CRETESE-MICENEA, CIVILTA'
. La civiltà e la Storia. - Gli scavi e le scoperte. - La tradizione ellenica additava Creta come culla di una vetustissima civiltà in una cospicua serie di leggende, che si riferiscono al re Minosse e alla sua talassocrazia, all'ingegnoso suo artefice Dedalo, e ai suoi figli, i primitivi maestri erranti dell'arte ellenica, al labirinto di Cnosso, alla nascita di Zeus sul monte Ida, al suo allevamento da parte dei Coribanti e dei Dattili, alla tomba del dio sul monte Iuktas presso Cnosso. Ma soltanto le ricerche archeologiche di Enrico Schliemann, sulla scorta dei poemi omerici, hanno chiarito la primitiva storia della Grecia. A qual popolo era dovuta, dove aveva avuto origine la civiltà, che nei luoghi investigati dallo Schliemann appariva già in pieno fulgore? La risposta è stata data dagli scavi di Creta, condotti ininterrottamente dall'inizio di questo secolo fino quasi allo scoppio della guerra mondiale e, più saltuariamente, anche dopo.
L'attenzione degli archeologi era stata attirata sulla grande isola del Mediterraneo soprattutto dopo le esplorazioni dell'italiano Federico Halbherr, che nel 1884 scopriva presso il villaggio di Hagioi Deka la famosissima iscrizione di Gortina (v. gortina; creta); nell'anno seguente l'Halbherr dirigeva l'esplorazione del santuario dell'Antro ideo, i cui primi tesori cominciavano ad apparire per manomissioni e frugamenti dei pastori del luogo, scoprendo la doviziosa suppellettile, tra cui gli splendidi prodotti delle fabbriche proto-elleniche locali di bronzi sbalzati. Contemporaneamente alle prime esplorazioni dell'Halbherr avvenivano quelle del tedesco E. Fabricius; l'Halbherr in seguito si aggregava una schiera di colleghi e di allievi italiani, fra cui L. Mariani, A. Taramelli, L. Savignoni, G. De Sanctis e L. Pernier. Dal 1900 datano i grandi scavi delle principali stazioni della civiltà cretese pre-ellenica; quasi contemporaneamente iniziano gli scavi l'inglese sir Arthur Evans, attirato a Creta dall'abbondanza di gemme incise, per i suoi studî sulle scritture antiche, fermatosi sul sito dell'antica Cnosso, e gl'Italiani a Festo, e poi ad Hagia Triada. Oltre a questi grandi palazzi, si scavano intere città pre-elleniche, come Palecastro da parte della scuola inglese di Atene, e Gourniá, da una missione americana; si susseguono gli scavi in varie altre località: gl'Inglesi scavano Preso, sulla costa orientale dell'isola, il porto di Zakro, le grotte sacre di Psychró e di Kamares, già scoperte e saggiate dagli archeologi italiani; gli Americani diverse località attorno alla baia di Mirabello, e le isolette di Psira e di Mochlos; i Greci scavano il palazzo di Tilisso, e le tombe a tholos della Messará; ultimi i Francesi, con lo scavo ancora in corso del vasto palazzo di Malia.
Si è così lentamente venuto determinando il quadro di una progredita e brillante civiltà, che ha vissuto e si è sviluppata per un paio di millennî, avanti la primitiva civiltà ellenica descritta nei poemi omerici, civiltà che ha avuto la sua patria e il suo centro d'irradiazione in Creta, e di cui i ritrovamenti di Micene e del Peloponneso in genere non rappresentano che derivazioni assai avanzate, o imitazioni, o addirittura prodotti di esportazione; e non solo nel Peloponneso, ma in tutto l'ambito allora battuto del Mediterraneo, tale civiltà ha avuto il suo campo di espansione e d'influenza, come ha avuto contatti e rapporti con le grandi civiltà coeve dell'Egitto e dell'Oriente asiatico.
Il problema etnico. - I caratteri della razza che ha creato tale civiltà ci appaiono in numerose rappresentazioni artistiche, con speciale evidenza negli affreschi murali dei palazzi; in questi affreschi esiste la convenzione antica che rappresenta gli uomini in colore bruno nelle parti nude, e le donne in colore bianco; gli uomini manifestano corporatura snella, statura piuttosto bassa, con capelli neri e ondulati, carnagione scura, naso aquilino; nel periodo più antico e più puro della civiltà, predomina in modo assoluto la dolicocefalia. L'abbigliamento e l'architettura della casa palesano un popolo abituato a climi caldi: l'uomo ha tutto il corpo nudo a eccezione dei fianchi; attorno a questi è talora una semplice cinghia che sostiene una guaina, probabilmente in cuoio duro, simile al costume degli antichi Libî; ma più spesso è un panno tutto attorno alle anche, talora passato sotto alle anche in modo da dare l'impressione di calzoncini; qualche volta, e forse non solamente per rappresentazioni di stranieri o sul continente ellenico, sono calzoncini veri e proprî, che appaiono spesso trapunti e ricamati; la vita è stretta dalla cintura, che ne esagera la snellezza naturale, e i piedi sono calzati da sandali, con corregge passate tra le dita e al collo del piede, o da stivaletti in pelle che arrivano a metà gamba. Questo costume appare evoluto nelle sue linee essenziali già nelle statuette del santuario di Petsofá (v. IV, p. 470, fig. 14), all'inizio dell'età del bronzo, ossia al principio del II millennio a. C.; prima forse il vestimento era formato da pelli animali, quali rimangono anche assai più tardi per uso sacrale, tanto per gli uomini quanto per le donne. Anche di uso sacerdotale sembra una speciale casacca, che copre talvolta ambe le braccia, ornata a squame, quale quella che indossa il capo nel vaso cosiddetto dei mietitori (v. figg. 61,62); e propria del re-sacerdote è la veste lunga e unita, riccamente ornata, indossata da alcuni personaggi in portamento maestoso; veste lunga che indossano egualmente anche gli aurighi e i musici. Il tipo della bellezza e dell'eleganza femminile ha qualcosa di ancora più curiosamente moderno: il petto ben marcato, la vita sottile, le anche arrotondate, le linee sinuose; i tratti del volto piuttosto irregolari, coi grandi occhi vivaci, il naso con la punta rialzata, le labbra carnose; i capelli scendono in lunghe trecee ondulate sulle spalle, con una serie di ricciolini liberi sulla fronte. Anche per le donne l'abbigliamento ha raggiunto ormai il suo aspetto caratteristico nelle statuette di Petsofá (fig.1): tutta la parte inferiore del corpo, fino ai piedi, è coperta dall'ampia sottana campanata, qui rigida e distesa in grazia a una vera e propria "crinolina"; una duplice cintura stringe la vita; il petto nudo esce dal corsetto rigido, che si rialza dietro la schiena in una specie di "collare Medici"; sulla testa è un alto e strano cappello a tiara, terminante, nella figura riprodotta, in una specie di corno a punta. Più tardi la gonna si modifica, la veste campanata perde di ampiezza e di rigidezza, e acquista una ricca decorazione a volanti; una cucitura trasversale della gonna divisa conferisce all'abito, specialmente nelle figure sedute, un aspetto di ampie brache; nel corsetto scompare l'alto collare, e permangono le mezze maniche fino al gomito; mentre gli uomini, con la faccia rasa e lunghe trecce inanellate ricadenti sulle spalle, hanno di rado la testa coperta da una specie di turbante per lo più a ciambella, oppure da un basso petaso, nelle donne si alternano disparate fogge di copricapo, a tiara e ad alto cilindro, forse per sacerdotesse, a cappelletti ornati di roselline, e poi a basso berretto, talora con dei fiori o dei gigli che sorgono nel centro. Le donne, che più di rado degli uomini uscivano dall'interno dei palazzi, sono più frequentemente rappresentate a piedi nudi. Sopra le vesti descritte, uomini e donne portano talora dei mantelli o delle pellegrine (figura 2). Quanto all'armatura, v. armi; IV, p. 469 segg. Da tutte queste osservazioni risulta anzitutto con grande evidenza la diversità essenziale del tipo somatico e dei costumi tra i Cretesi dell'età del bronzo e i Greci.
La popolazione primitiva di Creta appartiene indubbiamente - checché vogliano alcuni pochi e tenaci contraddittori - a una razza non ariana e non semitica, del ceppo che l'antropologo italiano G. Sergi ha denominato "mediterraneo". L'ininterrotto e indipendente sviluppo che noteremo nella sua civiltà dai più antichi strati neolitici fino alla più tarda decadenza micenea, dimostra che il popolo è immigrato nell'isola in tempi remotissimi; alcune somiglianze di tipi e di costumi riaccostano tale popolazione alle popolazioni della Libia e dell'Egitto pre-dinastico; altre somiglianze, specialmente nella religione, ci richiameranno ai popoli dell'Asia Minore. Ma è impossibile pretendere di risolvere il problema etnografico, finché non sarà possibile decifrare la scrittura.
La scrittura e la lingua. - Infatti è ormai assodato che le popolazioni di Creta e dell'Egeo hanno conosciuto la scrittura da tempi remotissimi; il più antico sistema risale oltre la metà del III millennio, e consiste in rozzi segni ideografici, intagliati per la maggior parte nei sigilli d'avorio scoperti in grande abbondanza nelle tombe a tholos della Messará; per un processo d'eliminazione e di sistemazione degl'ideogrammi si forma man mano, dall'inizio dell'età di mezzo della civiltà cretese antica, ossia dal principio del II millennio a. C. circa, un sistema geroglifico; i segni si vanno sempre più perfezionando, soprattutto nel passare da una classe, rappresentata essenzialmente dai sigilli e dalle loro impronte, con l'incisione ancora intagliata a mano, a una classe posteriore in cui è chiara la lavorazione alla ruota e al bulino, su pietre dure (v. sotto, Le arti minori, ecc.). Infine, all'inizio dell'epoca in cui vedremo prodursi in tutte le arti cretesi un improvviso sboccio naturalistico e in cui la civiltà raggiunge in tutte le manifestazioni il suo massimo splendore, troviamo ormai formato anche un sistema di scrittura lineare. La scrittura lineare cretese si distingue pur essa in due classi, una più antica (A), rappresentata in numerosi documenti, specialmente a Cnosso, a Hagia Triada e in altre località cretesi, e una più recente (B), che a Creta si palesa solo nelle numerose tavolette del palazzo di Cnosso: essa sembra dunque un'innovazione peculiare degli scribi di tal corte, e in qualche dettaglio si riavvicina più dell'altra alla comune origine del sistema geroglifico.
Le lettere di tali tavolette (fig. 3) erano incise su diverse file sopra l'argilla ancora fresca, e si è dovuta all'incendio dei palazzi la loro consolidazione e conservazione; si tratta quasi esclusivamente d'inventarî e di documenti d'affari; il soggetto del documento è spesso rappresentato ancora da una figura pittografica, che sta quasi a titolo in capo: sono dei cocchi, dei cavalli, delle armi, dei vasi, degli animali, dei talenti in bronzo; delle bilance indicano il peso di questi ultimi; delle figure umane stanno a titolo di liste di nomi. Si sono potute identificare le cifre: è usato un sistema decimale di numerazione, con numeri che arrivano fino al 10.000, in cui le unità sono date da tratti verticali o leggermente curvi, le decine da punti o da linee orizzontali, le centinaia da sbarre più grandi oblique nella scrittura geroglifica e da cerchi nella scrittura lineare, le migliaia da losanghe nella scrittura geroglifica e da cerchi, con quattro trattini a croce intorno, nel sistema lineare; dei tratti ad angolo indicano le frazioni. Del resto tutto rimane indecifrabile, benché si riconoscano diverse parole composte o che cambiano di suffissi. Ma le tavolette in argilla non erano certo gli unici esempî di scrittura. La scrittura ricorre anche in forma di graffiti, p. es. sulle mura del palazzo di Hagia Triada, e nell'interno dei vasi, con un inchiostro di seppia indelebile: e per documenti di maggiore importanza o mole, una grande quantità di cretule, ossia di piccoli nodi di argilla con impronte di sigilli e tracce di fili bruciati, dimostra che erano in uso gli scritti su materiali deperibili, pergamene o papiri, che erano probabilmente legati a rotoli, e che non hanno potuto sopravvivere come le tavolette all'incendio dei palazzi.
La scrittura egea non è rimasta confinata a Creta: iscrizioni pressoché identiche a quelle cretesi, e probabilmente in lingua cretese, si sono rinvenute nelle isole vicine, a Tera e a Melo, altre nel Peloponneso; ma interessanti sono soprattutto certe iscrizioni di Orcomeno e di Tebe (fig. 4) che sembrano conservarci quasi l'alfabeto cadmeo della tradizione, una scrittura cioè simile alla cretese, ma che appare come un'evoluzione indipendente, con connessioni proprie ancora coi segni geroglifici, similmente alla scrittura lineare B del palazzo di Cnosso. Cipro ha sviluppato un alfabeto sillabico suo proprio, in parte con un'evoluzione diversa dal sistema geroglifico cretese, in parte forse con l'adozione di segni del sistema lineare cretese medesimo, alfabeto che è stato adoperato poi anche dai coloni greci dell'isola. Ma a Creta stessa è stato trovato un documento d'una scrittura del tutto diversa da quelle finora elencate, scrittura geroglifica ma associata invece a materiale cretese già dell'epoca della scrittura lineare, nel famoso disco d'argilla da Festo (fig. 5): i segni qui sono impressi con punzoni diversi, ciascuno corrispondente a un segno geroglifico, su una linea a spirale partente dal centro, e su entrambe le facce; i tipi somatici e i costumi, i simboli e gli strumenti rappresentati, ci assicurano che si tratta d'un documento unico di una scrittura ancora sconosciuta, ma indubbiamente appartenente a un popolo non cretese, probabilmente dell'Anatolia occidentale.
