Città
La metamorfosi costante dello spazio urbano
La città del nuovo millennio
di Massimiliano Fuksas
17 giugno
Si inaugura a Venezia la settima Mostra internazionale di architettura della Biennale, diretta da Massimiliano Fuksas. Allestita nei giardini di Castello e all'Arsenale, l'esposizione presenta, all'interno della mostra centrale intitolata "Città: less aesthetics more ethics", le opere di circa novanta partecipanti - tra personalità affermate, giovani architetti, artisti, fotografi -, chiamati a confrontarsi con il tema della rapida e a volte drammatica trasformazione del mondo urbano.
Fine della centralità, fine della forma urbana
Spesso, quando nella storia dell'uomo o nella vita privata dei singoli viene momentaneamente meno la capacità di analisi, si parla di 'periodo di transizione'. In alcuni casi non ci sono elementi sufficienti per comprendere la complessità dei fenomeni, in altri l'intuito non basta. Credo che questi anni, che sembrano trascorrere rapidamente, quasi come se immagini accelerate venissero proiettate da una macchina in corsa che fa vivere giorni o mesi in pochi attimi, siano appunto segnati da un cambiamento di portata superiore, per impatto e dimensione, alla grande rivoluzione industriale.
Tutto ha avuto inizio quando, presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, è iniziata la seconda fase della sperimentazione delle comunicazioni nello spazio. La cosiddetta 'guerra stellare' non era altro che un sistema di cablaggio satellitare del pianeta: il digitale che diventava un progetto globale. La sperimentazione del digitale ha conosciuto una brusca accelerazione alla fine degli anni Ottanta, finché nel 1991 con la Guerra del Golfo si è avuta una messa a punto quasi definitiva dei controlli a distanza e delle loro varie ricadute commerciali, riguardo sia alla ricerca spaziale sia ai nuovi 'strumenti'. Dal punto di vista bellico, durante il conflitto, il perfezionamento di tali controlli a distanza, in base a informazioni che potevano essere date e ricevute da un luogo qualsiasi, ha rappresentato la possibilità di migliori adattamenti alla casualità e agli eventi imprevisti. Parallelamente è decollata l'informazione satellitare: la CNN mandava in onda le immagini dei missili lanciati e degli obiettivi colpiti quasi in tempo reale.
Si è così entrati definitivamente in un nuovo capitolo della nostra storia, del quale è caratteristica la perdita d'importanza del 'luogo' specifico. I luoghi dove per abitudine e comodità si esercitavano il controllo, il comando, la gestione - i termini che hanno sempre connotato i miti del potere - con la trasformazione informatica prima, digitale poi, hanno perso di interesse come centralità e hanno assunto configurazioni diverse. E si tratta appunto delle città, intese come luoghi fisici dove si potevano accumulare conoscenze e sviluppo economico.
Parallelamente alle grandi trasformazioni del pianeta in termini produttivi, si è determinata, negli ultimi venti anni, una costante crescita della popolazione urbana rispetto a quella che ancora abita in aree agricole o extraurbane. Oggi, circa tre miliardi di persone vivono in città (termine ormai quasi privo di significato) o, meglio, in grandi spazi urbani. L'internazionalizzazione delle grandi città prima, la globalizzazione più tardi, hanno cambiato i nostri gusti e i nostri modi di espressione. Anche il cinema, la letteratura, l'architettura iniziano a percepire le mutazioni in atto. Agli abitanti di una città si aggiungono poi, con una crescita esponenziale, i nuovi nomadi del turismo. In Francia, dove risiedono cinquantasei milioni di abitanti, sono stati censiti, per l'anno 2000, settantaquattro milioni di visitatori, in Italia (cinquantaquattro milioni di residenti) il numero di turisti è di circa cinquanta milioni. Cifre importanti che, unite al fenomeno dell'emigrazione e alla modificazione sostanziale e costante del nucleo originario delle città occidentali, hanno dato origine a nuovi modelli di città basati su un equilibrio precario. Il ricordo degli spazi urbani come li abbiamo conosciuti, almeno in Europa, è avvolto dalla nebbia e dalla velocità dei cambiamenti.
La città, per almeno due secoli, si è basata su una semplificazione sociale estrema: due classi antagoniste e un'altra a fare da bacino di compensazione, in modo tale da rendere possibile nell'immaginario collettivo il passaggio da una classe all'altra. Soprattutto negli Stati Uniti si pone il problema di dare senso politico alle mutazioni avvenute negli ultimi anni, ma è difficile per una società complessa trovare soluzioni semplici. Oggi, i luoghi nei quali si esercita il potere sono ormai altri da quelli dove il potere era centralizzato.
La città, che per buona parte del Novecento è stata scenario di una rappresentazione conflittuale, si arricchisce di relazioni intense e complesse ma perde quella centralità che le derivava da una posizione di 'rendita', propria della civiltà occidentale. Il forte scontro tra la vecchia economia (auto, armi, petrolio, industria) e la nuova (comunicazioni e sistemi di controllo) non passa più attraverso le città, alle quali non appartiene il fattore innovativo, che esula dalle competenze dei governi e dei partiti. Le istituzioni della società delle macchine, vecchie di duecento anni, sopravvissute ai grandi conflitti sociali e alle guerre, sembrano ormai residui privi di identità, alla difficile ricerca di un'identità nuova in scenari estremamente complessi e privi di mediazione. È fallito il sogno di dare nuovamente centralità alle città, che mai più potranno essere quelle che abbiamo conosciute: i luoghi in cui si esplicitano il potere e il controllo economico.
New York, per es., vive come centro di massimo accumulo e pieno controllo economico del mondo, ma i candidati presidenti hanno aspettato i risultati delle elezioni del 2000, uno a Nashville, in Tennessee, l'altro a Houston, in Texas. Nel frattempo a Los Angeles (circa 170 km per 40), vive una popolazione che parla in maggioranza spagnolo e la televisione nei suoi reportages dà assai poche informazioni su ciò che accade a Washington, sede delle istituzioni. Ma la città, persa la sua natura quasi fisica di centro di controllo, diviene nella sua mutazione altro ancora. Lo scontro in atto tra un'economia, che cerca di sopravvivere ai grandi cambiamenti e che ancora oggi è responsabile al 50% dei modi di produrre, e un'altra ormai in rapida crescita, ha una ricaduta pesante sui governi che perdono ogni controllo e prerogativa sul futuro. La domanda che moltissimi si pongono è: dando ormai per scontato che nei prossimi venti anni le aree urbane continueranno a crescere con un ritmo pari almeno a quello attuale, quale forma di democrazia riusciranno a esprimere? E, simmetricamente, in quali città vivremo?
Quale città, quali luoghi?
La città storica in Europa rappresenta ormai il ricordo di come abbiamo vissuto: densa nei centri storici, ricca di spazi per la nuova borghesia, estesa senza confini per gli altri ceti sociali. In centro, un sottoproletariato urbano, impresentabile alla nuova società industriale, via via emigrato oltre i confini del visibile, ha lasciato il posto a musei, a restauri, ai turisti che in un flusso ininterrotto diventano abitanti occasionali.
Nella capitale francese la vita si è estesa ben 12 km oltre il diametro massimo della Ville de Paris, e ad Amsterdam in misura ancora superiore rispetto al nucleo storico della città. In Olanda, quello che una volta si chiamava campagna ora non è altro che un continuo suburbio di case unifamiliari; un ring autostradale collega le tre grandi città, Amsterdam, L'Aia e Rotterdam, congestionato in ogni ora del giorno dalle auto che si spostano con esasperante lentezza. Londra insiste sui suoi principi di modernità: dopo anni di inascoltati appelli a un ritorno sacrale al passato, buona parte della città è stata oggetto di massicce opere di riqualificazione urbanistica che hanno portato a compimento un vecchio disegno iniziato agli albori degli anni Sessanta; si assiste a una volontà di contemporaneo talmente furiosa che a volte lascia interdetti. Megalopoli i cui limiti si perdono nella dimensione regionale, Londra sperimenta in modo definitivo l'integrazione con le popolazioni del suo ex Impero, ma anche con i numerosi immigranti dell'Europa dell'Est.
