polit., II, 5, 1) ed Esichio, e quello che apparisce riflesso, in parodia, in un passo di Aristofane (Uccelli, 1004 e segg.) e forse anche in un breve e vago cenno di Platone (De leg., 778e -779d). Non solo; ma dalla parodia di Aristofane risulta alquanto travisato il concetto del sistema ippodameo, in quanto che il poeta concepisce un tracciato prettamente radiale, mentre, dal punto di vista planimetrico, più si accosta al sistema ippodameo il tracciato a scacchiera. Più dottrinario di Ippodamo - dal punto di vista dell'edilizia - si manifesta naturalmente lo stesso Aristotele, quando prescrive alcuni canoni relativi alla costruzione delle città (Polit., X, 11).
Premesso qualche accenno sull'opportunità che la città abbia "contatto col continente e col mare", Aristotele passa all'altra, che la sua posizione sia "alta e scoscesa avendo riguardo a quattro scopi essenziali: primo tra essi, perché di prima necessità, le buone condizioni igieniche (trad. Costanzi)".
E continua: "Inoltre le condizioni topografiche della città debbono essere adatte all'amministrazione civile e alle ragioni strategiche. Riguardo a queste occorre che le sortite da dentro siano facili, ma difficile sia l'accesso dal difuori e difficile l'espugnazione: che sia grande l'abbondanza di sorgenti". Dopo essere tornato ad insistere sulle condizioni igieniche, riprende: "In quanto poi ai luoghi forti, l'opportunità di questi è relativa alle varie forme di governo. Per es. le acropoli sono opportune per i governi oligarchici e tirannici, le pianure ai governi democratici; agli aristocratici né gli uni né gli altri esclusivamente, ma una quantità di luoghi fortificati. La disposizione delle case poi si stima più giusta e più utile per ogni riguardo, se la città venga divisa secondo il sistema moderno ippodameo, e, rispetto alla sicurezza nello stato di guerra, è consigliabile il sistema contrario, quello in pratica presso gli antichi, per il quale la città era inaccessibile ai nemici e non era facile agli assalitori, quando vi fossero penetrati, il rintracciare le vie. Perciò occorre che la città partecipi dell'uno e dall'altro sistema... e a questo scopo non si deve dividere tutta simmetricamente, ma solo in certi punti e quartieri". Passando quindi a trattare la questione se convenga o no che le città siano cinte di mura, dopo aver concluso in senso affermativo, aggiunge: "Bisogna aver cura non solo di cingere le città di mura, ma provvedere anche che queste siano d'ornamento alle città e nello stesso tempo corrispondano alle esigenze guerresche, soprattutto a quelle prodotte da nuovi mezzi di offesa". Tutto ciò in linea generale. Segue qualche accenno a fatti particolari, e cioè all'opportunità che gli edifici sacri agli dei (e quelli destinati ai comuni banchetti dei magistrati) siano - salvo determinate eccezioni - raccolti in un'unica località e che in mezzo ad essi sia costruita un'agorà, diversa dalla piazza del mercato vera e propria, per la quale conviene scegliere un luogo adatto alla facile introduzione dei prodotti da parte di terra e di mare.
Vitruvio nell'Architettura per varî argomenti si è valso di quanto avevano precedentemente scritto trattatisti ellenici; cosicché siamo autorizzati ad ammettere che le prescrizioni che egli dà genericamente sulla scelta del luogo opportuno per la fondazione di una città, sulla sua orientazione, sulla distribuzione delle sue parti, si accordino con norme già sancite dall'urbanistica greca.
Ma anche le notizie che possiamo raccogliere in Vitruvio, a prescindere da certe norme di carattere igienico e da certe particolari costruzioni specialmente di carattere militare, si riducono a ben poca cosa: "La forma della città - dice dopo aver parlato delle mura e delle torri - non deve essere quadrata né ad angoli acuti, ma circolare, acciocché il nemico sia da più luoghi scoperto" (trad. Galiani). E più avanti: "Fatto che sarà il giro delle mura, resta a farsi la distribuzione del suolo di dentro, e la direzione delle strade e dei vicoli secondo il giusto aspetto del cielo. Sarà propria la direzione, se si penserà ad escludere dai vicoli i venti" (I, 6, 1). E finalmente: "distribuiti i chiassuoli, e disegnate le strade, si deve ora trattare della scelta propria dei suoli per uso dei templi, del foro e degli altri luoghi pubblici. Se la città sarà presso il mare, il suolo proprio per sistemarvi il foro si sceglierà vicino al porto: ma se sarà dentro terra sarà nel mezzo della città" (I, 7, 1).
Meglio che dalle fonti letterarie siamo in grado di conoscere le città greche dall'esame diretto delle loro rovine; dalle quali risulta: 1. che la struttura delle città è molto più complessa e più varia di quanto non risulti dallo schema dottrinario; 2. che il tipo delle città ha variato attraverso i secoli.
Generalmente l'ubicazione delle città greche dell'età classica coincide con quella di centri abitati dell'età micenea. In questo caso è avvenuto che sulle rovine delle cittadelle dei principi sorgessero dei templi. Ma, come bisogna guardarsi da due estreme illazioni, rispetto alla civiltà in genere, nel senso o che ci sia stata una continuità ininterrotta di sviluppo o che l'interruzione tra l'uno e l'altro periodo sia stata assoluta, così si deve usare la stessa cautela nei riguardi dei sistemi di costruzione.
Al sec. VIII e al VII a. C., al periodo cioè delle crescenti relazioni commerciali con l'Oriente, risalgono le prime vere formazioni di città greche. Tuttavia la loro struttura continua a rimanere affine a quella delle città cretesi-micenee. Se si prendono in esame le rovine di città come Lato (oggi Goulás) nell'isola di Creta, di Melos che prese il posto di Phylakopi, di Egina, di Atene, di Tebe, della supposta Ephyra, piccola cittaduzza sull'istmo di Corinto, e se si considerano specialmente le rovine che appartengono al periodo che va dal sec. VII al sec. V, nel complesso si può osservare che la configurazione tipica è quella della città aperta, sia che si trovi sopra un pianoro sopraelevato, sia che giaccia ai piedi di un'acropoli.
Nel periodo arcaico il reticolato stradale era irregolarissimo. Su questo particolare abbiamo la testimonianza dello pseudo-Dicearco, e nei riguardi di Atene anche quella delle rovine che si stendono ai piedi dell'Acropoli (v. atene). Un'idea più completa e più chiara dell'irregolarità delle città arcaiche possono darcela anche le rovine dei quartieri abitati di Delo e i santuarî, come quelli di Delfi e di Olimpia, due città sacre, che nell'aspetto generale tanto somigliano alle città abitate.
Le case, di piccole dimensioni e tutte di eguali proporzioni, erano densamente aggruppate. La tendenza generale dell'abitato era di concentrarsi intorno all'acropoli e all'agorà. E attorno all'agorà si trovano principalmente raccolti gli edifici pubblici più importanti, come il Buleuterio e il Pritaneo; spesso anche templi. In città marittime, che avevano il porto contiguo all'abitato, si dà il caso di edifici importanti anche a specchio dell'acqua. È questo il caso del Pireo, con la Stoa Lunga e l'arsenale di Filone di Eleusi, oppure di Alessandria in Egitto, dove, oltre al famoso faro, costruito da Sostrato di Cnido, si trovavano altre opere importanti, di carattere marinaresco, tra cui il molo di sette stadî che univa l'isola alla terraferma. L'ubicazione di altri edifici pubblici, quali i teatri e gli stadî, dipese soprattutto dalla configurazione naturale del terreno, essendo preferibili quei luoghi che consentivano di utilizzare la roccia, con risparmio di opere in muratura.
Sulla fine del sec. VI e nel corso del V cominciarono ad apparire le mura di cinta. Ma esse non hanno costituito un elemento essenziale. Elide, fondata nel 471 a. C., sotto la vecchia cittadella, non ebbe mura, e fino al principio della guerra del Peloponneso le città ioniche, sebbene fossero molto esposte, ne rimasero sprovviste. Anche nella Grecia propria, oltre Atene, erano assai poche le città murate; e Sparta ne rimase senza fino all'età romana. Ma se pure le mura di cinta non hanno costituito un elemento essenziale, tuttavia, col volger degli anni, se ne è andato sempre più diffondendo l'uso, tanto ch'esso appare quasi generalizzato nell'età ellenistica. Sennonché le mura non hanno mai costituito un tutto organico con la struttura delle città, alle quali rimane sempre la tendenza a raccogliersi nel centro, nel punto cioè dove sono riuniti gli edifici pubblici più importanti. Le mura sogliono comprendere nella loro cinta anche posizioni elevate adattate a cittadella. Il loro tracciato, come prescinde dalla configurazione della città, prescinde anche dai limiti dell'abitato. Esso non tiene conto che delle esigenze militari e delle necessità della difesa. Tipico è, a questo riguardo, l'esempio di Siracusa, la cui cinta murata (avente uno sviluppo di oltre 27 km.) del tempo di Dionisio I si estendeva specialmente verso ovest, ove sorgevano le fortificazioni dell'Eurialo molto al di là dei varî centri abitati, i quali dapprima erano stati alla loro volta circondati da mura. Anche in Atene la parte più importante delle mura di cinta era quella che formava come un canale protetto fra la città vera e propria e la città del porto (il Pireo). E allo stesso criterio delle esigenze militari appare ispirato il collocamento delle porte, per le quali non si richiedeva come cosa necessaria che stessero sugli assi della città o in corrispondenza di vie principali.
Ma la vera innovazione di quel tempo non consiste nella maggiore diffusione delle mura di cinta, bensì nella struttura interna della città. All'irregolarità primitiva succede il gusto per una regolarità quasi geometrica del tracciato delle strade. Questa innovazione appare certamente prima nell'Asia Minore che nella Grecia propria. Ad essa figura associato il nome del ricordato Ippodamo di Mileto (v.), benché egli non sia l'inventore del sistema.
Certo è che la parte del mondo greco ove esso apparve per la prima volta è l'Asia Minore, donde poi - in ispecie dal tempo delle guerre persiane - cominciò a penetrare e a propagarsi nella Grecia propria. Quando Ippodamo ebbe l'incarico di tracciare il piano regolatore del Pireo, è probabile che il sistema, anche limitato alla planimetria, non fosse una novità nella stessa Grecia propria. La ragione per cui appare legato al suo nome si ha da ricercare precisamente nel fatto che, oltre ad essere un professionista, egli era anche un dottrinario, che espose in iscritto le sue teorie.
C'è chi pensa che uno dei primi esempî di città costruite secondo i principî del sistema ippodameo sia Mileto, ricostruita nel 479 a. C., dopo la distruzione compiuta dai Persiani nel 494. Se effettivamente il tracciato della città ellenistica, che è quello predominante nelle rovine messe in luce, coincide con quello della città ricostruita nella prima metà del sec. V, la cosa è molto importante, perché assai più chiaramente che non gli scarsi residui del Pireo le rovine di Mileto dànno un'idea di ciò che fosse il tracciato planimetrico secondo quel sistema. A giudicare da tale esempio, esso richiedeva il reticolato stradale a scacchiera con le vie intersecantisi ad angolo retto, giusta quanto si desume altresi dalle parole di Vitruvio. Ma anche quel poco che si è potuto scoprire del tracciato dell'antico Pireo giova a illuminarci in proposito. Sennonché, rispetto alla prima metà del sec. V, gli esempî di città costruite secondo il sistema ippodameo non abbondano. Di Turî, la cui fondazione è stata modernamente, ma erroneamente, attribuita a Ippodamo in virtù della qualifica di Turio che gli dà qualche scrittore antico, soltanto da una notizia letteraria si apprende che aveva pianta regolare, con le vie tagliate ad angolo retto (Diod., XII, 10). Né è facile la datazione di quelle parti del rinnovamento edilizio di Cirene che corrispondono ai dettami di quel sistema. Bisogna scendere alla fine del secolo, e precisamente alla fondazione di Selinunte, al tempo di Ermocrate (408-07 a. C.), per trovare in situ la pianta di una città a tracciato stradale regolare. L'esempio dell'acropoli di Selinunte è uno dei più cospicui per la planimetria.
A cominciare dal principio dell'età ellenistica la nostra conoscenza, sia attraverso notizie letterarie, sia in base alle stesse rovine, di città costruite a pianta regolare secondo i canoni ippodamei diventa sempre più larga. Una città che sorse sulla fine dell'età classica, e che ebbe il suo principale sviluppo nell'età ellenistica, è Megalopoli. Di tracciato regolare ci risulta dotata Alessandria d'Egitto, fondata sui piani di Dinocrate da Alessandro Magno nel 332 a. C. Strabone riferisce che la sua configurazione generale aveva la forma di una clamide (XVII, 1, 8). La regolarità del tracciato stradale risulta dal romanzo dello pseudo Callistene (I, 32), secondo il quale Alessandro avrebbe trovato nel luogo prescelto dodici canali che correvano verso il mare e che, colmati, avrebbero formato altrettante strade; particolare, questo, che è stato confermato dalle scoperte di Mahmud bey. Che poi la città fosse attraversata per lungo e per largo da due arterie principali intersecantisi ad angolo retto, si desume, oltre che da un accenno di Strabone (loc. cit.), da un più particolareggiato ragguaglio di Achille Tazio (De Leucippes et Clitophontis amoribus, V, 1). Pianta anche più regolare ebbe Nicea, in quanto il suo perimetro era rettangolare (Strabone, XII, 4, 7).
Lo stesso parallelismo nel tracciato stradale risulta in altre città, quali Cnido e Priene, questa nota meglio di quella grazie alla sua esplorazione sistematica. La periferia è irregolarissima; la cinta delle mura si estende oltre l'abitato e comprende pure l'acropoli, che si trova a una quota molto più elevata. Ma nella città vera e propria le strade longitudinali e le trasversali sono rispettivamente parallele e le prime intersecano le seconde ad angolo retto. Inoltre a Priene, come a Cnido, il terreno non è pianeggiante; la città è addossata su terrazze degradanti, sistemate artificialmente in perfetta coordinazione con il tracciato stradale, e anche gli edifici seguono le sistemazioni a terrazze del terreno e il taglio delle strade. E allora vien fatto di domandarsi se non fosse tutta l'organicità dell'insieme ciò che costituiva il sistema; quell'organicità che faceva apparire al retore Elio Aristide le costruzioni della città di Smirne armonizzanti come le membra del corpo umano (I, p. 374, ed. Dind.) e come le parti di una sola casa quelle di Rodi (‛Ροδιακός, 540); città, questa, il cui piano, per ragioni di cronologia (essendo stata fondata nel 408 a. C.), non si può attribuire a Ippodamo, ma che tuttavia passava per opera sua (Strab., XIV, 2, 9).
Press'a poco nello stesso torno di tempo al quale vanno riferiti i lavori di Ippodamo al Pireo fu compiuta l'ultima ricostruzione del santuario di Egina. In questa ricostruzione si nota la sistemazione della piattaforma sulla quale sorgeva il tempio, ad ampia terrazza, sorretta da muraglioni, con tre dei suoi lati formanti un rettangolo regolare e i rispettivi margini longitudinali equidistanti dal tempio stesso; e, insieme con questa sistemazione, un quasi perfetto coordinamento delle varie costruzioni tra di loro. Siccome l'apparizione quasi contemporanea di questo nuovo indirizzo dell'arte edilizia e del sistema regolare del tracciato stradale nelle città non può ritenersi del tutto fortuita, è evidente che deve trattarsi di manifestazioni concomitanti sin dall'origine. D'altro canto sarebbe strano che il nome d'Ippodamo fosse rimasto così strettamente legato all'agorà del Pireo, se l'opera dell'architetto si fosse limitata al semplice tracciato planimetrico, e se gli antichi non avessero riconnesso col suo nome anche l'insieme degli edifici che la circondano.
Ma, stabilita la molteplicità di siffatti elementi, determinate le peculiarità di ciascuno di essi, è chiaro come non sia necessario trovarli riuniti tutti insieme per riconoscerne il carattere. E come in un'intera città, così possiamo riconoscere il sistema ippodameo anche in un grande aggruppamento di edifici che, pur non presentando uniformità di orientazione (come, ad esempio, sull'acropoli di Pergamo), sono tuttavia organicamente coordinati tra di loro; oppure in aggruppamentì più piccoli (come quell'insieme straordinariamente pittoresco, che costituisce i propilei dell'acropoli di Atene e i loro annessi), dove la collocazione e la disposizione degli edifici stessi conferiscono all'insieme il massimo effetto scenografico; oppure - finalmente - in costruzioni isolate (quali i teatri e altri edifici congeneri), la cui struttura appare tutta ispirata al principio dello sviluppo della scenografia innestata a una regolarità strettamente geometrica.
Nel complesso, dunque, i fatti che caratterizzano il nuovo indirizzo dell'arte edilizia si possono così riassumere: 1. planimetrie più o meno regolari, con prevalenza dello schema rettangolare e reciproco coordinamento nell'orientazione degli edifici; 2. coordinamento, mediante un sistema di raccordi, fra edifici diversi, in modo da formare un insieme organico ed armonico; 3. largo uso delle sistemazioni a terrazze dei terreni accidentati e delle pendici montane, con l'apprestamento di congrui muraglioni di sostegno e il coordinamento dei dislivelli per mezzo di scalee; 4. introduzione di particolari tipi di costruzioni, come le piazze monumentali chiuse da portici ed eventualmente arricchite di propilei (v. agorà), i teatri, ecc.
Tutto ciò non costituisce nulla di veramente nuovo. Al difuori delle planimetrie regolari, nella stessa Grecia si rintracciano, anche in epoche più antiche, i prototipi di tutte le altre forme caratteristiche del sistema; mentre le architetture orientali, fatta naturalmente eccezione delle peculiarità rispettive, presentano innumerevoli esempî analoghi. Anzi a questo proposito occorre avvertire che, seppure - sempre a prescindere dalle planimetrie regolari che si propagano in Grecia sotto l'esclusiva influenza dell'Oriente (istruttivo è il noto esempio di Tell el-'Amārnah in Egitto) - degli altri elementi costitutivi del sistema ippodameo nella stessa Grecia esistono, in embrione, i prototipi, tuttavia il loro successivo sviluppo avvenne sotto l'influsso delle architetture orientali, le quali precedettero l'arte edilizia della Grecia nella creazione di opere a carattere scenografico e fornirono agli architetti greci esempî a cui essi non poterono sottrarsi. L'azione di tale influsso orientale è stata così forte, da un certo momento in poi, da far quasi apparire l'architettura ippodamea come una vera e propria importazione dall'Oriente. E la novità consiste appunto nello sviluppo vigoroso e simultaneo di elementi per lo innanzi manifestantisi in una fase embrionale e per di più sporadici, e ora raccolti e coordinati con progrediti procedimenti tecnici; nella risoluta affermazione di un indirizzo che ha determinato un vero mutamento nell'aspetto d'insieme dell'arte edilizia. Questo il rinnovamento profondo che si verificò verso la fine del sec. VI e proseguì con ininterrotto crescendo fino a culminare nell'età ellenistica avanzata e nell'età romana.
Nell'età ellenistica cominciò ad apparire, nelle città greche dell'Oriente, un nuovo elemento che poi durante l'età romana venne ad assumere un'importanza straordinaria dal punto di vista dell'estetica edilizia: la via porticata. Erano le vie principali che venivano dotate di portici; ed esse generalmente facevano capo a una porta o a un altro edificio monumentale. Si aggiunga che i crocicchi erano spesso arricchiti di tetrapili, i quali anch'essi in tal modo formavano lo sfondo di alcuni tronchi di vie. E non vi ha dubbio che le lunghe e molteplici fughe di colonne (i filari che fiancheggiavano le vie erano talvolta doppî, come a Palmira), specialmente per chi guardasse dall'interno dei portici, dovessero presentare stupendi colpi d'occhio. Ma quando si pensi alla relativa strettezza delle vie nelle antiche città greche, e anche alla modesta elevazione degli scenarî di fondo, è facile comprendere come agli antichi fossero sconosciuti quei magnifici spettacoli che offrono certe vie di città moderne, quando si presentino chiuse, in fondo, dal prospetto di un grande edificio monumentale e quando abbiano tanta larghezza da comprendere nella visuale, tutto intero o nella sua parte maggiore e più significativa, il prospetto medesimo.
Bibl.: E. Kornemann, Polis und urbs, in Klio, V (1905), p. 77 segg.; F. Haverfield, Ancient town-planning, Oxford 1913; A. v. Gerkan, Griechische Städtanlagen: Untersuchungen zur Entwicklung des Städtebaues in Altertum, Berlino e Lipsia 1924; G. Cultrera, Architettura ippodamea: contributo alla storia dell'edilizia nell'antichità, in Mem. della R. Accad. Naz. dei lincei, s. 5ª, XVII, fasc. 9°; G. Glotz, La cité grecque, Parigi 1928; F. Tritsch, Die Städtbildungen des Altertums und die griech. Polis, in Klio, XXII (1928), pp. 1-83; K. Lehmann-Hartleben, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., s. 2ª, III, col. 1986 segg.
La "polis", città-stato. - La polis omerica. - Nei canti omerici πόλις, πτολίεϑρον è la città fortificata; la parola ha sempre senso materiale e non indica mai l'insieme dei cittadini (che in Omero è δῆμοσ, non πόλις). La città è cinta di solito di mura, sebbene vi siano anche città aperte, come Itaca; vi sorgono i templi degli dei, edifici privati e, al centro, la reggia.
Nelle città marittime vi è il porto con gli arsenali, e in tutte le città una piazza (ἀγορά) dove gli uomini liberi e atti alle armi si riuniscono per deliberare. Vi è anche un luogo dove la gioventù danza e luoghi dove i conoscenti si ritrovano per chiacchierare (λέσχαι: Od., XVIII, 328). La città domina un territorio il cui possesso è diviso fra i cittadini: ognuno possiede il suo lotto (κλῆρος). Solo le divinità, il re, ed eccezionalmente chi è onorato di tal privilegio per benemerenze verso i cittadini, hanno una vasta proprietà privata (τέμενος). Costruzione di mura e distribuzione del territorio circostante sono i primi atti con cui ha vita una città (Odissea, VI, 10). Nella città omerica si riflette la città micenea.
Distribuzione della popolazione greca agl'inizî del Medioevo greco. - Mentre nell'età premicenea e micenea i nuclei più importanti, se anche non più numerosi, vivevano in città chiuse (κατὰ πόλεις), presso le popolazioni che nell'età successiva troviamo stanziate nelle varie parti della penisola predomina la distribuzione per villaggi (κατὰ κώμας); politicamente e militarmente esse appaiono ordinate in stirpi etniche. Questo mutamento secondo la storia tradizionale è dovuto all'emigrazione dorica, secondo una più recente spiegazione che fa capo al Beloch e nega ogni valore storico alla pretesa invasione dorica, all'assestamento che tenne dietro al crollo delle monarchie micenee. Per le riunioni degli appartenenti alla stessa stirpe e come luogo di difesa si costruiva una cittadella fortificata, di solito in cima a un monte, presso la quale risiedeva il capo (βασιλεύς) della stirpe; ma gli appartenenti ad essa vivevano raggruppati, secondo i vincoli di consanguineità, in villaggi. Le più arretrate popolazioni della Grecia, Etòli, Locri, Arcadi, Acarnani, conservano anche in età più recente questa distribuzione, e cosi anche la stessa Sparta, senza pregiudizio dei suoi ordinamenti di polis-stato.