Il ritrovamento di una così cospicua massa di monumenti scritti, ha fatto risorgere il dibattuto problema sull'origine degli alfabeti antichi, e sui loro rapporti reciproci. Una notizia di Diodoro (V, 74) che conserva evidentemente una tradizione cretese memore della vetustissima età della propria scrittura, dichiara che i Fenici avrebbero derivato da Creta le proprie lettere; ma la scoperta recente delle iscrizioni sinaitiche e delle stele di Biblo valorizza la teoria più divulgata della derivazione invece - almeno nell'idea costitutiva del sistema, se non nei singoli segni - dell'alfabeto fenicio dai geroglifici egiziani. Anche la scrittura cretese ha certe somiglianze con quella egiziana: se non che per la formazione e l'evoluzione indipendente della scrittura cretese, sta la diversità di molti segni geroglifici, specialmente di quelli caratteristici del paesaggio cretese e della sua religione, il croco, il giglio, i rami di palma e di olivo, la bipenne, la lira; inoltre, di fronte al valore consonantico dei geroglifici egiziani, sembra opporsi quello con suoni vocalizzati dei segni cretesi; ma soprattutto due particolarità importanti sono differenti nelle due scritture, vale a dire: la direzione delle righe, che nella scrittura cretese va da sinistra a destra (contrariamente a quella egiziana, come a tutte le scritture semitiche), e solamente talora ritorna alternatamente, in ogni seconda riga, da destra a sinistra (con sistema bustrofedico), e la posizione delle figure umane e animali, che nella scrittura cretese presentano la schiena e nell'egiziana quasi sempre la faccia al lettore.
La lingua degli antichi Cretesi, per noi tuttora indecifrabile, non si è del tutto estinta con la penetrazione ellenica; a Preso, ove fino in epoca storica si mantennero gli Eteocretesi forse discendenti degli antichi indigeni dell'isola, sono state scoperte iscrizioni del sec. V e forse anche più recenti, scritte in caratteri greci, ma in una lingua straniera; lo studio di queste iscrizioni ci riconferma l'assoluta diversità della lingua cui appartengono tanto dal ceppo linguistico ario, quanto da quello semitico. A poco servono gli scarsi accenni alla lingua cretese contenuti nei documenti egiziani, fra i quali è un esercizio scolastico in cui si domandano a uno scolaro i nomi dei Keftiù - la denominazione egiziana dei Cretesi - che egli conosce, e una formula magica per scongiurare una malattia, pure in lingua cretese, in un libro di medicina. Del resto solo alcuni nomi passati nel patrimonio del greco ma estranei all'indo-europeo (i quali potrebbero pensarsi derivati dal cretese), come il nome del vino, del piombo, del giacinto, alcuni nomi di città e terminazioni e suffissi locali, fanno intravvedere qualche carattere dell'antichissima lingua di Creta.
La religione. - La medesima indipendenza e peculiarità, che abbiamo notato rispetto alla razza e alla lingua, dobbiamo constatare per la religione degli antichi Cretesi. In contrasto assoluto con la religione antropomorfica dei Greci, quella dei Cretesi ci si manifesta come una religione naturalistica e simbolica. Le cerimonie si svolgono all'aria aperta, sulle vette dei monti, entro grotte sacre, in sacelli o cappellette dei palazzi; non esistevano neppure vere e proprie immagini del culto, personificanti la divinità. Non sono tali probabilmente gl'idoletti in marmo e in pietra che troveremo sparsi in tutte le isole dell'Egeo da remotissimi tempi, e forse neppure qualche altro, di carattere ben diverso e di forma steatopigica, rinvenuto negli strati neolitici di Creta; veri e proprî idoletti stavano peraltro certamente nel centro di altre cappellette famigliari, talvolta entro una propria minuscola capanna in argilla. Se non appare, ad ogni modo, la vera immagine del culto della divinità, c'imbattiamo invece continuamente nei simboli che la rappresentano, e spesso anche in numerose raffigurazioni di scene mitologiche e sacre. Uno dei simboli che ci si palesano dall'epoca più remota è quello della bipenne, l'arma sacra del dio, che è riprodotta da tutte le arti e in tutti i materiali, e che è stata rinvenuta anche in esemplari originali, di cui il più imponente è uno di Hagia Triada (v. bipenne). La bipenne appare spesso sovrapposta alle due corna di consacrazione, schematizzazione della testa taurina, della testa cioè dell'animale sacro per eccellenza, che talvolta è riprodotta invece per intero (per es. nelle brattee auree di Micene); altre volte invece la bipenne è intrecciata con uno speciale nodo votivo, che talora appare anche da solo, di significato incerto; da qualcuno è stato derivato dalla croce ansata egizia, il segno della vita; ma più verisimilmente è da associare agli altri oggetti sacri di arredo e di abbigliamento, che spesso vediamo uniti in sicure scene di culto con le armi e con gli altri simboli divini. Oltre all'arma di offesa, la bipenne, è infatti simbolo della divinità l'arma di difesa, lo scudo tipico dell'armatura cretese, a forma bilobata (v. armi). Ma ormai non v'è più dubbio che i Cretesi hanno reso culto anche a pietre sacre, o betili (fig. 6), culto che ha riscontro, come in gran numero di religioni primitive, anche nelle religioni semitiche. Più volte, invero, nelle minuscole rappresentazioni delle gemme e delle cretule c'imbattiamo in certe grandi pietre di forma ovoidale, su cui si appoggia spesso la divinità femminile, e dalle quali talvolta sembra spuntare un ciuffo d'erba: forse il germoglio della vita cui dà nascita il simbolo divino, interpretazione non troppo ardita, quando vediamo gli alberi sacri crescere costantemente entro i sacelli delle rappresentazioni religiose, e sui piccoli altari, a forma biconica o a gradini sovrapposti, spesso fra le corna di consacrazione, o insieme con altri dei simboli ora elencati; il simbolo della vita contenuto nell'albero sacro è più evidente in certe rappresentazioni, come su due famosi anelli d'oro, di Micene l'uno e di Vaphió l'altro (figg. 7-8), in cui si vede un personaggio maschile intento a strappare l'albero dal suo recinto, mentre nel primo anello una donna si piega su una tavola appoggiando la testa tra le mani, in atto di intenso dolore.
Più dubbio è il significato simbolico del pilastro e della colonna, perché questi, negli esempî originali quasi sempre giustificati dal loro scopo architettonico, benché spesso nelle rappresentazioni appaiano associati con oggetti e con animali sacri, possono stare sempre come rappresentazione sintetica del sacello o dell'intero palazzo: questo è il caso, per es., delle tre colonne in terracotta, in cima alle quali posano tre colombe, dal palazzo di Cnosso (fig. 9). La colomba, invero, è uno dei più ovvî animali consacrati alla divinità femminile della fecondazione. Altri animali sacri sono: il serpente, che si annoda intorno alle figure femminili in maiolica da Cnosso e ad altre diverse, nelle rappresentazioni dei sigilli e nelle statuette di terracotta; hanno riscontro più diretto con le rappresentazioni della religione orientale, babilonese e assira soprattutto, le scene della divinità che domina le forze della natura, simboleggiate in animali sacri opposti araldicamente ai suoi due lati, come leoni (fig. 10) o uccelli, o, a Creta, anche capri, oppure in animali fantastici, specialmente grifi e sfingi: animali fantastici questi, comuni anche nelle altre civiltà antiche, ma che appaiono a Creta con caratteri e attributi del tutto indipendenti dalle altre arti contemporanee. Altri esseri fantastici sono dei veri demonî del mondo soprannaturale cretese: demonî dalle membra leonine, talvolta con una pelle ferina gettata sulle spalle, ma ritti sulle zampe posteriori come uomini, e per lo più nell'atto di servire la divinità.
Le lotte e i volteggi di giovani acrobati e di fanciulle col toro sacro, sono una delle cerimonie (dette dai Greci ταυροκαϑαψίαι) che si svolgevano all'aperto, nel cortile o nel teatro dei palazzi, più frequentemente riprodotte dall'arte cretese; compaiono inoltre in questa danza processioni e giochi, cerimonie di culto, divino o mortuario, quali quelle che si vedono dipinte nel famoso sarcofago di Hagia Triada; anche la processione in rilievo sul vaso "dei mietitori" è con verosimiglianza una festa rituale. La divinità stessa è senza esitazione riconoscibile in altre rappresentazioni soprattutto di anelli d'oro e di sigilli; si osservi, per es., uno dei più begli anelli d'oro, da Micene (v. albero, II, p. 168), in cui la dea siede sotto l'albero, mentre alcune donne le porgono offerte di papiri e di gigli; nel cielo sono figurati simboli astrali, il sole, la luna, e forse la via lattea, e più in basso è sospesa la bipenne; dal cielo appare la divinità, armata di scudo e di lancia (attrazione degli spiriti celesti sulla terra mediante incanto e magia che manifesta il significato essenziale del culto betilico sopraccennato); ma la divinità delle teofanie - malgrado le frequenti obiezioni degli studiosi - pare essere piuttosto la divinità maschile che non quella femminile; e la coppia divina sembra essere associata anche in altre scene, mentre altrove è il dio solo che si presenta, armato, in caccia, accompagnato dalle sue fiere sacre (fig. 11). Non si può quindi ritenere dimostrata una supremazia della divinità femminile nell'Olimpo cretese, come non si può in nessun modo dedurre dalle rappresentazioni a noi superstiti un presunto matriarcato, malgrado l'evidente importanza e libertà della donna nella società dell'isola.
La natura della dea cretese ci è chiaramente manifesta per la sua indubbia relazione con le religioni dell'Asia: è dunque una divinità delle forze naturali e della generazione, come la Magna Mater asiatica, e la Dea delle Fiere; la maggior parte delle sue qualità e dei suoi attributi è ereditata nella mitologia greca da Rea, altre da Cibele e da Artemide, quest'ultima ricollegata alla tradizione cnossia nel suo epiteto di Ariadne (la "santissima"), altre da Artemide e da Latona, che di nuovo sotto i nomi di Britomarti e di Dictinna rientrano nella leggenda cretese e s'intrecciano al mito di Zeus bambino; in questa parte del mito con l'infanzia del dio sono soprattutto vivi i ricordi della religione cretese, con le figure dei Dattili e dei Coribanti, col particolare del sasso ingoiato da Saturno nella persuasione di divorare suo figlio, sasso che forse rappresenta il betilo sacro. Ma poi la suprema divinità maschile cretese è stata identificata con lo Zeus ellenico, ed è assai arduo separarne gli elementi originali da quelli sopraggiunti; sembrano richiamare a particolari della divinità cretese anche alcune cerimonie greche, come quella delle Bufonie (v.), nelle feste Diipolie. Altre qualità e attributi della divinità cretese sembra siano passati pure in parte a Dioniso, e in genere tutti i misteri di Dioniso e di Zagreo, col loro carattere naturalistico ben estraneo alla religione greca, sembrano innestarsi a una corrente di religione pre-ellenica infiltratasi nella mitologia ellenica. Lo Zeus cretese sopravisse in Caria nel culto di Zeus Labrandeus, o Zeus della labrys, della bipenne; da questo nome si è voluto derivare il nome del labirinto, che e stato identificato col palazzo di Cnosso, il palazzo e il santuario della bipenne, in cui l'antico simbolo sacro non era solo adorato nei sacelli, ma rappresentato negli affreschi, e inciso sulle pietre tutto attorno ai pilastri (fig. 12); il palazzo dove le molte rappresentazioni delle ταυροκαϑαψίαι, dei tori sacri e delle corna di consacrazione, avranno potuto generare nella fantasia ellenica la leggenda del Minotauro.