Anche nel continente asiatico, Bombay, Hong Kong o le grandi città cinesi, come Shanghai e Pechino, sono state investite con furia dalla velocità dei cambiamenti. Nel corso di queste trasformazioni si era creduto erroneamente che le aree sottosviluppate dovessero ripercorrere necessariamente, nel loro evolversi, tutte le tappe che storicamente avevano caratterizzato la crescita delle città occidentali. Non si era tenuto conto del fatto che la cultura e la tecnologia digitale e informatica permettono ad aree estremamente arretrate di passare direttamente dal sottosviluppo a un'economia avanzatissima, accorciando tempi e riducendo risorse.
In India, a Delhi, a Bombay, nella città nuova di Chandigar o nella turistica Jaipur, sono le università a costituire il vero valore aggiunto: se la città ha un polo educativo rilevante, assume immediatamente un ruolo di guida. È la prima volta, dai tempi dell'organizzazione aziendale sul modello tayloristico, che l'economia non si basa più sulla quantità dei pezzi prodotti, ma sulla 'materia grigia' presente nel processo di produzione e di innovazione. La crescita e la capacità di attrazione delle città dotate di centri di ricerca e di università dinamiche le trasforma in aree sperimentali, dove popolazioni e culture diverse sono unificate e rese omogenee dai nuovi strumenti.
È dalla rivoluzione industriale che l'uomo non si esprimeva così fecondamente in termini di nuove tecnologie. Gli attuali 'mezzi invisibili', però, non arricchiscono le città di monumenti, né la nuova economia viene celebrata con torri straordinarie
o complessi impressionanti, manifestazione concreta di potenza e di potere economico. Si tratta di strutture invisibili che usano la raffinata e quasi alchemica produzione di intelligenza artificiale come sistema di autocomunicazione e informazione. Le aree urbane sono ormai vedove del mito dei Van der Bilt o dei Rockefeller, le grandi famiglie che costruirono Manhattan. Gli architetti, e quindi le città, devono confrontarsi con un cliente invisibile. Infatti, l'accumulo di risorse non è più prerogativa di grandi mecenati, di poche personalità di spicco, ma è riconducibile a un più variegato universo di grandi investitori istituzionali (fondi di investimento, istituti di credito, fondazioni). La speranza di vita è cresciuta troppo per consentire certezze, e l'ansia che ne deriva scaturisce dalla consapevolezza di avere superato limiti non ancora conosciuti. La religione non ha più la presa necessaria a ricondurci alle logiche dell'esistente, di una vita in cui età e salute siano considerate fattori marginali. Perfino i funerali non occupano più le città: frettolosamente conclusi, si alternano alle nascite come prodotti di tecnologie desuete. L'origine e la fine, i luoghi di appartenenza, sono dimenticati, anzi cancellati dalla memoria. Ma tutto è talmente radicale da spazzare via ogni residuo modo di pensare 'nostalgico'.
Calcutta o Kuala Lumpur - la prima con un'area urbana regionale abitata da circa quarantaquattro milioni di persone, l'altra con almeno quattordici milioni di abitanti - rappresentano dimensioni estreme, ma anche nuovi modi di aggregazione e di produzione. Nel caso di Calcutta si tratta di forme quasi spontanee di aggregazione, a Kuala Lumpur, una città che cresce a ritmi vertiginosi, di forme di vicinato estranee alla gestione pubblica, dove la mobilità è praticamente impossibile. Le istituzioni pubbliche, inesistenti o prive di un ruolo di controllo, delegano al singolo l'integrazione dei diversi fattori che scaturiscono da una crescita così estrema. Tuttavia è proprio la complessità delle megalopoli a costituire la loro ragione di essere: è lì che esistono le occasioni di lavoro, mentre le aree periferiche e lontane dai grandi centri abitati hanno un tasso di sviluppo vicino allo zero.
La crescita dei nuovi sistemi di comunicazione ha generato l'impresa individuale, l''impresa molecola'. Singoli individui e frammentari gruppi o associazioni rappresentano un nuovo modello di società, non riducibile al segmento di una catena e quindi non aggregabile, mossa solo da specifici interessi di gruppo. La visione mediatrice dei partiti politici ne risulta fortemente ridimensionata. Il tentativo messo in atto dalla politica tradizionale di comprendere e orientare i bisogni di questi nuovi attori, è stato l'uso massiccio dei media. Tuttavia, la proliferazione dei mezzi di comunicazione e la tecnologia a basso costo di Internet, le piattaforme digitali, hanno diluito il potere di comunicazione e la sua efficacia. Si è tentata allora la strada dei sondaggi per comprendere meglio la complessità e i bisogni della società in mutazione, ma, dopo alcuni risultati, i sondaggi si sono rivelati contraddittori e destituiti di ogni valore. Ormai la velocità di scissione del sistema è tale che risulta impossibile dare conto di bisogni, interessi e desideri, frammentati e polverizzati.
Le aree urbane seguono in modo non previsto ma con sottile logica comportamenti anarchici e autonomi. Che Roma con i suoi 800.000 motorini assomigliasse a Bangkok, oppure che la periferia delle grandi aree urbane europee, disperata e di difficilissima gestione, fosse paragonabile, come sistema di sussistenza e forme di produzione, alle città del Sud-Est asiatico, una decina di anni fa sarebbe stato impensabile. I numeri non sono più la forma ma la sostanza dello sviluppo urbano, e ciò appare evidente ancora prima di analizzare come si modificano le diverse culture e i nuovi abitanti.
Una geometria senza limiti né confini in continuo divenire, ecco a che cosa assomiglia la città: un magma in cui si confondono differenze e appartenenze, pur lasciando una conflittualità permanente. Se non fosse per le dimensioni, potremmo pensare alle contrade dei Comuni, o all'antagonismo tra diversi centri nel passato. Quartieri e campanili, confrontati con nuove migrazioni e conquiste di territori urbani: la zona di Place d'Italie a Parigi è abitata in gran parte da asiatici, Little Italy a New York è stata ormai conquistata dalla comunità cinese, a Berlino un enorme quartiere è abitato dalla comunità turca.
Il magma della nuova città in divenire
La trasformazione urbana che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni non ha precedenti sia per la dimensione dei fenomeni sia per l'ampiezza delle aree interessate. Per chiarezza, va detto che l'aumento di popolazione ha investito principalmente le città del Sud-Est asiatico, in parte quelle del continente africano e dell'America Latina, senza dimenticare le città dell'Europa e dell'America settentrionale, con problematiche differenti ma con alcune patologie rilevanti.
I cambiamenti ai quali assistiamo sono in molti casi accompagnati da conflitti di vario genere - nuove e vecchie povertà, inquinamento, degrado, grandi flussi migratori, rifugiati -, ma anche da una grande energia, dalla moltiplicazione delle informazioni e da una nuova cultura in cui le differenti origini e i paesi di appartenenza si confondono, dando vita, in alcuni casi, a espressioni e vitalità straordinarie.
La complessità delle condizioni oggettive è testimonianza dell'accelerazione dei processi e sarebbe un grave errore cercare di fissarne i termini: nel momento in cui crediamo di averlo colto, il principio generale d'ordine immediatamente scompare come un miraggio. È invece più saggio contrapporre alle certezze di ieri i dubbi di oggi. Come convivere con la fine dei 'modelli' possibili? Gli ultimi tentativi di basarci su una materia facilmente organizzabile e ordinabile sono naufragati all'inizio degli anni Ottanta. Per la città si tratta sostanzialmente di accettare la fine del modello 'militare', che in numerosissimi casi è stato origine e avamposto della 'civiltà', linea di demarcazione tra città e campagna. Pensare di dare un ordine 'militare' a megalopoli che contano tra i dieci e i venti milioni di esseri umani è una follia. Cercare di trovare chiavi di lettura applicabili a regioni intere, di fatto urbanizzate, è come ridurre la complessità in frammenti di realtà che, seppur veri, non hanno logiche comuni.