Il sorgere della polis. - In generale si può dire che al sorgere delle città greche contribuirono da un lato l'indebolimento dei vincoli che legavano fra di loro gli appartenenti a una stessa stirpe, dall'altro il complicarsi, l'intensificarsi e quindi il prevalere di interessi locali. I rapporti fra gli appartenenti alla stessa stirpe da continui divennero intermittenti, e si ridussero a puri rapporti sacrali (alla divinità della stirpe si consacrava un culto comune); frattanto le condizioni locali creavano interessi comuni solo ai residenti di una ristretta parte del territorio e spesso contrastanti con quelli degl'immediati vicini. L'incremento della vita industriale e commerciale sviluppatasi dal sec. VII in poi in molti centri della Grecia moltiplicò e individuò tali interessi. Questi centri divennero il punto di attrazione delle popolazioni della campagna viventi nei villaggi: l'aumento della popolazione e dei mezzi fece sentire l'esigenza di un ordinamento politico autonomo a garanzia degl'interessi che l'ordinamento per stirpi non aveva la possibilità di tutelare. Così sorsero le città; l'origine delle quali si presenta con un aspetto materiale, che è il confluire degli abitanti della campagna in una città, generalmente chiusa, il più delle volte sotto la rocca dove un tempo risiedeva il re della stirpe; e con un aspetto giuridico, in quanto, contemporaneamente e per effetto del costituirsi delle città, agli organi della stirpe si vennero sostituendo organi di amministrazione cittadina.
Ragioni analoghe a quelle che determinarono nella penisola greca il lento sorgere delle città favorirono la transizione dal villaggio alla città nelle terre che i Greci colonizzarono all'inizio del Medioevo greco nelle isole dell'Egeo o sulle coste dell'Asia Minore. Non potendosi appoggiare per la difesa degl'interessi comuni alle forze militarmente ordinate della stirpe, da cui erano staccate, si trovarono prima degli altri nella necessità di chiudersi entro mura e di organizzare il microcosmo politico che l'isolamento definiva. Si ebbero così città primitive, piuttosto villaggi fortificati che vere città, e con un ordinamento politico locale e indipendente, per forza di cose, dall'ordinamento politico della stirpe. Da questi piccoli centri, isolati e ben muniti, si svilupparono più tardi vere e proprie città che furono fra le più ricche e le più popolate del mondo greco. In tale sviluppo ha molta importanza il sinecismo (v.), cioè il riunirsi degli abitanti di più villaggi in una città, ovvero di più città in una sola di esse, ovvero in un nuovo centro.
Il territorio della città. - La città è circondata da un territorio di modesta estensione. Sul territorio della città il diritto di proprietà spetta solo ai cittadini: i forestieri sono esclusi dal possesso degli immobili, tranne che se abbiano ἔγκτησις, diritto elargito in via d'eccezione. Esso si estende per brevi confini. Una città con un territorio al disopra dei 500 kmq. è già una città grande. Ve ne erano delle piccolissime che pur costituivano una polis, erano, cioè, stati autonomi (il territorio di Serifo si estendeva secondo alcuni per poco più, secondo altri per poco meno di 70 kmq.).
Sparta fu tra gli stati greci quello che impose la sua sovranità su un'area più estesa: nel periodo della maggiore estensione il suo territorio era di oltre 8000 kmq., compresa la Messenia, la Cinuria e il territorio occupato dai Perieci. Il territorio dominato da Atene era di circa 2500 kmq. Corinto non raggiungeva i 900 kmq. Secondo il Beloch, il territorio delle maggiori città della Sicilia andrebbe calcolato, per il sec. V, nel modo seguente: Siracusa con Leontini, 4680 kmq.; Agrigento, 4285; Gela, 1720; Imera, 1185; Selinunte, 1140; Nasso e Catania, 1060; Camarina, 845: Messene, 770. Molto estese furono anche le città della Magna Grecia; per esse tuttavia non è possibile giungere a determinazioni precise. Notevole estensione aveva il territorio della polis nelle isole di media grandezza, quando, come di regola avveniva, una sola città possedeva tutta l'isola: Rodi (dopo il sinecismo del 408-07 a. C., che delle tre città ivi abitate, Ialiso, Camiro e Lindo, fece un unico stato), 1460 kmq.; Chio, 826; Samo, 468; Nasso, 448. Fra le città di maggiore estensione di territorio vanno poste anche Calcide ed Eretria, le città più importanti dell'Eubea; un territorio ristretto possedevano le più delle città cretesi. Molto diverse per estensione erano le città dell'Asia Minore; il territorio delle città della Ionia variava dai 200 ai 1500 kmq., quello delle città eoliche è calcolato sulla media di 100 kmq.
Di regola, nel territorio della polis vi è un unico grande centro, la città in senso materiale. Ivi abita tutta o in gran parte la popolazione della polis. La percentuale della popolaziorie urbana è fortissima. "Nei territorî, più piccoli come Sicione, Fliunte, Tegea, Mantinea, nelle città della Beozia e della Focide, la popolazione della capitale può benissimo supporsi pari a quella dell'intero stato" (Beloch). In molti stati, tuttavia, si abitava anche fuori delle mura cittadine: anzi, nell'Attica e nell'Elide la popolazione che viveva sparsa per la campagna superava quella della città. Il territorio dell'Attica è disseminato di demi (v.) disposti irregolarmente secondo le risorse del suolo.
Oltre ad Atene, la città vera e propria (ἄσρυ), vi era nell'Attica la città del porto, il Pireo, che, pur costituendo un demo, era abitato da popolazione urbana. Il Pireo, il cui perimetro (60 stadî = 9 km. ½ circa) uguagliava quello di Atene, aveva edilizia cittadina, grandi caseggiati (συνοικίαι), uffici pubblici, portici e una grande piazza del mercato, oltre alle opere proprie delle città portuali.
Di molte delle città greche abbiamo dati sufficienti per stabilirne approssimativamente il perimetro: riportiamo il perimetro delle maggiori, desunto dai calcoli del Beloch: Siracusa, 180 stadî (28 km. circa); Atene, 175 stadî (27 km. circa) di cui 60 stadî (km. 9 ½ circa) la periferia complessiva dell'ἄστυ; Crotone, 100 stadî circa (15 ½ km. circa); Corinto, 85 stadî (13 km. circa); Calcide (dopo l'ampliamento avvenuto sotto Alessandro), 70 stadî (11 km. circa); Megalopoli, 50 stadî (7 km. ½ circa); Sparta, 48 stadî (7 km. circa); Sibari (prima della distruzione), 50 stadî (7 km. ½ circa); Bisanzio, 40 stadî (6 km. circa). Dal perimetro di una città possiamo farci solo un'idea approssimativa della sua estensione, perché non tutta l'area compresa nel perimetro era fabbricata.
Popolazione. - In origine le città greche erano molto poco abitate. Solo nei secoli V e IV si vennero formando, specialmente nei centri industriali, importanti agglomeramenti di popolazione urbana; ma il maggiore sviluppo delle città si ebbe nell'età ellenistica.
La popolazione urbana è mista di varî elementi: la sua composizione varia secondo le età, i luoghi e il carattere proprio della città. La popolazione della città micenea, quale ci appare attraverso i poemi di Omero e di Esiodo, è patriarcale e agricola. L'artigianato è sporadico e rappresentato da pochi uomini abili nei mestieri più difficili (fabbri ferrai, legnaiuoli, vasai, medici, indovini, araldi, cantori), ben rimunerati, ma poco considerati. La parte più povera degli uomini liberi vive in condizione quasi servile, lavorando per mercede le terre dei signori. La famiglia del re e dei grandi possidenti assorbe e coordina il lavoro di tutti, con poche eccezioni. Le industrie più essenziali rientrano fra le ordinarie mansioni domestiche: schiavi e principi in Omero lavorano insieme.
Questa vita cittadina, così poco sviluppata, si attenuò quando nel periodo postmiceneo i popoli si disposero per borgate. Anche le comunità dei Perieci nella Laconia, che pur conservavano il nome di città (πόλεις), non erano che modesti villaggi. E vita di villaggio deve supporsi quella degli abitanti, pastori e agricoltori, della Grecia nei primi secoli di questa età. Nelle regioni più favorite da natura il villaggio si ampliò fino a divenire una città agricola, abitata in massima parte dai contadini, dominata dalla nobiltà agraria. Qualche città dell'interno conservò questo carattere anche in età più recente.
L'origine e l'incremento delle maggiori città greche coincidono con lo sviluppo economico che si nota in molti centri della penisola greca e della Grecia asiatica dalla metà del sec. VIII in poi. Questo sviluppo, che per alcune città come Corinto, Megara, Calcide, Eretria è già notevole ed evidente nei secoli VII e VI, culmina per la maggior parte delle città nei secoli V e IV. Dal sec. V in poi, mentre le maggiori città dell'interno, come Tebe, Sparta, le città della Tessaglia, conservano carattere di città rurali, nelle città portuali, che sono le più importanti, si era venuto formando un ceto borghese di commercianti, capitani di navi, piccoli e grandi industriali e anche, nei maggiori centri come Siracusa, Corinto, più tardi Atene, di fortissimi banchieri. Questi, insieme con gli eredi dell'antica nobiltà agraria, spodestata e trasformatasi, e con la massa varia e male organizzata degli artigiani e dei popolani mercenarî, costituivano per la massima parte la popolazione cittadina. Le stesse esigenze di questa nuova economia avevano fatto aumentare il numero degli schiavi, che non sono più addetti al lavoro interno della casa o alle opere agricole, ma sono divenuti strumenti tecnicamente indipendenti dell'attività industriale e commerciale. Nelle grandi città industriali il numero degli schiavi superava quello dei liberi. Della loro opera non si poteva fare a meno: la ricchissima Megara fu economicamente rovinata quando nel saccheggio del 307 per opera delle truppe di Demetrio Poliorcete furono asportati tutti gli schiavi. Nelle città nelle quali lo sviluppo industriale era maggiore, l'inevitabile richiesta di capitali fece accorrere ricchi forestieri che vi posero stabile residenza; per cui accanto alla popolazioue libera e agli schiavi si formò una numerosa categoria di stranieri residenti (μέτοικοι). Oltre ai cittadini, agli schiavi e ai meteci, vi erano forestieri con residenza provvisoria: popolazione fluttuante, alla quale le leggi della città accordavano una certa protezione giuridica, da cui non era escluso lo schiavo commerciante, ancorché forestiero e di passaggio.
Alla varietà della condizione giuridica degli abitanti delle città corrisponde la diversità delle condizioni economiche. Le fonti ci parlano di uomini che possedevano fino a 1000 schiavi impiegati nelle miniere, e patrimonî perfino di 200 talenti (un talento eguale a 6000 dr.), ricchezza enorme in una città in cui una dramma era più che sufficiente al mantenimento giornaliero di una famiglia. Accanto a questi grandi ricchi, il cui numero è quanto mai esiguo, e agli agiati, le cui risorse sono di regola limitate, vi è il popolino che vive alla giornata.
Le lotte politiche interne della città hanno alla loro base il contrasto fra ricchi e poveri. Le città industriali, dove i contrasti economici sono più numerosi e la lotta di classe più intensa, tendono a raggiungere un regime democratico. In Atene il Pireo, la città del porto, è più ancora dell'ἄστυ focolaio di tendenze demagogiche. Questo fatto, che nelle città più popolose e di maggiori risorse vi era una plebaglia povera e politicamente influente, dà ragione sia di alcune istituzioni demagogiche, come il compenso in denaro per certi uffici pubblici, la restituzione del biglietto d'ingresso al teatro, l'elargizione di grano sotto prezzo (v. beneficenza), sia delle vicende politiche di alcune città democratiche, prima fra tutte Atene, le cui sorti dalla metà del sec. V e per tutto il IV furono guidate da uomini forti solo del proprio ascendente sulle moltitudini. Questa plebe fu, con le sue decisioni avventate, causa di grandi sciagure; ma non impedì che nelle città in cui imperava si elaborasse la più splendida e vitale delle antiche civiltà.
Nell'età ellenistica la parte infima della popolazione non ha più diretta importanza politica come nell'età precedente; ma proprio in questo periodo si formano le grandi metropoli dove la popolazione urbana è pletorica, e la presenza di molti elememi non greci ne aumenta la varietà di composizione; per giunta accanto al fenomeno dell'urbanesimo si accentua quello di un successivo impoverimento del proletariato di cui aumentano il numero, i bisogni e la criminalità; perciò il provvedere alle esigenze elementari della plebe diventa uno dei compiti fondamentali degli stati ellenistici.
Entità numerica della popolazione urbana. - In ogni città risiede di regola: 1. la popolazione cittadina (tutta o in parte), cioè i πολῖται atti alle armi, che ne rappresentano il 30%, le donne, i minori e i vecchi; 2. la popolazione libera non cittadina: meteci, forestieri con residenza non stabile, forestieri di passaggio; 3. gli schiavi. Ora il rapporto fra queste categorie varia da città a città, e varia sotto due aspetti, rispetto alla popolazione complessiva vivente nel territorio della polis e rispetto alla popolazione urbana. Negli stati agricoli poveri, come quelli dell'Arcadia, della Focide, della Locride, alla coltura del terreno in massima provvedono direttamente i liberi con le loro famiglie; invece negli stati agricoli a cultura intensiva, come l'Elide, si ha un forte numero di schiavi; negli stati industriali, poi, vediamo che il numero dei meteci e degli schiavi supera quello della popolazione cittadina, pur non tenendo conto della popolazione fluttuante, che è notevole. Per giunta, dove, come nell'Attica, parte della popolazione vive in campagna, i meteci e gli schiavi, rappresentando in massima parte un incremento della popolazione urbana, spostano a proprio favore nell'interno della città il rapporto della popolazione cittadina e non cittadina qual è calcolabile sulla popolazione assoluta. In città come Corinto e come Atene la popolazione urbana libera e schiava raggiunge un numero di anime superiore a quella dei πολῖται. Se dunque si tien conto che il calcolo della popolazione urbana va condotto il più delle volte su dati indiretti (numero dei πολῖται, entità delle forze armate, consumo di cereali, ecc.) e che spesso i dati stessi sono mal sicuri e mal valutabili, si comprenderà come le cifre indicate non abbiano se non un valore relativo.
Secondo il Beloch le città della Grecia rispetto al numero dei loro abitanti sino all'età ellenistica si possono distinguere in tre categorie: 1. città maggiori, con oltre 10.000 ab.; 2. città medie, con 10.000 - 5000 ab.; 3. città piccole o minime, con meno di 5000 ab.
Le città maggiori erano nei secoli V e IV: a) nella Grecia propriamente detta: Atene (oltre 110.000 ab., compreso il Pireo), Corinto (7.000 ab. circa), Tebe (50.000 ab. circa), Sparta (40-50.000 ab. circa), Argo (40-50.000 ab. circa), Elide, Corcira, Megalopoli, Olinto (40-50.000 ab. circa dal sec. IV), Megara; b) nella Grecia asiatica: Alicarnasso, dal sec. IV, Efeso (poco meno di 10.000 ab. sino tutto il secolo IV: solo nei secoli seguenti divenne una delle città più popolose dell'Oriente greco), Rodi (dopo il sinecismo del 408-07); c) nell'Occidente greco: Siracusa (oltre 100.000 ab.; nell'età di Gerone raggiunse forse i 200.000 ab.; decadde durante la 2ª guerra punica; nell'età di Augusto è quasi spopolata), Agrigento (40-50.000 ab., sec. V); d) nella Libia: Cirene.
Nei secoli precedenti la Grecia ebbe anche altre grandi città che decaddero dal loro splendore nel periodo delle guerre persiane. Esse furono: Mileto (già la prima città della Ionia, conquistata dai Persiani nel sec. V), Calcide ed Eretria, centri industriali di prima importanza e popolosissimi nei secoli VIII, VII, VI e sino all'invasione persiana.
Il maggiore sviluppo demografico della città greca si ebbe in età ellenistica; le città più popolose furono in quest'età: Alessandria d'Egitto (500.000 nell'età dei diadochi, una popolazione anche maggiore nell'età di Augusto), Seleucia sul Tigri (500.000 circa), Efeso (200.000 circa, sotto Augusto), Pergamo (oltre i 120.000). Non poche sono in quest'età le città che raggiungono i 100.000 abitanti.
Vita cittadina. - A giudicare da Atene, l'unica città su cui siamo bene informati e che, per i secoli V e IV, ci offre un esemplare di quello che doveva essere una città greca dell'età classica, la vita cittadina non ha né la complicazione, né la grandiosità, né l'ostentazione di ricchezze delle città cosmopolite dell'età ellenistica e dell'età moderna; è una vita di provincia, un po' gretta, un po' pettegola, molto curiosa, punto spregiudicata: la vita dei luoghi dove tutti vivono sotto gli occhi di tutti.
La vita quotidiana non ha né febbre né splendori. È modesta, perché il tenore della vita privata è basso. I grandi ricchi che possono permettersi di vivere sfarzosamente sono pochissimi; anche i cittadini di maggior censo sono agiati di un'agiatezza senza margine, per cui la loro vita privata è assillata da quella preoccupazione economica che nel mondo greco appare la principal base di tutti i rapporti personali; piace, è vero, l'atto liberale; ma se ne tien conto sino all'obolo. È naturale che la vita collettiva esteriore di questa gente non fosse eccessivamente brillante. Anche i fasti del demi-monde delle città greche sono modestissimi. Neanche in Atene o nella ricca e vivace Corinto si sacrificavano i patrimonî alla passione libertina: ce l'insegna l'uso sicuramente attestato fra i giovanotti di allora di prendersi un'amante in società e pagarsela mezza per uno (Demostene, c. Neaer., 29 segg.; Terenzio, Eunuch., v. 1071 segg.).
Però, siccome i Greci vivono buona parte della giornata fuori di casa, l'animazione della città greca è grande. Verso il mezzogiorno, quando la vita dell'agorà è più intensa, tutti accorrono là a farvi affari, a curiosare, a cercar conoscenti, a perder tempo. Nel pomeriggio ci si ritrova nei porticati, nelle palestre, nei ginnasî; molti vanno a finire nelle botteghe (Lisia, Pro inval., § 20).
A star chiuso in casa l'uomo greco non si adatta: già la casa è angusta, senza luce e senza comodità; i Greci dell'età classica non son troppo teneri per le gioie della famiglia e per l'intimità familiare. Chi sta in casa sono le donne, sempre tappate nel gineceo. Vero è che anche per i Greci il flirt è cara e piacevole occupazione della gioventù; ma ne sono oggetto i bei giovinetti che frequentano i ritrovi degli adulti, e a nessuno è ignoto quale importanza avesse nella vita greca l'amore per gli adolescenti.
Altra caratteristica della vita cittadina dei Greci è che essa si concentra in certi luoghi determinati, mentre nelle città moderne fluisce continuamente per le vie: nelle città della Grecia classica è più raccolta, meglio circoscritta, più nettamente afferrabile. La strada pubblica non è luogo di passeggio: stretta, fiancheggiata da case senza prospetto, non invita a trattenervisi. Grandi strade e passeggi pubblici sono proprî dell'età ellenistica.
La città greca manca poi di una regolare vita notturna. Il teatro è spettacolo eccezionale e diurno. Certi trattenimenti proprî degli odierni teatri di varietà avevano luogo nei banchetti, cioè nella casa privata. Di notte non vi è illuminazione: i nottambuli sono rari e anche in casa raramente si veglia.
La polis in senso giuridico. Essenza della polis. - Il sorgere della polis in senso giuridico traccia un confine esterno alle organizzazioni etniche preesistenti, la cui vitalità politica resta, così, circoscritta. Nell'interno della polis vivono ancora i rapporti fra gli appartenenti alla stessa tribù, ma solo in quanto chi appartiene alla tribù appartiene anche alla polis. "Con la polis si presenta una nuova unità che contiene i frammenti di molte stirpi di grandi o piccoli gruppi etnici, e, sotto l'impronta livellatrice di una ristretta vita comune, trasforma quei frammenti gentilizî che erano venuti a far parte della sua popolazione in elementi politico-amministrativi del popolo" (Keil). Questa delimitazione che la polis segna all'organizzazione dei suoi appartenenti, appunto perché è limite esteriore, non è incompatibile coi raggruppamenti che la polis lascia che si formino o continuino a vivere nel suo seno (ϕυλαί, fratrie, ϑίασοι, γένη, ecc.).
La polis-stato è la comunione dei cittadini politicamente organizzati. Questa organizzazione politica non pone in essere una persona giuridica, lo stato, distinta e contrapponibile alla massa dei consociati; in ciò la polis antica differisce dallo stato moderno. Si è anche veduto che il territorio soggetto alla polis non è da considerarsi come nel diritto pubblico moderno, elemento necessario alla nozione giuridica di stato.
Dallo stato moderno la polis differisce anche perché alla sua origine non è l'organo specifico che fa valere il diritto. Solo con l'andar del tempo la polis viene estendendo sempre più la sua ingerenza nei rapporti sociali ed avoca a sé la tutela giuridica che in un periodo primitivo era ufficio delle associazioni minori. Nelle città a regime democratico, come Atene, l'ordinamento che vige nell'età classica è la risultante di un duplice processo, mediante il quale da un lato la polis ha penetrato con la sua attività disciplinatrice un numero sempre maggiore di rapporti sociali, precisando i suoi compiti e moltiplicando i suoi magistrati, dall'altro la tendenza democratica, intesa a garantire la libertà individuale del cittadino, riduce l'autorità del magistrato, col farne un ufficio temporaneo, accessibile a tutti e rigorosamente controllato.
In conseguenza del modo con cui si è venuta formando, la polis greca, giuridicamente considerata, ha un duplice carattere: unitario in quanto i principali organi pubblici (assemblea, tribunali, le principali magistrature, a presciudere dal modo con cui il cittadino vi partecipa) esplicano la loro attività con effetti omogenei e totali in tutto l'ambito della polis, e uno solo è il luogo nel quale si esercitano i diritti politici, una la piazza, centro economico politico e sacrale della polis; e carattere di aggregato di tribù (ϕυλαί), in quanto il cittadino fa parte della grande famiglia della polis attraverso l'appartenenza a una tribù che è la base dei suoi diritti e dei suoi doveri nei rapporti della polis. In Atene, dove questo fatto può essere meglio studiato, l'attività del πολίτης si esplica attraverso la tribù: si è eleggibili ed elettori, si è magistrati, giudici, si adempiono gli obblighi di leva, si risponde alla chiamata delle armi, si prende parte alle grandi manifestazioni religiose, si esercita il controllo sull'opera del magistrato, si è convenuti in giudizio solamente e necessariamente in quanto si appartiene a una tribù. La cittadinanza elargita per decreto non pone in essere che un virtuale stato di cittadinanza; solo l'iscrizione alla tribù trasforma in attuale quello stato virtuale. Quando le antiche tribù esistenti nelle città, e la cui origine ci riporta all'antico ordinamento per stirpi etniche, hanno cessato dalla loro funzione storica, se ne creano delle artificiali, come in Atene nella costituzione di Clistene, come anche di regola nelle colonie ioniche, e sino nell'età ellenistica (Alessandria, Cassandria) e romana (specialmente nell'Asia Minore). Nello stesso modo che l'esercizio dei diritti politici ha come presupposto l'appartenenza a una tribù, altri diritti di natura privata sono legati all'appartenenza a un demo e a una fratria. Il godimento dei diritti a cui dà luogo lo stato di cittadinanza ha, dunque, questo carattere di mediatezza, per cui il diritto è subordinato al far parte di una delle associazioni minori in cui la polis si divide e che vivono nel suo interno una vita parallela a quella della polis.