Classificazione e cronologia della civiltà cretese-micenea. - Per il grande rilievo che nella leggendaria storia di Creta ha la figura di Minosse, re-sacerdote, Arthur Evans ha chiamato la civiltà cretese pre-ellenica col nome di civiltà minoica; nome solo fino a un certo punto espressivo e adatto perché rispecchia soltanto uno stadio di civiltà abbastanza progredito e non bene può quindi applicarsi a un'età antichissima, cui certo nessuna delle leggende su Minosse arriva a riferirsi. A ogni modo, per comodità, potremo usare talora questo nome, generalmente adottato, in luogo di quello più esatto di civiltà cretese-micenea, mentre un'altra denominazione, cioè di civiltà egea, ha un'estensione più larga, abbracciando anche tutte le manifestazioni degli altri popoli circostanti a Creta, solo fino a un certo punto e solo da un certo periodo entrati nella sfera d'influenza della civiltà cretese. È stato comunque grande merito dell'Evans quello di dare una prima sistemazione e una prima classificazione cronologica alla civiltà cretese, basandosi specialmente sui confronti con la civiltà egizia. Egli ha distribuito tutto lo sviluppo della civiltà del bronzo cretese in tre grandi epoche, l'antico-, il medio- e il tardo-minoico, divise a loro volta ciascuna in tre periodi, distinti da numeri romani. I relitti dell'età dei metalli coprono sotto le costruzioni dei grandi palazzi di Cnosso e di Festo altissimi strati, che a Cnosso raggiungono i 7 metri - sorpassando in spessore tutti gli strati posteriori fino all'ultimo palazzo - e che attestano un lungo e continuo sviluppo di civiltà neolitica, la cui durata però non ci è dato di calcolare neppure approssimativamente. Per verità i due primi periodi dell'epoca antico-minoica non rappresentano che una continuazione e un'evoluzione ininterrotta di tale civiltà, nella fase eneolitica; solamente nell'antico-minoico III si può parlare di una vera civiltà del bronzo. Già in questa prima epoca accenna a rapporti con l'Egitto la presenza di numerosissimi vasi di pietra colorata, la cui lavorazione e tecnica ricorda molto i consimili vasi egiziani, e soprattutto dei primitivi sigilli cretesi in avorio, a forma di bottoni, con l'incisione di svariati motivi geometrici lineari e curvilinei, che trovano uno stretto riscontro in sigilli simili rinvenuti in Egitto durante le ultime dinastie dell'Antico Impero, dalla VI all'XI. La durata dell'epoca antico-minoica si estende dunque approssimativamente per tutto il terzo millennio a. C. I due primi periodi dell'epoca medio-minoica (età caratterizzata dalla prima costruzione dei grandi palazzi principeschi cretesi, e denominata di Kamares dalla ceramica policroma peculiare, i resti della quale sono stati rinvenuti per la prima volta nella grotta dell'Ida di tal nome) si estendono per la durata della XII e XIII dinastia egiziana, dall'inizio cioè del II millennio alla metà circa del sec. XVII a. C.: frammenti invero di ceramica di Kamares sono stati rinvenuti in Egitto, in una tomba di Abido, a Kahun, fra i detriti d'una città costruita per gli operai della piramide di Sesostri II; mentre corrispondentemente a Cnosso, insieme con frammenti di ceramiche di Kamares, è venuta alla luce la parte inferiore d'una statuetta di diorite, con l'iscrizione del nome Iebneb, che per caratteri stilistici ed epigrafici appartiene appunto alla XII, o al principio della XIII dinastia. Nel III periodo medio-minoico s'inizia a Creta una fase di civiltà, del tutto differente dalle precedenti, e che segna il massimo fiore dell'arte e della vita del popolo cretese; i primitivi palazzi cretesi sono tutti distrutti contemporaneamente, per una causa finora ignota: anzi, ricostruiti i palazzi con una magnificenza anche superiore, ma essenzialmente con i medesimi criterî e metodi architettonici, l'arte si palesa ora in uno sboccio improvviso di freschezza e di naturalismo, in tutte le sue manifestazioni, quasi dopo un periodo di costrizione e di convenzionalismo. È questa l'epoca nella quale dominano in Egitto i re pastori, gli Hyksos, epoca che segna per l'Egitto un periodo di stasi e di confusione, che giustificano un'interruzione o un rallentamento dei rapporti con Creta (circa 1675-1580 a. C.); tuttavia a Cnosso è stato rinvenuto in uno strato di tal periodo un coperchio di alabastro col cartello del re hyksos Chian. Con la XVIII dinastia, vale a dire dal 1580 circa a. C., data con cui si fa coincidere il principio dell'epoca tardo-minoica, ha inizio per l'Egitto un periodo di libertà e di rinascita, e riprendono più vivi che mai i rapporti col Mediterraneo: a Creta non ha alcuna interruzione il rigoglio di arte naturalistica iniziato nell'epoca precedente; la vita dei palazzi continua in tutto il suo splendore; solamente a Cnosso il tardo-minoico II segna un rifacimento parziale del palazzo; in questo frattempo però, pian piano, l'invenzione e la freschezza che caratterizzano l'arte dell'epoca migliore vanno esaurendosi e comincia un irrigidimento verso forme puramente ornamentali: è questo il cosiddetto stile del palazzo, con caratteri precipui appunto nella suppellettile del palazzo di Cnosso. Prodotti di quest'arte, di provenienza indubbiamente cretese, si sono rinvenuti in buon numero in Egitto, ma senza associazioni che ci apportino riferimenti cronologici sicuri; ben altra importanza, invece, hanno le pitture di questo periodo che decorano le pareti delle tombe tebane, e rappresentano ambasciatori di nazioni straniere che incedono recando doni o tributi a grandi dignitari della corte faraonica; fra tali ambasciatori sono riconoscibili con tutta sicurezza, per il tipo etnico, per il costume e per gli oggetti che offrono, i rappresentanti di Creta, i Keftiù, nome identificabile forse con quello delle genti bibliche di Kaftor; le principali di queste tombe sono quelle di Sennemut, il consigliere della regina Hatshepsut, di Rekhmire, governatore dell'Alto Egitto sotto Tutmosi III, e del figlio di lui Menkhepereseneb (fig. 13).
Espansione e caratteri della civiltà cretese-micenea. - Trascurando per ora relazioni più dubbie, dalla più lontana preistoria delle Cicladi, nelle isole più vicine a Creta, quali Tera e Melo, si rinviene ceramica cretese esportata fin dall'epoca di Kamares. Ma nel rigoglio dell'epoca naturalistica, la penetrazione della civiltà cretese sulle coste dell'Argolide è notevolissima. In tale regione aveva fiorito già da tempo remoto una civiltà locale, che aveva raggiunto un notevole grado di floridezza, con principi potenti installati in palazzi relativamente sontuosi. La conquista della civiltà cretese è tale, che presto la civiltà precedente scompare nell'ombra; solo qualche usanza e qualche costume entrano a far parte del patrimonio della nuova civiltà: ne vedremo le tracce nell'abbigliamento e nell'architettura; le arti e le industrie indigene finiscono col cedere il campo di fronte allo splendore dell'arte immigrata; forse sono immigrate insieme nuove famiglie e nuovi artisti: e sulle rocche di Tirinto e di Micene sorgono così i nuovi splendidi palazzi, prende inizio un periodo di vigore e di slancio, che si evolve parallelamente e gareggia talora in magnificenza con le più ricche e le più belle manifestazioni dei palazzi cretesi.
Dai monumenti ci appare l'alto regime sociale della civiltà cretese, sotto il comando del principe, o re-sacerdote, con una corte fastosa ed elegante, con giochi, danze e cerimonie. Ai pericolosi esercizî sui tori erano forse dedicati giovani schiavi e schiave. Il re presiedeva probabilmente all'amministrazione della giustizia, come ricorda la leggenda di Minosse legislatore. Alla sorveglianza e all'amministrazione degl'immensi beni dei palazzi provvedevano ufficiali specializzati, con proprî gradi e proprî sigilli, con un controllo burocratico meticoloso; capi e ufficiali militari sono rappresentati al comando e alla rivista dei soldati. La ricchezza dei principi e della corte era assicurata dalle industrie e dalle officine artistiche, dai commerci coi paesi più lontani, come pure dall'agricoltura (grano, orzo, olio, vino, fichi, olive, piselli, lenti e fave, palma da datteri, lino, piante aromatiche) e dall'allevamento del bestiame (buoi, capre, pecore). Sui monti viveva libera la capra selvatica, l'agrimi; il cavallo appare introdotto a Creta solo verso la fine del medio-minoico, contemporaneamente all'introduzione in Egitto, dall'Asia; forse un poco anteriore è l'introduzione dell'asino; oche e cigni erano allevati quali uccelli di cortile, e l'apicoltura forniva il miele. La caccia era alimentata da camosci, cervi, gazzelle, agrimi, lepri, gatti selvatici, uccelli; la caccia grossa era riservata al cinghiale, e probabilmente nei tempi più antichi pure al leone. Indubbiamente era esercitata accanto alla caccia anche la pesca, che alimentava, sulla riva orientale, l'industria della porpora. Il commercio interno dell'isola era facilitato da una rete di comode strade; la via principale di comunicazione fra la costa settentrionale e quella meridionale dell'isola era una strada da Cnosso a Festo, in parte lungo il percorso dell'attuale grande arteria fra i due mari; una fitta rete di comunicazioni si diramava anche da Micene; per il trasporto di personaggi di conto era usato il cocchio e anche qualche portantina. Per il commercio portuario e soprattutto per le comunicazioni con l'estero, servivano le veloci navi egee, dal fondo quasi piatto e dalla prora slanciata e ricurva, fornite di uno, di due o tre alberi, che, con navigazione senza dubbio costiera, dominarono tutto il Mediterraneo, per secoli e secoli prima che ci appaiano nei monumenti le rappresentazioni delle navi usate dai Fenici. Grazie a quelle si sparsero fino ai piu lontani lidi i prodotti dell'elegante e ingegnosa arte cretese; fu accettata in tutti i paesi dell'antichità l'unità di peso e monetaria dell'isola, il grande talento cretese, per lo più nei pani di bronzo a contorno di lama di bipenne (fig. 14); grazie ad esse camminò e si diffuse la civiltà e l'arte stessa dell'ardito popolo.
La "koinè" micenea. - Verso lo scorcio del sec. XV av. Cristo crollano i grandi palazzi di Creta, quello di Cnosso, di Festo, e tutti gli altri minori: solo sulle rovine della villa di Hagia Triada sorge una costruzione nuova, ispirata a un'architettura diversa proveniente dal Peloponneso; modesti edifici sorgono su una sola parte dell'antico palazzo di Cnosso. La civiltà stessa però non muore; anzi, in forme da prima abbastanza ricche, ma poi sempre più irrigidite e schematiche, si protrae per un lungo periodo ancora; anzi questo periodo segna forse il momento della maggiore espansione dei prodotti di tale civiltà, che però non ha più il suo centro di diffusione a Creta, perché il fulcro della potenza e della produzione artistica si è spostato verso le colonie del Peloponneso; a Tirinto e a Micene, sopra ai primi palazzi improntati alla civiità minoica, si sovrappongono due palazzi nuovi, con rinnovato splendore e decoro e tutta la vita intorno fiorisce. È per tal ragione che al terzo periodo dell'epoca tardo-minoica è attribuito generalmente il nome di età micenea. Vasi e altri prodotti micenei si espandono oltre tutto il bacino dell'Egeo, in Troade, sulle coste della Siria e della Palestina; nel Mediterraneo orientale entrano a far parte dell'ambito della civiltà micenea le due grandi isole di Rodi e di Cipro, con ricchezza di suppellettili d'ogni sorta, e probabilmente con fabbriche proprie; nel Mediterraneo occidentale l'esportazione di ceramiche, di armi e di altri prodotti cretesi arriva alle coste dell'Italia Meridionale, in Sicilia e fino in Sardegna. Gli elementi di datazione per le prime fasi di questa età si fanno sempre più frequenti: a Micene si sono rinvenuti una scimmia frammentaria di porcellana egizia col cartello di Amenophis II, un frammento di vaso in materia simile col nome di Amenophis III, e uno scarabeo col nome della sua sposa Tii; altre iscrizioni degli stessi faraoni provengono da Hagia Triada, da Rodi e da Cipro; ma soprattutto gran quantità di ceramiche micenee è stata scoperta in Egitto, specialmente a Gurob, nelle rovine di una città che è rimasta abitata dal sec. XV alla fine del sec. XIII, e a Tell-el-‛Amārnah, una città fatta costruire da Amenophis IV e presto abbandonata: in altri termini l'ultima fase della civiltà cretese-micenea ha perdurato e ha trovato larga espansione per tutto il sec. XIV e almeno sino alla fine del secolo XIII avanti Cristo.
Critica alla classificazione di A. Evans. - La classificazione dell'Evans, per quanto attraente per la regolare schematizzazione e per il sincronismo con le dinastie egizie, non è del tutto soddisfacente; quasi sempre i reali periodi in cui la civiltà cretese-micenea appare più naturalmente divisa per modificazioni intrinseche, varcano i limiti di tali divisioni: abbiamo cosi accennato come l'antico-minoico I-II rappresenta uno sviluppo e una continuazione della civiltà neolitica; alla primitiva epoca del bronzo (antico-minoico III) dovrebbe aggiungersi una prima fase del periodo successivo (medio-minoico I a): infatti soltanto in una seconda fase (medio-minoico I b) ha inizio la costruzione dei palazzi, e la formazione dello stile di Kamares; a quest'epoca appartiene egualmente l'inizio del III periodo medio-minoico (medio-minoico III a); mentre un unico e indivisibile periodo è quello che rappresenta il massimo fiorire dell'arte cretese e le sue tendenze naturalistiche, e che comprende pure tutto il secondo periodo del tardo-minoico, in cui soltanto a Cnosso si possono notare, abbiamo detto, un parziale rifacimento del palazzo e il progressivo stilizzamento decorativo, soprattutto della ceramica, che raggiunge un aspetto ben distinto e peculiare. Il periodo naturalistico dell'arte cretese, dunque, abbraccerebbe le fasi dal medio-minoico III b al tardo-minoico II. Conformandoci a questa più ovvia evoluzione delle varie epoche secondo la trasformazione della civiltà e dell'arte nei varî capitoli che seguiranno, accetteremo tuttavia talora lo schema dell'Evans per maggiore comodità e chiarezza, essendo esso generalmente adottato.
Le altre civiltà preistoriche dell'Egeo. - Alle varie altre civiltà distribuite attorno al bacino del mare Egeo, con le quali prima o poi la civiltà cretese-micenea è venuta a contatto e che essa ha più o meno influenzato nel loro progresso, è attribuito il nome generico di civiltà egea. Ma in realtà possiamo distinguere in questa tre o quattro sfere di civiltà essenzialmente diverse e autonome: quella della Grecia settentrionale o tessalica (connessa probabilmente con la civiltà della Macedonia), quella della Grecia centrale e meridionale, chiamata elladica, quella delle isole, detta cicladica, e la civiltà delle coste dell'Asia Minore. Solo in un periodo posteriore, nella seconda metà del II millennio, è entrata nella zona d'influenza dell'Egeo anche l'isola di Cipro. È curioso che nessuna di tali civiltà sembra raggiungere un'antichità così elevata come quella dei profondi strati neolitici scoperti a Creta; la primitiva civiltà delle Cicladi, come quella sulle coste asiatiche, sembra appartenere appena al periodo di trapasso tra l'età neolitica e l'eneolitica; poco più in su nel tempo sembra risalire la civiltà, che dura però assai tardi in un aspetto neolitico attardato, della Tessaglia; Creta sembra essere stata abitata quindi in un periodo quando tutto intorno l'Egeo era ancora deserto: ma forse questo vuoto è dovuto alla lacuna delle nostre conoscenze; recentemente una fase di aspetto completamente neolitico si è palesata almeno nelle isole orientali dell'Egeo, a Coo e a Calimno.