Se le città di ieri erano identificate da emergenze urbane o topografiche, oggi la riconoscibilità fa ormai parte delle ultime nostalgie che stentano a morire. Il falso, la copia, sono migliori dell'originale. Si riproduce idealmente quello che è parte dell'immaginario: monumenti, parti di città, luoghi decontestualizzati. La città moderna è accompagnata, almeno da due secoli, dall'abbandono della campagna e dalla crescita lineare e non reversibile della popolazione urbana.
L'architettura autoreferenziale, con lo sguardo rivolto perennemente al passato, non ha più interesse: viviamo tutti in una borderline con sconfinamenti e incursioni continue. Il moto ondulatorio con il quale si può sintetizzare il nostro modo di procedere ha come costante la curiosità e le informazioni di universi lontani. Da una posizione critica, forse aristocratica, quasi da spettatori esterni a quel 'magma' di infinite relazioni e interferenze, stiamo cominciando a muoverci verso una 'materia' sconosciuta, piena di energia e contraddizioni. La scelta è dunque sempre la stessa: essere parte del processo di cambiamento, oppure continuare, in uno stato di perenne pacificazione, a vivere ai confini di esso. La rappresentazione di questo 'magma' è affascinante perché dà luogo a infinite possibilità che l'architettura coglie ed elabora in una varietà di strutture che sembrano quasi voler simulare la vita nei suoi più minuti frammenti e dettagli.
All'inizio del 21° secolo si ripropongono, in modo nuovo, gli interrogativi e le speranze del secolo precedente. Per le avanguardie, l'industrializzazione rappresentava il mito della velocità e del volo, ma anche la possibilità di emancipare un numero sempre maggiore di persone dalle necessità materiali e di riprodurre l'arte in innumerevoli esemplari, rendendola accessibile a grandi masse. Il risultato, tra guerre, conflitti, crisi economiche e intolleranza, è noto a tutti. Oggi, ancora una volta, con grande simmetria, si ripropone il quesito: l'informazione e le comunicazioni possono essere utilizzate, attraverso le nuove tecnologie, come ausilio che offra agli uomini opportunità maggiori, oppure tutto questo può essere manipolato a detrimento dei più? Io credo che esistano condizioni straordinarie e risorse mai messe in campo prima, si tratta solo di utilizzarle con attenzione e di indirizzare nel giusto verso le energie per iniziare a risolvere una buona parte delle contraddizioni e dei conflitti che si sono via via generati.
Per ogni città può prendere corpo, da un pulviscolo impalpabile, la favela oppure un centro di affari, uno shopping center o i quartieri della disperazione. Vicino allo stocking exchange, possono muoversi folle di marginalità estrema. Tutto ciò è bene esemplificato da Calcutta, megalopoli sterminata - dopo l'abbandono progressivo delle strutture pubbliche e dei servizi collettivi - che trova quasi una forma molecolare di vita, di organizzazione, di lavoro, di una piccola e minuziosa imprenditoria privata. Si tratta di modelli autonomi e anarchici dove la non appartenenza alla forma-Stato trova un naturale scenario nelle individualità e nelle energie che il sistema/non sistema sprigiona. Questo 'magma' nel quale si agita un nuovo tipo di vita e di organizzazione sociale, attraversa inesorabilmente tutte le società, le più ricche e le più povere, quelle tecnologicamente più avanzate e le più arretrate. Le contraddizioni insite sia nelle società avanzate sia in quelle più povere aprono faglie di ogni tipo: la tecnologia e le reti informatiche sono oggi estremamente più aggredibili e meno sofisticate di dieci anni fa. Gli hackers possono annidarsi ovunque, con strumenti semplici possono creare danni immensi, dimostrando, se ce ne fosse bisogno, la fragilità di un sistema che in alcuni casi è estremamente discriminante.
La crescita incontrollata nelle megalopoli del Terzo Mondo o nei paesi emergenti si accompagna al furore distruttivo di considerevoli porzioni del pianeta: il processo sembra sfuggito a ogni controllo e ormai inarrestabile. Se fossimo cinici potremmo con leggerezza affermare che la struttura anarchica di aggregazione delle favelas latino-americane sia molto più interessante di qualunque altro tentativo messo in atto dall'architettura sociale organizzata e programmata. Come in molte forme di costruzioni spontanee, anche in questo caso le relazioni e l'identità geografica fanno parte di un'idea di insediamento di grande umanità. Luoghi di disperazione e di 'non integrazione', accumulatori di energie, le aggregazioni dettate dall'illegalità comunicano necessità, istinto di sopravvivenza, bisogno individuale e collettivo di essere parte di una comunità. I drammi di profughi, rifugiati ed emarginati danno vita a vere e proprie città 'clandestine' ma visibili e fortemente radicate nel territorio, ufficialmente non riconosciute, ma di fatto laboratorio vivente di nuove relazioni.
La fine del modello unico, razionale, da introdurre come sistema ordinatore, altro non è che la fine della concezione 'militare' della città come luogo di difesa. Il modello militare urbano, con il piano e la pianificazione, non resiste all'energia di un 'magma' in costante mutazione. Qualunque struttura rigida salta in mille pezzi: sopravvive solo chi ha l'intelligenza di mettersi in gioco direttamente accettando il cambiamento e prendendovi parte.
Gli architetti cercano di trovare risposte di tre ordini: relativamente all'ambiente, come oggetto e soggetto di riflessione; al sociale, con la giusta attenzione alle trasformazioni attuali; al tecnologico (informazione, comunicazione, rete, virtuale). A questi se ne può aggiungere un quarto, che è la sintesi dei primi tre.
repertorio
La città attraverso il tempo
Dal villaggio neolitico alla città egiziana
L'etimologia della parola italiana città, dal latino civitas, ci fa risalire solo a uno dei due concetti fondamentali che tale parola racchiude. La città, infatti, può essere considerata e studiata o dal punto di vista materiale, archeologico, topografico e urbanistico, come sede di aggregazione umana, oppure, ed è questo il significato della parola latina, nella genesi e nello sviluppo dell'aggregazione stessa, quale fenomeno storico-giuridico, assurto in alcune civiltà (tipica quella greca) a nucleo caratteristico e fondamentale della vita sociale di quel periodo.
Molto lunga e complessa è la fase di sviluppo che porta le società neolitiche a trasformare l'ambiente nel quale vivono secondo un piano progettuale ben delineato: lo scopo non è più quello di accaparrarsi il cibo per la mera sussistenza, ma di produrlo in quantità che siano sufficienti per una stagione o più e per un numero sempre crescente di persone. Direttamente legate a tale progetto sono le problematiche di scelta dei terreni di coltivazione, di manifattura degli utensili necessari all'attività agricola e all'allevamento, di costruzione dei rifugi per gli uomini e gli animali, nonché di depositi per il cibo raccolto, e, ancora, quelle legate al culto religioso e alla difesa del territorio.
La città nasce dunque dall'evoluzione del villaggio neolitico, ma non è solo un villaggio di dimensioni maggiori, bensì un luogo dove il nuovo concetto della 'specializzazione' comincia a farsi strada e a radicarsi. Sempre partendo dal progetto iniziale della società neolitica, il prodotto totale, frutto del lavoro agricolo di molti, consente ad alcuni, che con il passare del tempo diventano sempre più numerosi, di vivere dell'eccedenza di quel prodotto, svolgendo attività altre dall'agricoltura, ossia specializzandosi in servizi e lavori di vario tipo che giovano all'agricoltura e alla società tutta consentendo a entrambe di evolversi. La specializzazione genera un inevitabile contrasto tra i due gruppi sociali, quello egemone che pianifica e controlla il lavoro e quello subalterno, contrasto proficuo e stimolante per lo sviluppo della città, che si verrà compiendo molto più velocemente rispetto allo sviluppo del villaggio.
La Mesopotamia.