Altro carattere della polis greca è che essa costituisce un organismo sacrale; la religione greca, formale e non legata a ortodossia dogmatica, penetra tuttavia ogni forma di vita privata e pubblica. La disciplina delle manifestazioni religiose rientra fra le funzioni statali; tutta la vita pubblica è legata a formalità religiose; l'empio è, come tale, escluso dalla comunità dei cittadini; il forestiero non ha personalità sacrale. "Di qui deriva l'unione intima dei membri della città. Se sopraggiunge una guerra, gli uomini si ricorderanno, secondo l'espressione d'un antico, che non si deve lasciare il proprio compagno di fila col quale si son fatti gli stessi sacrifici e le stesse libazioni, col quale si è partecipato ai pasti sacri. Questi uomini sono legati, infatti, da qualche cosa che è più forte dell'interesse, della convenzione, dell'abitudine: cioè dalla comunione sacra compiuta davanti agli dei della città" (Fustel de Coulanges).
E in generale può dirsi che l'essenza della polis greca, laddove il suo ciclo di evoluzione è perfettamente compiuto, non è da ricercare soltanto nell'ordinamento politico dei suoi appartenenti; essa consiste in una più complessa e intima unione dei suoi componenti in tutti i suoi aspetti non solo politici e religiosi, ma anche privati. La polis è il mezzo attraverso il quale l'individuo, che ne è elemento, riesce a farsi valere in ogni forma della sua attività. Vi è in ogni cittadino la consapevolezza di essere la parte di un tutto, l'elemento di una collettività, i cui fini sono suoi: e questo tutto è lo stato, il quale dà contenuto e valore alla vita che i singoli vivono in esso. L'attività politica è, certo, la prevalente, perché i cittadini della polis vivono quotidianamente la vita politica con un'intensità che ha appena un riscontro nei comuni italiani del Medioevo e che negli stati moderni si ha solo nei periodi di orgasmo suscitato da avvenimenti eccezionali e decisivi: ma questa stessa attività politica dei singoli si concreta, come ogni altra, attraverso quella della polis, col duplice effetto che l'influsso che i maggiori uomini del tempo esercitarono sugli avvenimenti generali era condizionato da una prevalenza personale nella polis, e che le popolazioni elleniche che non raggiunsero l'ordinamento in polis non ebbero alcun peso nella storia dei Greci.
Lo sviluppo dell'individualismo (che in Grecia coincide col movimento sofistico della seconda metà del sec. V) e la conseguente tendenza a farsi valere al di là e al di sopra della polis (tendenza impersonata nella realtà storica in Alcibiade e rappresentata astrattamente nell'uomo ideale di Callicle, nel Gorgia platonico) segnarono l'inizio della decadenza della polis. Nell'età ellenistica, che vide il dominio assoluto di uomini di potentissima personalità, l'importanza politica della polis è scaduta: essa non esercita alcun notevole influsso sulla storia del tempo; la sua autonomia è formale, la sua libertà apparente. La storia di quest'età non è più di città, ma di uomini.
La polis ellenistica. - Il sorgere di grandi monarchie potenti, estese, omogenee e non legate al passato dai vincoli d'una continuità tradizionale è il fatto storico più tipico dell'ellenismo. Il territorio su cui regna il monarca è territorio di conquista; gli abitanti sono sudditi; ubbidiscono al re che riunisce nella propria persona tutti i pubblici poteri e pagano il tributo (ϕόρος), che nell'antichità è il segno naturale della sottomissione e della dipendenza. Nel territorio soggetto al monarca si trovano delle città autonome: qual è la loro situazione giuridica? È certo che esse si trovano sotto l'influsso politico del monarca e che, nonostante la formale autonomia, sono legate alla sua azione personale. Ma come si profila giuridicamente questo rapporto di dipendenza della polis, organismo teoricamente sovrano, con la monarchia nel cui territorio si trova e a cui di fatto soggiace? La grave questione vien risolta in varî modi. Secondo il Hünerwadel il potere del monarca è egemonia in una lega di stati constante di terra regia e di città autonome; secondo il Mommsen la cittadinanza è sovrana nella cinta delle sue mure e il monarca è soltanto il capo comune delle singole cittadinanze più o meno autonome; secondo il Kaerst il rapporto di simmachia che lega le città greche alla monarchia, non si fonda su una qualsiasi indipendenza politica dei singoli membri della lega; non ha fini federali indipendenti e istituzioni federali indipendenti. A differenza della lega corinzia (nella quale era riconosciuta una certa indipendenza formale ai membri della lega e gli uffici della lega venivano in considerazione soltanto per la sfera propriamente federale, cioè fin dove si estendeva il campo d'azione degli scopi federali), nelle monarchie ellenistiche le città vengono adoprate ai compiti d'un impero dalla cui esistenza divengono dipendenti, senza esser tuttavia membri costitutivi di questo esteso nesso imperiale.
I poteri sovrani della polis. - La polis è un organismo sovrano, né perde formalmente questo carattere allorché nei rapporti esterni la sua attività viene ad essere costretta nella sfera di azione o di un'altra città o di un principe, come avviene delle città alleate di Atene nel periodo dell'impero attico, e, in minor grado, delle città appartenenti alla confederazione peloponnesiaca, ovvero delle città ellenistiche dipendenti da un monarca.
La concezione greca dei poteri fondamentali dello stato non coincide con le concezioni politiche moderne, che dividono i poteri in legislativo, esecutivo, giudiziario: i Greci, con una distinzione formulata da Aristotele (Polit., IV, 1297 b) ma che risponde alla coscienza giuridica comune (come per l'età anteriore e per la seguente dimostrano testi letterarî ed epigrafi), distinguono nella polis tre poteri sovrani, ἄρχειν, ἐκκλησιάζειν, δικάζειν, cioè il potere del magistrato, dell'assemblea e dei tribunali. Il potere del magistrato (ἄρχειν) - si tratti di magistratura collettiva, come la βουλή, o singola, come in Atene gli arconti, gli undici, ecc. - nell'ordinamento cittadino rappresenta l'autorità (il magistrato ha poteri coercitivi, che le democrazie limitano e controllano, ma non possono sopprimere), la continuità (mediante l'opera del magistrato, l'azione statale è inintermittente) e l'esecuzione (ciò che l'assemblea delibera e i tribunali sentenziano rimarrebbe inattuato se il magistrato non ne curasse l'esecuzione). L'assemblea (ἐκκλησιάζειν) definisce la volontà dei cittadini circa la politica interna ed esterna dello stato. I tribunali (δικάζειν) dirimono inappellabilmente le controversie in unica o in seconda istanza; e, negli stati democratici come Atene, in sede di ἔϕεσις giudicano in merito ai ricorsi presentati contro i provvedimenti del magistrato, in sede di εὔϑυναι esaminano il discarico che ogni magistrato presenta quand'esce di ufficio.
Bibl.: Sul modo con cui sorge la polis vedi E. Meyer, Geschichte des Altertums, II, 1ª ed., Stoccarda 1893, p. 329 segg.; G. Busolt, Griechische Staatskunde, in Handbuch d. klassischen Altertumsw., IV, i, Monaco 1920, p. 153 segg.; Keil, Griechische Staatsaltertümer, in A. Gercke e E. Norden, Einleitung in die Altertumswissenchaft, III, 2ª ed., Lipsia 1914. Per la storia delle origini delle singole città: J. Beloch, Griechische Geschichte, 2ª ed., I, 2, Strasburgo 1912. Per il concetto di polis è ancora utile, ma da consultarsi con cautela, Fustel de Coulanges, La città antica (trad. Perrotta, introd. e note di G. Pasquali), Firenze 1924, p. 145 segg. (le note del Pasquali mettono in rilievo dove la costruzione de De Coulanges non è più sostenibile di fronte ai risultati dell'indagine moderna). Si veda anche: J. Kaerst, Geschichte des hellenistischen Zeitalters, I, 3ª ed., Lipsia 1927, p. i segg.; G. Glotz, La solidarité de la famille, Parigi 2ª ed. 1904; M. Pohlenz, Staatsgedanke und Staatslehre der Griechen, Lipsia 1923. Per la polis omerica: G. Finsler, Homer, 2ª ed., I, Lipsia 1914, p. 110 segg. e 182 segg. Per la polis attica: U. Wilamowitz-Moellendorf, Aristoteles und Athen, Berlino 1893; G. De Sanctis, ΑΤΘΙΣ, 2ª ed., Torino 1912; H. Francotte, La polis grecque, I: L'organisation de la cité athénienne et la réforme de Clisthènes, in Studien zur Geschichte und Kultur des Altertums, I, III-IV, Paderborn 1907; J. H. Lipsius, Das attische Recht, Lipsia 190-15; U. E. Paoli, Studi di diritto attico, III: Lo stato di cittadinanza, Firenze 1930. Per la polis spartana: U. Kahrstedt, Griechisches Staatsrecht, I: Sparta und seine Symmachie, Gottinga 1922. Sul territorio della città: B. Büchsenschütz, Besitz und Erwerb im griechischen Altertum, Halle 1869; P. Guiraud, La propriété foncière en Grèce, Parigi 1893 (trad. it. in Pareto, Bibl. di storia economica, II, Milano 1907); G. Busolt, op. cit., p. 163 segg.; sul κλῆρος lo studio più recente è: A. Segrè, Ricerche di diritto ereditario romano, Roma 1930, p. 11 segg. Per i dati circa l'estensione del territorio vedi la bibliografia relativa alla popolazione. Sulla lotta fra classi sociali: R. Poöhlmann, Geschichte des sozialen Frage und des Sozialismus in der antiken Welt, voll. 2, 3ª ed., Monaco 1925. Sulla popolazione è indispensabile consultare la grande opera demografica di G. Beloch, La popolazione del mondo greco-romano (trad. C. Barbagallo), IV, Milano 1909, in Biblioteca di storia economica di V. Pareto. Per le città della Sicilia si veda anche: A. Holm, Storia della Sicilia (trad. Dal Lago-Graziadei), II, nota 1, p. 2 segg., Torino 1901 segg. Sulla vita cittadina: W. A. Becker-H. Göll, Charicles, Bilder altgreichischer Sitten, Berlino 1877-78 (diviso in scene, ciascuna delle quali seguita da un Excursus ricchissimo di dati; alcune di queste scene, p. es. Die Jugendsitte, I, p. 118 segg.; Markt und Handel, die Gymnasien, die Knabenliebe, II, p. 177 segg. sono classiche ricostruzioni di vita cittadina greca); G. Pasquali, Teofrasto, Firenze 1919 (pref., p. viii segg.); sulla polis ellenistica: J. Kaerst, op. cit., II, 2ª ed., Lipsia 1926, p. 348 segg. e le opere ivi indicate; A. Bouché-Leclercq, Histoire des Lagides, III, i, Parigi 1906, p. 143 segg. Sui poteri sovrani della polis, Keil, op. cit., p. 337 segg.; Paoli, op. cit., p. 238 segg.
La città etrusca.
Rito della fondazione. - Plutarco (Rom., 10 e 15) riferisce che Romolo fece venir uomini dall'Etruria per disciplinare il rito della fondazione di Roma, e tale rito etrusco è particolarmente descritto da varî autori (Catone, Origines, in Servio, ad Aen., V, 755; Isidoro, Origines, XV, 2, 3; Ovidio, Fasti, IV, 825; Varrone, De re rustica, II, 1). Si consacrava l'area col fare il mundus, cioè una buca dove venivano deposte le primizie di tutti i prodotti della natura utilizzabili, e un po' di terra del luogo di origine dei fondatori (analogie si riscontrano a Micene e nella civiltà italica terramaricola). Il mundus veniva poi chiuso dal lapis manalis, che si toglieva solo in tre giorni dell'anno dedicati a Dite padre e a Proserpina. Indi, in giorno fissato da auspici, con un aratro dalla punta di bronzo, tirato da un toro e da una vacca entrambi di color bianco, aggiogati il primo a destra, l'altra a sinistra, il fondatore tracciava sopra un perimetro quadrangolare un solco continuo, girando sempre in modo che il toro si trovasse all'esterno, e tenendo l'aratro obliquo sì che le zolle cadessero all'interno del perimetro, dando così l'immagine del futuro muro. Dove si era stabilito che sorgesse una porta, si doveva alzare l'aratro e interrompere il solco, rappresentando esso un limite sacro che non era lecito oltrepassare. Le mura che sorgevano sul solco erano quindi sacre e garantite in questa loro qualità dal pomerium (v. pomerio), spazio all'esterno e all'interno inabitabile, segnato da cippi e diviso in regioni, noto a noi con nome latino, ma di concetto etrusco (Livio, I, 44, 4). Ogni abitato, per essere considerato città, doveva avere non meno di tre porte consacrate e di tre templi, rispettivamente di Giove, Giunone, Minerva, da costruirsi nei luoghi più alti della città.
Città etrusche. - Dodici città contava la confederazione dell'Etruria propriamente detta, identificabili nelle seguenti: Tarquinia, Vulci, Cere (circuito delle mura circa 6 km.), Veio (circuito circa 8 km.), sostituita forse dopo la sua caduta da Populonia, Volsinii, Chiusi, Perugia, Cortona (circuito circa km. 3,200), Arezzo, Volterra (circuito km. 7,300, area kmq. 1,330), Vetulonia, Roselle (circuito km. 3,150, area kmq. 0,573). Altre città notevoli erano Fiesole (circuito 3 km., area kmq. 0,344), Luni, Cosa (Ansedonia; circuito km. 1,430, area kmq. 0,138), Saturnia (circuito circa km. 4), Statonia, Pyrgi (Santa Severa), Telamone, ecc. A queste si aggiungano, per somiglianza di caratteri, le città etrusco-latine, particolarmente Falerii, Fidenae. Di quasi tutte queste città rimangono visibili in parte, o per intero, le potenti cinte murarie. Città etrusche al di là dell'Appennino erano per tradizione Atria, Spina, Mantova, Felsina (Bologna). In prossimità di Bologna è stata scoperta la città etrusca meglio conservata, perché libera da sovraedificazioni posteriori, presso l'odierna Marzabotto, ma di essa è ignoto il nome antico.
Situazione delle città etrusche. - Le città dell'Etruria propria sono generalmente edificate sopra alture, spesso artificialmente spianate, e sovente per natura difese da due corsi d'acqua confluenti. Tranne Populonia, nessuna sorge in immediata vicinanza del mare, alcune però in vista di esso, e in modo da sorvegliare ugualmente la costa e le valli dell'interno. Tale disposizione ha fatto pensare che o gli Etruschi non fossero in origine un popolo eminentemente marinaro, o che essi, se giunti dal mare, abbiano occupato sedi già stabilite da popolazioni indigene di carattere territoriale. In tutte le città della costa non manca, del resto, il villanoviano italico.
Mura urbane.- Le mura di cinta sono di vario tipo. La costruzione "poligonale" (detta anche ciclopica o pelasgica) di massi irregolarmente squadrati insieme commessi s'incontra a Saturnia, a Santa Severa (Pyrgi), e accuratissima ad Ansedonia (Cosa), dove i massi, oltre a combaciare perfettamente, sono anche esternamente levigati; quivi nelle mura sporgono di tanto in tanto torri quadrilatere. Corrispondono a questo tipo di mura etrusche quelle laziali di Palestrina, Segni, Alatri, Cori, Norba, e anche quelle di Alba Fucense e di Muro Lucano. Quasi uno stadio di passaggio alla costruzione quadrangolare è offerto dalle mura di Roselle, Cortona, Arezzo, Volterra, ma in particolar modo di Vetulonia e Populonia, che mostrano grossi e irregolari parallelepipedi disposti per lo più giacenti e rincalzati da pietre più piccole. In blocchi rettangolari accuratamente squadrati (costruzione "isodoma") sono in parte le mura di Fiesole, che in altri punti mostrano una disposizione di blocchi esattamente addentellati fra loro e rincalzati da blocchi minori (costruzione "pseudo-isodoma"). Simili a queste sono i residui di mura a Cere, Veio, Tarquinia, Tuscania. Quasi quadrilateri sono i parallelepipedi delle mura di Falerii Veteres (Civita Castellana) distrutta nel 241 a. C. A Falerii Novi (S. Maria di Falleri), a Nepi, Sutri, Ardea, Roma (Palatino e cinta serviana) si hanno mura in opus quadratum, cioè a blocchi parallelepipedi a sezione quadrata, tutti uguali, disposti alternativamente per lungo e per testa. Alcuni di questi sistemi di costruzione furono in uso contemporaneamente nei varî luoghi e non recano quindi in sé elementi cronologici sicuri; né il sistema ciclopico indica antichità cosi remota quanto si credette in passato. Saggi di scavo hanno assodato che p. es. le mura di Norba, tra le più colossali, non sono anteriori alla fine del sec. VI a. C., quelle di Volterra non anteriori al V, quelle serviane di Roma anteriori al IV; l'opus quadratum regolare come a Valerii Novi è in uso dal sec. III in poi. Ad Arezzo si hanno tracce di un muro laterizio non anteriore agl'inizî del sec. III.
Porte urbane. - Oltre alle accennate tre porte rituali, ve ne potevano essere altre; p. es. a Cere, e forse anche a Roselle, erano otto. Sovente tali porte seguono il precetto, già osservato nelle cittadelle micenee, di esser disposte obliquamente in modo che chi si avvicinava ad esse era obbligato a volgere dal lato delle mura il fianco destro non protetto dallo scudo; ma si hanno anche porte frontali, come a Cosa e a Falerii, fiancheggiate da torri. La famosa porta all'Arco a Volterra è costituita da una specie di torrione, aperto su due lati opposti con fornice ad arco a tutto sesto. Esternamente le imposte e la chiave dell'arco sono decorate da tre teste di tipo ellenistico. In un'urna del museo di Volterra la porta è riprodotta con l'originaria merlatura. A Volterra vi è anche la porta detta di Diana, e a Falerii Novi sono ben conservate tre porte, una delle quali accessibile per una scalinata. A Perugia restano la porta Marzia e quella detta Arco di Augusto; la prima è ora incorporata nelle fortificazioni del Sangallo. Essa termina superiormente con una finta galleria, a pilastri scannellati con capitelli del tipo detto ionico-eolico, dalla quale si affacciano, a guisa di protome, tre figure e due teste di cavallo.
Cunicoli. - Nei siti tufacei dell'Etruria Centrale si osserva costantemente sotto l'abitato una folta rete di cunicoli che si devono ritenere solitamente destinati al drenaggio delle acque. Sono in genere alti m. 1,70, larghi 0,60, scavati superiormente a vòlta, hanno andamento talora tortuoso, che segue naturali falde d'acqua. Tale drenaggio deve risalire a notevole antichità, trovandosi a Veio, distrutta nel 396 a. C. Uno dei più imponenti sistemi di cunicoli è sotto l'abitato di Chiusi, e forse esso contribuì al sorgere della leggenda del labirinto di Porsenna (Plinio, Nat. Hist., XXXVI, 91). Ivi i cunicoli si collegano ad ambienti sotterranei simili a cisterne ed erano sicuramente praticabili, tanto da far pensare anche a un complesso sistema difensivo.
Pianta e vie. - Come si è detto parlando del rito della fondazione, le città etrusche dovrebbero teoricamente essere di pianta quadrangolare regolarmente suddivisa. Questo, e il fatto del frequente sorgere alla confluenza dei corsi d'acqua, ricorda l'impianto delle terramare (v.); ma in realtà le città dell'Etruria propria si trovano adattate alla natura del suolo, che non sempre consente una pianta regolare. Così a Vetulonia sono state messe in luce strade irregolari, anguste, variamente intersecate, simili a quelle delle città preelleniche; nella strada principale esiste da una parte un marciapiede di lastre di pietra largo 60 cm., sotto il quale scorre una fogna. A Marzabotto, invece, in terreno pianeggiante, si ha una pianta assai regolare. La città era di perimetro rettangolare con qualche adattamento al terreno: sull'arce, che difendeva il lato nord, si trovano gli edifici sacri; il fiume Reno la difendeva da altri due lati. Una strada larga ben 15 m. forma il cardine, intersecata ad angolo retto da due (o tre) strade decumane della stessa larghezza. Cardini minori, paralleli, larghi 5 m., intersecano le vie decumane a intervalli di m. 35, 40, 68, formando isole di abitazioni lunghe m. 165. Tali misure sono alquanto superiori a quelle corrispondenti delle strade di Priene e di Pompei. Nelle vie principali, lo spazio centrale, largo cinque metri, era destinato ai veicoli, e cinque metri su ogni lato formavano i marciapiedi lastricati, elevati di 20 centimetri sul piano stradale. La carreggiata è selciata a grossi ciottoli, e ha zone trasversali lastricate poste a metà e a capo delle isole per il passaggio dei pedoni. Le acque delle strade e dei tetti erano convogliate in un unico collettore, che probabilmente sboccava al fiume. La città di Marzabotto fu impiantata, sembra, verso il sec. VI e abbandonata dopo l'invasione gallica alla metà del sec. IV. La sistemazione regolare è forse del sec. V-IV e rivela qualche conoscenza dell'analoga sistemazione data da Ippodamo di Mileto, nella prima metà del sec. V, al Pireo (v. sopra, Città greca). Tali norme di urbanesimo derivate lontanamente dalla Mesopotamia (cfr. Erodoto, I, 180 e i risultati degli scavi di Khorsābād e Nimrud) erano però comprese nei rituali etruschi, secondo affermano Festo (p. 285), Frontino (De limit., p. 27, 13) e Igino gromatico (De limit. constituendis, p. 166, 3) e stabilivano appunto che il decumano si tracciasse secondo il corso del sole, cioè da est a ovest, e il cardine a mundi cardine secundum poli axe, cioè da nord a sud. Sono le norme seguite dai Romani per le colonie, gli accampamenti, e la ripartizione delle terre (v. sotto).
Bibl.: K. O. Müller e W. Deecke, Die Etrusker, Stoccarda 1877, I, pp. 204, 232-38; II, pp. 98, 146; P. Ducati, Etruria antica, Torino 1925, I, p. 122; II, p. 92 segg.; id., Storia dell'arte etrusca, Firenze 1927, p. 372, seg. con bibliografia particolare.
La città romana.
I più antichi stanziamenti cittadini dei Latini furono costituiti da villaggi fondati sulle alture del Lazio, le cui difese naturali furono rafforzate da rozzi argini di terra o di pietra. Da questi villaggi si svilupparono le città, che i Latini costruirono sull'esempio degli Etruschi, i quali erano stati in Italia i primi fondatori di vere e proprie città. Dagli Etruschi appunto i Latini adottarono la limitazione rigorosa della città dal territorio circostante mediante il solco scavato con l'aratro attorno all'area di essa. Questo solco (urvus, dal quale nome deriva quello di urbs) costituì il pomerio, limite sacro della libertà cittadina, di qua dal quale i comandanti militari dovevano deporre gli amplissimi poteri assunti in campo.
Col sistema della limitazione sorse anche la città di Roma, che in origine altro non fu se non il centro fortificato delle stazioni latine sorte su quel gruppo di colli, che si elevano sulla riva sinistra del Tevere, poco a sud della confluenza con l'Aniene.