La civiltà tessalica: suoi rapporti con la Macedonia, con la Tracia e con la Grecia centrale. - Le antiche popolazioni tessaliche, passate nella tradizione greca col nome di Pelasgi, nelle loro immigrazioni dal nord trovarono stanziamento specialmente nelle ampie pianure del Peneo e dello Spercheo, come attorno alla baia di volo. Questa civiltà è stata divisa in quattro periodi, di cui i due primi, successivi ma non staccati da un lungo intervallo di tempo, chiamati col nome delle due principali stazioni tessaliche di Sesklo e di Dimini, si palesano di carattere neolitico però assai attardato, dovuto in massima parte all'estrema rarità di metalli nella regione. Non solo nel secondo strato compaiono già armi e strumenti metallici, che dimostrano l'importazione e il contatto con popolazioni vicine, ma anche l'aspetto medesimo della ceramica e della decorazione peculiari della Tessaglia tradisce, più che un lento sviluppo autonomo, uno stadio ormai già avanzato, sia importato sin dall'origine dai nuovi sopraggiunti, sia preso a prestito. Altre stazioni tessaliche scavate, oltre alle due nominate, sono quelle di Rakmani, Zerelia, Marmarianí, alle pendici dell'Ossa, e via dicendo. Le prime abitazioni si manifestano sia come capanne rotonde di frasche e di fango, sia come casette rettangolari con fondamenta in piccole pietre; ma ben presto, a Dimini, vediamo case con divisioni interne, che mostrano la forma primordiale del megaron, quale s'incontra nelle più antiche manifestazioni a Troia a Dimini, inoltre, compare ormai anche una molteplice cinta di mura con porte. La ceramica tessalica, accanto ad alcune classi di rozzo impasto monocromo grigiastro, o con decorazioni incise, spesso riempite di materia colorante bianca, introduce subito la maniera caratteristica dei suoi vasi dipinti (fig. 15), decorati in colori assai vivaci, in bianco, bruno, giallo, e in nero e rosso vivace, alternando lo sfondo chiaro e quello scuro della superficie accuratamente lisciata; i motivi ornamentali, forse imitati dall'intreccito dei vimini, sono il meandro primitivo, le fasce curvilinee e le linee spezzate, la scacchiera, la spirale; forme caratteristiche sono i vasi sferici o sferico-schiacciati, con labbro verticale, le coppe, a fondo verticale a Sesklo e tronco-coniche a Dimini, i piedestalli a fruttiera. Oltre alla ceramica, ricordiamo le numerose figurine plastiche fittili, idoli di tipo steatopigico, o figure femminili stringenti il bambino al seno, uomini e animali; una serie di idoli in marmo sono forse importati dalle Cicladi, donde provengono anche le armi di ossidiana.
Nei due periodi successivi, la civiltà in Tessaglia segna una grande decadenza e un generale regresso; nel III periodo la ceramica dipinta cessa del tutto, ed è sostituita da rozza ceramica monocroma, e dall'importazione della ceramica caratteristica della Grecia centrale, detta minia; la datazione ormai è sicura, tra il sec. XVIII e il XVI a C.; è verisimile che all'importazione della ceramica corrisponda anche una penetrazione politica nel paese; gli oggetti in metallo, tuttavia, continuano a essere estremamente rari. L'ultimo periodo tessalico (1500-1200 a. C.) cade nell'epoca micenea, ed è caratterizzato appunto dall'introduzione di suppellettili e ceramiche micenee, i cui resti si sono rinvenuti insieme con la sempre più rozza ceramica locale degli strati superficiali.
La civiltà tessalica, dunque, sembra avere avuto una fioritura piuttosto breve. I suoi rapporti con la civiltà macedonica, per quanto evidenti, non sono facilmente dimostrabili per la scarsità delle investigazioni sicure e metodiche; ma peraltro, rami collaterali di una civiltà unica insieme con quella della Macedonia, sono, indubbiamente, quelli messi alla luce tanto verso nord-ovest del territorio macedonico, nella Serbia settentrionale, quanto nella Tracia e in tutta la parte orientale della penisola balcanica fino alla regione a sud del Danubio. Le stazioni macedoniche si presentano sia come piccoli tumuli artificiali, di forma ovale, formati dalle successive stratificazioni preistoriche (le cosiddette tumbe), sia sopra piccoli colli naturali. Uno dei centri più recentemente investigati è quello di Olinto, i cui strati più antichi palesano rapporti coi primitivi relitti di Troia; la ceramica di questa stazione include vasi neri con superficie rossa o nera lucente, vasi con decorazione incisa a disegni lineari e curvilinei, e infine vasi dipinti; notevoli un vaso zoomorfo e antichissimi idoletti fittili e in pietra; il fiorire dell'agricoltura e della pastorizia sono testimoniati dalle ossa degli animali domestici, dalle macine in pietra, da resti di frumento e di fichi. Attraverso al ponte di passaggio della Tracia, dunque, si possono spiegare certi contatti e certe somiglianze fra gli antichi strati di Troia, e in genere fra la civiltà preistorica dell'Asia Minore e la civiltà tessalica, mentre anche nella civiltà macedonica si notano vetuste influenze delle civiltà dell'Egeo. Dopo l'importazione delle ceramiche micenee in queste regioni così appartate dal movimento culturale della Grecia, è curioso osservare uno strascico d'imitazioni e degenerazioni locali, che arrivano perfino a incontrarsi con le prime importazioni della ceramica attica.
La civiltà elladica. - Nel suo periodo di maggior fiore la ceramica tessalica si è estesa anche giù nella valle dello Spercheo, penetrando fino nel territorio della Beozia, p. es. a Cheronea e a Orcomeno. Ma ben presto possiamo constatare la produzione nella Grecia centrale di ceramiche proprie, che a loro volta si sono diffuse in Tessaglia, e su vasto territorio del mondo egeo. Gli strati principali della città meglio investigata, Orcomeno, sono tre: già nello strato inferiore, dell'ultimo periodo neolitico, si notano case a pianta rotonda, con fondamenta di piccole pietre che erano coperte da un tetto di fango e di rami; nello strato successivo si mescolano le case ovali e quelle rettilinee, con fossette cinerarie rotonde presso la soglia, probabilmente di significato sacrale. È questo il periodo antico-elladico, che si distingue per una ceramica fatta a mano, a superficie bruno-rossa brillante, talora invece solo con qualche semplice elemento lineare o a rare spirali applicato nella vernice lucente, ceramica detta, dal luogo presso il Cefiso dov'è apparsa in grandi quantità, ceramica di Hagia Marina (la Urfirniskeramik degli archeologi tedeschi). Questa ceramica è comune tanto alla Beozia e alla Grecia centrale, quanto alle Cicladi e al Peloponneso, dove è da ricercarsi con probabilità la sua origine, e si espande nella Grecia centrale fino a Leucade.
Una delle forme caratteristiche è quella delle salsiere con alto becco proteso; inoltre vi sono rappresentate brocchette con becco rialzato, tazze, askoi e via dicendo. Un po' più tarda della precedente è la classe della ceramica a decorazione opaca (Mattmalerei secondo la denominazione tedesca), pur essa con elementi decorativi lineari assai semplici e parchi in vernice bruna opaca sul fondo giallo chiaro, di cui le forme principali sono i grossi pithoi panciuti e le tazze a bocca larga e fondo ristretto, ceramica talora, dall'isola in cui s'è rinvenuto il nucleo più cospicuo, chiamata di Egina. Questa categoria continua anche nel III periodo di Orcomeno, il quale è datato attorno al sec. XVI a. C. per l'associazione di ceramiche micenee importate. Questo periodo è caratterizzato dalla diffusione d'un nuovo genere di ceramica, che ha questa volta l'origine probabilmente proprio in Beozia, ed è chiamata, dal nome del mitico eroe beotico, minia; è la prima ceramica locale fatta al tornio e con tutta certezza da imitazione di modelli metallici, benché questi non si siano rinvenuti; è in un impasto nero-grigiastro a superficie lucente quasi metallica; le due forme tipiche sono il calice ad alto piede, vuoto internamente e scanalato (fig. 16), e il nappo con le due alte anse sovrastanti il labbro, di una forma che ricorda il cantharos greco. Ha avuto questa ceramica un'ampia diffusione in tutta la Grecia; a nord in Tessaglia, a est nelle Cicladi e fino in Troade, ma non a Creta, a ovest fino a Leucade, a sud nel Peloponneso; qui soprattutto però fiorisce un'imitazione locale della ceramica minia, in argilla rossa con superficie nera non tanto lucente come la ceramica originale, o bruno-gialliccia.
Nel Peloponneso, le stazioni più importanti per una scrupolosa investigazione e per una netta stratificazione sono Korakou, a poca distanza dalla moderna Corinto, Zygouries, vicino all'antica Cleone, e Corinto stessa. Osservando lo scavo di una di tali stazioni, per es. Korakou, in un primo gruppo di successive stratificazioni, comprendenti un'epoca che corrisponde al I e al II periodo tessalico, accanto alla rozza ceramica d'impasto monocroma e con incisioni, troviamo la ceramica verniciata detta Urfirnis (v. qui sopra) caratteristica anche del II strato di Orcomeno; si conservano per questo stadio solamente pochi resti di mura, a mattoni di fango, e una di quelle fossette probabilmente sacrali che pure sono state notate a Orcomeno. Il II strato di Korakou contiene invece ceramica a decorazione opaca e ceramica minia, e palesa verso la sua fine i primi contatti dell'arte cretese; è qui che si rinviene il primo esemplare di una casa absidata, con l'atrio e la stanza interna. Nello strato superiore si possono distinguere tre fasi, corrispondenti all'ingrosso ai tre periodi del tardo-minoico; in quest'epoca la ceramica locale consiste specialmente nell'imitazione della ceramica minia a superficie bruna; interessante inoltre è una classe peculiare, battezzata, dal primitivo nome di Corinto, ceramica efireo, classe che ha prodotto delle eleganti coppette a due anse e ad alto piede, con decorazione verniciata di fiori, o di nautili, o di spirali, e che dunque si palesa quasi come una contaminazione di forme locali e di decorazione ispirata all'arte cretese; oltre che nell'Argolide, qualche prodotto di questa classe ceramica è arrivato fino a Melo. Anche il Peloponneso è associato a questo sviluppo generale della ceramica elladica, e negli strati preistorici di Olimpia si sono rinvenuti, come altrove, abbondanti resti in special modo di ceramica a decorazione opaca e di ceramica minia a superficie bruna.
Resti considerevoli della civiltà preistorica si sono rinvenuti pure sui luoghi della tradizione omerica, soprattutto sull'Aspis di Argo e a Tirinto; le stratificazioni qui però, sotto alle rovine monumentali più tarde, non si sono conservate in successione cosi chiara. Dobbiamo tuttavia ricordare per Tirinto l'imponente edificio di età preistorica, rinvenuto sotto il più antico palazzo miceneo, di forma rotonda e con un diametro di 28 metri, con basamento in pietra, su cui l'alzato era eretto probabilmente in mattoni crudi; in esso però si sono conservati anche mattoni cotti del tetto piatto, i più antichi finora conosciuti: in questo edificio è da riconoscere indubbiamente il più antico palazzo principesco del Peloponneso, anteriormente alla prepotente espansione della civiltà cretese.
La civiltà cicladica. - Uno sviluppo più fiorente che non la Grecia continentale, raggiungono in questo primitivo stadio di civiltà le Cicladi. La fase più antica della civiltà cicladica non risale tuttavia oltre l'incipiente età del rame, benché oggetti metallici siano rari, soprattutto negli strati più vetusti.
Le prime abitazioni sono capanne all'aperto; soltanto in uno stadio successivo si riscontrano gruppi di case recinti da cerchie di mura, rinforzate anche da torri; resti di tali cerchie sono notevoli p. es. a Siro e a Sifno; non si sono scoperte fra tali abitazioni, come nel Peloponneso, le capanne a pianta rotonda, ma la loro esistenza è assai verosimile, per la forma rotonda di un cospicuo numero di tombe, alle quali è dovuta la parte più considerevole dei rinvenimenti delle isole. Queste tombe, a pianta rotonda o ellittica, sono vere minuscole tombe a cupola, foderate di piccole pietre, nelle quali il cadavere era deposto rannicchiato; anche nelle Cicladi sono però più frequenti le tombe, comuni nella civiltà elladica, a cassette foderate di ampie lastre di pietra. I vasi fittili più antichi sono quelli consueti d'impasto grossolano, con la superficie più o meno levigata e ornati da incisioni talvolta riempite di materia colorante; segue la classe comune anche alla Grecia centrale e meridionale a Urfirnis, e insieme una fabbrica del tutto peculiare, monocroma e a superficie lucentissima nera; in questa è caratteristica la forma a padella (fig. 17), con manico a duplice presa, come è caratteristica la penetrazione, probabilmente dalle civiltà settentrionali, della decorazione spiraliforme, estesa su tutta la superficie dei vasi, alternata talora da semplici cerchietti concentrici o da cerchi uniti da tangenti; nelle padelle è incisa spesso nel mezzo una schematica forma di nave; altre forme (vasi globulari su piede campanato, tazze, ciotole) sono dovute all'imitazione dei vasi in marmo, la lavorazione dei quali è già assai cospicua in quest'epoca, e che talora, come si osserva nella caratteristica pisside di Amorgo (fig. 18), hanno la medesima decorazione curvilinea dei vasi fittili. La lavorazione primordiale dei marmi delle isole produce anche l'abbondante serie degl'idoli delle Cicladi (fig. 19), le rozze figurine talora informi, talora conformate a schematica forma umana, o a violino, talora con indicazione della testa e delle braccia, che talvolta raggiungono grandezze notevoli (una di Amorgo supera un metro di altezza), diffuse in tutte le civiltà egee, fino in Troade e a Creta; quasi sempre questi idoli, probabilmente talismani inclusi nella tomba, rappresentano figure femminili ignude, più rare sono le figure maschili, e talora in forme diverse, come una nota immagine di suonatore di lira. La civiltà delle Cicladi, che ha dato scoperte interessanti, oltre che a Siro e a Sifno, a Paro, a Nasso, ad Amorgo, si è estesa fino all'Eubea, che gravitava in questa primordiale epoca più verso l'Egeo dunque che verso la Tessaglia; merita menzione lo strato preistorico della più meridionale delle Cicladi, Tera, rinvenuto sotto il manto di lava della eruzione che determinò l'immane cataclisma dell'isola, la cui parte centrale si inabissò totalmente e fu invasa dal mare. L'isola di Tera fu, naturalmente, la prima esposta all'espansione della civiltà di Creta, la cui importazione è riscontrabile fino dal periodo della ceramica policroma di Kamares.