I cambiamenti, che portano al costituirsi della città, nell'età dei metalli, e più precisamente in quella del bronzo, cominciano ad avere luogo già nel 4° millennio a.C., nelle grandi pianure alluvionali della Mesopotamia e nelle oasi lungo il corso del Nilo. È in quei luoghi che le scoperte archeologiche hanno consentito di ricostruire con notevole precisione le vicende urbanistiche e storiche di molte delle città più antiche costruite dall'uomo. Presso gli hittiti, all'epoca del loro massimo splendore, trova espressione una forma nuova di costruzione, la città circolare con le cinta murarie concentriche, di cui Zincirli, nell'estrema Siria settentrionale, è l'esempio più chiaro e più noto. La cinta di questa città, dotata di tre porte di accesso, mostra l'esistenza di un'acropoli centrale difesa da un muro che la separa dall'ambiente esterno; intorno a essa, in forma di cerchio perfetto, corrono due anelli concentrici di mura tra i quali passava un cammino di ronda. Sembra lecito supporre che l'andamento delle strade fosse radiante, dal centro alle porte della città. Presso i sumeri, non è solo la città, ormai popolata da decine di migliaia di abitanti, a essere controllata e protetta dall'intervento dell'uomo, divisa fra le proprietà dei cittadini e gli spazi dedicati al culto, alla difesa, e a svariate altre attività, ma anche la natura circostante viene fatta oggetto di interventi decisivi. La palude e il deserto lasciano il posto a campi irrigati, pascoli e frutteti. L'economia delle città mesopotamiche si accresce, benché trattenuta dai numerosi conflitti che dilagano tra le varie città-stato, sempre in procinto di aggredirsi per il possesso di una parte maggiore della fertile pianura irrigata dal Tigri e dall'Eufrate. È proprio in Mesopotamia che sorge una delle più antiche metropoli della storia: Babilonia, la città del re Hammurabi, fra le prime a instaurare un impero stabile. Le descrizioni di Erodoto e i dati archeologici indicano che, divisa in due parti disuguali dall'Eufrate, la città aveva pianta quadrangolare a scacchiera, con un perimetro di circa 8 km. Una doppia cinta di mura, munita di coppie di torri distanti circa 20 m l'una dall'altra, e un fossato navigabile, attraversato da ponti che conducevano alle porte principali, proteggevano la città. Questa era costruita con estrema regolarità geometrica, con strade dritte e della stessa larghezza che si tagliavano ad angolo retto, e una serie di recinti che separavano gli spazi aperti a tutti (i più esterni) da quelli riservati ai re e ai sacerdoti (i più interni).
L'Egitto
Molta incertezza avvolge invece la storia dell'urbanesimo egiziano, poiché il Nilo, con le sue piene annuali, ha cancellato gran parte degli insediamenti più antichi; persino le grandi città come Menfi e Tebe, rese individuabili solo da tombe, templi e monumenti in pietra, non sono state esplorate con criteri di studio urbanistico. D'altra parte, il fatto che la civiltà egizia fosse basata quasi completamente sull'organizzazione religiosa, dove enorme rilievo veniva dato alla vita dell'aldilà, faceva sì che gli egizi profondessero i loro sforzi maggiori nell'edificazione delle necropoli che, diversamente dalle città dei vivi, dovevano avere vita eterna. Nella storia dell'Egitto, almeno fino al 2° millennio a.C., vi è, infatti, piuttosto un contrasto che un legame tra la città dei vivi e quella dei morti: la prima, tutta costruita in mattoni, quasi a sottolinearne la caducità, disseminata di accampamenti provvisori dove abitano gli operai addetti all'edificazione delle piramidi; la seconda costruita in pietra, non logorabile dal tempo, dove riposano i morti, muniti del loro corredo, e circondati dai monumenti: piramidi, obelischi e gigantesche sfingi. Ne è un esempio significativo la necropoli dell'antica Menfi, a 8 km da Giza (attualmente compresa nell'agglomerato urbano del Cairo, sulla riva sinistra del Nilo), con i templi funerari e le piramidi di Cheope, la maggiore di tutte, alta ora 136 m, di Chefren e di Micerino, risalenti alla metà del 3° millennio a.C. Tuttavia, nell'urbanistica egizia si possono distinguere due grandi classi di città, quelle di formazione 'ad accrescimento' e quelle create ex novo e secondo un piano determinato. Al primo gruppo appartengono le grandi capitali come Tebe, dove il monarca decide la costituzione di un nuovo quartiere residenziale fuori dell'antica città, alla distanza di 3 o 4 km. Il nuovo palazzo reale, circondato da abitazioni di dignitari, da templi e da edifici pubblici, diventa il centro di una nuova città accanto all'antica, e la distanza tra le due è via via colmata con abitazioni. Al gruppo delle città create ex novo appartengono quelle dotate di franchigie e agevolazioni fiscali, destinate a essere popolate da abitanti chiamati da altre regioni.
Riguardo alla planimetria, si rileva una notevole differenza tra le grandi arterie principali, le vie processionali, adatte per lunghezza e larghezza alle solenni cerimonie delle incoronazioni, dei trionfi e delle processioni religiose, e le vie laterali che vi si immettono. Le vie processionali, larghissime, orientate da nord-est a sud-ovest lungo il corso del Nilo, conducono sotto la guardia di innumerevoli sfingi, agli accessi dei templi e dei palazzi e arrivano a misurare 45 m di larghezza, come quella 'del Gran Sacerdote' (15° secolo a.C.) a Ekhut-Aton - ora Tell el-Amarnah -, nell'Alto Egitto. Le vie processionali sono intersecate ad angolo retto da un numero di vie secondarie di sezione da 1,50 a 10 m.
Kahun, nel Fayyum, è un esempio molto efficace di città delle piramidi. Fondata da Sesostri II della XII dinastia (2500 a.C.), ha un piano rettangolare, esattamente orientato a nord, traversato da est a ovest da una strada principale che conduce all'acropoli e sulla quale sboccano, perpendicolari, le strade secondarie nord-sud. Consta di un gruppo di case con molti ambienti (harem e stanze di servizio, magazzini, grande corte e altri ambienti minori). Una muraglia divide questo quartiere signorile da quello operaio, tutto recintato, con casette in serie, di tre o quattro ambienti, affiancate lungo stradette parallele. Gli elementi decorativi scultori dei viali di sfingi, l'alberatura dei grandi viali e i quartieri residenziali, ricchi di giardini privati, rivelano come la città egizia, basata quasi esclusivamente sull'organizzazione religiosa, avesse tre caratteristiche fondamentali: la specializzazione dei quartieri, l'esattezza dell'orientamento e il predominio del piano a scacchiera.
La città greca
La parola greca polis racchiude ambedue i concetti che confluiscono nell'italiano "città": non indica, infatti, soltanto l'insieme fisico degli edifici e delle aree, disposti secondo un piano più o meno organico, ma anche la comunità di uomini liberi, militarmente e politicamente organizzata per il raggiungimento di scopi comuni, che vi risiede. I due significati non sono, peraltro, indipendenti l'uno dall'altro perché la polis in senso materiale rappresenta per i greci dell'età classica il centro della vita economica, politica e sacrale di una comunità rigidamente chiusa in sé stessa. Solo chi appartiene alla comunità ha diritto di abitarvi, di trafficare nell'agorà, centro della polis, e di entrare negli edifici pubblici o frequentare i luoghi sacri. Il forestiero, invece, è escluso dalla città o tollerato purché paghi una tassa, in segno di inferiorità, diversa a seconda che valga per il diritto di residenza stabile o per quello di trafficare nell'agorà. Il cittadino decaduto dai diritti non ha la possibilità di accedere né all'agorà, né ai luoghi sacri.
I due significati di polis non sono, tuttavia, necessariamente connessi, poiché l'organizzazione politica dei cittadini, chiamata appunto polis nell'età classica, preesiste al periodo nel quale i greci iniziano a raggrupparsi in città. Per noi moderni, un'organizzazione di uomini che non abbia come base un territorio ben delimitato non costituisce uno Stato, mentre per i greci è l'organizzazione politica dei consociati a rendere possibile la nozione di Stato.