La Roma primitiva dovette essere, come è già riguardata nella tradizione, la città del Palatino, la Roma Quadrata, esattamente delimitata dal pomerio, la linea ideale che circondava il colle alla radice, della quale si conservò esatto ricordo anche nell'età imperiale, perché, contrassegnata da cippi, era percorsa annualmente dai Luperci nella loro lustrazione del 15 febbraio. Questa città del Palatino, che misurava approssimativamente 16 ettari, si andò poi ampliando con sviluppi successivi, sui quali non si è completamente d'accordo, fino alla città cosiddetta Serviana, la cui cinta comprende 427 ha., di cui forse soltanto i ⅔ abitati. Nella seconda metà del sec. V a. C. la popolazione complessiva della città doveva ammontare a 20-25.000 ab. Area e popolazione di Roma erano allora di molto superiori alla media delle città latine, quale si desume dal seguente specchietto tolto dal Beloch (Röm. Gesch., p.215):
Ogni città aveva naturalmente il proprio territorio. Quello di Roma, nell'estensione più antica cui ci sia dato risalire, era di circa 150 kmq. (Ager Romanus), e con le incorporazioni successive raggiunse, prima della presa di Veii, 822 kmq.; estensione, anche questa, di molto superiore a quella dei territorî delle città latine, quale risulta dal seguente quadro anche del Beloch (op. cit., p. 178):
Tale la primitiva città di Roma e tali le prische città del Lazio che furono naturalmente le prime che quella soggiogò. Poi vennero le conquiste delle altre regioni italiane, e di tante parti dell'Europa, dell'Asia e dell'Africa. A così grandi successi il principale contributo fu recato, più ancora che dalle virtù militari del popolo romano, dall'eccezionale abilità politica con cui esso seppe organizzare, in raggio via via più esteso, i territorî vinti. Le cellule sulle quali i Romani intrecciarono la loro rete politica furono i centri cittadini che essi o trovarono preesistenti in questi territorî, o crearono, o di cui, comunque, promossero la formazione: il tipo della città romana dovrà essere quindi studiato anche qui non solamente nel suo aspetto topografico e archeologico, ma anche in rapporto alle diverse condizioni di diritto che Roma fece a questi centri cittadini nelle diverse epoche della sua storia.
Archeologia e topografia. - Le città che man mano vennero sotto il dominio romano, o che furono fondate dai Romani, cercarono in generale di rassomigliare all'Urbe, anche nei particolari minuti. D'altra parte il governo romano diede sempre opera a dotarle di tutte le comodità pubbliche che lo sviluppo della civiltà e dell'Impero avevano rese necessarie: così le città romane ebbero tutte un Foro e gli edifici che ordinariamente vi sono connessi (un tempio, talora detto Capitolium, benché alcune volte questo non si trovi sul Foro; una curia, una tribuna per gli oratori e soprattutto la basilica, spesso accoppiata al Foro nelle menzioni epigrafiche e letterarie con la formula forum et basilica); e anche terme, fontane e cloache, oltre a opere che, pur servendo la città, si estendevano necessariamente fuori del suo perimetro e anche del suo territorio, come vie, ponti, acquedotti. Bisogna peraltro distinguere, oltre a più particolari adattamenti regionali, quattro casi principali; a) la romanizzazione d'una città italica di civiltà già sviluppata e risalente a età più remota; b) quella di una città greca d'Italia; c) di una città della Grecia e particolarmente dell'Asia Minore; d) la fondazione di una nuova città.
Romanizzazione di una città italica. In questo primo caso, rappresentato tipicamente da Pompei, l'impianto generale secondo i riti (o la rettificazione d'un precedente abitato, come è qui), comprendente le relazioni tra Foro e città, è già fatto; e poiché i riti sono simili a quelli dei Romani e derivano dagli Etruschi, la romanizzazione si esplica nell'edilizia e nei lavori pubblici solo con l'introduzione di nuovi materiali e metodi costruttivi e con lo sviluppo delle comodità cittadine.
L'esame di Pompei, per la piccolezza della città, per l'assenza di mutamenti fondamentali dopo l'applicazione del piano regolatore, del quale tuttora si riconoscono almeno due fasi e anche per la mancanza di fonti letterarie intorno alla storia più antica, riesce a nostro avviso non solo chiaro, ma tale da chiarire come debbono essere andate le cose anche rispetto al Foro di Roma. Infatti l'eccentricità del Foro di Pompei (non trascurabile neppure da chi considera dovuto ad ampliamento lo sviluppo planimetrico della città verso est, oltre la via Stabiana) e il carattere di aggiunta ex novo presentato dal quartiere a nord del Foro (reg. VI) sembrano indicare che esso era un piazzale esterno all'abitato, che, solo in occasione dell'applicazione del piano regolatore e della costruzione del vallo, sostituito poi dalle mura lapidee, fu incluso nella città. Le case del borgo primitivo dovevano estendersi a est di questo piazzale, tortuose, e forse in parte a sud, ove vaste demolizioni alterarono l'aspetto dei luoghi. Che poi della regolarizzazione dell'abitato preesistente fossero autori gli Etruschi, o almeno che essa fosse compiuta sotto il loro magistero e dietro il loro esempio, è dimostrato, oltre che da tutti gl'indizî che riportano all'architettura tuscanica gli atrî calcarei, anche da due fatti: la coordinazione al Foro di un tempio etrusco normale a triplice cella (quale si desume fosse in età presannitica il tempio di Giove) e la rassomiglianza della reg. VI alla pianta di Marzabotto, con gl'isolati di forma non solo molto allungata, ma anche disposti nel senso del cardine; nello stesso senso correva anche lo stilobate dell'arcaica colonna etrusca miceneizzante ivi esistente (isola 5, n. 17). Non furono dunque i coloni romani a esigere in Pompei un'esatta corrispondenza del reticolato stradale e della situazione del Foro con le prescrizioni dei gromatici; ma il Foro e il tempio di Giove nacquero coordinati al piano regolatore, e le inesattezze di coordinamento al reticolato furono tollerate dagli Etruschi o dagli Osci etruschizzati. Tutto ciò è d'insegnamento per Roma stessa, ove le sistemazioni e le bonifiche del Foro, anche lì eseguite sotto influenza etrusca, devono rispondere al caratteristico mutamento delle funzioni del Foro italico, da mercato esterno (come indica il nome derivante da foris, foras "fuori") a centro della vita religiosa e politica, e non già, come fu creduto, allo stabilirsi della prima funzione, cui il suolo acquitrinoso non solo lasciava più che sufficiente margine, ma non nuoceva, anzi in certo modo giovava, servendo in tempi primitivi lo stagno per abbeverare gli animali condotti al mercato. Ed è d'insegnamento per la stessa Etruria propria, ove le irregolarità planimetriche, verificate ad es. a Vetulonia, dovranno spiegarsi non soltanto con la natura collinosa del suolo, ma anche con la preesistenza di un abitato non regolare, che lasciò le sue tracce nella sistemazione etrusca, come la lasciarono a Pompei gli aggruppamenti preistorici di capanne o casette primitive, mentre a Marzabotto, colonia fondata ex novo, le vie s'intersecano regolarmente ad angoli retti. Quanto poi alla prescrizione dei gromatici, che vogliono il Foro situato all'incrocio del cardo col decumanus, essa sarà nata posteriormente per motivi di teoria urbanistica svoltasi da una lunga pratica; ma al tempo della sistemazione etrusca o etruschizzante di Pompei tale prescrizione poteva non essersi ben fissata: anzi, in tempi prossimi all'origine stessa dei Fori italici, non poteva esistere una siffatta prescricione, dal momento che quelli erano mercati esterni che allora soltanto venivano inclusi nell'abitato. Se poi nella Pompei arcaica il cardo era l'allineamento Via di Mercurio-Via della scuola, il decumano quello Via marina-Via dell'abbondanza, e se l'allungamento del Foro a sud è posteriore (come risulta dagli studî del Sogliano), allora si aveva già rispondenza alle regole. Al momento di ricevere la colonia dei veterani romani (80 a. C.), Pompei aveva già acquedotti e cloache, fontane e terme pubbliche e private, la basilica, una palestra, un bel teatro, e stava per avere un teatro minore coperto, o odeon, e l'anfiteatro: questi ultimi due, costruiti o finiti nei primi anni deil'amministrazione coloniale, non sono importazioni da Roma, la quale allora non aveva per anche un suo anfiteatro, ma, al più, esecuzione di piani preordinati nel periodo preromano. La romanizzazione di Pompei si rivela anzitutto nell'introduzione dell'opera laterizia o laterizio-cementizia in sostituzione dell'opera incerta, reticolata e quadrata; nella costruzione degli edifici destinati all'amministrazione della colonia, a sud del Foro; nelle cure e miglioramenti all'acquedotto e ai suoi serbatoi; nella costruzione di terme più grandi (le cosiddette terme centrali) che fu interrotta dalla catastrofe del 79; e soprattutto nell'innalzamento di archi trionfali per l'ingresso solenne al Foro dalla parte di nord, ai lati del tempio di Giove. Questi soprattutto diedero al vetusto Foro etrusco-italico, cuore vitale se non topografico di Pompei, un' impronta veramente romano-imperiale, completata dal tempio del Genio di Augusto e dall'esecuzione o completamento o decorazione di molte altre fabbriche, oltreché dalle riparazioni e riedificazioni che furono richieste dal terremoto del 63.
Noi possiamo sempre considerare l'aspetto delle vie di Pompei quale esempio dell'aspetto d'una città romana. Le vie principali non oltrepassavano la larghezza di sette metri, compresi i marciapiedi di cui erano munite, e le altre in media non oltrepassavano i quattro; sicché la circolazione era assai moderata e le dimensioni dei veicoli del pari: dai segni di carreggiata si rileva uno scartamento fra le ruote di m. 1,35. Il pavimento era in grossi blocchi poligonali di lave preistoriche del Vesuvio prepliniano (M. Somma). Non mancavano le botteghe, e piuttosto frequenti fra esse erano i thermopolia. Tuttavia nell'insieme Pompei conservava un aspetto relativamente arcaico: le vie non ebbero portici, le case avevano facciate chiuse senza finestre: non comuni i balconi sporgenti al primo piano, costruiti in muratura e coperti; solo alcune case ricostruite e rifatte negli ultimi tempi avevano cenacoli aperti verso strada, che si presentavano come logge sotto tetto non oltrepassanti la verticale dei muri, i quali erano animati da pitture, insegne di botteghe, da numerose iscrizioni elettorali dipinte e da tutto ciò che andavano incidendo con una punta nell'intonaco gli oziosi e i ragazzi delle scuole; ai quali ultimi andranno, tra le altre cose, assegnate le reminiscenze dell'Eneide di Virgilio, che già subito dopo la morte del poeta era studiata come testo scolastico. Del resto l'edilizia privata poco contribuiva all'aspetto della città, ché anche in quelle munite di portici le fronti degli edifici si uniformavano e il tipo interno, pur essendo differente da paese a paese secondo i climi, non appariva di fuori. Se v'era un modello di città romana per i Fori e gli edifici pubblici, non v'era per le case private.
Romanizzazione di una città greca d'Italia. - Esempio insigne, benché poco noto fuor di una ristretta cerchia di studiosi, della trasformazione edilizia d'una città greca d'Italia, in età romana, è Napoli.
L'intensa e per secoli mal regolata vita della metropoli del mezzogiomo e il terremoto del 1688 hanno distrutto irreparabilmente monumenti che erano tuttora visibili nell'età del Rinascimento, ma le notizie sull'antica città furono diligentemente riunite da B. Capasso e, rivedute e aggiornate dal De Petra, furono pubblicate nel volume postumo Napoli greco-romana (Napoli 1905). Da tali ricerche risulta che in età romana si aggiunsero nuovi quartieri fuori della città greca regolare e di pianta pressoché quadrata, ampliandola molto a O., a E. e non poco anche a S. Il sistema è quello applicato dai Romani in Grecia (ad Atene), in Oriente e altrove, cioè quello delle aggiunte esterne. Dalle epigrafi sappiamo inoltre che Tito rifece radicalmente le terme, e che Tiberio Giulio Tarso, pure nel sec. I d. C., fece o rifece alla maniera romana il tempio dei Dioscuri. L'opera fu forse collegata con la trasformazione dell'agorà greca in Foro romano.
Deve ammettersi infatti che i Romani considerassero come decumano la mediana fra le tre vie della città greca dirette da occidente a oriente, e come cardine una via corrispondente all'attuale Via del duomo, e poiché si hanno indizî che essi ampliassero notevolmente il Foro, rendendolo oblungo, sino alla detta Via del duomo, è da credere che la piazza precedente meno lunga non fosse altro se non l'agorà (quadrata o circa, come dice Vitruvio) della città greca, e i Romani la trasformassero in Foro alla romana, prolungandola sino a toccare il cardine; e ciò per seguire appunto come potevano le regole gromatiche dianzi citate, che vogliono il Foro situato all'intersezione del cardine col decumano.
Romanizzazione di una città greca della Grecia e dell'Oriente. - Nelle città della Grecia e dell'Oriente i Romani usarono una parte dei sistemi applicati alla romanizzazione di Napoli, preferibilmente quello delle aggiunte; e quello di costruire nelle parti nuove, o in spazî lasciati liberi o resi liberi, edifici rispondenti alle comodità pubbliche come le intendevano i Romani (terme, basiliche, ecc.). Ritoccarono di certo edifici precedenti adattandoli a nuove esigenze (teatri); completarono, finirono, aggiunsero, ma si guardarono bene dal rifare ex novo venerandi templi ellenici, cambiandone l'orientazione e le forme da greche in etrusco-romane, e tanto più dal trasformare le agorai in Fori alla romana, come avevano fatto a Napoli. Vollero invece mostrare, accanto alla noiosa e imbolsita architettura rettilinea e architravata dei tardi grecizzanti diadochei, la gloria trionfale dell'architettura curvilinea e dell'arco, e talora tormentarono anche le sagome di timpani, nicchie, ecc., dando luogo a un'architettura che fu rassomigliata al barocco. E dotarono le vie delle città orientali, specie siriache, di superbi colonnati, richiesti specialmente in climi ove è ricercato il riparo dal sole.
Da ricordare principalmente: la nuova Atene di Adriano, con la sua porta, e il completamento dell'Olympieion di Cossuzio; la magnifica porta di Adalia, il tempio di Zeus Philios e il Traianeum di Pergamo, il tempio colossale di Cizico, tutte opere volute dallo stesso imperatore; il grandioso monumento di Filopappo innalzato in Atene sotto Traiano; le costruzioni di Erode Attico (sotto gli Antonini) tra cui l'Odeon di Atene e quello di Corinto, la fontana e l'esedra di Olimpia. Nell'Asia Minore, dopo il tempio di Ancira testimone di un precoce sorgere del culto di Augusto, e accanto alle costruzioni traianee di Pergamo si ebbe analoga attività edilizia in Efeso (biblioteca traianea), Mileto, Asso, Termesso, e in molte altre città: notevolissimo è il teatro di Aspendo (sotto Antonino Pio). In Siria grandiose sopra tutte sono le costruzioni di Eliopoli (Baalbek) e di Palmira.
Fondazione di città nuove. - Nella fondazione di nuove città i Romani si tennero allo schema ereditato dagli Etruschi, fissando le regole etrusche in una formula rigida e universale, che rimase in tutte le regioni dell'Impero: e ciò che più sorprende è l'immobilità di questa formula attraverso i secoli di sviluppo storico e nonostante le differenze di latitudine, di ambiente, di clima e di popolazione. In Britannia, in Germania, in Spagna, in Gallia, in Africa, nell'Asia Minore, in Dalmazia, in Oriente come in Occidente, Roma ha imposto decisamente la forma a scacchiera regolare, con le sole variazioni che tale tipo di pianta può comportare: quelle delle dimensioni dei lotti, ossia del rapporto tra i loro lati.
Si pensi a quali inconvenienti doveva portare tale rigidità di schemi contro tanta varietà di condizioni climatiche: l'orientamento nord-sud delle strade principali ad esempio, se era tollerabile nei climi freddi o temperati, addirittura intollerabile doveva essere sulle coste africane; e altrettanto si dica per quelle regioni in cui i venti dominanti investivano d'infilata il cardine o il decumano e le strade loro parallele.
Per trovare la ragione di tanta povertà di tipi urbanistici noi dobbiamo por mente allo spirito di tutta l'edilizia romana, nella quale si è avuta sempre di mira la semplificazione; e come fu nell'edilizia altrettanto avvenne nel campo delle creazioni urbane per le quali lo spirito realistico dei romani seppe scegliere e adattare precisamente la forma più semplice. Così se in un primo momento il tipo a scacchiera sembra obbligato da motivi religiosi, in un secondo tempo è l'organizzazione pratica e politica che esige tale forma.
Quasi tutte le creazioni urbane sono opera di militari: sia che rappresentino fondazioni coloniali, sia che s'identifichino con accampamenti di legioni. Ora, non si poteva pretendere che gli eserciti in marcia nelle più lontane regioni dell'Impero avessero a propria disposizione degli specialisti in urbanistica: necessitava loro piuttosto valersi sempre della forma più semplice.
Tutte le colonie romane da ascriversi al grande periodo di creazione urbana che s'inizia con l'ultimo secolo della repubblica, appartengono appunto al tipo di città di creazione militare: sia le città dell'Italia (Aquileia, Aosta, Torino, Firenze, Lucca, ecc.), sia quelle della Gallia (Autun), della Germania (Augusta, Treviri), della Britannia (Silchester, Caerwent), dell'Africa (la Cartagine romana, Timgad, ecc.). L'esemplificazione, dato il grandissimo numero, è facile. L'esempio di Aosta (Augusta Praetoria) è tipico e chiaro, giacché la città ha conservato fino ai giorni nostri la distribuzione del campo militare, con le sue strade rettilinee, i suoi lotti distribuiti a scacchiera, le sue mura, le porte.
Altro esempio tipico di città coloniale lo troviamo in Thamugadi (Timgad) in Algeria. Qui la parte centrale (città primitiva) è racchiusa da un recinto con porte; da est a ovest vi passava in mezzo la grande via da Lambesi a Tebessa, accuratamente lastricata; il cardine conservato nella parte settentrionale, fu guastato a sud dalla posteriore costruzione del teatro. Alle estremità del decumano sono porte monumentali ad arco. Le isole formate dall'incrocio di tutte le vie hanno in media 70 piedi romani di lato, ma talora un solo edificio pubblico (teatro, terme, mercato) ne abbraccia più di una. Le vie erano pavimentate come di solito nelle città provinciali con lastroni rettangolari collocati diagonalmente all'asse stradale, e munite di marciapiedi rialzati con portici a colonne.
Come ultimo esempio possiamo infine citare Silchester (Calleva Atrebatum) in Britannia. Anche qui nella città primitiva a forma quadrata, è la scacchiera regolare che ci si mostra in piena evidenza: il Foro, pure di forma perfettamente quadrata, è compreso dal cardine e da due decumani, e occupa uno spazio minore di quello risultante dalla somma di due insulae; lo spazio rimanente è occupato da piccoli lotti rettangolari che riportano l'equilibrio nella regolarità del sistema.
L'uniformità del sistema arrivò a tal grado di razionalismo da presentarci in Antinoe (fondata in Egitto da Adriano in memoria del suo favorito) lo stesso sistema di nomenclatura stradale in uso oggi a Mannheim e a New York. Ad Antinoe infatti i quattro settori delimitati dal cardine e dal decumano erano individuati ciascuno con una delle quattro lettere α, β, γ, δ, mentre le insulae in ogni settore erano numerate progressivamente in modo che una lettera accompagnata da un numero individuava senz'altro un fabbricato.
Sennonché a tanta rigidità ci sembra trovare, in generale, un'eccezione nelle città romane dell'Asia Minore e dell'Africa orientale. In queste città i tracciati appaiono meno rigidi e si nota una certa varietà nella successione gerarchica delle strade: vi è inoltre maggior adattamento alle condizioni del terreno, accompagnato da una più ricca fantasia nelle forme delle piazze (cfr., per es., Gerasa e Bostra). Del resto le creazioni urbane sono state più rare in queste regioni che possedevano già da molti secoli una loro civiltà urbana sviluppata e raffinatissima. Inoltre certamente la tradizione urbanistica romana, a contatto e in contrasto con queste civiltà molto più sviluppate e più antiche, ha dovuto talvolta piegarsi.
Composizioni edilizie. - Se Roma fu così immobile nel tipo delle sue creazioni coloniali, nelle quali l'architetto era sostituito dal soldato, altrettanto libera, fantasiosa e grande fu nelle composizioni edilizie create di getto nelle nuove e nelle vecchie città. È veramente l'architetto urbanista che trionfa in queste originali creazioni complesse e grandiose. In esse è da notare anzitutto la composizione unitaria che parte sempre da concetti generali per scendere poi alle soluzioni dei dettagli. Sono piazze imponenti, circondate da portici, ornate con colonne onorarie, con fontane, con statue: sono lunghissime strade porticate, interrotte da archi trionfali, da tetrapili, da templi, basiliche, teatri. Guardiamo per un momento alla successione dei Fori imperiali di Roma o agl'infiniti colonnati di Palmira, o al Campidoglio di Eliopoli, o ai Fori e alle Terme di Leptis Magna. Dappertutto la stessa unità di concezione, ovunque l'impronta evidente della composizione. La quale significa sempre subordinazione di valori, valutazione di masse e di effetti architettonici. Sinuosità di contorni, movimento di altimetrie con scalee e rampe, e infine collocazione di sfondi alle assialità delle strade, sono i caratteri che riassumono lo spirito delle composizioni edilizie romane. Per crearle l'edile non si arresta alle difficoltà del terreno, ma le affronta in pieno dominandole. Mentre nelle grandi composizioni di Efeso, di Olimpia, di Delfi la Grecia rivela il suo spirito di religiosità verso la natura adagiandosi alle condizioui naturali del terreno, subordinando ad esse la concezione edilizia, Roma invece per le sue grandiose composizioni supera ogni contraria disposizione naturale.
Ordinamento edilizio. - L'urbanistica romana non si limita però né alla fondazione delle città coloniali, né alle grandi composizioni architettoniche; ma supera in pieno queste due posizioni, abbracciando anche tutto il vasto campo dell'ordinamento edilizio, della legislazione, della tecnica, degli approvvigionamenti, della sicurezza pubblica e dell'igiene. Di questo complesso di attività abbiamo un grande esempio nella stessa capitale dell'Impero. Sotto Cesare e più ancora sotto Augusto, alla città (che fino allora si era sviluppata stipandosi specialmente nelle brevi zone ad est e a sud del Foro) si schiude un'era di rinnovamento e di ampliamento. Un vasto programma di lavori mai interrotti sembra presiedere allo sviluppo edilizio della città. Anche se non possiamo parlare di un vero e proprio piano regolatore, possiamo tuttavia assistere lungo tutto l'Impero, allo svolgersi di uno sforzo costante per organizzare e ordinare l'immensa metropoli.
Nelle istituzioni, ad esempio, il progresso fu grandissimo: e ce lo confermano le numerose magistrature edilizie quali quelle degli aediles, dei vicomagistri dipendenti dal praefectus urbi, del curator aquarum, dei curatores alvei Tiberis, ecc. Tutta una legislazione, a partire dalla legge de Urbe augenda (709 a. u. c.), si svolge parallelamente, dando prescrizioni sulle altezze dei fabbricati, sul numero dei piani, sui limiti della fabbricazione e tentando in ogni modo di sviluppare l'edilizia in zone poco sfruttate o decentrate. Sotto Augusto si fonda inoltre il catasto, a base del quale si pose la prima grande pianta marmorea della città nella scala 1:500, pianta rinnovata in seguito da Settimio Severo nella Forma Urbis (v.).