Un cenno a parte richiedono le antichità dell'isola di Melo. Questa isola - come Tera di formazione vulcanica e che egualmente ebbe la sua conformazione attuale in seguito all'inabissamento del cono vulcanico, avvenuto in epoca però assai più remota che non a Tera - deve la sua grande importanza e floridezza nell'antichità ai ricchi giacimenti di ossidiana, la roccia vitrea e compatta di cui la maggior parte dei popoli primitivi si è servita per armi taglienti e per istrumenti svariati. Nella località di Phylakopi, presso un giacimento assai spesso di tal minerale, sopra miseri avanzi di alcune capanne di strame, si sono sovrapposte tre successive città, nell'inferiore delle quali si è già scoperta una vera e propria officina di ossidiana; allo sfruttamento dell'ossidiana erano dedicati evidentemente anche gli abitatori delle primitive capanne, le cui suppellettili però, coi rozzi vasi fatti a mano e con decorazioni incise, corrispondono a quelle delle altre Cicladi, di periodo cioè già eneolitico; ma lo sfruttamento dell'ossidiana da parte della civiltà neolitica cretese è cominciato evidentemente in periodo assai più vetusto, e il materiale quindi è stato tratto rozzo da Melo e portato e lavorato nell'isola, come dimostrano diversi nuclei rinvenuti presso le stazioni neolitiche cretesi. Oltre i rapporti fra Melo e Creta, il commercio dell'ossidiana comprova quelli delle Cicladi con la maggior parte del mondo egeo; sennonché si ritiene generalmente che Melo sia stata l'unica fonte di tutta l'ossidiana di tali civiltà, mentre le ricerche italiane nelle Sporadi meridionali hanno constatato la presenza di strati di ossidiana anche in quelle isole, specialmente nell'isoletta di Ialí e a Calimno, ossidiana che però qui è verde assai chiara e trasparente, talora bianco-vitrea e ben diversa dall'ossidiana verde scura-nerastra di Melo; ora anche a Creta assieme all'ossidiana scura è stata notata la presenza dell'ossidiana più chiara, che forse deriva da questi giacimenti orientali piuttosto che da Melo.
Nella città inferiore di Phylakopi, costituita da case sparse con fondamenta di pietre cementate da argilla, continua la ceramica fatta a mano e con decorazioni incise, mentre appare la ceramica a vernice lustra, e subentra poi la decorazione dipinta sia in bianco su fondo scuro sia in nero sopra fondo chiaro ingubbiato. Le forme dei vasi non sono molto dissimili da quelle del Peloponneso e di Egina; in quest'ultima categoria appaiono anche i segni della scrittura imparentata a quella cretese. La città mediana è assai meglio conservata, e possiede una poderosa cinta, con due mura parallele e uno strato intermedio di riempimento, dello spessore complessivo di 6 metri; la porta è rinforzata da un braccio sporgente anteriore, col sistema difensivo che vedremo nei suoi esempî più perfezionati a Micene e a Tirinto; le singole case di questo periodo hanno il tipo a megaron, con stanza preceduta da atrio, e talora sono associate due a due, con gli atrî comunicanti; in alcune di queste si sono rinvenuti degli affreschi, tra cui un affresco marino, con pesci-volanti, strettamente affine agli affreschi caratteristici del palazzo di Cnosso, all'epoca dello splendore naturalistico dell'arte cretese; anche il rinvenimento di alcuni frammenti di ceramica di Kamares, d'altra parte, delimita l'esistenza di questa seconda città in un periodo che approssimativamente si estende dal 1800 al 1500 a. C. La ceramica di tale strato, però, oltre le importazioni da Creta, palesa uno sviluppo locale in cui l'influenza cretese si fa sempre più evidente, e in cui, lasciando sempre più da parte gli elementi geometrici dell'età precedente, si fa più viva l'imitazione della natura; si alterna la decorazione in rosso e in nero, si stende su tutto lo spazio dei vasi - come, p. es., su alcune graziose brocchette panciute a stretto collo e becco ritorto in alto (fig. 20) - un'ornamentazione floreale, fatta di gigli e di crochi, e subentrano gli uccelli e gli animali fantastici e mostruosi. A questo periodo appartiene anche un grande basamento cilindrico (fig. 21), con figure di pescatori semi-ignudi che incedono sorreggendo dei tonni, nei quali solo l'immenso occhio nel mezzo della faccia, di cui non è possibile farsi una chiara ragione, pecca contro la naturalezza generale del disegno. Del resto si fa sempre più numerosa l'importazione dei vasi cretesi, si che, a poco a poco, la produzione delle officine locali scompare del tutto. Solo l'importazione micenea sussiste nella terza città; è interessante notare in questa, in mezzo alle varie ma poco conservate isole di case tagliate da stradine, il palazzo dei signori della città, fornito di un ampio e ben costruito megaron, coperto di uno strato di stucco sul pavimento e col focolare nel centro della stanza interna, fiancheggiato da una serie di piccoli vani a destra, e con qualche vasto ambiente posteriore. Tale edificio ricorda singolarmente il megaron del palazzo di Tirinto. Il sopraggiungere della civiltà del ferro pone fine all'industria dell'ossidiana, e insieme alla vita dell'ultima città di Phylakopi.
La civiltà di Troia. - Partecipa alla vita del mondo egeo, dapprima con caratteri proprî e con influenze attive, in seguito con l'adozione dell'imperante civiltà micenea, la costa dell'Asia Minore, la cui civiltà ci è illustrata specialmente dagli scavi dell'antica Troia. Senza dilungarci intorno all'opera di Enrico Schliemann, né attorno all'opera più paziente e metodica del suo successore, Guglielmo Dorpfeld, si descriveranno rapidamente gli strati differenti che sono stati, mercé tali ricerche, messi a nudo sulla collina di Hissarlik, presso la confluenza dello Scamandro e del Simoenta. Sono state qui chiaramente distinte 9 città successive; importanti soprattutto sono la II città, dell'epoca preistorica, e la VI, che è apparsa come la città dei poemi omerici; la VII è la città proto-ellenica, fiorita tra il 1000 e il 700 circa, le due ultime sono la città greca classica e quella romana. Dello strato inferiore, sopra la roccia nuda, si sa assai poco, perché si è poco scavato per non distruggere lo strato della II città; a ogni modo i resti della ceramica, per lo più monocroma, a superficie gialliccia o nera levigata, e talora con incisioni riempite di bianco, accennano a un parallelo con la ceramica dell'età eneolitica, con la ceramica a vernice lucente e con quella protominoica, mentre uno strato propriamente neolitico sembra mancare; le belle armi in pietra confermano questa datazione piuttosto tarda, che non sembra risalire oltre al III millennio a. C. Una ceramica consimile finora è stata rintracciata in Asia Minore, soprattutto a Iortan, non lontano da Pergamo, come pure in alcune tombe con cadaveri rannicchiati a Hanai Tepe, non lungi da Troia. La II città, che lo Schliemann ha scambiato con la città omerica, appartiene all'epoca del bronzo; essa è circondata da una forte cinta di mura, rifatta tre volte, di contorno circolare, e quasi tutta conservata meno nella parte settentrionale; le mura, inclinate a scarpata, sono costruite di rozze pietre cementate con terra per tutto il basamento, che in qualche punto raggiunge ancora 8 metri di altezza; sopra si innalzava la parte superiore, costruita con mattoni crudi intramezzati da filari di assi e di travi; l'incendio della città, palese in tutte le rovine, ha consolidato qualche parte delle costruzioni in mattoni. Interessante è la disposizione delle porte della cinta, le quali erano fiancheggiate da mura di rinforzo perpendicolari alla cinta medesima con torri di guardia ai lati; davanti alla porta di sud-est si conserva ancora assai bene una rampa larga 8 metri e selciata da pietre poligonali; infine di grande importanza è anche la disposizione e l'architettura delle abitazioni interne, al cui complesso si accedeva mediante un propileo, che sembra precorrere quelli dell'architettura micenea e greca, e la cui singola casa ha già la forma caratteristica del megaron, col suo vestibolo, chiuso dal prolungamento dei muri con le ante rivestite in legno, e con la stanza di abitazione contenente nel centro il focolare rotondo: forma di casa che manifesta il costume di un popolo proveniente dal nord e avvezzo a climi rigidi, che dunque dalla costa asiatica ha avuto la sua diffusione, probabilmente quasi mezzo millennio più tardi, nelle Cicladi e nella Grecia continentale. Anche la suppellettile di questa città preistorica ha un carattere del tutto peculiare; la ceramica (fig. 22) ci mostra i suoi vasi sempre monocromi nerastri, senza nessuna decorazione o con qualche parca decorazione lineare o a spirale; sono soprattutto le brocche ad alto becco, le tazze con due grandi anse verticali ai lati, da principio credute il nappo omerico (δέπας ἀμϕικύπελλον), o ad ampia ciotola con due anse sovrastanti il labbro, similmente ai vasi minî, e sono poi i caratteristici vasi a forma antropoide, di tipi svariati; importanti i numerosissimi e ricchi oggetti d'ornamento, chiamati da principio il tesoro di Priamo, con diademi, collane, orecchini, bracciali, vasi; dei due spillini d'oro riprodotti (fig. 23) uno è sormontato da una serie di sei vasetti sopra una targa decorata a spirali, l'altro è del pari formato da spirali attorno a una rosetta; in quest'ultimo si nota un rapporto con Creta; ma più spesso in tali ornamenti, come nelle armi e negl'idoli assai numerosi, sono visibili rapporti con le Cicladi; qualche altro idolo, come uno in piombo a corpo femminile nudo con le mani riportate ai seni, ha al contrario un tipo nettamente asiatico; alcune preziose asce in pietra verde scura e in lapislazzuli, trovano riscontro solo in esemplari della Bessarabia. Così la civiltà del II strato di Troia, da un lato sembra mostrare la derivazione dei suoi elementi fino dall'Europa centrale come pure dalla vicina civiltà asiatica, mentre dall'altro mostra i rapporti sempre più stretti col bacino dell'Egeo e con le Cicladi: strato che sembra essere durato per gran parte della seconda metà del III millennio, penetrando per non lungo spazio nel II, poiché i più recenti ritrovamenti corrispondono alla prima fase del periodo mediominoico di Creta.
D0po l'incendio dei palazzi e delle mura della II città, soltanto poche e povere case si sovrapposero per un lungo periodo: più che città sono villaggi quelli che hanno lasciato le tre successive stratificazioni, fino alla VI (sec. XV a. C. circa), quando sorse la cittadella omerica, entro una cerchia ancora più ampia e più imponente. Anche di questa cinta è distrutta la parte settentrionale, riadoperata per le costruzioni elleniche; la tecnica di costruzione da principio non era diversa da quella della II città, con sovrastruttura cioè in mattoni crudi; ma a poco a poco si sostituì la costruzione regolare in filari paralleli, tutti in pietra, che, sia all'interno sia all'esterno, palesano a intervalli regolari riseghe ritagliate accuratamente in linea verticale su tutti i blocchi, simili alla cinta micenea di Arne (v.) sul lago Copaide, per uno scopo qui imprecisabile; la cinta è inoltre difesa di tratto in tratto da torri; ma quello che è più notevole è il diverso sistema delle tre porte e della pusterla, che è ora quello delle due braccia di mura parallele, fiancheggiate da torri, secondo il sistema che si riscontra a Melo (v. sopra), a Tirinto e a Micene (v. appresso). Purtroppo di questa città il palazzo dei principi, come gran parte dell'abitato, sono scomparsi sotto le costruzioni greco-romane; qualche casa dimostra che il sistema del megaron è sempre in uso, talora anche con un filare di colonne nel mezzo tra le due pareti per sostegno del tetto, quale sarà la pianta dei più primitivi templi ellenici. Quanto alla suppellettile, continua la produzione delle ceramiche locali, però poco sviluppate, con forme di vasi poco diverse da quelle descritte e a superficie per lo più liscia, senza decorazione; solo nelle anse si produce qualche nuova forma ad animale; ma assieme a questa ceramica si nota sempre più frequente l'importazione delle ceramiche micenee, che palesano una notevole durata della città, fino alla decadenza della civiltà micenea. Le tracce della rovina, sulle grandiose mura e sui poveri ruderi della città, ci conservano testimonianza delle immagini evocate dai canti di Omero.