L'urbanistica greca
Le città della Grecia o ebbero origine spontanea, grazie a favorevoli condizioni del luogo, oppure sorsero per un atto di volontà. Esempi della prima categoria si possono riscontrare nella Grecia propria, e si tratta spesso di città formatesi sopra più antichi centri dell'età micenea, come Atene, Megara, Argo, Corinto, Tebe, Sparta. Alla seconda categoria appartengono le colonie fondate dall'8° secolo in poi e anche le città formatesi per via di sinecismo, ossia per la riunione di piccoli abitati. Dall'esame diretto delle rovine delle città greche risulta che la loro struttura era molto complessa e varia e che attraverso i secoli subì notevoli e sostanziali cambiamenti. All'8° e al 7° secolo a.C., al periodo cioè delle crescenti relazioni commerciali con l'Oriente, risalgono le prime vere formazioni di città greche, la struttura delle quali è ancora affine a quella delle città cretesi-micenee, con la configurazione tipica della città aperta, sia che si trovi sopra un piccolo piano sopraelevato, sia che giaccia ai piedi di un'acropoli. Le rovine dei quartieri abitati di Delo e i santuari delle città sacre di Delfi e di Olimpia, molto simili nell'aspetto generale alle città abitate, testimoniano come nel periodo arcaico il reticolato stradale fosse irregolarissimo. Le case di abitazione, tutte dello stesso tipo, di uguali proporzioni e struttura, diverse solo per la grandezza, ma tendenzialmente di piccole dimensioni, erano densamente aggruppate e concentrate soprattutto intorno all'acropoli e all'agorà. Attorno a quest'ultima si raccolgono i templi e gli edifici pubblici più importanti, come il Buleuterio (adibito alle riunioni del Consiglio cittadino) e il Pritaneo (dove si trovava l'altare dedicato alla dea Estia con il fuoco perenne al quale si attingeva per gli altri altari e su cui si facevano i sacrifici comuni).
L'urbanistica greca di età classica si orienta verso un'utilizzazione più razionale degli spazi della città, la cui struttura comincia a essere progettata in rapporto alle diverse funzioni (politica, religiosa, economica ecc.) che si devono espletare al suo interno. All'irregolarità primitiva succede il gusto per una regolarità quasi geometrica, con tracciato stradale a scacchiera e una suddivisione delle diverse zone urbane dedicate alle varie attività. Questa innovazione appare certamente prima nell'Asia Minore che nella Grecia propria. A essa si associa il nome di Ippodamo di Mileto, il quale, pur non essendo stato l'inventore del sistema, non si limitò ad applicarlo nel corso della sua professione di architetto, ma espose per iscritto ed elaborò in modo sistematico le sue idee sull'organizzazione delle città, con planimetrie regolari, sistemazioni a terrazze quando il terreno fosse scosceso e suddivisione armonica delle vie. Sembra certo che Ippodamo intervenne nell'assetto urbanistico del Pireo e di Turi, centri che danno un'idea di quale fosse il tracciato planimetrico secondo quel sistema (reticolato stradale a scacchiera con vie intersecantisi ad angolo retto), reso ancor più chiaro dalle rovine di Mileto.
Sulla fine del 6° secolo e nel corso del 5° cominciano ad apparire le mura di cinta, che non costituiscono però un elemento essenziale dell'urbanistica classica. Nella Grecia propria, oltre Atene, erano assai poche le città murate, e Sparta ne rimase priva fino all'età romana. Anche quando sono presenti, inoltre, le mura non formano un tutto organico con la struttura delle città, nelle quali rimane sempre la tendenza a raccogliersi nel centro, dove sono riuniti gli edifici pubblici più importanti. Nell'età ellenistica l'uso delle mura di cinta, invece, è quasi generalizzato e comincia ad apparire la via porticata, nuovo elemento che durante l'età romana assumerà un'importanza straordinaria dal punto di vista dell'estetica edilizia. Erano le vie principali che venivano dotate di portici ed esse generalmente facevano capo a una porta o a un altro edificio monumentale. In sintesi, la città greca diventa modello universale da emulare sia per quell'elemento di unità che la distingue dalla città orientale, ma che non le preclude un'oculata articolazione in aree private, sacre e pubbliche, sia per l'equilibrio che riesce a mantenere con la natura circostante in cui si va rispettosamente a inserire, sia infine per quel limite di crescita autoimposto grazie al quale l'aumento della popolazione non dà luogo all'espansione della città, ma all'aggiunta di un nuovo organismo o alla formazione di una colonia in un altro paese.
La città etrusca
Se l'Italia meridionale e la Sicilia avevano fortemente risentito dell'influenza della civiltà greca, al centro e al Nord della penisola, lungo le coste tirreniche fra l'Arno e il Tevere, è la civiltà etrusca a emergere fin dal 9° secolo a.C. Fra le popolazioni italiche, gli etruschi furono i primi fondatori di vere e proprie città, applicando uno specifico rito di fondazione, che verrà successivamente usato anche dai romani. Le città dell'Etruria propria sono generalmente edificate sopra alture, spesso artificialmente spianate e difese da due corsi d'acqua confluenti. Tranne Populonia, nessuna sorge in immediata vicinanza del mare, ma alcune in vista di esso, in modo da sorvegliare la costa e le valli dell'interno. Le mura di cinta sono di vario tipo: le più caratteristiche sono quelle poligonali, dette anche ciclopiche, costruite con massi irregolarmente squadrati e che pure combaciano perfettamente (Saturnia, Santa Severa, Ansedonia). Teoricamente di pianta quadrangolare, regolarmente suddivisa, in realtà le città dell'Etruria propria si adattano alla natura del suolo che non sempre consente una pianta regolare. A Vetulonia, per es., sono state rinvenute strade irregolari, anguste, variamente intersecate, simili a quelle delle città pre-elleniche; nella strada principale esiste da una parte un marciapiede di lastre di pietra largo 60 cm, sotto il quale scorre una fogna. A Marzabotto, invece, nel basso Appennino Emiliano, lungo la valle del Reno, sono stati messi in luce (nelle campagne di scavo del 1862 e del 1883-89) i resti di una città etrusca il cui nome antico era forse Misa, costruita in terreno pianeggiante con una pianta regolare. Fondata verso il 500 a.C., distrutta dall'invasione dei galli del 4° secolo a.C. e mai più risorta, Misa consente di ricostruire con esattezza l'impianto di una città nata secondo un preciso progetto urbanistico. Una strada larga ben 15 m forma il cardine, intersecata ad angolo retto da due o tre strade decumane della stessa larghezza. Cardini minori, paralleli, larghi 5 m, intersecano le vie decumane a intervalli di 35, 40, 68 m, formando un reticolato di strade e dividendo la città in insulae di abitazioni lunghe 165 m. Alla periferia sono collocate le necropoli, con sepolcri a cassa di travertino, per l'inumazione e la cremazione, segnalati alla superficie da cippi, spesso a forma di pigna.
La città romana
Dagli etruschi, i latini ripresero, come si è detto, il rito di fondazione delle città, comprendente la loro rigorosa limitazione dal territorio circostante mediante il solco scavato con l'aratro attorno all'area urbana. Con il sistema della limitazione mediante il solco (urvus, da cui urbs) sorse anche Roma, la città destinata a diventare capitale di un immenso impero, e che in origine era soltanto il centro fortificato delle stazioni latine sorte su quel gruppo di colli, che si elevano sulla riva sinistra del Tevere, poco a sud della confluenza con l'Aniene. La Roma primitiva era la città del Palatino, la Roma Quadrata, esattamente delimitata dalla linea ideale (il pomerio) che circondava il colle alla radice. In origine, misurava approssimativamente 16 ha e poi, con sviluppi successivi, si andò ampliando fino a includere, all'epoca di Servio Tullio, i sette colli, all'interno della cinta muraria, per un totale di 427 ha, di cui forse soltanto i due terzi abitati. Nella seconda metà del 5° secolo a.C., la popolazione complessiva della città doveva ammontare a 20-25.000 abitanti, una cifra di molto superiore alla media delle città latine. La popolazione urbana continuò a crescere a ritmi molto elevati, tanto che all'epoca di Silla (primi decenni del 1° secolo a. C.) si contavano 400.000 abitanti distribuiti nei vari quartieri, distinti per censo e classi (l'Aventino, già dalla metà del 5° secolo, era assegnato ai plebei, mentre il Palatino con le sue abitazioni lussuose era diventato il quartiere residenziale dei nobili). Alla metà del 1° secolo a.C. risale il primo sistematico tentativo di dare una organizzazione più razionale all'ormai vastissima città di Roma, con gli audaci progetti (la sistemazione del Campo Marzio, in parte ancora da bonificare) e la promulgazione di leggi (Lex de Urbe augenda del 45 a.C.) da parte di Giulio Cesare.