In questo campo della legislazione l'urbanistica trova in Roma il più vasto, se non il primo, tentativo di sintesi a noi giunta, originando un primo embrionale corpus del diritto edilizio.
Bibl.: P. Lavedan, Histoire de l'urbanisme, I, Parigi 1927; J. Stübben, Städtebau, Lipsia 1924; id., Aosta, Die Stadt und ihre Bauwerke, in Zentralblatt d. Bauwerke, 1899; G. Giovannoni, Lo sviluppo storico del piano regolatore di Roma, in Relazioni al XII congresso internazionale dell'abitazione e dei piani regolatori, Roma 1929; A. Ballu, R. Cagnat, E. Boeswillwald, Timgad, Parigi 1903-04.
La città romana come ente giuridico. - Condizione giuridica delle città dell'Italia romana nel periodo repubblicano. - Durante la repubblica Roma diede al problema della formazione d'un grande stato la soluzione più perfetta che l'antichità seppe esprimere. È noto che l'età classica, a prescindere dai tentativi federali del periodo ellenistico, non seppe sollevarsi al disopra della concezione dello stato libero come stato-città. In tale concezione la città s'identifica con lo stato, di cui rappresenta agli spiriti l'unità concreta e palpabile nella materialità di un centro comune, nel cui Foro tutto il popolo detta leggi a sé stesso, si dà liberamente i proprî capi, conclude paci o stringe alleanze, e nei cui templi si raccoglie a venerare gli dei comuni. In una simile concezione politica il problema più delicato era quello dell'espansione territoriale dello stato libero, poiché non si sapeva attuarla mantenendole il fondamento della libertà, e l'unione di più città non sapeva concepirsi per altra via che per quella dell'asservimento a una di esse o di tutte a un signore comune. E di fatto tutti gli stati-città del mondo antico, come anche del Medioevo, non riuscirono a estendere l'organizzazione dello stato libero per vasti confini al di là di quelli delle città. Invece Roma e Roma soltanto, senza elevarsi al disopra degli schemi dello stato-città, quanto agli organi centrali del governo, superò felicemente nell'epoca repubblicana il problema dell'espansione territoriale. Soltanto nei primi tempi delle loro conquiste i Romani non fecero che distruggere i piccoli centri limitrofi, trasportandone in Roma una parte degli abitanti, ma nelle fasi successive essi lasciarono generalmente sussistere le comunità vinte, ispirandosi a questi due principî: liberalità nel conferimento della cittadinanza e rispetto nei limiti del possibile delle autonomie locali. Con questi criterî essi seppero trovare le formule di conciliazione tra i diritti dello stato vincitore e quelli dei vinti, e approdarono così, nel periodo repubblicano, a questi due grandi risultati: dal lato sociale la formazione della nazione italiana, e dal lato politico la costituzione dell'Impero.
Al termine della conquista dell'Italia peninsulare, un po' prima della metà del sec. III a. C., la struttura politica dello stato romano era la seguente: da Rimini e da Pisa sino allo stretto di Messina le diverse città e popolazioni dell'Italia o fanno parte integrante dello stato romano o sono alleate con esso, di guisa che il territorio italico si distingue in territorio romano e territorio federale. Nell'uno e nell'altro vi sono numerosissimi centri cittadini, che si trovano in condizioni diverse rispetto a Roma.
a) Territorio romano. - In questo si trovano, coesistenti con le tribù territoriali (nelle quali è organizzata, ai fini della leva, del censo e dell'esercizio del diritto di voto, la cittadinanza romana, che ha unico centro politico Roma), molti comuni, che vanno distinti in comuni costituiti da cittadini romani optimo iure, con pienezza, cioè, di diritti politici, e comuni costituiti da cives sine suffragio, semicittadini, obbligati alla leva e al tributo ma incapaci dell'esercizio del diritto elettorale attivo e passivo. La prima categoria è formata da comuni preesistenti ammessi alla cittadinanza romana e da colonie di cittadini romani fondate con legge dello stato.
Il primo comune vero e proprio dello stato romano fu Tuscolo, che fu annesso, pare, nel 381 a. C., e fu comune con pienezza di diritti politici. Nella stessa condizione furono poste alcune delle città latine, quando la loro lega fu sciolta, nel 338 a. C. Aricia, Lanuvium, Lavinium, Nomentum, Pedum. L'autonomia locale di questi comuni aveva un raggio limitato, compensato dalla somma di diritti, che derivavano dal possesso integrale della cittadinanza romana; più limitata ancora l'autonomia nella giurisdizione e nelle competenze finanziarie. Tuttavia gli organi dell'autonomia: assemblea, senato e magistrati erano al loro posto. Il primo comune coloniale di diritto romano fu, pare, Anzio, fondato nel 338 a. C. e sul suo esempio fu poi ordinata a comune la più antica colonia di Ostia. Le colonie si distinguono dai comuni del tipo di Tuscolo ecc., in quanto questi preesistevano all'incorporamento allo stato romano, mentre le colonie sono comuni nuovi creati con legge dello stato. La misura dell'autonomia della quale gli uni e le altre godevano era però la stessa: negli uni sopravvissero le antiche magistrature locali, mentre nelle altre pare che i magistrati supremi fossero due, col titolo di pretori o di duoviri. Le colonie romane costituite prima della guerra annibalica non furono più che sette od otto, e furono tutte marittime; dopo di quella guerra invece la deduzione ne fu larga.
Dei distretti di cives sine suffragio si hanno due categorie, l'una costituita da quelli cui si era tolta ogni autonomia comunale (Anagni, nel 306 a. C., dopo la rivolta degli Ernici, Capua dopo la sua insurrezione nella guerra annibalica), l'altra costituita da comuni che godevano di autonomia locale nella misura stabilita dalla legge che sanciva la loro incorporazione nello stato romano. Sono questi i comuni che primi ebbero, pare, il nome di municipî, che è da intendersi come collettività di municipes, cioè di cittadini tenuti agli stessi doveri dei cittadini romani (munia) senza averne tutti i diritti.
Questa condizione giuridica i Romani fecero per la prima volta alla città etrusca di Cere, allorché la incorporarono, nel 353 a. C.: essa ebbe allora con la cittadinanza senza suffragio libertà comunali, sulle quali furono poi modellate quelle accordate ad altri comuni della stessa categoria. (Secondo il Beloch invece il nome di municipî sarebbe stato attribuito in origine a comuni aggregati allo stato romano con pienezza di diritti di cittadinanza, e tale aggregazione sarebbe avvenuta mediante foedera, di cui il più antico esempio sarebbe stato fornito dal foedus populi Romani cum Gabinis). Dopo la guerra latina ebbero la civitas sine suffragio le città volsche di Velitrae, Privernum, Antium e Terracina, alle quali fu insieme tolta parte del territorio che fu assegnata a cittadini romani, e la stessa condizione fu fatta a non pochi altri distretti nelle tappe successive della conquista romana dell'Italia.
Era condizione dura per la mancanza dei diritti politici, ma questa trovava compenso nella facoltà di commercio e di connubio con cittadini romani e nell'autonomia comunale, che era goduta da questi distretti in misura più larga che in quelli che vantavano la piena cittadinanza romana. Gli organi dell'autonomia erano i consueti: senato, comizî e magistrati, nei quali poterono rivivere in parte le precedenti magistrature; la giurisdizione era divisa in varia misura tra magistrati locali e il pretore romano; potevano sussistere istituti locali di diritto civile e penale diversi dal diritto romano, la lingua originaria si continuava ad usare come lingua ufficiale; sopravvivevano le precedenti istituzioni sacre; i comuni avevano facoltà di possedere e di riscuotere tributi locali a loro profitto.
D'altronde questa condizione giuridica della civitas sine suffragio fu concepita dai Romani non come uno stato permanente di sudditanza, ma come gradino di transizione alla piena cittadinanza, e talora il periodo di trapasso fu brevissimo. I Sabini, per es., che avevano avuto la civitas sine suffragio nel 290 a. C., già nel 264 ottennero la piena cittadinanza e prima della guerra annibalica già l'avevano conseguita gl'indigeni di Velitrae, Privernum, Antium e Terracina; Arpino, Fondi e Formia la ebbero nel 188 a. C., e prima della guerra sociale ne erano in possesso, certamente, la maggior parte degli altri distretti. Era naturale che quando queste città dalla semicittadinanza passarono alla cittadinanza completa conservassero il nome di municipî, prima caratteristico della loro semicittadinanza, talché, già prima della guerra sociale, municipio significò qualunque comune di qualunque tipo di cittadinanza romana che non fosse stato costituito, come le colonie, per opera del governo romano.
Nei comuni di cittadinanza romana di qualunque tipo (il Mommsen crede che in origine la cosa si verificasse per i soli comuni sine suffragio), Roma poteva inviare per l'amministrazione della giustizia, in quanto non fosse di competenza dei magistrati locali, dei praefecti iure dicundo, e le prefetture potevano comprendere uno o più comuni. I prefetti erano delegati del pretore, nominati generalmente da questo: i quattro per la Campania furono eletti invece, in processo di tempo, dal suffragio popolare.
Oltre i municipî, le colonie e le prefetture, vi erano nel territorio romano distretti di cittadini romani, che, senza avere un centro cittadino, si radunavano in qualche punto del territorio per ragioni religiose, o per tenere mercati, o per avere comunicazioni delle leggi del popolo romano e degli ordini dei magistrati. Tali luoghi di riunione furono detti conciliabula o fora secondo che sorsero spontaneamente o per deliberazione del magistrato, che presiedeva alle assegnazioni di territorio romano a singoli cittadini. Particolarmente numerosa fu la costituzione di conciliaboli nella valle padana e da essi trassero origine molti municipî di quella regione.
b) Territorio italico federale. - Nell'Italia peninsulare unificata sotto il dominio romano troviamo circa 150 stati, generalmente città-stati, in qualche caso distretti etnici, collegati con Roma da singoli trattati, che si distinguono nelle due categorie di trattati con parità di diritto (foedera aequa) e trattati con disuguaglianza di diritto (foedera iniqua), a seconda che in essi la supremazia romana sia o no apertamente riconosciuta.
Pochi furono i trattati con parità di diritto (Eraclea, Camerino, forse Napoli), ma ad ogni modo la posizione di fatto dei contraenti dell'una e dell'altra categoria non differiva sostanzialmente, poco o nulla contando il riconoscimento formale di una parità giuridica fra uno stato della grandezza e della potenza di Roma e una qualunque città italica. L'egemonia romana era implicita od esplicita, ma sussisteva sempre egualmente.
L'obbligo principale degli alleati era quello di fornire contingenti militari, dei quali i singoli trattati fissavano il limite massimo. Tali contingenti, arruolati, equipaggiati e stipendiati dai singoli stati, formavano distaccamenti separati (cohortes), al comando di ufficiali locali, subordinati però all'unico comando supremo dei Romani. In compenso i federati erano esenti da qualunque tributo, partecipavano al bottino di guerra, e potevano anche, generalmente, prender parte alle colonie latine, talora pure alle romane ed alle assegnazioni viritane. Godevano soprattutto la più piena autonomia finanziaria ed amministrativa, una vera e propria sovranità interna, che comprendeva anche il diritto di batter moneta. Soltanto non avevano, almeno nella grande maggioranza, facoltà di stringere accordi politici e commerciali fra loro, e in caso di litigi tra l'uno e l'altro dovevano far ricorso al tribunale arbitrale di Roma.
Tra i federati italici una posizione speciale ebbero le città latine.
Per il trattato Cassiano, concluso sul principio del sec. V a. C. (è bene tener fermo, approssimativamente, alla data tradizionale, nonostante la critica radicale del Beloch) le città latine erano entrate collettivamente in lega a parità di diritti con Roma. Ma quando, nel 338 a. C., quel trattato fu rescisso, alcune, come vedemmo, furono incorporate nel territorio romano, altre (Tibur, Praeneste, Cora) mantennero la condizione formale d'indipendenza con trattati singoli, e immutate si lasciarono le condizioni delle colonie latine che erano state dedotte dal sec. V con coloni romani e latini insieme (Signia, Norba, Ardea, Circei, Sutrium, Nepet, Setia). Tali condizioni furono estese naturalmente a tutte le altre colonie che dopo il 338 a. C. i Romani vollero istituire con diritto latino.
Le città latine furono bensì private, sebbene transitoriamente, del vicendevole diritto di connubio e di commercio, ma in complesso godevano per l'affinità della stirpe coi Romani e per l'analogia degl'interessi, condizioni superiori ai rimanenti alleati (piena facoltà di connubio e di commercio coi Romani fino al punto di poter adottare ed essere adottati, ereditare e possedere beni stabili in territorio romano, con diritto quiritario, e possibilità d'acquistare la cittadinanza romana trasferendo il domicilio in Roma).
Questo sistema federale romano-italico subì un profondo mutamento quando, dopo la guerra sociale, Roma estese la cittadinanza a tutti gl'italici. Allora non fu più possibile annegare l'Italia nella città-stato, come prima si era essenzialmente verificato nei limiti del territorio propriamente romano, ma lo stato romano-italico si artìcolò in un gran numero di comunità cittadine, onde il problema di conciliare l'autonomia dello stato e quella delle singole città dovette affrontarsi in pieno, e Roma seppe dargli la migliore soluzione con lo sviluppo progressivo del diritto municipale, che è il diritto della città nello stato. La guerra sociale ebbe la sua ripercussione anche nell'ordinamento della Gallia Cisalpina, non solo in quanto le colonie latine, che vi preesistevano, ottennero il diritto di città con la lex Iulia, ma anche in quanto, con la legge del console Pompeo Strabone, fu estesa la latinità alla Gallia Transpadana; i suoi distretti, cioè, vennero con una finzione giuridica trasformati in colonie di diritto latino. Cesare finalmente estese la piena cittadinanza a tutta la Transpadana, e, dopo la battaglia di Filippi, tutta la Cisalpina diventò parte integrante dell'Italia romana, il cui confine fu portato a nord sino alle Alpi.
L'annessione della Cisalpina contribuì dunque anch'essa allo sviluppo del diritto municipale, onde l'epoca della maggiore elaborazione di questo coincide con la crisi della repubblica e col sorgere del principato, quando nuovi municipî si crearono pur nel vecchio territorio del Lazio, e a municipî si elevarono una quantità di fori e di conciliaboli, e assunta la cittadinanza, divennero tutte municipî le colonie latine, e le stesse colonie romane non differirono più da essi. Questo sviluppo del sistema municipale in Italia portò naturalmente a una progressiva equiparazione d'istituti, alla quale contribuirono leggi municipali non più di carattere locale, ma di carattere più largo, se non addirittura generale.
Condizione giuridica delle città provinciali. - I territorî conquistati da Roma oltre i confini d'Italia, a cominciare dalle isole di Sicilia e di Sardegna, ebbero un ordinamento essenzialmente distinto da quello dato all'Italia, ebbero cioè l'ordinamento provinciale.
Le città provinciali si distinguono nelle tre grandi categorie di città stipendiariae, foederatae, liberae et immunes. Le prime sono in un rapporto di sudditanza assoluta, creato dalla deditio del popolo vinto, per la quale deditio il territorio di quest'ultimo diventa proprietà del popolo romano, che ne lascia al vinto soltanto il possesso, giuridicamente revocabile, a compenso del quale si dovrà pagare il tributo. Peraltro, specialmente nei paesi di civiltà greca, i Romani lasciarono sussistere gli organi della precedente autonomia comunale, ma la sottoposero al controllo continuo del governatore, sicché le autorità locali non agivano se non come aiutanti di questo. Le civitates foederatae sono stati cittadini con cui Roma stringe un foedus, per il quale la città è obbligata a prestazioni militari, ma la sua costituzione sovrana è rispettata, e quindi essa non è soggetta al governatore, ha propria giurisdizione, diritto di batter moneta, e le sue terre sono capaci di proprietà privata secondo il diritto indigeno. Si trattava generalmente di foedera iniqua, per i quali queste città non avevano diritto di pace e di guerra, ma dovevano invece avere gli stessi amici e nemici del popolo romano.
Le civitates liberae et immunes si trovavano sostanzialmente nella condizione stessa delle federate, distinguendosene solo in quanto la loro libertas non era sancita in un foedus bilaterale, ma graziosamente accordata dal popolo romano generalmente con legge, e quindi revocabile. Entrambe le categorie delle civitates foederatae e delle liberae et immunes sono esenti dal tributo, e godono di piena autonomia comunale. Giuridicamente erano quasi fuori della provincia.
Trasformazioni del periodo imperiale. - Durante l'Impero si fece ogni giorno più sentire anche sulle città libere l'ingerenza del governatore, e la nomina di curatori e di correttori, incaricati di sorvegliare particolarmente la loro gestione finanziaria, finì col ridurre la condizione di questi comuni a un tipo sempre più uniforme di subordinazione all'onnipotenza del potere centrale; sicché la loro autonomia scese al livello di quella di qualche città suddita stipendiaria. Si aggiunga che molte delle città immunes vennero, via via, assoggettate a tributo, e che qualche imperatore si arrogò il diritto di sopprimere temporaneamente sin l'autonomia di città libere, in pena di abusi, che generalmente altro non erano se non l'uso indipendente di diritti riconosciuti da trattati o da leggi.
Intanto si modificava anche la condizione delle città italiche in quanto pure su di esse cominciò a esercitarsi un controllo del governo centrale, specialmente di carattere finanziario, mercé la nomina di curatores, che risale ai tempi di Nerva e di Traiano. Adriano poi tentò di organizzare un nuovo regime giudiziario mediante i quattro consulares, che appaiono col nome di iudices e furono poi soppressi da Antonino Pio, per essere ripristinati al tempo di M. Aurelio col nome di iuridici. Gli uni e gli altri vulnerarono senza dubbio, sebbene sotto aspetti diversi, l'autonomia dell'Italia, quale nazione sovrana; alla quale recò poi colpo più fiero l'istituzione della correttura, prima universale per tutta l'Italia (nei primi anni straordinaria, poi ordinaria) e in un secondo tempo (dopo il 290 d. C., o già con Aureliano) regionale. Mediante questo processo la condizione dell'Italia si andava abbassando verso quella delle provincie, nel momento stesso nel quale rispetto a queste progrediva la tendenza imperiale, mirante al loro asservimento universale con la sostituzione completa del vincolo di sudditanza ai vincoli, eventualmente superstiti, di alleanza. Ma contemporaneamente si andava disegnando un altro grandioso movimento, che tendeva per altra via alla piena equiparazione delle provincie all'Italia mercé l'abolizione graduale di ogni distinzione tra sudditi e cittadini. Questo movimento si attuò con il conferimento del ius Latii o addirittura della cittadinanza romana a distretti provinciali sempre più numerosi, e l'estensione diretta della cittadinanza mediante la fondazione di colonie transmarine e transalpine.
Basti dire che già con Cesare e con Augusto ebbero la latinità alcuni distretti alpini, molte città della Sicilia, alcune tribù dell'Aquitania, parecchie città della Betica e dell'Africa e tutta la Gallia Narbonese, con Nerone tutto il territorio delle Alpi Marittime, con Vespasiano tutta la Spagna; e contemporaneamente la cittadinanza romana, oltreché concessa a singole persone, veniva largamente estesa a città e a distretti di tutte le provincie, ma specialmente di quelle occidentali. Quanto poi alla colonizzazione, l'antico disegno di C. Gracco, ripreso già da Cesare specialmente con la riedificazione di Cartagine e di Corinto, veniva proseguito con ritmo più o meno intenso, ma incessante, dai primi imperatori del sec. I e culminava coi Flavî e con gli Antonini. Molte colonie sorgevano ex novo, altre si sviluppavano da precedenti organizzazioni rudimentali e spontanee di cittadini romani, specialmente da quelle accolte di negotiatores, che si formavano presso i campi militari. In tal modo sorsero le numerose colonie lungo il Reno e lungo il Danubio. Sulle indicazioni degli autori, specialmente di Plinio il vecchio, si ritrovano le tracce di più che duecento colonie, ed è certo che non poche delle maggiori città d'Europa in territorî ora germanici o slavi debbono la loro origine alla colonizzazione romana del periodo imperiale.
La conseguenza di questo grandioso movimento fu la latinizzazione quasi completa dell'Occidente e il livellamento della cultura e della civiltà in tutto il mondo classico. Il terreno era così preparato all'eguagliamento generale dei sudditi romani, che Caracalla coronò col conferimento della cittadinanza a tutti gli abitanti dell'Impero. La costituzione municipale era per tal guisa estesa a tutto l'Impero, alla vigilia della crisi che doveva travolgere la posizione sovrana dell'Italia, già intimamente e lentamente intaccata.
Cenni sullo sviluppo economico delle città del periodo imperiale. - La pace instaurata dal trionfo e dalla costituzione di Augusto risanò le piaghe che le guerre civili avevano arrecato all'Italia e alle provincie, specialmente a quelle orientali, e fino ai Severi fu tutta una fioritura d'industrie e di traffici, un'intensificazione progressiva della produzione e del consumo, un ampliarsi e un complicarsi della rete degli scambî interprovinciali ed extraprovinciali. E la vita rifluì nelle città, cellule vitali del tessuto dell'Impero. Per l'Italia il periodo della maggiore prosperità urbanistica fu appunto quello augusteo. Giustamente è stato osservato che uno sguardo pur superficialissimo alle rovine delle città italiane (specialmente quelle dell'Italia media e dell'Italia settentrionale) dimostra che la maggior parte di esse assunsero la loro forma definitiva in questa età, e ad essa rimontano le più belle e le più utili costruzioni. Ma, nonostante questa ripresa urbanistica del periodo augusteo, non si contarono in Italia vere grandi città per tutta la durata del periodo imperiale: città ricche e fiorenti sì, ma nessuna straordinariamente popolata. Il Nissen calcola che superassero i 100.000 abitanti Capua e Pozzuoli, e che ne avessero tra i 50.000 e i 100.000 Ostia, Padova, Ravenna, Bologna, Verona, Milano, Modena, ma il Beloch (in Klio, 1903, p. 486) lascia in questa categoria soltanto Ostia, e attribuisce alle altre una popolazione tra i 20 e 25.000 abitanti, mentre ne calcola per Napoli 30 o 40.000.
Nella stessa età augustea, e più ancora sotto i successori di Augusto appartenenti alla dinastia Giulio-Claudia, assistiamo alla ripresa e all'allargamento della vita delle città provinciali, nell'Asia Minore, nella Siria, nell'Egitto non meno che nella Gallia, nella Spagna, nell'Africa. È un largo, imponente, universale moto urbanistico, del quale sono documenti superstiti i ruderi, le monete, le iscrizioni, i papiri. E questo fenomeno dal punto di vista economico porta alla formazione di una borghesia cittadina, composta di proprietarî, di commercianti e d'industriali, che risiedono nella città e sviluppano un'energica attività capitalistica. E i più cospicui cittadini appartenenti a questi ceti capitalistici fanno a gara per abbellire le rispettive città con donazioni e con imprese munifiche, mentre tutti gli altri cittadini concorrono alle spese sottostando, non riottosi, al pagamento dei tributi locali. E così sorgono o risorgono i centri cittadini in tutta l'estensione dell'Impero. Le capitali delle provincie più ricche e più prospere gareggiano con Roma: Alessandria di Egitto, che al tempo di Augusto superava certamente il mezzo milione di abitanti, Seleucia del Tigri, che l'equiparava, Antiochia sull'Oronte, che non restava troppo addietro ad entrambe, Efeso, che sotto Augusto non può aver contato meno di 200.000 anime, Pergamo con circa 150.000, Cartagine nell'Africa, Lione nella Gallia. Dietro a queste vengono centinaia di vaste città in Oriente e in Occidente, di alcune delle quali solo il piccone ha rivelato l'esistenza; ché l'esplorazione archeologica è qui la principale ausiliatrice della storia.