La fine della civiltà cretese-micenea, e i popoli del mare. - La fine della millenaria civiltà cretese-micenea ci si nasconde dietro ai veli di un'epoca di grandi torbidi e di sconvolgimenti politici; le razze e i nomi dei popoli che si agitano in questo confuso periodo di migrazioni e di lotte sono ancora malsicuri. Neppure dopo la seconda e più catastrofica distruzione dei grandi palazzi cretesi, attorno al 1400 a. C., si può notare una sovrapposizione di civiltà diversa; è vero che sopra il palazzo di Cnosso, dopo un notevole intervallo di abbandono, s'è ricostruito solo un edificio assai minore su una parte della sua primitiva area; ed è vero soprattutto che in altre località la costruzione nuova assume un carattere architettonico del tutto straniero e derivante dall'architettura del continente e del Peloponneso, come a Hagia Triada; ma, nella sua corrente essenziale, la civiltà non muta la sua rotta, e solo si va lentamente irrigidendo in uno schematismo e in una povertà sempre più sensibili: la distruzione dei palazzi cretesi, che sembra essere stata improvvisa e aver sorpreso quasi gli artefici dei palazzi nei loro laboratori, è dunque dovuta a una conquista da parte dei signori potenti di Tirinto e di Micene, degli Achei, oppure è una semplice rivolta interna, forse una rivoluzione dei contadini contro i loro padroni? Il dubbio è insolubile. Ma è certo, per contro, che la prima colonizzazione dell'isola non è dovuta ai Dori; nel dialetto di epoca classica di Creta è ben discernibile un elemento pre-dorico, notevole soprattutto nella parte centrale dell'isola, quella che ha ospitato i maggiori centri minoici e che è stata evidentemente oggetto delle maggiori ingordigie e delle prime invasioni; ancora in tempi classici vivevano in Creta dei nuclei di Arcadi: non sono colonie delle rozze genti montanare, isolate e racchiuse nel centro del Peloponneso in periodo storico, ma probabilmente delle genti pre-doriche, chiamate Arcadi, di ceppo eolico meridionale, o acheo, che abitavano tutto il Peloponneso prima delle invasioni dei Dori. Costrette a emigrare sotto la spinta di tali invasioni, niente di più facile che abbiano sostato da prima nella ricca e grande isola vicina, e più tardi, incalzate dal nuovo progresso dei vincitori, si siano spinte più oltre fino alla lontana Cipro; solo piccoli nuclei di esse, protetti dalla barriera di aspre montagne, si sarebbero mantenuti nel centro del Peloponneso, come altri piccoli nuclei sulle pendici dei monti Lassithi a Creta; così si potrebbe spiegare il fenomeno della stretta parentela fra il dialetto arcadico e quello di Cipro. La conquista achea di Creta, in realtà, sarebbe potuta accadere senza comportare una radicale trasformazione di vita e di civiltà, poiché, ormai da secoli, tutta l'Argolide era imbevuta d'arte cretese, talmente da non poter spesso distinguere i prodotti indigeni da quelli importati; ma per questa datazione così alta, un'invasione e una colonizzazione in massa pare non molto accettabile; per più secoli ancora la storia dei popoli dell'Egeo sembra palesare - come confermano in parte le narrazioni egizie e gli archivî hittiti - più che altro spedizioni di alcuni capi, improvvise e fugaci rapine di pirati; è del resto più verosimile che anche l'invasione achea di Creta sia avvenuta a tenui e successive ondate, come sarà più tardi della colonizzazione dorica, che assimilerà, in condizioni sociali diverse, i primitivi abitatori dell'isola come i primi invasori greci. Orbene, durante l'estrema fase di civiltà micenea, cominciano ad apparire manifestazioni che si debbono attribuire indubbiamente a una civiltà straniera. In alcune tombe, come quelle di Moulianá, in cui l'arte micenea ha compiuto quasi tutto il ciclo della sua evoluzione regressiva, irrigidendosi in formule schematiche e sempre più incomprese, si rinvengono infatti le prime testimonianze di un rito mortuario nuovo, quello dell'incinerazione, si trovano nuove forme d'armi, la spada di tipo nordico, e insieme il nuovo metallo, il ferro, in cui le armi cominciano a essere foggiate. È del resto possibile notare la stessa contemporanea apparizione di questi elementi, indici di nuove popolazioni e di una nuova civiltà, anche in altre stazioni della postrema civiltà micenea, pure fuori di Creta, come, per es., a Rodi: questi prodromi del grande moto di popoli che fra poco sconvolgerà l'aspetto dell'Egeo e del Mediterraneo, sono almeno un indubbio segno della prima sensibile infiltrazione di genti elleniche, spinte innanzi dalle successive ondate incalzanti; e, poiché solo più tardi l'invasione dorica di Creta porterà con sé una rapida trasformazione di tutti gli aspetti della civiltà, queste infiltrazioni sono verisimilmente infiltrazioni di quegli elementi pre-dorici che hanno lasciato traccia di sé nella costituzione e nella lingua del paese, forse, dunque, degli Achei della leggenda epica.
Con queste migrazioni elleniche nella penisola balcanica e nell'Egeo vanno collegate le convulsioni che agitano in questa epoca anche l'Oriente, le coste dell'Asia Minore e della Siria, minacciando perfino il potente regno faraonico. Dopo la XVIII dinastia nelle fonti egiziane non compare più il nome di Keftiù; cominciano invece a fare la loro apparizione popoli settentrionali, i cosiddetti popoli del mare, che in tre riprese muovono all'attacco contro l'Egitto, e alle incursioni dei quali cercano di opporsi i Faraoni. Il primo attacco è stato mosso al tempo di Ramses II dagli Hittiti, nel cui esercito si rinvengono come milizie ausiliarie contingenti di varie popolazioni, dei cui nomi la vocalizzazione e trascrizione è piuttosto problematica, ma fra cui citiamo i Lukki, i Pidasa, i Dardanua, i Masa, nomi in cui siamo fortemente inclini a riconoscere i popoli della Licia, le genti di Pedasos in Caria oppure della Pisidia, i Dardani, i Misî; il nome di un popolo che alcuni hanno letto Iliuna, ci riporterebbe irresistibilmente all'epica Ilio. A Qadesh, circa l'anno 1295 a. C., gli Hittiti e i loro alleati sono stati sanguinosamente sconfitti. Circa 70 anni più tardi, secondo assalto dei popoli del mare, in alleanza questa volta coi Libî per l'invasione del Delta del Nilo. Compaiono ora dei nuovi popoli, fra cui gli Akaiusha, i Turusha e i Shardani; questi ultimi sono per lo più identificati coi Tirreni di Lemno e con gli abitanti di Sardi in Asia Minore: ma la discussione è complicata dai loro rapporti con gli Etruschi d'Italia e con gli abitanti della Sardegna; nei primi si sono riconosciuti gli Achei. Tali identificazioni evidentemente presuppongono già largo movimento di popoli, o almeno spedizioni, dalle isole dell'Egeo e dalle coste del Peloponneso verso l'Asia Minore; una conferma pare offerta dalla recente decifrazione degli archivî della capitale hittita, Bogazköi; anche in queste iscrizioni sarebbe stato invero riconosciuto il nome del paese di Acaia; i re achei sarebbero uniti a re hittiti in spedizioni nell'interno dell'Asia Minore fino dal sec. XIV. L'ultimo e più grave assalto dei popoli del mare è stato arrestato da Ramses III, nel primo quarto del secolo XII (probabilmente nel 1193 a. C.). La venuta di questi popoli per mare e per terra aveva segnato un crollo di regni e di civiltà. Il potente regno hittita è ormai stremato di forze: la sua stessa capitale può essere facile conquista di bande frigie e asiatiche. Già da lungo tempo la vetusta civiltà babilonese è in manifesta decadenza, e in uno stato di raccoglimento, che solo qualche secolo più tardi produrrà la rinascenza assira. L'Egitto medesimo è in pieno declino: Ramses III deve concedere ad alcuni degli invasori di stanziarsi proprio al confine dell'Egitto, allo sbocco delle strade carovaniere dell'Asia. Fra queste popolazioni appaiono ora i nomi dei Danauna, dei Zakara, dei Pulasati: il primo è stato raffrontato al nome dei Danai, il secondo sia a quello dei Teucri, sia alla città cretese di Zakro; certo però i più potenti sono i Pulasati, rappresentati nei rilievi egizî, con le alte acconciature crestate, con le daghe e gli scudi rotondi, accompagnati dai carri, tirati da buoi, e dalle proprie donne; sono essi generalmente ritenuti i Filistei della Bibbia. Ora le fonti bibliche nominano spesso un popolo chiamato Kreti, o Kretīm, che abita al sud-ovest della Palestina, appunto nel territorio dei Filistei; e altri indizî ricollegano questa popolazione alla Creta preistorica; gli scavi, condotti a Gaza e in altre località dal principio di questo secolo, e ripresi vivamente in questi ultimi anni in Filistea, mettono di fronte a una ceramica e ad altri prodotti artistici, che, al principio dell'epoca del ferro, sembrano essere una tarda derivazione e degenerazione delle ceramiche e delle industrie micenee tarde. Si tralascia qui di proposito la questione dell'alfabeto alla quale è stato accennato più sopra; ma si rammenta che la tradizione classica di Stefano di Bisanzio testimonia che Gaza si chiamava originariamente Minoa, e che il sommo dio della città sarebbe stato Zeus Cretagene.
Cronologia e aspetti del tramonto della civiltà micenea. - In più punti dei canti epici greci ci appare manifesta la coscienza e la memoria della civilta pre-ellenica, e precisamente della declinante civiltà micenea (v. omero). A quale data, ora, dobbiamo far risalire tale declino, e come ci si presenta la fine di tale civiltà? La maggior parte degli studiosi, ritenendo le ceramiche importate nelle città egiziane di Gurob e di Tell el-‛Amārnah, consimili e contemporanee agli estremi prodotti della civiltà micenea, riportano la fine di questa allo scorcio, circa, del sec. XIII, data che sembra in realtà troppo elevata. Quando le invasioni doriche ebbero stroncato la civiltà micenea, l'arte dei nuovi rozzi dominatori dovette riprincipiare il proprio lento e faticoso cammino, ispirandosi a gusti e tendenze ben lontane da quelle che erano state proprie della lieta e libera arte cretese; questo periodo oscuro che segue al crollo dell'arte micenea, dai principî schematici e lineari che informano tale nuova corrente artistica, e che si palesano a noi precipuamente nelle ceramiche dipinte, ha assunto il nome di geometrico; nel linearismo e nello schematismo cui s'era ridotta la decorazione, una volta così rigogliosa, dell'arte cretese-micenea, aveva del resto l'arte geometrica trovato, se non davvero un modello e uno spunto, certo almeno il campo libero per la propria manifestazione. Ma tale arte, povera di risorse e di evoluzione, che imperò in Grecia fino al sopraggiungere di nuove correnti, attraverso ai commerci dei Fenici e per influsso di prodotti e di elementi d'arte orientali, non può assolutamente aver riempito di sé lo spazio di oltre quattro secoli. In realtà le ceramiche del tipo di Tell el-'Amārnah non rappresentano l'estrema degenerazione della ceramica micenea; a Micene stessa possiamo osservare il trapasso in stadî ancora più sommarî, prima di giungere ai prodotti fittili che riscontriamo essere periti assieme all'ultimo palazzo della città; ed egualmente un lento e affaticato strascico di prodotti micenei ha certo continuato la sua vita nelle fabbriche degli altri centri micenei, e ne ritroviamo le suppellettili nelle altre tarde necropoli, in cui solo a poco a poco ci accorgiamo di essere indubbiamente già penetrati nell'epoca del ferro; a Creta stessa, ha ancora l'aspetto di questa stanca fase micenea la suppellettile di tombe, come quella di Moulianá, in cui hanno fatto apparizione contemporanea il nuovo metallo, le nuove armi settentrionali, e il nuovo rito a incinerazione; e prodotti micenei anche più tardi continuano altrove, fino al definitivo, ma insensibile trapasso, a una ceramica che si deve ormai chiamare geometrica. Si deve dunque ammettere che durante il periodo di torbidi politici, di sconnessione tra i varî paesi dell'antico unico mondo miceneo, le officine hanno ancora continuato la loro produzione, per quanto isolatamente, per quanto forse solo per uso interno e senza più la forza e la possibilità di espandere i proprî prodotti. Solamente la marea dorica, la "discesa degli Eraclidi", di cui l'archeologia riconferma in massima la data tradizionale attorno al 1000 a. C., ha travolto e distrutto queste ultime officine. Ma è logico desumere che nei centri dov'era più viva la tradizione antica, come a Creta, oppure nelle provincie lontane e appartate dai nuovi focolari d'arte e di ispirazione, gli elementi e le tendenze antiche abbiano prevalso ancora per un certo periodo, all'alba della nuova civiltà. Scuole e fabbriche micenee stilizzate in maniere proprie, hanno fiorito probabilmente nelle grandi isole, lontane ancora dai torbidi dell'Egeo, di Rodi e di Cipro; recenti scavi eseguiti dalla Scuola archeologica italiana di Atene, hanno condotto, a Efestia di Lemno, alla scoperta di una città e di una necropoli, che, in epoca geometrica e già con sensibili influssi orientali, conservano ancora la tradizione micenea nelle forme dei vasi, nella maniera decorativa e anche nel disegno figurato: è così che è possibile comprendere il trascinarsi di elementi micenei nelle tumbe macedoni fino quasi all'importazione di vasi attici, e farsi una ragione di un riflesso locale, quasi, di antichi usi micenei, nelle maschere auree e negli elementi decorativi, della suppellettile straordinariamente ricca, ispirata ormai nella massima parte all'arte corinzia, rinvenuta in alcune tombe presso il Lago di Ochrida ai confini tra l'Albania e la Serbia meridionale.
L'eredità cretese-micenea nella civiltà ellenica. - A Creta, dopo la lenta agonia dell'arte micenea, anche il trapasso fra essa e l'arte nuova avviene senza scosse e senza brusche trasformazioni; ci sono delle stazioni, come Vrokastro, a cavallo fra le due civiltà, in cui non si saprebbe definire dove cessa la ceramica micenea e dove comincia quella sub-micenea; ci troviamo per un certo periodo di fronte a una quantità di forme ceramiche inconsistenti in via di evoluzione; la forza della tradizione è tanta, che solo assai lentamente si fa strada il nuovo spirito decorativo, e solo assai tardi si può dire di essere di fronte ad un vero stile geometrico: stile geometrico però che rimane sempre peculiare e che conserva una grande quantità di elementi dell'antico repertorio miceneo: questo ancora fino al momento in cui rifluiscono anche verso Creta le correnti dell'arte orientale, fino al sec. VIII almeno, cioè, come nella necropoli recentemente scavata di Arkades, alle pendici dei monti Lassithi in Pediada, nella regione appunto che si è detto essere stata abitata ancora in epoca classica da genti pre-doriche; stile in cui anzi appare talora a un tratto qualche vetustissimo motivo che si credeva da secoli obliato, e che non può essere risorto per caso ma che è certamente sopravvissuto ed ereditato dalla civiltà precedente.