Roma imperiale. - Con la nascita dell'Impero gli interventi edilizi divennero molto più frequenti e sostanziali, tanto che intere parti della città vennero trasformate. Sotto Augusto la città venne suddivisa in regioni, con un'efficiente regolamentazione dei servizi pubblici. L'incendio del 64 d.C., che distrusse dieci delle quattordici regioni augustee e rase al suolo interi quartieri tra i più congestionati, arrestò la crescita disordinata che da tempo affliggeva Roma. Nerone ebbe così la possibilità di ricostruire in modo molto più razionale la città, secondo un piano urbanistico funzionale. Ma egli realizzò solo in parte il progetto originario, distratto prima dall'esigenza di trovare un alloggio ai senza tetto, poi dai forti interessi della speculazione fondiaria e infine dalla costruzione della Domus Aurea, l'immensa dimora che si fece erigere tra il Palatino, il Celio e l'Esquilino.
Gli imperatori Flavi proseguirono il rinnovamento urbano iniziato da Nerone: Vespasiano fece distruggere la Domus Aurea, destinando a uso pubblico gran parte dell'area su cui era edificata, e costruì il Colosseo; Domiziano ampliò il palazzo sul Palatino e sistemò il Campo Marzio; Traiano realizzò una notevolissima opera di architettura facendo demolire la sella tra il Quirinale e il Campidoglio, che separava i Fori dal Campo Marzio, per collocare nell'area così ricavata il complesso del Foro Traianeo, cui fu annesso un nuovo quartiere commerciale, i Mercati Traianei, sulle pendici del Quirinale; Adriano fece ricostruire il Pantheon, progettò egli stesso, di fronte al Colosseo, il Tempio di Venere e Roma e fece erigere sulla sponda destra del Tevere il suo mausoleo (Castel Sant'Angelo). Questo già ricco quadro edilizio e monumentale fu ulteriormente consolidato e ampliato dagli imperatori Severi con le Terme di Caracalla, il ponte Aurelio sul Tevere (all'altezza dell'attuale ponte Sisto) e molti altri edifici. Nel 3° secolo d.C. l'attività edilizia nella città cominciò a diminuire. In un clima di instabilità politica, nel 271, si diede inizio alla costruzione di una nuova cinta muraria di quasi 19 km (Mura Aureliane), provvista di quindici porte. Importanti furono ancora l'intervento di Diocleziano con le sue terme tra il Quirinale e il Viminale e, poi, quello di Costantino, seppure in un clima ormai di decadenza non solo urbana, con l'edificazione dell'arco di trionfo, delle terme, della basilica e delle prime chiese cristiane.
L'urbanistica romana
Le città conquistate nella loro espansione dai romani e quelle da loro fondate cercarono di assomigliare all'Urbe in ogni modo. Il governo romano fu generoso nel dotarle di tutte le comodità pubbliche che lo sviluppo della civiltà e dell'Impero richiedevano: il Foro e gli edifici a esso generalmente connessi (un tempio, una curia, una tribuna per gli oratori e soprattutto la basilica, che fungeva sia da luogo nel quale si amministrava la giustizia, sia da luogo di incontro per riunioni e affari e che diventerà modello da emulare nella costruzione delle prime chiese cristiane), terme, fontane e cloache, oltre a opere che, pur servendo la città, si estendevano necessariamente fuori del suo perimetro e del suo territorio, come vie, ponti e acquedotti.
Nell'ambito dell'edilizia e dell'urbanistica romana vanno distinti quattro casi principali: 1) la romanizzazione di una città italica di civiltà risalente a età più remota; 2) quella di una città greca d'Italia; 3) quella di una città della Grecia o delle provincie orientali; 4) la fondazione di una nuova città. Nel primo gruppo rientra Pompei, la cui romanizzazione si rivela soprattutto nell'introduzione dell'opera laterizio-cementizia, nella costruzione degli edifici destinati all'amministrazione della colonia, a sud del Foro, nei miglioramenti all'acquedotto e ai suoi serbatoi, nell'edificazione di grandi terme e soprattutto nell'innalzamento di archi trionfali per l'ingresso solenne al Foro dalla parte nord, ai lati del Tempio di Giove.
Napoli è invece un esempio tipico della trasformazione edilizia di una città greca d'Italia. Dalle molte ricerche condotte risulta che in età romana si aggiunsero nuovi quartieri fuori della città greca che aveva pianta regolare, pressoché quadrata.
Nelle città della Grecia e dell'Oriente, i romani usarono in parte i sistemi applicati alla romanizzazione di Napoli, preferibilmente quello delle aggiunte e della costruzione di edifici pubblici, come terme o basiliche, nelle parti nuove o in spazi lasciati liberi. Gli edifici precedenti vennero ristrutturati per adattarli alle nuove esigenze, e mai rifatti ex novo. Le vie delle città orientali, specie siriache, vennero dotate di superbi colonnati, necessari, in un clima molto caldo, come riparo dal sole. Esempi di questo tipo di romanizzazione sono la nuova Atene di Adriano con la sua porta e il completamento dell'Olympeion dell'architetto Cossuzio, e, nell'Asia Minore, Pergamo, Mileto, Asso, Termesso.
Nella fondazione di nuove città, i romani rimasero fedeli allo schema ereditato dagli etruschi, fissandone le regole in una formula universale (la forma a scacchiera regolare con la sola possibile variazione della dimensione dei lotti) rimasta inalterata attraverso i secoli in tutto l'Impero, nonostante la varietà di condizioni climatiche, che avrebbe richiesto soluzioni urbanistiche differenziate. Tale semplificazione fu dettata in un primo momento da motivi religiosi e poi da ragioni pratiche e politiche. Quasi tutte le creazioni urbane furono opera di militari, sia nel caso delle fondazioni coloniali, sia in quello degli accampamenti di legioni. Alcuni esempi in Italia sono Aosta, Torino, Firenze, Lucca; in Germania Augusta; in Britannia Silchester.
La città medievale
A eccezione delle città romane dell'Asia Minore, dove l'Oriente influenza la creazione urbana svincolandola dalla rigidità tipica del sistema ortogonale, l'urbanesimo romano chiude il suo ciclo continuando a imporre sempre il tipo geometrico elementare della città a scacchiera. Le invasioni dei barbari, in Europa, ebbero l'effetto di cambiare la concezione urbanistica romana, determinando il passaggio dal piano ortogonale quadrangolare a quello radiocentrico. A influenzare l'urbanistica del primo Medioevo non fu soltanto l'esempio degli invasori; un ruolo importante ebbero anche le nuove condizioni di vita e gli ordinamenti. Si vennero così a distinguere tre tipologie principali: città sviluppatesi su città romane, città a formazione spontanea, città create secondo un piano.