Fra tante città si possono distinguere naturalmente diversi lipi in correlazione con le rispettive condizioni locali e i rispettivi sviluppi storici: città prevalentemente commerciali e industriali (per lo più centri di traffici marittimi o fluviali, o nodi d'incrocio di correnti carovaniere), capoluoghi di ricchi distretti agricoli, capitali di provincie, ecc. Di qui differenze rilevantissime nella popolazione, nella ricchezza, nell'importanza sociale e politica; ma in tutte, indistintamente, una costante e progrediente aspirazione di decoro e di benessere, che le fa somigliare, sostanzialmente, alle nostre città moderne occidentali. Accanto a templi, altari, monumenti funerarî, curie, basiliche, residenze di magistrati e di corporazioni, teatri, anfiteatri, stadî, abbondanza d'acqua condotta da magnifici acquedotti e portata sino ai piani superiori delle case, sistemi perfezionati di fognature, bagni, mercati igienici, ginnasî e palestre, strade ben pavimentate, portici, sale di audizioni, gallerie, biblioteche.
La più grande, la più mirabile fra tutte era Roma coi suoi 1230 ha. di estensione e la sua popolazione di più che un milione.
La decadenza delle città nel Basso Impero. - Il Basso Impero travolge ogni prosperità nel momento stesso che conduce a piena maturazione la crisi, per la quale l'Italia viene ridotta al livello delle altre provincie, e gli ordinamenti municipali declinano sotto l'invadenza centralizzatrice e burocratica dello stato, che esautora ogni giorno più le antiche magistrature, controllandone la gestione e subordinandole ad organi nuovi del governo centrale, e immobilizza ogni attività cittadina e sociale nelle sue ferree ed insuperabili gerarchie, nella barriera delle caste, nell'idolatria dell'autorità. La popolazione divisa rigidamente nelle quattro classi dei curiales, degli honorati, dei possessores e dei plebeii; le magistrature accessibili, in genere, soltanto ai decurioni, e l'elezione riservatane alle curie; ogni larva di giurisdizione, ultimo simbolo dell'originaria sovranità politica, sottratta ai duumviri; la trasformazione del curator civitatis da ufficio straordinario a ufficio ordinario e l'allargamento delle sue competenze in un controllo amministrativo generale della città, l'istituzione del defensor civitatis con funzioni complesse ed oscillanti e con tormentate vicende di nomina, ma, comunque, anch'esso organo sovrapposto a quelli cittadini: ecco i tratti che caratterizzano il crollo delle antiche costituzioni e segnano il malinconico tramonto dell'antica libertà cittadina, a cui fa riscontro la rovina economica. La quale è un prodotto sì delle tormentate vicende politiche, ma è accelerata e aggravata da tutto un complesso d'istituzioni assurde derivate dall'invadenza sfrenata dello stato, dalla sua pretesa di soddisfare al maggior numero possibile di bisogni economici e sociali, limitando e soffocando ogni iniziativa individuale. Ma, a lungo andare, la coazione fallirà al suo scopo: sotto l'enorme pressione l'ordine dei curiali si svuota irreparabilmente: e al tempo di Giustiniano le curie saranno pressoché deserte, ma la tradizione degli antichi municipî non si spegnerà del tutto, e costituirà anzi uno degli elementi della formazione dei comuni medievali (v. comune).
Bibl.: E. Kuhn, Die städtische und bürgerl. Verfassung des römischen Reichs, Lipsia 1864; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, I, 2ª ed., Lipsia 1881, p. 1 segg.; R. Pöhlmann, Die Anfänge Roms, Erlangen 1881; Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, III, Lipsia 1887, pp. 119 segg., 234, 570 segg.; Jung, Municipalwesen in den Provinzen, in Histor. Zeitschrift, LXVII (1891), p. 1 segg.; W. Liebenam, Städteverwaltung in der röm. Kaiserreiche, Lipsia 1900; W. Henze, De civitatibus liberis quae fuerunt in provinciis populi romani, Berlino 1892; H. Nissen, Italische Landeskunde, I e II, Berlino 1883-1902; E. Kornemann, Polis und urbs, in Klio, V (1905), p. 78 segg.; Assmann, De oppidis Romanis quibus imperatorum nomina sunt, Jena 1905; J. Toutain, Organisation municipale du Haut Empire, in Mélanges d'archéologie et d'histoire, XVI (1906), p. 315 segg.; XVIII (1908), p. 141 segg.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Torino 1907, p. 177 segg.; II, p. 430 segg.; E. De Ruggiero, La patria nel diritto pubblico romano, Roma 1921; P. Bonfante, Storia del diritto romano, 3ª ed., Milano 1923, I, pp. 72 segg., 229 segg., 267 segg., 332 segg., 471 segg.; II, p. 16 segg.; K. J. Beloch, La popolazione del mondo grecoromano (trad. dal ted.), in Biblioteca di storia econ., diretta da V. Pareto, IV, Milano 1909, p. 423 segg.; id., Die Bevölkerung Italiens im Alt., in Klio, III (1903), p. 471 segg.; id., Römische Geschichte, Berlino e Lipsia 1926, pp. 144 segg., 200 segg., 488 segg., 574 segg.; G. Cardinali, Italia, in E. De Ruggiero, Dizionario epigrafico, Roma 1866 segg., IV, p. 92 segg.; F. F. Abbott e A. C. Johnson, Municipal Administration in the Roman Empire, Princeton 1926; M. Rostovtzeff, The social and economic history of the Roman Empire, Oxford 1926, p. 125 segg.; W. E. Heitland, Last Words on the Rom. Municip., Cambridge 1928; id., Repetita, An unwilling restatement of the Roman Municipalities, Cambridge 1930.
La città medievale.
Abbiamo visto come, ove si eccettuino le città romane dell'Asia Minore, dove l'Oriente sembra influenzare grandemente la creazione urbana sciogliendola dalla rigidità tipica del sistema ortogonale, l'urbanesimo romano chiude il suo ciclo imponendo sempre il tipo geometrico elementare della città a scacchiera. Le invasioni dei barbari in Europa hanno trovato come stato di fatto un'impronta ortogonale assolutamente romana nelle città presidiate da guarnigioni dell'Impero e nelle colonie. E tra i contributi degl'invasori alla civiltà dei vinti, è appunto l'embrione della concezione urbanistica radiocentrica medievale in contrapposto a quella ortogonale quadrangolare del mondo occidentale romano. Non solo l'esempio degl'invasori influenzò le forme degli agglomerati urbani del primo Medioevo ma le nuove condizioni di vita, i nuovi ordinamenti agirono direttamente sconvolgendo i tipi urbani caratteristici e creando tipi assolutamente nuovi. Per il Medioevo possiamo dunque distinguere 3 tipi di città: a) città sviluppatesi su città romane; b) città a formazione spontanea; c) città create secondo un piano.
Città sviluppatesi su città romane. - Non tutte le città romane hanno potuto sopravvivere alle invasioni dei primi secoli e alle nuove condizioni di vita: molte città romane non erano fortificate ed erano state costruite in pianura, in pessime condizioni di difesa, appunto per impedire che i coloni potessero opporsi al governo centrale romano. In questi casi i cittadini abbandonarono le città per costruire borghi fortificati in posizioni inespugnabili.
Ma in moltissimi altri casi, la città romana continuò ad essere abitata anche nel Medioevo, tanto più che le distruzioni non furono quasi mai radicali ma conservarono ben visibile l'ossatura generale della città, riconoscibile anche oggi in tante città italiane e straniere (Reggio Emilia, Lucca, Parma, Piacenza, Modena, Napoli, Como, Sorrento, Torino, Aosta, Strasburgo, Augsburg, Leichester). Sennonché si ebbero tre azioni diverse nelle città. Dapprima un'azione di contrazione generale della popolazione che si concentrò in una porzione della città molto minore dello spazio racchiuso dalla cinta muraria romana; in secondo luogo si ebbe un'azione esterna alle mura della città con la formazione di sobborghi intorno a mercati o ad abbazie; infine dopo il sec. XIII si ebbe un'azione di distensione della città stessa verso l'esterno con l'ampliamento della cerchia muraria e con l'inclusione dei sobborghi. Ne risultarono così delle città nelle quali il nucleo centrale conserva l'ordinamento stradale romano a scacchiera mentre il resto della città rappresentato dall'inclusione dei sobborghi, presenta l'andamento raggiante delle antiche strade campestri adducenti alle porte. Caratteristico l'esempio di Bologna (v. la pianta alla voce bologna) nella quale, ai poli estremi del decumano romano s'innestano le due raggiere delle strade adducenti all'esterno. Molte volte i sobborghi non si svilupparono solamente lungo le vie radiali della campagna ma si formarono intorno a conventi o chiese, o castelli, o mercati, quali nuove piccole città contrapposte alle antiche; e nella fusione tra i due elementi è talora ben visibile la linea di sutura.
Città e formazione spontanea. - Distinguere dal solo esame planimetrico queste città da quelle create secondo un piano non è sempre facile: giacché molte città a formazione spontanea presentano un piano d'insieme organicamente distribuito sì da far pensare a una diretta e logica rispondenza con le condizioni che vi hanno presieduto. Molte di queste città sono sorte intomo a nodi stradali d'importanti comunicazioni, altre presso antichi ponti sui fiumi, o intorno a santuarî, abbazie, castelli. Alcune trovarono la loro vita in ragioni commerciali, altre in ragioni militari o religiose che in ogni caso in esse si riflettono chiaramente.
In particolare possiamo osservare come lo stesso schema a scacchiera ha potuto anche svilupparsi spontaneamente in molte città per le quali il movente originario era la strada: perpendicolarmente ai due lati di questa si sono moltiplicate le vie secondarie, formando in un primo momento uno schema a doppio pettine (o a spina di pesce) e in un secondo momento (con l'aggiunta di due parallele alla strada principale), un sistema elementare a scacchiera suscettibile di ampliamento. Più semplicemente ancora lo schema a scacchiera ha potuto formarsi intorno all'incrocio di due strade con sviluppi paralleli alle direttrici.
Lo schema radiocentrico cosi caratteristico del Medioevo ha degli esempî ancor più facili e numerosi tra le città a formazione spontanea. In molti casi si ha uno sviluppo edilizio ad avvolgimento intorno a una abbazia, un santuario, un castello: altre volte invece è una piazza di un mercato che ha la funzione di generatrice centrale. Altre volte infine (Milano) è intorno ad un nucleo cittadino più antico che si sviluppa anularmente la città nuova (piano concentrico di estensione). Talvolta infine sono le stesse condizioni altimetriche date dalla frequentissima giacitura in collina a determinare siffatta formazione.
Città create secondo un piano. - È questa la sola categoria che dovrebbe interessare la storia dell'urbanesimo in quanto dalla categoria precedente esula il presupposto della volontà umana nella concezione di un piano. Comunque, proprio in queste concezioni urbanistiche del Medioevo noi dobbiamo riconoscere l'elaborarazione di svariati elementi che, fusi in armonico insieme, formano una posizione del tutto originale nella storia della civiltà europea. Lungi dal perdersi, questa posizione costituisce la base su cui il Rinascimento spiegherà il suo spirito d'inventiva teorico e pratico.
Dare uno schema di ordinamento cronologico alle creazioni dell'urbanesimo medievale sembra difficile, e ciò in special modo per due ragioni. La prima è la complessità delle forze che contemporaneamente hanno agito in varia misura sulla creazione e sulla formazione delle città conducendo nella stessa epoca a forme del tutto disparate; la seconda l'esiguità degli studî finora fatti e la mancanza di una raccolta sistematica di documenti, almeno per quanto riguarda l'Italia. In ogni modo non possiamo nel Medioevo europeo riconoscere senz'altro due fasi: un primo momento fino al sec. XI, caratterizzato da un'attività edilizia più lenta e meno sicura; un secoudo momento dal sec. XII in poi, caratterizzato invece dalla fondazione di numerosissime nuove città che, disseminate in tutte le regioni d'Europa, testimoniano dello sforzo edilizio veramente imponente compiuto dagli edili del Medioevo, ma più ancora delle nuove condizioni determinatesi di prosperità, civiltà, relativa sicurezza di vita civile. Ma assegnare a speciali periodi i varî tipi di schemi è, allo stato presente degli studî, impossibile.
Dobbiamo però notare come forse il primo movimento edilizio più decisamente si sia manifestato Oltralpe, in Francia e in Germania. In Francia in particolare il movimento, iniziatosi nel sec. IX con la bonifica delle foreste, culmina nel sec. XI con la fondazione d'innumerevoli bastides. Sono anzitutto le abbazie che dominano nettamente chiamando i coloni a raccolta in nuove città franche, per la coltivazione e lo sfruttamento delle terre abbaziali. Più tardi invece, nel sec. XII, sono i grandi vassalli e i grandi signori che, spinti sia da ragioni economiche per lo sfruttamento delle loro terre, sia da spirito politico, fondano nuove città. Anche in Italia sono anzitutto i monaci che, accentrando nelle proprie mani poteri spirituali, culturali e temporali, provvedono negli anni che seguono la dominazione longobarda e in quelli che preludono alla formazione dei comuni, a riunire i coloni in borgate per la coltivazione delle terre. Alcune abbazie si erano arricchite enormemente di territorî estesissimi sì da costituire degli stati nei quali l'abate era il vero signore. Tali per esempio le due abbazie di Montecassino e di Farfa, quest'ultima dominante gran parte dell'Italia centrale dall'Adriatico al Tirreno. Furono appunto gli abati di Farfa che, in diretta dipendenza dall'imperatore, provvidero alla fondazione o al rifacimento di numerose città quali Fara Sabina, S. Vittoria in Matenano, Collelungo (1043) (Reg. farf., IV, 179, 80), Offida, Monte S. Maria, ecc. Con probabilità quindi i primi passi dell'urbanesimo medievale furono dovuti ai monaci ed ebbero forse uno stesso spunto comune alla Francia e all'Italia, tanto più che le abbazie italiane erano in strettissimo rapporto con le abbazie francesi.
Il grande movimento ascensionale sociale che s'inizia col sec. X segna inoltre, con le nuove condizioni di vita dei popoli, un rinnovamento nella vita delle città: attività commerciale, aperture di nuove vie ai mercati, la fissazione dei mercati stessi e lo sviluppo di quelli sorti con privilegi reali, contribuirono al sorgere di una vera e propria coscienza cittadina che culmina con la vita del comune. Gli stessi signori feudali potevano ripromettersi vantaggi dall'incremento delle città se sapevano in tempo assicurarsi con gabelle un vantaggio dal loro sviluppo. In questo senso ne conseguì che dalla fine del sec. XI in poi, signori ecclesiastici e laici fondarono nuove città, munite di privilegi, in luoghi opportuni e secondo determinati piani.
Le lotte comunali infine portarono al moltiplicarsi delle città-fortezza, costruite a guardia dei confini dei territorî comunali: così Castelfranco, costruito dai Padovani contro i Vicentini, Cittadella, costruita dai Vicentini contro i Padovani: Pratovecchio, Castelbolognese, Cervia.
Abbiamo accennato alla concezione radiocentrica come alla grande caratteristica dell'urbanistica medievale. Che la concezione radiocentrica medievale abbia avuto il suo primo germe quale contributo dei popoli invasori dell'Europa è da ritenersi ormai fuor di dubbio: gli accampamenti degl'invasori e i loro villaggi erano certo a forma concentrica o radiocentrica. Dopo le grandi invasioni del sec. IV il Medioevo ha potuto quindi avere sotto gli occhi per gli sviluppi del futuro i due esempî: la città quadrangolare romana e il villaggio circolare. E tutto il Medioevo sembra difatti esitare fra le due concezioni, arrivando talvolta a sintesi e compromessi che saranno la base degli sviluppi del Rinascimento.
Oltre a questi primi influssi diretti dei popoli barbarici altre influenze indirette si sono esercitate più tardi nella formazione radiocentrica dei centri cittadini medievali. La più importante di tutte certamente è l'influenza orientale che le conquiste arabe dapprima, le crociate poi fecero sentire su tutta l'Europa. La forma urbana circolare era famigliare ai popoli orientali: nell'antichità presso gli Hittiti e gli Assiri; la ritroviamo poi nell'Oriente musulmano, in Baghdād. Inoltre per l'idea teologica del mondo cristiano medievale il mondo era concepito come una serie di zone concentriche e Gerusalemme stessa era raffigurata come città ideale, di forma circolare con al centro il tempio di Salomone, pure a pianta circolare.
Infine lo schema radiocentrico sembra rispondere allo spirito politico del feudalismo e della signoria più completamente dell'antico sistema a scacchiera. In questo ultimo infatti non vi è subordinazione di una parte all'altra ma tutti i lotti sono intercambiabili tra loro, all'opposto del sistema radiocentrico nel quale tutti i lotti godono della stessa dipendenza, equidistanti come sono dal punto centrale: tutto il sistema è qui nettamente subordinato.
Parlare di rigidità geometrica in queste creazioni radiocentriche medievali non è il caso: tutta la rete stradale si adatta, volta per volta al terreno, allo spazio disponibile, alle condizioni speciali nelle quali la città è destinata a vivere. In molti casi (es. Lucignano, Cerreto Guidi) l'andamento concentrico (ellittico o circolare) prevale, mentre le strade a raggiera sono poco sensibili o mancano di continuità, sostituite invece da tronconi di strade congiungenti le vie anulari. All'opposto in altri casi (Macerata) l'andamento a raggiera sembra dominare su quello concentrico. Questo sistema non va quindi considerato nel significato rigido della parola: ma va studiato come base generale comune a infiniti tipi. Gli edili medievali, all'opposto degli architetti del Rinascimento, non hanno mai preteso di fare con le planimetrie delle loro città, delle grandi opere d'arte unitarie: essi hanno semplicemente costruito, seguendo il buon senso pratico e l'innato loro buon gusto.
Del resto il piano radiocentrico non è il solo e nemmeno il predominante: più numerose sono (specialmente dopo il sec. XIII) le planimetrie di tipo lineare a scacchiera, forma frequentissima nelle città-fortezze costruite dai comuni e in molte bastides della Francia. Ma anche qui non è l'applicazione rigida della formula della scacchiera quale la troviamo negli accampamenti e nelle colonie dei Romani, ma piuttosto un adattamento della formula alle condizioni ambientali, alla concezione politica, ai bisogni cittadini.
In particolare, di questi schemi a scacchiera si possono distinguere varî tipi: quelli nei quali lo schema è realizzato embrionalmente attraverso il lotto rettangolare; quelli nei quali la rigidità è completa nei lotti i quali sono tutti press'a poco delle stesse dimensioni; quelli in cui invece la varietà delle dimensioni dei lotti riesce a dare un notevole movimento all'insieme; quelli infine nei quali, oltre alla varietà delle dimensioni dei lotti, si ha anche un adattamento generale dell'andamento stradale al terreno o a circostanze speciali.
Proprio in questi ultimi e più numerosi tipi il Medioevo ha saputo darci l'impronta dell'originalità del suo spirito profondamente aderente alla vita. In queste creazioni armoniose le strade non sono quasi mai perfettamente rettilinee ma s'incurvano con sapienza per seguire le curve del terreno o per impedire l'infilata dei venti dominanti; la dimensione dei blocchi non è mai costante ma varia (da 1 : 2 sino 1 : 5 a seconda delle esigenze della composizione planimetrica. La piazza o le piazze non risultano brutalmente dalla soppressione di un lotto qualunque, ma sono disposte in speciali situazioni, con forme speciali, con assialità di strade, con particolari soluzioni di portici, di sbocchi, di angoli.
Accanto a queste due formazioni così tipiche se ne possono individuare altre che, in parte sono varianti dirette delle precedenti, in parte rappresentano vere e proprie categorie.
Troviamo anzitutto due tipi estremamente interessanti, in quanto si possono considerare i tipi embrionali del piano radiocentrico: il piano ad avvolgimento ed il piano ad attrazione. Il primo è determinato da uno o più giri concentrici di case, disposti intorno a un edificio (abbazia, castello) quasi a protezione di esso; talvolta invece di un edificio essi racchiudono una piazza. Il secondo è il piano la cui generatrice è rappresentata da qualche edificio speciale e dominante (castello, chiesa) che esercita verso di sé una attrazione delle strade principali. Tutta la città sembra così polarizzarsi verso questo fulcro generando uno schema a ventaglio. Questi due schemi combinati insieme portano al sistema radiocentrico.
Un altro schema frequente è quello offerto dalla città lineare, costruita su un'unica strada che si allarga a formare una piazza nel centro della cittadina (Stia). Sviluppo più complesso del precedente è quello offerto dal sistema di una strada principale dalla quale si dipartono normalmente ad essa le strade secondarie, generando così uno schema a spina di pesce (es. interessante quello di Francavilla a Mare). Ulteriori sviluppi di questi schemi portano ai sistemi lineari di due strade parallele racchiudenti nel mezzo una fila di blocchi, di tre strade parallele con due file di blocchi; di quattro e di cinque strade con tre e quattro file di blocchi.
Altro tipo è quello a fuso nel quale una strada all'ingresso della città si suddivide in varie altre che poi si riuniscono prima di uscire all'altro estremo dell'abitato (Chianciano). Anche in questo schema si hanno formazioni più o meno complesse a seconda del numero maggiore o minore delle suddivisioni successive della strada principale. Altro tipo è quello la cui forma è determinata dalla presenza di un corso d'acqua, nella cui ansa è costruita la città (Berna); oppure dalla presenza di un antico ponte allo sbocco del quale l'abitato si dispone linearmente a spina di pesce (p. es. Capua sul Volturno). Un tipo d'importazione è quello frequente nei paesi meridionali dell'Italia, dovuti a fondazioni arabe (saracene): queste città sono caratteristiche, oltre che per la complessità del sistema stradale, anche per il dentellato continuo degli edifici sui fronti stradali e per la presenza dei vicoli ciechi residenziali.
La concezione radiocentrica che resta la caratteristica del Medioevo, ha avuto sviluppi in tutti i paesi d'Europa, sia pure in varia misura. In particolare noi la troviamo assai notevole nelle città della Germania. Qui, dopo un primo periodo "sassone" di creazione urbana a forma incerta e caotica, col sec. XII ha inizio a partire dal 1150 un periodo d'intensa e magnifica attività urbanistica caratterizzata da una grande varietà di forme e di tipi, la maggior parte dei quali trae origine dal sistema radiocentrico. Sono di quest'epoca le più caratteristiche ed interessanti creazioni urbane. Friburgo (1176), Monaco (1158), Berna (1191), Stendal (1151), Rinteln (1235), ecc. Inoltre in questa stessa epoca si riscontra in Germania il processo di sdoppiamento di una città con la fondazione a breve distanza di una nuova città completamente staccata e indipendente (Amburgo, Magdeburgo, Hildesheim, Brunswick, ecc.). Infine nel sec. XIV si ha nella Germania orientale una grande fioritura di nuove fondazioni tipiche e caratteristiche: le città coloniali, sorte nei territorî che la Germania rioccupava ai popoli slavi.