A questa diretta sopravvivenza di un tardo strascico miceneo in diversi luoghi dell'Ellade si deve la penetrazione di alcuni sporadici motivi dell'arte pre-ellenica nella fase iniziale dell'arte greca; si ricordano alcuni tipi mostruosi, per es., fra gli altri, quello del Minotauro; si impone anche, oggi, una rivalutazione di diversi motivi che entrano a far parte del repertorio ellenico, per vero, in grazia della corrente d'arte orientalizzante che fu quasi un germe di fecondità e di risveglio dell'incipiente arte greca, ma che forse portava con sé diversi prestiti già anticamente ricevuti o riofferti dalla vetusta arte cretese alle arti stesse del prossimo Oriente: ricordiamo i tipi decorativi ad animali affrontati, o a file di animali correnti, certi mostri bicorporei o certi esseri fantastici alati. Si tratta fin qui di prestiti e di elementi superficiali: ma lo spirito stesso dell'arte cretese pre-ellenica ha influenzato l'arte ellenica incipiente in ben altre manifestazioni; man mano che procedono gli scavi a Creta per questa fase di civiltà, si rende manifesto come ben presto, passata la bufera che ha distrutto la potenza micenea, e subentrato di nuovo un periodo di relativa pace e prosperità, nella grande isola del Mediterraneo è un risveglio di arte, che ha segnato il cammino in diversi campi a tutta l'arte greca; risveglio solo occasionalmente ispirato dalla corrente orientalizzata, dalle importazioni di prodotti fenici, ma che immette le sue radici in tendenze e in doti artistiche assai antiche, e di cui le manifestazioni stesse tradiscono talora un'indubbia derivazione dall'arte antica; ricordiamo fra l'altro le fiorentissime officine cretesi di bronzi sbalzati, che hanno dato i magnifici bronzi dell'Antro Ideo. Non solo la casa, ma il tempio ellenico, hanno certo origine dal megaron miceneo; attraverso all'architettura cretese è penetrata in quella greca la colonna, l'elemento essenziale del tempio ellenico; dal palazzo cretese è derivato all'architettura greca il capitello dorico; il mito dei figli di Dedalo, che errano per tutta la Grecia di terra in terra e di isola in isola a insegnare l'arte paterna, illustra, assieme alle sculture di Priniá e di Eleutherna, la parte che ha avuto Creta nel sorgere della scultura ellenica. E come nell'arte, nella vita e nel pensiero; nell'agricoltura, nella quale dagli antichi abitatori soggiogati, che tennero presso di sé come servi della gleba, i nuovi dominatori di Creta impararono la coltivazione del suolo; nella navigazione, in cui ne ereditarono forse l'intraprendenza e l'audacia; nella poesia e nella musica, l'amore per le quali si vedrà tante volte illustrato nei monumenti cretesi, per le quali tanti secoli prima di Terpandro un musicista cretese aveva inventato l'eptacordo; nella lotta e nella palestra, di cui i Greci sembrano aver ereditato dai Cretesi non solo la passione, ma addirittura certi giuochi ginnici; nella religione, per cui abbiamo già visto quante profonde correnti antiche si siano riversate nel flusso delle nuove credenze, nel rito e nella mitologia degli Elleni. Sotto la raffica delle invasioni elleniche, la civila cretese-micenea non è del tutto morta; poiché ogni giorno più ricco ci si palesa il retaggio che da essa ha raccolto la civiltà ellenica.
L'arte.
L'architettura. - Nell'alto strato dei residui neolitici sotto i palazzi di Cnosso e di Festo non si sono trovati avanzi di case costruite in pietra; le antichissime abitazioni di Creta, dunque, erano con tutta certezza delle capanne di rami e frasche, col pavimento di fango battuto; in tale epoca servivano largamente di abitazione pure le grotte, come palesano alcune di esse scavate: ad es. una di Miamú, non lungi da Festo; unica costruzione di tale periodo in materiali solidi - di cui ci è conservato un solo filare di pietre - è la casa di Magasá, presso Palecastro (v. casa; IX, p. 257), entro la quale sono stati ritrovati numerosi cocci neolitici, aghi in osso, schegge di ossidiana, macine e soprattutto asce. A epoca sub-neolitica appartiene un altro edificio, a contorno rettangolare irregolare, sotto il peristilio nord del palazzo di Festo.
Già durante l'epoca antico-minoica vi sono tracce sicure di abitazioni umane sui luoghi dove più tardi saranno costruiti i palazzi di Cnosso e di Festo; forse erano delle case separate, e unite da strade e da spiazzati; le sovrapposizioni dei palazzi posteriori ne impediscono però lo studio più preciso. Ci possiam0 tuttavia rivolgere ad altre stazioni, che si accalcano numerose in questa epoca nella fertile pianura di Gortina, la Messará, o si distendono lungo la costa e nelle isolette del versante settentrionale della isola: cosi fiorì in questo tempo un importante porto sul piccolo promontorio di Mochlos, ora staccato dalla costa e ridotto a isoletta, porto le cui ricchezze sono state palesate soprattutto dai rinvenimenti delle tombe; in quanto alle abitazioni, esse constano sempre di piccole stanzette rettangolari costruite con mura assai mediocri; spesso lo zoccolo inferiore soltanto era di pietra, mentre la parte superiore era di mattoni crudi. Un'altra isola feconda di rinvenimenti è quella di Pseira. Ma ci dànno una visione della casa di quest'epoca specialmente le stazioni della parte orientale di Creta: in prima linea la cittadina di Vasilikí sull'istmo di Hierapetra, abbandonata alla fine di questo periodo; nello strato inferiore, della prima fase dell'antico-minoico, continuano a Vasilikí le capanne di rami e di fango, che cedono il posto alle costruzioni in pietra nella seconda fase del periodo medesimo; un grosso edificio di questa età consiste di numerose stanzette, unite da corridoi, con mura in pietre ancora in piedi per m. 2,50, resti di porte, di lastricati, e sicure tracce di un secondo piano. Un edificio ancora più lussuoso, che si può chiamare palazzo, con grossi muri in costruzione, appare anche a Palecastro.
Agl'inizî del periodo medio-minoico appartiene la grande casa ellittica di Chamaízi presso Sitia (v. capanna; vol. VIII, p. 827), con l'interno diviso in ambienti rettangolari, disposti attorno a un cortile centrale; tale forma di casa ha evidenti rapporti con le antichissime capanne di forma rotonda ed elittica delle quali resta forse testimonianza nelle grandi tholoi funerarie di cui si tratterà più sotto, ed è quindi imparentata con le costruzioni ovali ed elissoidali simili di Grecia, di data remotissima ma meno precisamente determinabili (v. casa: La casa greca).
Ma l'architettura cretese dimostra la sua piena indipendenza e originalità nella costruzione dei palazzi, che s'inizia quasi contemporaneamente all'epoca della casa di Chamaízi: benché tali palazzi abbiano subito una distruzione completa alla fine della seconda fase del medio-minoico, essi sono risorti tuttavia dalle loro rovine, più splendidi e più lussuosi di prima e, contrariamente a quanto possiamo osservare per tutte le altre arti cretesi, senza alcun mutamento così nei criterî generali della costruzione come nei metodi tecnici. Poiché gran parte di questi edifici primitivi, dunque, sta sepolta sotto le costruzioni posteriori, possiamo esaminare i palazzi come si presentano oggi, accennando solo alle parti più antiche, per ottenere una visione completa dell'architettura cretese. Tale architettura può richiamarci in qualche maniera nel suo aspetto complessivo ai grandi e complicati palazzi della Babilonia e dell'Assiria, ma ha un carattere suo proprio e ben distinto sia nei metodi costruttivi sia nella distribuzione e nell'ornamentazione dei singoli locali; ed è essa che sembra aver improntato le linee generali degli edifici principeschi del continente greco, nei quali solo qualche elemento isolato asiatico e continentale permane, e penetra assai tardi anche a Creta.
I materiali da costruzione adoperati a Creta sono: la pietra calcarea locale, usata largamente anche nelle costruzioni della Grecia continentale, e, per le parti decorative e coperte, come pavimenti e soglie, il fine gesso alabastrino, candido e rilucente, che all'azione del sole o dell'acqua, nelle parti attualmente scoperte, si accartoccia e si screpola, e di cui sono state rintracciate le cave antiche tanto presso a Cnosso quanto a Festo; inoltre, soprattutto per le parti superiori delle pareti, erano usati i mattoni crudi, e, in qualche caso più raro, i mattoni cotti, il legno, e un impasto terroso per la cementazione delle piccole pietre, adoperate per i muri secondarî e per il riempimento dei muri principali. Il basamento di questi è costituito spesso di grossi blocchi, assai accuratamente squadrati, e innalzati a secco, senza cementazione alcuna; i muri esterni dei palazzi erano per di più ornati di uno zoccolo ad ampie ortostati levigate; colonne e pilastri erano largamente usati per il sostegno dei piani superiori; i soffitti, i fusti delle colonne e gli stipiti erano per lo più di legno; le pareti, e talvolta anche i pavimenti e i soffitti, erano ornati di stucchi, con decorazioni in rilievo e dipinte, e talora con fregi in marmo e in pietre dure.
Tratti caratteristici dell'architettura minoica sono: la mancanza di cinte di mura e di fortificazioni dei palazzi e delle città, costruiti in luoghi aperti e indifesi; la disposizione dei varî ambienti e quartieri dei palazzi intorno a un vastissimo cortile centrale, e a varî cortili secondarî, con lunghi e stretti corridoi fra le diverse ali, ampie gradinate sul davanti, scalette che salivano ai piani superiori, cortiletti e pozzi di luce per il respiro degli ambienti interni; il declivio della collina è stato utilizzato tanto a Cnosso quanto a Festo per moltiplicare i piani degli edifici. Per i singoli ambienti, sono caratteristiche soprattutto le sale aperte da tutti i lati, con un vano interno, cioè circondato su due, o talora anche su tre lati, da pilastri, chiusi da porte, e attorno da varî porticati, immettenti in cortili (fig. 24); presso alle pareti di fondo di tali salette correvano spesso delle banchine, dove gli abitanti dei palazzi potevano sedere e godere il fresco, come voleva il clima caldo e mite dell'isola. Nel palazzo di Cnosso soprattutto si ha agio di constatare il perfetto funzionamento dei sistemi idraulici e igienici, eccezionalmente progrediti per l'epoca, con condutture per le acque potabili, altre per il profluvio delle acque piovane, e tutta una fitta rete di canali di scolo, che immettevano in una grande cloaca centrale. Un altro elemento caratteristico di questa architettura è quello dei grandi ingressi di parata, o propilei, con duplice entrata, cioè con un'unica colonna nel mezzo, cui si accede per lo più da una maestosa gradinata, e donde talora, come a Festo (fig. 25), si penetra in un atrio, pure diviso in fondo, per mezzo d'un pilastro fra due ante, da un secondo ambiente, che dà su un cortile.
La colonna (v.), di cui si è visto il largo uso nei palazzi cretesi, fa la sua comparsa, per la prima volta in Europa, proprio nell'architettura di Creta e questo elemento è invero sconosciuto alle architetture dell'Oriente, e compare in Egitto già nell'Antico impero, ma stilizzato in forme di tipo floreale, che poco o nulla hanno a che vedere con le forme cretesi; sono queste di due tipi essenziali: uno, più raro, è quello che vedremo rappresentato, p. es., sul rython di Hagia Triada (v. qui sotto pp. 884-885), con una colonna rastremata verso l'alto e sporgente direttamente dal terreno, coronata da un capitello rettangolare, con borchie che índicano probabilmente le testate delle caviglie per rinforzo del materiale ligneo, la forma più consueta è invece quella della colonna affusolata verso il basso, e terminante in alto con un semplice echino rigonfio, che è separato dal fusto da una gola: è questa la forma che prelude chiaramente al futuro capitello dorico dell'arte ellenica; tale colonna era sostenuta da un disco rotondo in pietra, di cui si sono rinvenuti diversi esemplari, mentre della colonna stessa che era in legno non sono rimaste tracce per l'incendio dei palazzi. È ancora tale in sostanza la forma delle mezze colonne ornamentali poste ai lati della porta del cosiddetto Tesoro di Atreo in Micene (fig. 26), con la base a tre gradini, una leggiera rastrematura verso il capitello con abaco a dado, la gola ornata di foglie stilizzate, e tutto il fusto e l'echino a fasce di zig-zag con spirali intrecciate.
Oltre che nei grandi palazzi, questi particolari architettonici si ripetevano, nelle linee essenziali, anche nelle case private, di cui è stato scavato un considerevole numero a Gourniá, a Palecastro, a Hagia Triada, anch'esse composte di diverse stanze, aggruppate spesso attorno a un cortile, anch'esse con più piani: un gruppo di tavolette in maiolica dipinta, appartenenti a una specie di decorazione a mosaico, rinvenute a Cnosso (fig. 27), ci mostra l'aspetto della facciata di tali case, talora con una duplice porta d'ingresso, con numerose finestre, divise in riquadri da una specie di grate, protette certamente da stoffe o da membrane trasparenti, con tetti a terrazza, e di cui sono pure talora indicate le testate delle traverse a forma di borchie.