L'urbanistica medievale. - Molte città romane, prive di fortificazioni, costruite in pianura e in pessime condizioni di difesa, non sopravvissero alle invasioni dei primi secoli e alle nuove condizioni di vita. Molte altre invece, come Lucca, Aosta, Torino, Sorrento, Strasburgo, Leichester ecc., erano ancora abitate nel Medioevo e mantenevano l'ossatura generale romana, ancora oggi riconoscibile. In tutte queste città si ebbe dapprima una fase di contrazione generale della popolazione, che si concentrò in piccoli settori dell'area urbana; successivamente, si verificarono una fase di insediamenti esterni alla cinta delle mura, con la formazione di sobborghi intorno a mercati o ad abbazie e infine, dopo il 13° secolo, una fase di espansione della città stessa verso l'esterno, con l'ampliamento della cerchia muraria e l'inclusione dei sobborghi. In tal modo, le città conservavano il nucleo centrale con ordinamento stradale romano a scacchiera, mentre i sobborghi presentavano l'andamento raggiante delle antiche strade campestri che portavano alle porte. Ne è un esempio molto chiaro Bologna.
Le città che si sono formate spontaneamente non risultano di immediata e semplice individuazione: sorte di frequente intorno a nodi stradali importanti, presso antichi ponti sui fiumi, o nei pressi di santuari, abbazie e castelli, presentano in molti casi uno schema di sviluppo a scacchiera.
Le città create secondo un piano sono successive al 12° secolo, quando ha inizio un'attività edilizia molto intensa, a testimonianza di nuove condizioni di prosperità, civiltà e sicurezza. I grandi vassalli e i grandi signori, spinti da motivazioni economiche per lo sfruttamento delle loro terre, nonché da interessi politici, fondano nuove città. In Italia sono soprattutto i monaci che, accentrando nelle proprie mani poteri spirituali, culturali e temporali, riuniscono i coloni in borgate per la coltivazione delle terre e, nel caso di alcune abbazie, come quella di Montecassino o di Farfa, si arricchiscono di territori così estesi da costituire veri e propri Stati, dei quali l'abate è il signore. In Francia, oltre alle creazioni monastiche e arcivescovili, è soprattutto la lotta con l'Inghilterra a spingere i monarchi dei due paesi a gareggiare nella fondazione di nuove città.
Lo schema radiocentrico sembra rispondere allo spirito politico del feudalismo e della signoria molto più dell'antico sistema a scacchiera. In quest'ultimo, infatti, non vi è subordinazione di una parte all'altra, ma tutti i lotti sono intercambiabili; nel sistema radiocentrico, invece, i lotti, equidistanti dal punto centrale, sono subordinati a questo.
La specializzazione
Nel Medioevo la città comincia ad assumere un assetto moderno con il cosiddetto zoning, ovverosia la specializzazione delle diverse strutture urbane, ciascuna delle quali assume una sua funzione specifica. Così le piazze, riscontrabili in quasi tutte le città italiane (Padova, San Gimignano, Siena), possono essere di tre tipi: la piazza civile, con il palazzo civico, la piazza religiosa, ove sorge la cattedrale, e la piazza del mercato, destinata al commercio. Si tratta di un sistema urbanistico logico e coordinato, per cui, all'interno della città, le piazze vengono distribuite in modo da essere collegate tra loro, in un rapporto armonico con le strade confluenti verso di esse. La piazza è forse il luogo emblematico dello spirito medievale: è l'elemento unificante, dove la popolazione si raccoglie per manifestazioni religiose, civili e altre ancora. Anche i quartieri possono specializzarsi, per es. da un punto di vista etnico oppure professionale. Così alcuni quartieri sono abitati esclusivamente da mercanti greci, turchi, toscani, ebrei (il 'ghetto' ebraico, che prende il nome da una contrada di Venezia, soprattutto in Germania e in Italia, fu spesso costituito da un quartiere speciale e a reclusione assoluta con porte e mura). In altri casi la differenziazione dei quartieri deriva dai mestieri e dalle arti dei loro abitanti (a Roma, via dei Chiavari, dei Sediari; a Tolosa, Parigi o Padova un vero e proprio quartiere universitario). Infine, soprattutto in molte città nuove, si insediano quartieri residenziali con strade a cul-de-sac e distribuite in modo da essere sottratte alla grande circolazione.
Infine ci sono le mura, ancora un elemento importante per la città medievale che, al di là del carattere dinamico, creativo, un po' irregolare e pittoresco che sicuramente assume, è pur sempre un organismo chiuso in sé stesso, bisognoso di protezioni e di confini chiari.
La città nel Rinascimento
Mentre nel Medioevo l'urbanistica sembra avere una matrice universale che, con l'applicazione di principi generali compresi e accettati da tutti, porta alla fondazione di numerosissime città, nel Rinascimento prevale invece una maggiore speculazione teorica. Diviene prevalente la ricerca di un metodo, di norme scientifiche e di regole astratte. In quest'epoca si affermano dunque i teorici dell'urbanesimo e dell'architettura, animati da un'esigenza quasi spirituale di ragionare sulla città in termini sia di calcoli e proporzioni matematiche (la ratio matematica), sia di estetica.
Solo in Germania, per tutto il Quattrocento, continuano a sorgere nuove città, mentre in tutti gli altri paesi si chiude l'era delle fondazioni; alcune città medievali si rassegnano a rimanere piccoli borghi rurali o militari, mentre altre si trasformano e si sviluppano. Dopo la grave crisi demografica verificatasi a partire dalla metà del 14° secolo, l'urbanesimo riprende vigore nella fase di nuova espansione economica che l'Europa conosce nel 16° secolo. È questa l'epoca che corrisponde al massimo splendore delle corti principesche, che si pongono in gara tra loro nel rendere più comode e più belle le loro capitali: epoca dunque di grande trasformazione edilizia. L'introduzione delle armi da fuoco impone d'altra parte la sostituzione della semplice cinta muraria medievale con la cortina bastionata: di qui la nuova forma stellare del perimetro delle mura e la tendenza al contorno poligonale regolare, che risulta più efficace per difendere ogni punto della città.
La città ideale
Necessità pratica e tecnica di difesa, contrapposta al nuovo senso, cosciente e ragionato, della massa e delle proporzioni: queste, le due posizioni tra cui si dibatte l'urbanistica rinascimentale nel tentativo, faticosamente operato da alcuni grandi artisti, di trovare un'unità e una sintesi. Il miraggio è la 'città ideale', di cui, nel 1460, Antonio Averlino detto il Filarete, il più fantasioso architetto italiano del Rinascimento, riesce a dare una prima rappresentazione grafica, con uno schema di città a contorno stellare, nel centro della quale si accenna a un sistema di piazze quadrangolari con canali e colonnati. Già Leon Battista Alberti aveva compiuto studi ed elaborato norme per il tracciato delle strade e delle piazze, destinate ad avere molta influenza sui contemporanei. Sicuramente, i suoi consigli riguardo alla definizione del programma edilizio e alla scelta dei progettisti ebbero grande peso sulle decisioni di papa Pio II Piccolomini, quando nel 1459 intraprese la ricostruzione del suo borgo nativo, Corsignano (nella provincia di Siena, su un'altura del Bacino dell'Orcia), dandole poi il nome di Pienza. Qui si realizza felicemente una combinazione unitaria fra antico e nuovo, in un'organizzazione gerarchica intorno alla chiesa e al palazzo papale. Pienza si sviluppa tutta su un'unica strada, a tracciato leggermente curvilineo, sulla quale gravitano le strade laterali. Al centro della città si colloca la mirabile composizione della piazza principale, di pianta quadrangolare, con la cattedrale sullo sfondo e i grandi palazzi sui lati. L'inclinazione dei due edifici laterali alla chiesa, talmente accentuata da consentire al fondo monumentale di prevalere in modo quasi esclusivo, anticipa la composizione della piazza del Campidoglio a Roma, realizzata da Michelangelo. Gli edifici principali si distinguono da quelli secondari non perché più grandi, ma per una maggiore regolarità e per la più accentuata cura dei particolari.
Francesco di Giorgio Martini, influenzato notevolmente dal Filarete, riuscì a portarne le impostazioni teoriche verso una più compiuta attuazione pratica. I suoi studi giunsero a fissare tre principali tipi di città: 1) il tipo centrale a perimetro ottagonale, in cui realizza una perfetta rispondenza tra interno della città e perimetro esterno; 2) il tipo di città su di un'altura, ispirato alle letture di Platone; 3) il tipo ortogonale a scacchiera, in cui viene riproposta la città a scacchiera, ma non più in termini astratti, bensì tenendo conto di elementi di fatto come fiumi, porti di mare, ponti, fortezze.