In Francia, oltre alle creazioni monastiche e arcivescovili, fu soprattutto la lotta con l'Inghilterra che portò alla fondazione di nuove città: i re dei due paesi sembrano gareggiare nelle creazioni urbane. Si ebbero allora le caratteristiche bastides, Sauveterres, Villefranches, Villeneuves, ecc., che si moltiplicarono nel sud e nel sud-ovest della Francia, con grande varietà di tipi interessantissimi, che però si possono polarizzare nel tipo radiocentrico, in quello lineare stradale e in quello a scacchiera.
L'Inghilterra medievale mostra, più di ogni altro paese, la tendenza alle formazioni quadrangolari a scacchiera: e in questo si deve forse vedere sia il permanere di una reminiscenza romana, sia senz'altro il frutto di una tendenza locale. Il nome di qualche vescovo (p. es. Richard Poor) e quello del re Edoardo I, riassumono tutta la storia dell'attività urbanistica inglese, che d'altronde non data che dal sec. XIII. Salisbury, Hull, Winchelsea, città create in quel secolo, ci mostrano appunto un piano con caratteristiche tendenze alla scacchiera.
Ordinamento edilizio. - Anche nei riguardi dell'ordinamento interno delle città il Medioevo ci rappresenta veramente un periodo d'innovazione, tale da doversi considerare fondamentale anche per l'urbanesimo moderno. Anzitutto il Medioevo ci ha dato il senso della specializzazione dei varî organi e delle loro funzioni nella città, quello cioè che con parola moderna si chiama zoning.
Appare quindi la specializzazione delle piazze nei tre tipi caratteristici: piazza religiosa, civile, del mercato, tipi che si possono riscontrare in quasi tutte le città italiane (es. Padova, S. Gimignano, Siena, ecc.).
La piazza del mercato, sempre distinta dalle altre due, nelle città di origine romana si è quasi sempre formata alla saldatura fra la città antica e quella medievale; nelle città di origine abbaziale o militare invece, è davanti al convento o davanti al castello, tra questi e la città. In qualche caso (Germania) diventa il centro stesso della città.
Altra specializzazione caratteristica è quella etnica che il Medioevo ha certo assunto dall'Oriente. Così si ebbero i quartieri esclusivamente abitati dai mercanti greci, dai turchi, dai toscani, dagli ebrei, ecc. Il "ghetto" soprattutto in Germania e in Italia fu sempre costituito da un quartiere speciale e a reclusione assoluta con porte e mura (Padova, Roma, Praga. ecc.). Altra specializzazione, questa pure d'origine orientale e forse la più interessante per noi, era quella professionale riguardante i mestieri e le arti, il cui ricordo ci è rimasto nel nome di certi quartieri e di certe strade: (via dei Chiavari, dei Sediari, dei Canestrari, dei Funari, degli Spadari, ecc. a Roma). Noi sappiamo inoltre che per es. a Tolosa, a Parigi, a Padova, e in molte città tedesche, vi era un vero e proprio quartiere universitario.
Accanto a queste specializzazioni professionali possiamo riscontrarne un'altra molto interessante: quella dei quartieri residenziali. In molte città nuove troviamo strade esclusivamente residenziali o a cul di sacco (Oriente) e distribuite in modo da essere sottratte completamente, o quasi, alla grande circolazione. Speciali quartieri, contenenti lupanari o "corti di miracoli", erano chiusi con porte e mura dal resto della città.
Strade e piazze - Estetica generale. - Nei riguardi della funzione le strade del Medioevo si possono considerare sotto tre tipi: le strade principali, che nelle bastides francesi e nelle città fondate nel sec. XIII hanno in generale una larghezza media di 7-8 metri: erano queste le strade destinate al traffico; le strade secondarie che avevano una larghezza di 5-6 metri; infine le strade residenziali che potevano avere una larghezza di 2-2,50. Oltre questi 3 tipi di strade esisteva spesso uno stretto passaggio (largo m. 0,30-0,50) tra casa e casa, destinato esclusivamente ad evitare i pericoli degl'incendî: sennonché questi vicoli, sottratti alla circolazione e alla vigilanza, si trasformavano spesso in cloache e in deposito di rifiuti.
Nei riguardi della legislazione urbana il Medioevo segna un primo grande progresso, sia nel senso dell'igiene cittadina sia in quello della protezione del suolo pubblico contro le invadenze dei privati. Si riscontra anzi un eccesso di leggi e di regolamenti: sia allo scopo di allontanare dalla città le industrie insalubri e l'allevamento degli animali, sia nei riguardi dell'allontanamento delle materie luride e delle immondezze, sia infine nella manutenzione e nella sorveglianza stradale, della quale erano incaricati speciali funzionarî (visiteurs du pavé a Parigi, maîtres des rues ad Avignone, ecc.).
Per quanto riguarda le piazze è interessante osservare come la loro distribuzione nel corpo della città obbediva quasi sempre a un sistema: i tre tipi di piazze, più sopra accennati, non erano quasi mai isolati l'uno dall'altro, ma piuttosto costituivano un insieme coordinato e logico. Tali sistemi di piazze si possono individuare in quasi tutte le nostre città italiane: tipici quelli di Verona, di Vicenza, di Padova, di Bologna nell'Italia settentrionale; quelli di Siena, di S. Gimignano, di Pistoia e di moltissime altre città umbrotoscane, nell'Italia centrale. Per la forma, la disposizione, il carattere, v. piazza; strada; ecc. Qui basti ricordare come il rapporto tra la strada e la piazza sia essenziale nei riguardi dell'estetica cittadina medievale.
Nella piazza e nella strada lo spirito del Medioevo si rivela ancor oggi potentemente nelle turrite città della Germania, in quelle ordinate della Francia, in quelle rosseggianti di mattoni dell'Italia settentrionale, in quelle nobilissime della Toscana, dell'Umbria, del Lazio.
Le piazze chiuse, piccole e commisurate all'altezza dell'edificio che le domina sì che questo ci apparisce in tutta la forza delle sue linee verticali; le strade a tracciato curvilineo o bruscamente spezzate da visuali, da sfondi di torri o di guglie di cattedrali; le fontane zampillanti negli angoli delle piazze o addossate alle case; le lunghe teorie di portici ora alti ora bassi; quel senso di finitezza, di chiuso, di raccolto; infine quel ritmo straordinario, nel gioco delle masse degli edifici, nella successione delle strade e delle piazze, nella distribuzione dei valori urbanistici, nell'avvicendarsi del vuoto e del pieno, dell'ombra e della luce, del nudo e del prezioso, ritmo per il quale ogni dettaglio acquista speciale valore e perfettamente si colloca nel suo ambiente, tutto questo è ciò che noi chiamiamo il pittoresco delle città medievali.
Il concetto di pittoresco è quasi per noi sinonimo di medievale. Eppure tutte le città medievali create di getto, e molte di quelle formatesi lentamente senza un piano prestabilito sono invece l'espressione di uno studio parziale o unitario, volto al conseguimento di scopi pratici o di speciali effetti estetici. Così ad es., il notevole movimento che ci presenta il profilo della linea dei cornicioni dei tetti nelle strade delle città nordiche è dovuto alla posizione dei lotti che, lunghi e strettissimi, sono collocati in profondità normalmente alla strada, in modo che le case presentano verso questa il timpano del tetto. In questa maniera si otteneva il massimo rendimento stradale nei riguardi dei prospetti mentre in profondità si potevano avere orti e giardini. E cosi pure le strade erano quasi sempre studiate in modo da evitare l'infilata dei venti dominanti (p. es. Aigues Mortes) o venivano spezzate da baionette, da incroci a turbina, da fondali o adagiate secondo le curve di livello del terreno.
L'estetica medievale non è quindi quasi mai in contrasto con la ragione pratica ma piuttosto fa sue le necessità stesse, le compenetra, vi si adagia, le vive. Il senso estetico non viene comandato dal di fuori, dai grandi artisti isolati, ma è sentito universalmente nello spirito di tutti i cittadini. Noi dobbiamo così riconoscere a quest'epoca una vera e propria tecnica che coincide con un'estetica generale: tecnica delle piazze chiuse, delle strade a visuale, dei monumenti addossati, tecnica del valore del terreno, tecnica che riposa su una coscienza estetica universale. Il concetto di pittoresco quindi, legato al concetto di mancante di piano, è per il Medioevo, sbagliato o, almeno secondario. Anche nel Medioevo, e più forse in questa che in altre epoche, la pianta della città e quella dei quartieri rispondevano a ragioni tecniche, economiche, politiche ed estetiche; e se molte volte ciò non appare a prima vista, dove si riesce ad isolare lo studio della città primitiva, ivi si ritrova sempre la planimetria.
Come nello studio dell'architettura del Medioevo non possiamo basarci su disegni o piani dell'epoca per noi ormai perduti, così per l'urbanistica non possiamo appoggiarci su planimetrie disegnate o su modelli che forse non esistevano, o per lo meno non erano consuetudinarî. Ma al posto del progettato esisteva nella massa dei cittadini una profonda coscienza edilizia dei valori architettonici e un libero e spontaneo modo di sentire il terreno: si suppliva quindi all'imperfezione del disegno con la spontanea intuizione basata sulla diretta visione a tre dimensioni, visione che si è affievolita nel Rinascimento e ancor più ai tempi nostri. Del resto, come nel Medioevo esistevano l'architetto ed il mastro per la costruzione delle cattedrali e dei castelli, così esisteva certo l'urbanista che non è da confondere coi "misuratori di terreno", coi "divisori di terreno" di cui ci parlano i documenti e le carte di fondazione delle città nuove. Cade cosi senz'altro per lo studio dell'urbanistica medievale il presupposto concetto che identifica la città progettata con la città regolare o peggio ancora con la città a scacchiera: caratteristico errore, proprio agli storici e agli archeologi del secolo scorso.
Concludendo, il Medioevo ci appare come un'epoca di creazione urbana potentemente originale.
Lo spirito urbanistico (abdicazione dell'individuo in favore delle esigenze della collettività) apparisce nel Medioevo durante il sec. X e, sotto l'apparenza della irregolarità e del pittoresco ci si mostra potentissimo l'ordine. Il quale non significa uniformità ma piuttosto, da una parte, volontà di unificare, di uguagliare, di dare a tutto la stessa struttura; dall'altra, desiderio di specializzare, di classificare, di ripartire, di adattare le cose ai varî scopi. Nell'armonia di queste due opposte tendenze sta l'anima dell'urbanistica medievale e lo spirito di tutto il Medioevo. In pochi periodi come in quello l'individuo è stato più solidamente inquadrato, la sua fantasia più limitata: la regola appariva dovunque, nella vita spirituale come nella vita civile, nella concezione teologica come nell'ordinamento delle città, nelle dottrine della chiesa come nelle classi delle arti e dei mestieri: da questa compressione sono scaturite tante individualità così potenti e a questa armonia dobbiamo la nozione di ordine delle nostre città e la nostra coscienza urbanistica.
La città del Rinascimento.
Col sorgere del Rinascimento le fondazioni delle città nuove si arrestano, continuando per tutto il '400 solo nella Germania. Agli urbanisti si chiude così il campo pratico delle creazioni e le città medievali in parte si rassegnano a rimanere piccoli borghi d'importanza secondaria rurale o militare, in parte invece si trasformano o si sviluppano.
È questa l'epoca dello splendore delle corti principesche in gara nel rendere più comode e più belle le loro capitali: epoca quindi più di trasformazione edilizia che di creazione. Mentre nel Medioevo le manifestazioni d'arte e quelle urbanistiche ci appariscono quasi universali, frutto di unanime comprensione generale di tutti i cittadini, nel Rinascimento l'arte e la tecnica urbanistica aderenti com'erano agli studî umanistici, sembrano venire dal di fuori, scendere dall'artista al cittadino, quasi imposizione dall'alto al basso.
È naturale quindi che in questa epoca siano sorti i teorici dell'urbanesimo come i teorici dell'architettura. Tutto il Rinascimento è pervaso dall'idea di teorizzare, di dare norme fisse, regole astratte sia nell'arte, sia nella vita del pensiero, sia nella vita pratica. L'urbanista del Rinascimento ragiona sia sulla pianta della città sia sull'estetica: la ratio mathematica è posta al vertice di ogni sforzo, e dà il senso di proporzione tanto nei rapporti fra le varie parti di un edificio, quanto in quelli tra l'edificio e il suo ambiente, determinando le condizioni migliori di apprezzamento e di visuale.
Oltre a questo bisogno spirituale un fatto materiale porta una rivoluzione nella costruzione delle città: l'uso delle armi da fuoco. Il tiro delle artiglierie costringe la sostituzione della semplice cinta muraria medievale con la cortina bastionata: di qui la nuova forma stellare del perimetro della cinta, di qui la tendenza al contorno poligonale regolare quale più perfetto dispositivo per ottenere identiche condizioni di difesa per tutti i punti. Da un lato questa necessità pratica e tecnica di difesa, dall'altro l'evoluzione del senso della massa e della proporzione che da spontaneo ed intuitivo, diventa cosciente e ragionato, ecco le forze che operano nell'urbanistica del Rinascimento portando direttamente alla teoria. Tra queste due posizioni sembra infatti dibattersi l'urbanistica del Rinascimento e solo pochi spiriti geniali di grandi artisti, attraverso sforzi ed elaborazioni, riescono a creare sintesi ed unità.
La città ideale è stato il miraggio dei teorici: intorno ad essa si sono affaticati artisti, letterati, tecnici e principi.
La prima, e la più grande, fioritura di questi studî si ha in Italia fino ai primi anni del 1600: il primato passa poi alla Germania (che già aveva avuto Dürer e Speckle), mentre in Francia il breve movimento s'inizia e si chiude con F. Perret e con S. Vauban. Infine, dopo il 1600 gli Olandesi si specializzano nell'arte fortificatoria, che viene così staccata dall'edilizia vera e propria per far parte dell'arte militare.
La prima rappresentazione grafica di città ideale la dobbiamo precisamente al meno equilibrato e più fantasioso architetto italiano del Rinascimento: al Filarete. Ma già Leon Battista Alberti aveva scritto il suo trattato, il quale, per quanto non contenesse disegni, tuttavia, con le sue norme per il tracciato delle strade e delle piazze, con le sue osservazioni e studî, in parte di origine vitruviana, aveva influito grandemente sui contemporanei e sui posteri.
Il Filarete nel suo trattato (scritto nel 1460 a Milano, mentre l'artista lavorava presso Francesco Sforza) ci dà per primo uno schema di città a contorno stellare, nel centro della quale però accenna a un sistema di piazze quadrangolari con canali e colonnati. Ciò significa ehe il Filarete non sentì completamente fino alla conclusione estrema il tema della città a pianta centrale pur abbozzandone il principio. Forse egli derivò questo schema da interpretazioni vitruviane contemporanee, forse da studî di edifici romani centrali o da esempî radiocentrici medievali.
Anche il Filarete influenzò notevolmente i contemporanei: ne subì l'influsso Francesco di Giorgio Martini, che ne conobbe certo l'opera a Milano. Questi, trent'anni dopo il Filarete, con maggior compiutezza di lui, nel 3° dei 7 libri del suo trattato, ci mostra veramente uno sforzo per portare verso una conclusione pratica le fantasie del Filarete. I suoi studî si fissano nei tre tipi di città: il tipo centrale a perimetro ottagonale, il tipo di città su di un'altura e infine il tipo ortogonale a scacchiera. Nel primo di questi egli porta veramente a compiutezza il sistema raggiante centrale, dando all'interno della città perfetta rispondenza con il perimetro esterno, concetto che il Filarete non aveva realizzato. Nel secondo tipo sembra forse essersi ispirato alle letture di Platone. Nel terzo tipo infine riprende la città a scacchiera, ponendosi però davanti a dati di fatto che lo allontanavano dalla pura astrazione: fiumi, porti di mare, ponti, fortezze. Estremamente interessante un suo sforzo di portare, fin nell'andamento ad angoli retti del perimetro, la concezione ortogonale quadrata dell'interno della città. Uomo pratico oltre che artista, Francesco Di Giorgio vede le sue città con una serietà sconosciuta al Filarete e ci lascia schizzi e disegni prospettici che saranno copiati poi dal Cataneo.
Due artisti, coetanei e amici, Baldassarre Peruzzi (nato nel 1481) e Antonio Cordiani (Antonio da Sangallo il Giovane, nato nel 1485) pagarono pure il loro tributo alla città ideale lasciandoci due disegnl di piante centrali; e forse anche Fra Giocondo, se l'attribuzione di H. von Geymüller è esatta (Les Du Cerceau, Parigi 1887), ci dà una sua idea di città circolare a doppio giro di mura e a strade raggianti dal centro.
Un trattato veramente grandioso per copia di materiale ci ha lasciato Francesco De Marchi (nato nel 1506) che lo cominciò intorno al 1540, mentre la pubblicazione avvenne solo alla fine del secolo (Della Architettura militare, Brescia 1599). Nonostante la ricchezza dei suoi disegni, Francesco De Marchi non si discosta dai suoi predecessori: troviamo anche nella sua opera la città di tipo radiale e quella di tipo ortogonale. Speciale interesse ha per noi la pianta di una città situata su di un fiume, in cui la rete stradale longitudinale è parallela al fiume stesso.
Ancor meno sembra aggiungere agli studî della città ideale un contemporaneo del De Marchi: Pietro Cataneo, il quale nella sua opera pubblicata nel 1554 ci si rivela addirittura un plagiario di Francesco Di Giorgio, la cui opera deve avere avuto tra le mani nella sua qualità di allievo di Baldassarre Peruzzi, che a sua volta era allievo di Francesco di Giorgio. Un volume di disegni (Uffizî, fogli 3382-3464) di mano di Bartolomeo Ammannati, volume che faceva parte certo di un trattato per noi perduto, ci mostra degli studî per una città ideale. Sennonché una pianta organica manca: solo grandi progetti di piazze porticate e di edifici monumentali, dai quali non possiamo dedurre altro che un andamento ortogonale dell'intera pianta.
Prima di giungere al Palladio noi troviamo un gruppo di tre trattati di architettura militare che si seguono a breve distanza l'uno dall'altro: il trattato di Girolamo Maggi, Della fortificazione delle città (Venezia 1564), quello di Antonio Lupicini, Della architettura militare (Firenze 1582) e infine quello di Giovanni Bellucci (Nuova invenzione di fabbricare fortezze di varie forme, Venezia 1598). Sennonché nei loro disegni l'ordinamento interno ha un'importanza del tutto secondaria rispetto al perimetro, né aggiunge nulla ai tipi precedenti che già conosciamo.
Se scartiamo il Palladio, il quale sulla città ideale ha solamente scritto per ribadire ancora il solito concetto della città radiale, dobbiamo arrivare fino a Giorgio vasari il Giovane per trovare un progetto di città ideale (Città ideale del cavaliere Giorgio Vasari, inventata, disegnata l'anno 1598; Vol. di disegni degli Uffizî, fogli 4529-4594). Lo schema vasariano ci presenta una compenetrazione del sistema ortogonale con quello radiale, il tutto definito dal solito contorno ottagonale: la predominanza del concetto estetico su quello fortificatorio vi si mostra evidente. Invece è il concetto fortificatorio su quello estetico che domina ancora nei due ultimi trattatisti del 1500: Bonaiuto Lorini (1543-1626; Della fortificazione libri cinque, Venezia 1592) che completa la solita pianta centrale con piazze e con edifizî, e Vincenzo Scamozzi (Dell'idea dell'architettura universale, Venezia 1615), il quale ci mostra una pianta dodecagona ma ortogonale traversata da un canale.
L'ingegneria militare alla fine del 1500 tende a formare una disciplina a sé. Se ne specializzano gli Olandesi mentre l'urbanistica, avulsa dalle contingenze pratiche della fortificazione, diventa una pura esercitazione grafica a base ornamentale. In Germania invece i grandi trattatisti cominciano proprio col 1600 se si eccettuino le due importanti figure di Alberto Dürer e di Daniele Speckle. Il primo ci mostra nel suo trattato (Norimberga 1527) una concezione urbanistica che resterà tipica per i trattatisti tedeschi: quella della pianta quadrata nel mezzo della quale sorge il castello fortificato intorno a cui si svolgono i quartieri ben distinti e specializzati per destinazione. Sennonché, come afferma G. Münter (Die Geschichte der Idealstadt, in Städtebau, 1929) Dürer ha voluto dare la pianta di un castello per un signore anziché quella di una città.
Direttamente influenzate dagl'Italiani ci si mostrano le concezioni di Daniel Speckle, il cui trattato, Architecture von Vestungen (Strasburgo 1589), ha avuto un'enorme importanza per l'edilizia tedesca. Speckle, contrapponendo alla concezione ortogonale di Dürer il sistema radiale, porta per primo nell'urbanistica tedesca la forma italiana, equilibrando nello stesso tempo la tecnica militare con la concezione estetica.
Ma la creazione della città di Freudenschaft, fatta costruire dal duca Federico (1599) per i fuggiaschi protestanti, ci riporta di nuovo allo schema quadrato düreriano, per il quale gli architetti tedeschi hanno avuto la preferenza. I due progetti di Freudenschaft disegnati dal Schickardt, architetto del duca, e il secondo dei quali fu eseguito, sono due varianti del tipo quadrato e si riportano entrambi alla tipica forma del gioco del filo.
Altrettanto regolare ci apparisce la pianta ortogonale di Mannheim che, fondata nel 1607 da Filippo IV, fu distrutta e ricostruita nel 1652 per esserlo nuovamente nel 1688 secondo i piani del generale olandese Coehorn. È una delle poche città che abbiano realizzato anche una unità architettonica nelle strade e nelle piazze. Radiale invece si mostra la pianta di Karlsruhe (fondata nel 1747) e radiali le concezioni espresse nei trattati di Wilhelm Dilich (Peribologia, 1640) e di Nikolaus Goldman (Elementorum architecturae militaris libri IV, Leida 1643) mentre invece il Rimpler (nato nel 1635) sembra chiudere la serie dei Tedeschi con un interessante svolgimento della città quadrata.
La Francia sembra aver dato solo un piccolo contributo allo studio della "città ideale", contributo che si può riassumere nei due nomi, tuttavia grandi, di Jacques Perret de Chambéry e di Sébastien Leprestre de Vauban (nato nel 1633). Il primo nella sua bellissima opera (Des fortifications et artifices d'architecture et perspective, Parigi 1604) ci dà cinque eleganti soluzioni che, impostate su un concetto centrale, esitano tra il sistema radiale e quello ortogonale.
Il secondo, che fu veramente un grande costruttore e realizzatore oltre che un grande generale, nella sua opera postuma segue pure i due sistemi: ma le sue creazioni Neubreisach, Longwy e Vitry-le-François appartengono tutte decisamente al sistema ortogonale.
Con questi due francesi sembra chiudersi la serie degli inventori di città. Loro miraggio è stato quello di creare una forma ideale che realizzasse con un sistema centrale una perfetta unità fra il perimetro e l'organismo della città. I due schemi che il Medioevo ha realizzato: quello ortogonale e quello radiocentrico, sono i due poli tra i quali i teorici del Rinascimento si sono dibattuti. Sennonché essi hanno razionalizzato e irrigidito in formule ciò che il Medioevo aveva liberamente intuito e realizzato con vero spirito d'arte urbanistica. Gli schemi astratti delle città del Rinascimento urtano contro gli elementi della pratica e contro le stesse regole dei trattatisti. La loro pianta centrale era dettata più da una concezione politica ed estetica che da esigenze pratiche. Questo in fondo spiega come non siano state molte neanche in Italia le realizzazioni e come invece nella creazione di Pienza si sia arrivati a un insieme basato su forme che si avvicinano a quelle proprie del Medioevo.
