cive
. Il sostantivo è un indubbio latinismo, compare solo nella Commedia ed è sempre in rima. Non sembra che vi sia alcuna differenza semantica con l'assai più usato ‛ cittadino ' (v.). Anche l'uso del termine non è diverso da quello attuale del vocabolo " cittadino ", e solo si può notare una differenza sintattica fra l'occorrenza di Pg XXXII 101 e quella di Pd VIII 116.
Delle quattro occorrenze registrate dal Fiammazzo, quella di Pd XVI 48 (Tutti color... / erano il quinto di quei ch'or son civi) è una variante da escludersi, come conferma l'edizione del Petrocchi, che accoglie invece vivi (così, del resto, la maggior parte degli editori).
Nel caso di Pg XXXII 101 il nome è accompagnato dalla specificazione del luogo di cui si è " cittadini ": tu... sarai meco sanza fine cive / di quella Roma... Nel luogo di Pd VIII 116 invece il sostantivo è usato assolutamente: sarebbe il peggio / per l'omo in terra, se non fosse cive? In quest'uso al Sapegno pare di scorgere un valore pregnante: " Il latinismo cive sta qui per ‛ naturalmente disposto a vivere in una società civilmente organizzata ' ". Ma altri commentatori interpretano in modo più piano: " se non vivesse in società con altri " (Grabher). Intermedio fra questi due è l'uso di Pd XXIV 43 (questo regno ha fatto civi / per la verace fede), in cui il sostantivo non ha un'esplicita specificazione; ma nell'espressione ha fatto civi si sottintende " di sé ". E spiega infatti il Sapegno: " questo regno celeste si è popolato (ha fatto civi: ‛ ha formato la sua cittadinanza '; cfr. Purg., XIII, 94 e 95) per effetto della vera fede ".
Il Pézard (in Lett. dant. 1499-1500) osserva che il vocabolo è usato " nell'ambito di due ordini d'idee paralleli ": in Pd VIII 116, " dove si sancisce il destino terreno dell'uomo, e nel canto XXXII del Purgatorio (v. 101), dove si proclama il destino ultraterreno di Dante... Qui appare con evidenza che a una certa consuetudine di pensieri rispondono nella mente di Dante moduli consueti di espressione ".