I due poli tra cui i teorici del Rinascimento si sono dibattuti sono quello ortogonale, che ha sicuramente trovato realizzazioni più numerose (Terra del Sole 1565, Gattinara 1682, Cervia 1698, Ferrara ai primi del Cinquecento ecc.), e quello radiale, che ha dato luogo soprattutto a parziali sistemazioni di quartieri, piazze ed edifici, di cui un esempio è, a Roma, la sistemazione a tre strade raggianti nel tracciato di Sisto IV con partenza dal ponte Sant'Angelo. Tipica dell'epoca è comunque la tendenza allo smantellamento del tessuto tortuoso, proprio della città medievale, a favore di tracciati stradali rettilinei e regolari, con una costante predilezione per gli effetti prospettici di forte impatto ornativo e scenografico.
Ma intanto ragioni pratiche di trasformazione sociale, quali l'aumento del traffico dei veicoli con la necessità di vie più larghe e più comode, il sorgere di grandi palazzi con l'esigenza di piazze su cui affacciarsi, l'estensione di nuovi quartieri dotati di servizi igienici più idonei, di ospedali, scuole e teatri, impongono alla città una nuova impronta razionale di ordine e disciplina che abbraccia non solo l'edilizia ma tutti gli aspetti della vita urbana. In questa stessa ottica di una spiccata tendenza alla razionalizzazione si muovono le soluzioni urbanistiche del 17° e del 18° secolo.
La città nell'Ottocento
L'industria e la ferrovia sono i due fattori che producono una vera e propria rivoluzione nell'edilizia dell'Ottocento. L'industria attira le masse verso la città, provocando un vertiginoso addensamento di popolazione, e le ferrovie accorciano le distanze e i tempi di percorrenza, facilitando gli spostamenti e alimentando il commercio. La città non può vivere chiusa in sé stessa, ma partecipa alla vita della nazione intera con ritmi sempre più celeri; con il crescere delle funzioni manifatturiere e mercantili e dei servizi economici e sociali, vede trasformarsi radicalmente la sua struttura amministrativa e la sua vita quotidiana. Sotto l'incalzare sempre crescente delle nuove invenzioni meccaniche, industriali, tecniche e scientifiche, le città ingigantiscono: Berlino, Parigi e Londra, le tre grandi metropoli europee, vedono decuplicare la loro popolazione nel giro di un ventennio. Nell'Ottocento, cause apparentemente insignificanti, come la scoperta di una miniera o l'apertura di una ferrovia, provocano effetti colossali che fanno sorgere e crescere rapidissimamente città immense. Negli Stati Uniti, Detroit, che nel 1812 era un paese di 2227 abitanti, con l'apertura delle grandi linee ferroviarie diventa una città di 995.000 abitanti; New York passa da 33.000 abitanti nel 1800 a 6.000.000 nel 1920.
L'urbanistica non riesce a prevedere e a controllare la crescita delle città, e il tentativo di mantenere in vita gli antichi nuclei e le reti stradali, ormai risalenti al Medioevo, non funziona rispetto alle nuove esigenze urbane. L'edilizia antica era tutta incentrata sull'ambiente architettonico, che nell'Ottocento non è più compreso. È questa l'epoca in cui si isolano le belle cattedrali francesi, si distrugge il sagrato del Duomo di Milano, trasformandolo in un'enorme piazza rettangolare, si rade al suolo il Mercato Vecchio di Firenze per farvi una piazza simmetrica, si costruiscono appartamenti che si sovrappongono gli uni agli atri, bui e angusti. Lo sviluppo edilizio è vertiginoso, ma ai tipi architettonici dei tempi nuovi non si riesce a far corrispondere un'urbanistica adatta e, per semplicità, si assume come modello di modernità la scacchiera elementare della città americana. Nel corso dell'Ottocento si situano tuttavia due soluzioni urbanistiche che spiccano per ampiezza di impianto. La prima è la realizzazione, a Vienna, del Ring (1857), intorno a cui vennero a disporsi i poli di maggiore attrazione della città, dai musei all'opera, al municipio, ai ministeri ecc. L'altra è la trasformazione di Parigi, sotto Napoleone III, voluta dal barone G.-E. Hausmannn, che mise in atto un innovativo piano urbanistico realizzando i primi boulevards (per facilitare il traffico, sempre più intenso, vennero creati tre anelli stradali di grande ampiezza: Grands Boulevards, Boulevards Externes e Boulevards Militaires).
La città del Novecento
Nel Novecento, la prosecuzione del processo di urbanizzazione appare sempre più legata da un lato all'espansione del terziario, dall'altro alla fortissima attrazione esercitata dal modello urbano di vita. I problemi del traffico interno assumono un'importanza predominante, per l'aumentato movimento dei mezzi di trasporto urbani, pubblici e privati. Da ciò e da una sempre maggiore considerazione dei dati igienici dell'abitazione, è governato il processo formativo della città moderna, i cui quartieri, studiati sui tracciati geometrici delle vie e in tutti i particolari delle caratteristiche edilizie delle nuove costruzioni, si differenziano secondo le varie funzioni e destinazioni: di affari, di abitazione, industriali, culturali, sanitari, ferroviari e così via, in modo da costituire un unico organismo rispondente in ogni sua parte alla specifica funzione di residenza di molte migliaia e in alcuni casi di milioni di persone.
Un interessante esperimento di radicale separazione dei centri a destinazione residenziale da quelli direzionali, d'affari o industriali si ha all'inizio del 20° secolo con la creazione della città giardino, complesso urbanistico caratterizzato da costruzioni di limitato volume (in genere villette con giardino), distribuite entro aree libere secondo un rapporto dimensionale prestabilito, a carattere largamente estensivo, con viali alberati e spazi verdi. La città giardino nacque in Inghilterra (Letchworth 1902, Hampstead 1907 e Welwyn 1919). I suoi principi fondamentali si diffusero in tutta Europa, ma la primitiva idea di autosufficienza si modificò nell'attuazione pratica, e le città giardino divennero sobborghi delle grandi metropoli.
Agli eccessi dell'inurbamento si tentò di reagire successivamente con la creazione della città satellite, agglomerato urbano impiantato nelle vicinanze di una grande città, a essa legato per le attività commerciali o industriali. In Inghilterra, per es., fu tentata, nel secondo dopoguerra, la costruzione di vere e proprie città (denominate new towns), simili a organismi produttivi e residenziali completi, capaci d'assorbire parte della popolazione e del traffico dei centri maggiori. Tuttavia l'esperimento, pur avendo dato esempi architettonici di indubbia validità, ha avuto risultati limitati dal punto di vista urbanistico, non essendo riuscito a evitare l'ampliamento della grande città e neanche il conglobamento, da parte di quest'ultima, della città satellite. Risultato dell'enorme sviluppo di alcuni rami di attività e della separazione delle varie attività della città moderna è la creazione di centri complessi a destinazione univoca (città universitaria, città ospedaliera ecc.).
Fondamentale, soprattutto in Italia, è il problema dell'inserimento dei vecchi centri urbani nel tessuto della città moderna. Generalmente inadeguati allo smaltimento dell'intenso traffico veicolare, soffocati dalla stretta degli edifici sorti intorno a essi a ritmo serrato, spesso senza un'adeguata pianificazione, i vecchi centri sono stati spesso oggetto di interventi parziali, a volte controproducenti, quali demolizioni di antichi edifici o addirittura di interi quartieri, creazione di strade e di piazze con impianti di nuovi uffici e grandi magazzini che hanno attirato sempre maggiore traffico nel centro già congestionato. Alla salvaguardia del centro storico, alla conservazione dell'ambiente, che nella maggioranza dei casi ha valore artistico inestimabile, sono ora rivolti gli studi degli urbanisti e delle autorità competenti.