Nella planimetria di Pienza infatti non si tratta né di sistema a scacchiera né di sistema centrale stellare: la città è su un'unica strada a tracciato leggermente curvilineo sulla quale gravitano le strade laterali ed è su queste strade che si affaccia la mirabile composizione della piazza principale. Lo spirito del Rinascimento lo troviamo proprio in questa meravigliosa piazza quadrangolare nella quale gli edifici laterali alla chiesa sono disposti con una forte inclinazione rispetto alla normale, in modo da formare un imbuto rovesciato rispetto al fondo monumentale che acquista tutta l'importanza. Si anticipa così la composizione michelangiolesca della piazza del Campidoglio in Roma.
In ogni modo sono ben più numerose le realizzazioni a pianta quadrangolare ortogonale (Terra del Sole 1565, Gattinara 1682, Cervia 1698, Ferrara ai primi del Cinquecento e moltissime altre), di quelle a pianta centrale (Grammichele, Palmanova 1592). In questo senso l'urbanistica astratta del Rinascimento sembra aver mancato al suo compito; ma se noi la guardiamo nel suo quadro più completo e reale che comprende oltre che le città nuove anche le trasformazioni delle preesistenti e tutti i provvedimenti legislativi che costituiscono lo spirito dell'edilizia del Rinascimento, ci persuadiamo come lo sforzo teso all'unità attraverso il raziocinio abbia portato lo studio delle città su un piano più avanzato dando veramente vita alla tecnica urbanistica moderna.
Il sistema radiale, anche se non ebbe numerose realizzazioni, rimase tuttavia il concetto base per parziali sistemazioni di quartieri, di piazze, di edifici. Tipiche le sistemazioni a tre strade raggianti di Roma nel tracciato di Sisto IV intorno al ponte S. Angelo, e poi in quello di Leone X e di Paolo III che ha creato le tre vie convergenti a piazza del Popolo, fino al famoso piano di Sisto V, delineato da Domenico Fontana, che ha costituito una vera città stellare facente capo ad alcuni nodi principali. Possono dirsi questi gli esempî primi di piano regolatore moderni, che hanno dato lo spunto a infinite sistemazioni italiane e straniere (es. Versailles).
Inoltre molti degli altri sistemi che il Medioevo aveva realizzato, noi li ritroviamo, sia pure schematizzati, in molti spunti edilizî del Rinascimento. Così il tipo di piano ad attrazione verso una dominante ci si mostra frequentissimo. La sua più semplice e comune espressione ci è offerta dallo schema costituito da un'unica strada, generalmente in salita, alla sommità della quale sorge a guisa di fondale il palazzo o la chiesa o il castello, p. es. Castel Gandolfo presso Roma e Caprarola nel Viterbese. Da questa più modesta espressione il sistema si sviluppa in schemi di due, tre, cinque strade raggianti, tutte puntate verso il centro di attrazione. Sennonché talvolta noi abbiamo un'inversione del sistema rispetto alla concezione medievale: le strade cioè non puntano verso la dominante centrale, ma irraggiano da una piazza verso altrettante dominanti periferiche (p. es. Albano e Genzano presso Roma). Anche valendosi del semplice sistema rettangolare l'edilizia del Rinascimento e quella del Seicento e del Settecento che lo sviluppano con maggiore ampiezza, riescono a congegnare dei complessi di strade, di piazze, di viali, nei quali oltre allo sforzo per ottenere l'unità è visibile quello per realizzare la varietà (per es. Nancy).
Fu la passione per l'effetto prospettico che diede origine a tutte quelle sistemazioni che hanno per base concezioni scenografiche ricche, spettacolose. Lo spirito che pervade lo scenario palladiano del Teatro Olimpico di Vicenza, il calore che è nei disegni dei Bibbiena, la sottile ingegnosità che è nelle macchine, nei caroselli, nei trionfi che si congegnavano per le grandi feste, sono elementi che noi sentiamo infusi in tutte le originali creazioni edilizie prospettiche del Rinascimento o dei secoli successivi, dalle più grandiose, quali la piazza di S. Pietro o la scala della Trinità dei Monti o il Campidoglio michelangiolesco, fino alle più piccole e delicate quali l'insieme di S. Maria della Pace o dei "Burrò". A Roma specialmente, col fasto del Cinque e del Seicento, tutta la città papale sembra diventare un enorme scenario teatrale splendido di travertino e di stucco entro il quale si muovono pontefici, cardinali, re e principi in fastosi cortei.
L'estetica cittadina, che nel Medioevo era basata sulla sproporzione nei rapporti delle masse, qui viene creata col calcolo delle proporzioni. E le proporzioni sono dapprima regolari. ma semplici e modeste (esempî: piazza Farnese in Roma, piazza dell'Annunziata in Firenze); poi, dopo che Michelangelo ebbe dato quel capolavoro che è la piazza del Campidoglio in Roma, divengono più vaste e complesse, unendo la composizione architettonica dei singoli elementi in un unico insieme, ed aumentando l'ampiezza degli spazî, la varietà degli effetti. Non più le imprevedute visioni di cattedrali da strade tortuose, o l'alternarsi pittoresco delle piazze chiuse, ma piuttosto la perfetta calcolata simmetria, il pensato equilibrio delle masse, la precisa assialità delle strade con gli edifici di fondo, il proporzionato ritmo nei valori prospettici.
A questo si aggiungono ragioni pratiche di trasformazione sociale, quali l'aumento del traffico dei veicoli, che provoca la necessità di vie larghe e comode; il sorgere di grandi palazzi, che esigono piazze adatte e proporzionate; e il desiderio di miglioramenti igienici, per cui si radono al suolo e si ricostruiscono interi quartieri, o se ne aggiungpno dei nuovi. Ercole I (1505-1534) nella sua famosa "addizione" alla città di Ferrara, trova posto per un primo giardino pubblico. Per la salute pubblica sorgono ovunque grandiosi ospedali, lazzaretti, mentre si pavimentano le strade, si distribuiscono fontane, riattando antichi acquedotti o creandone di nuovi.
Provvidenze dell'Autorità disciplinano l'esecuzione delle fognature per lo scarico dei rifiuti e lo smaltimento delle acque luride. Sorgono grandi edifici privati e pubblici (teatri, ospedali, orfanotrofî, scuole, ricoveri, monti di Pietà, ecc.) che con la loro mole grandiosa dànno un carattere del tutto nuovo alle città stesse.
L'edilizia viene sottratta al popolo per essere affidata agli artisti ed ai principi, i quali fanno a gara per imporre alle loro città l'impronta di un ordine generale tendente ad abbracciare non solo l'edilizia, ma tutta la vita nella disciplina di un'assoluta e razionale unità. Così, quando Ferdinando IV di Borbone progetta la costruzione di una nuova città a San Leucio, presso Caserta, per raccogliervi tutti i coloni e gli operai di un grande setificio, non solo ne traccia la pianta a sistema stellare esattamente simmetrico, ma arriva perfino a compilare uno speciale codice di leggi che promulga ai cittadini nel 1789. Ferdinandopoli, che non fu mai condotta a termine, avrebbe dovuto essere veramente la città ideale, nella quale il regno dell'unità si sarebbe dovuto estendere non solo alle case, alle piazze, all'architettura, ma anche all'uguaglianza assoluta dei cittadini e perfino al loro modo di vestire!
Con questo sogno verso l'unità tramontano alla fine del '700 le concezioni urbanistiche del Rinascimento. Ma pure esso nell'innestarsi alla genialità barocca, ci dà ancora verso la fine di quel secolo o verso l'inizio del secolo seguente capolavori come la sistemazione della piazza del Popolo in Roma o quella della piazza del Pebliscito di Napoli e la palazzata, ora distrutta, di Messina.
La città nell'800 e nell'età contemporanea.
Con il secolo scorso l'urbanistica esce dalla storia per entrare nella vita moderna. Quindi, per quanto riguarda la città moderna, si rimanda il lettore alle voce generale urbanesimo e alle voci particolari relative. Riassumiamo qui solo, per così dire, l'antefatto, accennando cioè a quel complesso di energie che sono state determinanti per l'edilizia moderna. La quale in un primo momento sembra riassumersi nelle concezioni neoclassiche dell'epoca napoleonica. Sennonché l'urbanistica dell'inizio del secolo, solo superficialmente dalla sua epidermide neoclassica appare nella veste di una sua originalità, mentre di fatto sostanzialmente si riconnette allo spirito delle concezioni assiali del Rinascimento. L'urbanistica napoleonica impersona però lo spirito di rinnovamento generale del secolo e, se non crea nulla di veramente grande, tuttavia lascia un'impronta nell'ampiezza delle nuove strade, nella regolarità dei tracciati, nella trasformazione delle vecchie città. Ma la storia della città moderna comincia alla metà dell'800.
Due fattori hanno portato una vera rivoluzione nell'edilizia della prima metà del secolo scorso: l'industria e la ferrovia. L'industria, con l'attirare le masse verso la città, provoca un vertiginoso addensamento di popolazione e uno spostamento di valori. La città del '700 viveva per la corte, la città dopo la Rivoluzione francese vive per quanto possono produrre le sue attività. La città del Rinascimento era centrata sulla reggia, quella dell'800 lo è sulla city e sulle industrie.
La ferrovia con la diminuzione oraria delle distanze e con le facilitazioni dei trasporti fa gravitare verso alcune città enormi masse di popolazione, mentre le stazioni stesse esercitano un'azione polarizzante per quanto riguarda l'andamento edilizio delle singole città. Inoltre le reti ferroviarie aprono al commercio nuove vie imprevedute e ne avviene che antiche città che vivevano a cavallo d'importanti nodi stradali perdono ogni loro importanza, mentre delle nuove vie si avvantaggiano altre che sembravano destinate a languire in una vita senza sviluppi.
La città non può più vivere a sé ma vive della vita della nazione intera con ritmo sempre più celere. Se verso la fine dell'800 l'incremento delle ferrovie è tale da far preconizzare ai contemporanei l'abbandono delle vecchie strade carrozzabili, nel primo decennio del '900, a pochi anni di distanza, la diffusione dell'automobile rovescia la previsione e riporta in primo piano l'importanza delle comunicazioni stradali ordinarie. Sotto l'incalzare sempre crescente delle nuove invenzioni meccaniche, industriali, tecniche e scientifiche, col rinnovarsi continuo a ritmo accelerato della vita, le città ingigantiscono vertiginosamente: Berlino, Parigi e Londra, le tre grandi metropoli europee, vedono nel giro di un ventennio decuplicare la loro popolazione. Anche alcune città d'Italia hanno visto improvvisamente e impensatamente accrescersi la popolazione in seguito agli sviluppi di una qualche importante industria: tipici gli aumenti demografici di Spezia e di Taranto. La prima, che nel 1870 contava 10.000 ab., con la fondazione del R. Arsenale militare e la nascita di grandi industrie navali ha portato nel 1920 la sua popolazione a 100.000 ab.: Taranto, da quando è divenuta sede d'importanti industrie e del Dipartimento marittimo ha portato la sua popolazione da 34.000 ab. nel 1883 a 104.000 nel 1923. Nel nuovo mondo piccole cause provocano effetti colossali. La scoperta di una miniera, una nuova ferrovia, lo sfruttamento di una foresta, fanno nascere e rapidamente ingigantire delle città immense. Cosi per es. con l'apertura delle grandi linee ferroviarie Detroit che nel 1812 non contava che 2227 ab., arriva a contarne 995.000 nel 1920; New York passa da 33.000 abitanti nel 1800, ai 6.000.000 nel 1920; Milwaukee da 20.000 nel 1850 a 450.000 nel 1920.
La scoperta di miniere d'oro nella California e nell'Alaska fa ingigantire rapidamente dei piccoli centri abitati che divengono, in un brevissimo volgere di anni, grandi città; per altre cause Seattle nel Wash., che nel 1870 contava 1000 ab., nel 1920 ne contava 315.000; Portland, nell'Oregon, nello stasso tempo porta i suoi 8000 ab. a 258.000.
Dal 1890 al 1910 cioè in 20 anni Los Angeles passa da 50.000 a 319.000 ab., Oakland da 65.000 a 214.000.
Di fronte a queste nuove condizioni, l'urbanistica dell'800, incerta tra le reminiscenze dell'edilizia prospettica del '700 e la vertigine del progresso tecnico, ritarda la sua azione di previsione e di controllo sulle città in movimento. D'altro lato la crisi architettonica della metà del secolo, dovuta alla separazione netta della tecnica dall'arte investe in pieno l'urbanistica: il problema si sminuzza nei suoi dettagli tecnici, separati l'uno dall'altro: fognature, strade, acquedotti, ferrovie, ecc.
Le città ingigantiscono per necessarie sovrapposizioni anulari intorno agl'antichi nuclei, ormai incapaci di sostenere le nuove funzioni. Anziché immettere la nuova vita in nuovi quartieri commisurati alle necessità, gli edili dell'800 si sforzano di tenere in vita le reti stradali del Medioevo allargando le belle strade, squarciando gli antichi quartieri.
Smarrita quella comprensione dell'ambiente architettonico che era stata l'anima dell'edilizia antica, gl; edili del secolo scorso isolano monumenti, vi spalancano piazze smisurate, li schiacciano con nuovi edifici giganteschi. È l'epoca nella quale si isolano le belle cattedrali francesi; si distrugge il sagrato del Duomo di Milano, trasformandolo in enorme piazza rettangolare e facendovi affacciare la sproporzionata galleria; si costruiscono i palazzi in pseudo stile davanti a Palazzo Vecchio; si rade al suolo il Mercato Vecchio di Firenze per farvi una piazza simmetrica, mentre alla periferia si accumulano i casoni operai, le officine, gli ospedali, le ferrovie, tutto in grande disordine. Nel Medioevo e nel Rinascimento la casa vive più nell'interno; nell'800 invece, con le nuove vie larghe e luminose, la casa vive verso la strada, mentre all'interno si sovrappongono gli appartamenti spesso tristi e senza sole. La rapidità dello sviluppo edilizio è così vertiginosa che ai tipi architettonici dei tempi nuovi non si riesce a far corrispondere un'urbanistica adatta: per semplicità e comodità la scacchiera bruta ed elementare delle città americane è assunta come esempio di modernità e ripetuta senza misura e senza coordinamento generale.
In tanto disordine, alla fine del secolo tre importanti avvenimenti sembrano portare una luce nuova nell'edilizia: la trasformazione di Parigi sotto Napoleone III, la realizzazione del Ring di Vienna, seguita dagli studî di Camillo Sitte, e infine la creazione in Inghilterra della prima città-giardino. La trasformazione di Parigi voluta dal barone Hausmann, prefetto della Senna, nonostante la distruzione della vecchia città del Medioevo e del Rinascimento, nonostante gli errori di tracciato, nonostante infine la retorica napoleonica di certe concezioni, riporta tuttavia l'urbanistica verso le grandi concezioni classiche, verso l'unità, verso un sistema. La creazione del famoso Ring di Vienna, gli studî di C. Sitte sulle città del Medioevo specialmente italiano, e la pubblicazione della prima rivista di edilizia Städtebau, richiamano gli architetti agli studî storici urbanistici e dànno origine alla scuola urbanistica della Germania che si metterà poi alla testa del movimento. Infine la costruzione della città-giardino di Letchworth nel 1904, frutto di lunghi anni d'instancabile propaganda di Ebenezer Howard e opera dell'arch. R. Unwin, apre un orizzonte del tutto nuovo all'espansione edilizia, prevedendo la trasformazione del funzionamento accentrante della città in un funzionamento centrifugo.
A questo punto si trovarono definiti e preparati per così dire, i problemi che l'urbanistica odierna deve in parte ancora risolvere. Tutte queste città in sviluppo disordinato finiscono col costituire dei nuovi tipi a seconda della posizione del nuovo rispetto al vecchio, a seconda della potenzialità industriale, a seconda della situazione geografica, rispetto infine all'economia della nazione.
Alcune di queste città, trovando eguali condizioni generali in tutto il loro territorio circostante, senza che speciali ragioni attirassero lo sviluppo edilizio in una direzione piuttosto che in un'altra, finirono con l'ingigantire lo sviluppo ad avvolgimento intorno agli antichi nucleí dando forma a un tipo di città monocentrica radiale o anulare. In questi tipi (p. es. Milano) tutta la compagine della città gravita necessariamente sul vecchio centro: di qui problemi speciali riguardo al traffico di attraversamento, riguardo all'igiene, riguardo all'economia edilizia. Altre città invece, situate in favorevoli posizioni geografiche sotto l'influenza di speciali determinanti, si sono sviluppate, per così dire, linearmente, aggiungendo i nuovi quartieri sempre su di un'unica direzione di sviluppo: è questo il caso di molte città di mare che, premute da tergo da zone montuose, hanno dovuto distendersi lungo le coste (p. es. Genova, Napoli). Altre ancora invece, esaurita ogni possibilità territoriale di ampliamento edilizio, sono state costrette a cercare in nuovi territorî finitimi degli sbocchi per la loro attività, creando delle città nuove a breve distanza dall'antica. È questo il caso della duplicazione (p. es., Bergamo alta e Bergamo bassa, Venezia e Marghera). Altre città infine si sono ampliate riunendo in un unico complesso edilizio molte cittadine finitime, generando così il tipo policentrico.
Molti tipi di città si potrebbero aggiungere ai suaccennati: a ognuno di questi tipi corrisponde uno speciale problema generale che l'Ottocento ha preparato affidandone a noi la soluzione. Di qui ricomincia il faticoso cammino dell'urbanesimo moderno verso l'unità attraverso la sintesi dei nuovi valori: la tecnica, l'estetica, l'igiene, la cooperazione, il diritto.
Bibl.: Opere generali che trattano anche della storia della città: A. E. Brinckmann, Platz u. monument, Berlino 1908; R. Unwin, Town planning in practice, Londra 1909; J. Stübben, Städtebau, Lipsia 1924; H.V. Lanchester, The art of town planning, Londra 1925; J. Gantner, Die Schweizer Stadt, Monaco 1925; P. Wolf, Städtebau, Lipsia 1925; P. Lavedan, Histoire de l'urbanisme, Parigi 1927; I. Gantner, Grundformen der europäischen Stadt, Vienna 1928; M. Pöete, Introduction à l'urbanisme, Parigi 1929; P. Lavedan, Qu'est-ce que l'urbanisme? Introduction à l'histoire de l'urbanisme, Parigi 1927; cfr. anche: O. Marinelli, Atlante dei tipi geografici, Firenze 1922. Medioevo: O. Bünz, Städtebaustudien, Darmstadt 1909; A.E. Brinckmann, spätmittelalterliche Stadtanlagen in Frankreich, Berlino 1910; id., Deutsche Städtebaukunst in d. Vergangenheit, Francoforte sul M. 1911; Ph. Rappaport, Die Entwicklung des deutschen Marktplatzes, Berlino 1913: J. Stübben, Von französischen Städtebau, Berino 1914-15; G. Mengozzi, La città italiana nell'alto Medioevo, Roma 1914; Ch. Klaiber, Die Grundrissbildung der deutschen Stadt, Berlino 1912. Rinascimento ed epoca barocca: L.B. Alberti, De re aedificatoria, Firenze 1485; F. di Giorgio Martini, Trattato di architettura civile e militare, Torino 1841; A. Dürer, Etliche Underricht zu Befestigung der Stett, Schloss und Flecken, Norimberga 1527; P. Cataneo, L'architettura, Venezia 1567; A. Palladio, I quattro libri dell'architettura, Venezia 1570; D. Speckle, Architectura von Vestungen, Strasburgo 1599; V. Scamozzi, L'idea dell'architettura universale, Venezia 1615; K. Ehrenberg, Baugeschichte von Karlsruhe, Karlsruhe 1909; CH. Stein, Die Architekturtheoretiker der italienischen Renaissance, Karlsruhe 1914; E. Siederl, Der Städtebau und die Renaissance in Italien und Deutschland, in Zeitsch. f. Bauwesen, XXII (1920); G. Münter, Die Geschichte der Idealstadt, in Städtebau, Berlino 1929, p. 249 segg. Per l'epoca moderna v. urbanesimo.
La geografia della città. - Le grandi città moderne offrono largo campo di studio anche al geografo, poiché il tipo e la pianta della città, il suo sviluppo topografico e quello demografico sono strettamente connessi con le caratteristiche del terreno, con le condizioni idrografiche, climatiche, ecc., in una parola con fatti d'ordine geografico. D'altra parte il concetto geografico di città non coincide con quello amministrativo o architettonico o statistico, in quanto considera la città non già isolatamente, ma in rapporto con la regione circostante, rapporto che risulta tanto più complesso quanto maggiore è la sfera d'influenza del centro urbano. La città si distingue dagli altri centri abitati (casale, villaggio, ecc.) oltre che per il maggiore affollamento che si riscontra in essa, e per la posizione rispetto alle maggiori strade del traffico, soprattutto per la maggiore complessità economica. Anche l'aspetto della città rispecchia questo stato di cose ed in essa troviamo appunto opifici, fabbriche, banche, edifici pubblici, scuole, biblioteche che mancano nei villaggi. La geografia studia la posizione topografica della città (cioè il sito rispetto al terreno immediatamente circostante), la situazione geografica (ted. Lage, cioè il sito rispetto a tutta la regione vicina e lontana), le cause del sorgere e dello sviluppo, ne determina il confine (che non coincide quasi mai col limite amministrativo, ma arriva fin dove si fa sentire l'attrazione della città), ne studia il piano e determina il carattere economico (città agricole, industriali, commerciali, pescherecce, di studio, ecc. a seconda del prevalere di queste attività). Si designano poi solitamente col nome di grandi città quelle che contano più di 100 mila abitanti.
Queste sono circa 450. Di esse la sola Europa, che per superficie occupa appena la quindicesima parte delle terre emerse, ne conta circa la metà. La Gran Bretagna ne ha 52, di cui 25 sul mare; alla Germania, compresa Danzica, ne toccano 47 (solo 8 presso la costa); Francia e Belgio ne hanno 21, di cui 7 sul mare e su grandi estuarî; Spagna e Portogallo 11 (7 sul mare); l'Italia ne ha 18, la Russia 24. L'Asia conta circa 110 grandi città, di cui 25 (secondo altri 15) nella Cina, 13 sul mare e 12 nell'interno, 21 nel Giappone, 34 in India. L'Africa ne conta 10, l'Australia 6. Infine 110 si trovano in America e tra queste 75 negli Stati Uniti. Il ramo della geografia che si occupa delle città costituisce quel capitolo della geografia antropica, che si designa solitamente col nome di geografia urbana.
Bibl.: I. G. Kohl, Die geographische Lage der Hauptstädte Europas, Lipsia 1874; K. Hassert, Die Städte geographisch betrachtet, Lipsia 1907; J. Brunhes, La géographie humaine, 3ª ed., Parigi 1925; W. Geisler, Die deutsche Stadt, Stoccarda 1924; S. Passarge, Stadlandschaften der Erde, Amburgo 1930; F. Metz, Die Hauptstädte, Berlino 1930; V. Cornish, The Great Capitals: an historical Geography, Londra 1923; Die Grossstadt. Vorträge und Aufsätze zur Städteausstellungs, Dresda 1902-1903. Come esempio di lavori di ampia mole dedicati all'esame delle condizioni di singole città si veda: R. Blanchard, Grenoble; étude de géographie urbaine, Parigi 1911: J. Levainville, Rouen, étude d'une agglomération urbaine, Parigi 1913.
V. tavv. CXXI e CXXII.