I due complessi architettonici più notevoli sono i palazzi di Cnosso (figg. 28-31) e di Festo (fig. 32). Ambedue erano costruiti sopra piccole alture, i cui declivi vennero in parte utilizzati per la sovrapposizione di più piani prospicienti le vallate. I palazzi avevano più ingressi monumentali, e i loro ambienti si distribuivano intorno a un grande cortile centrale, che a Festo è circondato da colonne e sembra preludere al peristilio ellenico, e ad altri cortili minori: da un lato erano le sale di ricevimento e di rappresentanza, dall'altro gli appartamenti privati; non mancavano piccoli santuarî domestici e ampî magazzini per il deposito delle derrate. Ricca era la decorazione interna. Altri palazzi simili di minor importanza sono quello di Mallia (fig. 33) presso la costa settentrionale dell'isola a oriente di Candia, purtroppo assai più saccheggiato dei precedenti, e il palazzo di Tilisso. Abbiamo già accennato all'interesse che presentano per la visione dell'architettura più povera le città di Palecastro e di Gourniá: in questa si nota l'agglomeramento delle casupole di uso domestico, accessibili da strette e ripide strade lastricate, tra le quali si riconosce un gruppo centrale di proporzioni e di apparenza più nobile, che è stato battezzato come il Palazzo. Una maggiore importanza invece assume la cosiddetta Villa reale di Hagia Triada (fig. 34), non tanto per la sua struttura nel migliore periodo della civiltà minoica, quanto per le sue vicende posteriori.
Se ci volgiamo a considerare i palazzi e le città del Peloponneso e della Grecia in genere, notiamo che, seppure la civiltà dei popoli o dei principi di queste regioni appare la medesima di quella che fioriva a Creta, i sistemi architettonici e i criterî cui questi si ispirano sono del tutto divergenti e accennano a fonti diverse. Osserviamo in modo particolare la più caratteristica stazione peloponnesiaca di questo periodo, la cittadella di Tirinto (fig. 35): qui, al contrario dei palazzi aperti e indifesi di Creta, vediamo una poderosissima cinta di mura costruita in blocchi giganteschi, con massiccie torri di rinforzo, gallerie ricavate nello spessore del muro e posterle impenetrabili. L'ingresso principale è costituito da uno stretto passaggio ad angolo-retto, racchiuso da una doppia cinta di mura, in modo da esporre gli assalitori ai proiettili dei difensori anche sul fianco scoperto dagli scudi: al di là del passaggio è una seconda porta fortemente munita, come a Micene. Ma, oltre che per la difesa esterna, il palazzo di Tirinto differisce da quelli cretesi anche per la pianta interna; poiché nella distribuzione di varî ambienti e di varie ali del palazzo intorno alla corte centrale, abbiamo piuttosto l'addossamento di diversi singoli megara, ognuno nella medesima struttura circa e con le medesime funzioni; i propilei, che precorrono i propilei greci di età classica, sono costituiti da uno spazio rettangolare, diviso da un muro mediano con porta centrale in due porticati, sostenuti entrambi da due colonne fra due ante: notiamo dunque nei propilei l'ingresso centrale tra le due colonne, invece del duplice ingresso, costituito dall'unica colonna centrale, consueto, come è stato accennato più sopra, nell'architettura di Creta; lo stesso particolare ritroviamo nel megaron, che, dalla forma rudimentale notata nella II città di Troia, ha qui assunto la forma (fig. 36) più perfetta, quale ci è descritta nei poemi omerici, con la sua αἴϑουσα, o vestibolo, dalle colonne lignee sorgenti su basi rotonde di pietra, e che immette per tre porte nel πρόδομος, o antisala, e il μεγαρον, la sala vera e propria, accessibile per una sola porta centrale, col focolare rotondo nel mezzo, e altre quattro colonne lignee disposte in quadrato intorno a questo per sorreggere la parte centrale e sollevata del tetto, per lo sfogo del fumo.
Altri palazzi consimili, dei quali si fa solo un cenno, sono quello di Micene, e quelli della Grecia centrale, come la Cadmea di Tebe, il palazzo di Orcomeno e quello di Gla sul lago Copaide v. arne).
Circa l'architettura funeraria si osserva che nei primitivi tempi della civiltà cretese, come in generale di tutte le civiltà, l'abitazione dei morti non si distingue da quella dei vivi; le medesime grotte naturali, come le prime abitazioni, sono così le prime tombe: abbiamo testimonianza di tal genere di sepoltura a Creta per l'epoca neolitica (Magasá) e per le più antiche fasi minoiche (Epano Zakro, Hagios Nikolaos presso Palecastro, Mochlos, Gourniá, ecc.), e l'uso ne continua anche in epoche posteriori. Dalla grotta naturale prende le mosse la costruzione di grotte artificiali, come si osservano per un'epoca ancora assai arcaica p. es. a Melo, e si rinvengono nelle fasi successive per tutta l'estensione della civiltà cretese-micenea, sia ancora informi, sia man mano ritagliate secondo le forme più in voga, con camera rettangolare o rotonda, con vòlta imitante la cupola, e con un lungo corridoio d'accesso. Ma anche risale ad antichissimi tempi nell'Egeo l'uso di seppellimenti singoli, da prima entro semplici fosse o pozzetti scavati nel terreno, quindi entro cassette simili foderate di pietre e sormontate da una larga lastra di copertura; il cadavere vi doveva essere deposto rannicchiato, per la ristrettezza dello spazio: tale forma di tomba, piuttosto rara in Creta, è assai comune nelle Cicladi; forse è da questo tipo, talora costruito con contorno rotondo e coi filari dei blocchetti man mano ristretti verso la sommità, chiusa dalla lastra centrale superiore, che si è potuto sviluppare il rudimento del terzo genere di tomba, in voga soprattutto a Creta dalla più antica epoca minoica, cioè la tomba a tholos: ma forse maggiori particolarità della struttura architettonica di tale tipo indicano come punto di derivazione delle costruzioni cretesi le consimili e remotissime tombe della Nubia. Tali tombe, di cui la maggiore quantità è stata scoperta nella pianura della Messará, consistono in una grande stanza centrale rotonda, che spesso supera i 10 metri nel diametro interno, preceduta non già dal lungo corridoio di accesso, o δρόμος, come nelle tholoi del continente, ma da un ingresso a pozzo; l'aggetto dei filari di blocchi dal primo anello inferiore, il grande cumulo delle pietre rinvenute nel centro della stanza durante gli scavi, confermano che già queste antiche costruzioni avevano per copertura una bassa falsa-cupola a filari aggettanti; l'ingresso era quasi sempre volto verso oriente; altre piccole stanze rettangolari si aggiungevano alla principale, sia ai lati del corridoio, sia in qualche altra parte della costruzione. Notevole per la grande quantità di suppellettile rinvenuta è soprattutto una delle piccole tholoi esplorate dalla missione italiana, presso al palazzo di Hagia Triada. Anche le tombe costruite, però, come le tombe scavate nella roccia, assumono oltre alla forma rotonda quella rettangolare: già un aspetto di belle stanzette, con corridoi d'accesso e con copertura a lastre, hanno le tombe proto-minoiche di Mochlos; tale forma si tramanda e si sviluppa giù giù fino alle tombe assai più tarde di Isopata presso Cnosso, fra le quali qualcuna è fornita di un atrio, di nicchie, e di fosse di seppellimento nella grande cella principale.
La costruzione delle tombe a tholos a Creta subisce un'interruzione assai curiosa, perché notiamo una grandissima lacuna di tempo fra quelle descritte della Messará, e un secondo gruppo di tholoi, appartenenti all'ultimo periodo miceneo e al periodo di passaggio alla successiva civiltà geometrica: è per tale ragione che si sono sollevati forti dubbî sulla derivazione dalle tombe a cupola cretesi delle consimili grandiose tholoi del Peloponneso e della Grecia continentale, che si estendono dalla fase dello stile naturalistico, che abbiamo detto iniziarsi alla fine dell'epoca medio-minoica, fino alla fine della civiltà micenea, e che perciò sono state riavvicinate da qualcuno a costruzioni analoghe dell'Asia Minore. A ogni modo in queste osserviamo l'ultimo e più perfetto sviluppo di tal genere architettonico: esempio caratteristico il cosiddetto Tesoro di Atreo, a Micene (figg. 26, 37-38): la stanza circolare, di oltre 15 metri di diametro, è coperta da una cupola alta m. 13,60, formata da filari di blocchi sovrapposti a linee concentriche che diminuiscono verso la cima. La porta, in fondo al dromos, è rastremata leggermente verso l'architrave, ed è sormontata dal triangolo di scarico, oggi vuoto, ma nel quale doveva essere collocata una scultura decorativa simile a quella della Porta dei leoni, di Micene, con lussuosa decorazione ornamentale a fasce di porfido; ai lati erano due semicolonne riccamente decorate.
Mentre fioriva tale superbo tipo di costruzioni funerarie, continuava a sussistere e si sviluppava parallelamente anche l'antico tipo egeo delle tombe a cassetta, o a pozzetto o a fossa, poco diversificate l'una dall'altra dall'ampiezza e dalla disposizione dei muriccioli o delle lastre di rivestimento; è da tale tipo invero, solamente con l'unione, rara altrove, di più seppellimenti entro una tomba unica, che derivano le più ampie tombe a fossa dell'acropoli di Micene, forse neppure anteriori, ma contemporanee alle tombe a tholos della città inferiore. Esse sono solo in piccola parte scavate nella roccia, con la fossa rettangolare circondata da muriccioli di pietre e coperta con lastre posate su un'impalcatura lignea; la parte superiore delle tombe era rivestita da terra di riporto raccolta entro un anello circolare (fig. 39); ogni tomba era probabilmente contrassegnata all'esterno da una stele.
Il rito del seppellimento per tutto il durare della civiltà cretese-micenea è stato indiscutibilmente quello a inumazione; tracce di scheletri bruciati, che si sono osservate per esempio nelle tombe a fossa ora descritte, come in diverse tholoi cretesi e altrove, si debbono spiegare con l'uso dell'affumicazione nell'interno delle tombe, per purificarle a ogni nuovo seppellimento, o con altri motivi incidentali; sicuri casi di incinerazione si notano a Creta solo nell'estrema decadenza della civiltà micenea, per es. nelle tardissime tholoi di Moulianá, probabilmente già per il contatto con civiltà straniere. I cadaveri erano seppelliti sia direttamente nella terra, entro le piccole tombe a cassetta o a fossa, sia entro i sarcofagi di terracotta, le grandi larnakes, peculiari di Creta, a forma rettangolare con tetto a capanna, oppure anche a forma di bagnarola, con le pareti spesso riccamente dipinte; un'altro tipo di recipiente funerario, comune tanto a Creta quanto alla Grecia, è il pithos, o la grande giarra, perfettamente identica spesso alla giarra di uso domestico, e usata da principio ed essenzialmente per il seppellimento di fanciulli, ma spesso anche per adulti; anche entro le giarre, benché esse fossero talvolta colossali, i cadaveri dovevano essere deposti rannicchiati, come entro le tombe a cassetta. Nelle tombe a fossa di Micene, inoltre, pare assodato che i cadaveri fossero deposti entro casse di legno, probabilmente informi, ma sulle quali esternamente erano applicate con dei chiodi le maschere in oro imitanti le facce dei defunti, e altri svariati e ricchi ornamenti aurei.
Presso le tombe si notano talvolta anche delle piccole celle speciali, con resti di sacrifici, di incendî, di banchetti; esse sono state dunque certamente anche il luogo di riunione per il compimento dei riti funebri, riti che avevano gran parte nella religione cretese. Questa non ha conosciuto i grandi edifici, come i templi ellenici; le cerimonie si svolgevano in luoghi aperti, o in piccoli recinti su semplici altari e all'ombra di alberi sacri, come possiamo constatare nelle numerose rappresentazioni di sigilli e di affreschi; simili recinti sacri all'aperto erano quello di Petsofá e l'altro presso alla sommità del M. Iukta, che ci hanno restituito una buona serie di interessanti terracotte votive. Altri luoghi di culto sono stati fino da remota antichità le grotte; santuarî entro grotte sono stati scoperti in Creta p. es. a Kamares e nell'antro di Psychró. Infine entro ai grandi palazzi principeschi v'erano piccole cappelle famigliari, come si vedono davanti alla fronte del più antico palazzo di Festo, e altre diverse nel palazzo di Cnosso. Esse erano tutte ornate di colonnine, di altari coronati dalle corna di consacrazione, di alberi sacri, come è possibile vedere nelle rappresentazioni degli affreschi, nei sigilli, e nelle lamine auree di Micene.
La ceramica. - Da certe categorie di ceramiche, specialmente abbondanti e caratteristiche per questo o quel periodo della civiltà cretese, è stato assunto il nome del periodo medesimo; e, disegnata a grandi linee la storia di questa civiltà, sono stati i suoi vasi, immediatamente distinguibili, rinvenuti in lontane terre, che hanno permesso di tracciare i limiti della vasta zona soggetta all'importazione dei suoi prodotti, e che nel medesimo tempo hanno costituito spesso gli unici elementi cronologici per datare le stazioni in cui essi sono stati trovati.
Si è già accennato ai profondi strati neolitici sottostanti ai grandi palazzi di Creta; i più bassi di tali strati hanno ridato frammenti di un impasto nerastro a superficie liscia, quelli superiori invece resti d'una ceramica più fine, a superficie nerastra o rosso-bruna ben levigata e assai brillante, e con decorazioni geometriche incise e riempite di colore bianco e rosso. L'ornamentazione di queste ceramiche è semplice, a fascette e bande, a zone punteggiate, a fasce di angoli e trattini, a reticolato; le forme dei vasi erano tazze con un'ansa, brocchette, o specie di saliere a molteplici vaschette.
L'epoca sub-neolitica si riallaccia con quella precedente per la continuazione della ceramica d'impasto, di cui certe forme, come le brocchette e specialmente le pissidette cilindriche o sferico-schiacciate, con decorazioni, sempre incise, a triangoli riempiti, a semicerchi molteplici, a punteggiature, riaccostano questi prodotti a quelli della più antica civiltà delle Cicladi. Invece prendono decisamente un proprio indirizzo e il sopravvento su tutte le fabbriche vicine le fabbriche di Creta, dal momento dell'invenzione del forno e della ruota del vasaio, con altri tipi di produzioni ceramiche particolari al periodo antico-minoico, di cui le tre maniere principali sono: una ceramica di argilla bianchiccia, o gialliccia, con un'ingubbiatura più chiara della superficie, e col corpo decorato a elementi ornamentali in vernice nerastra o rosso-bruna; le forme principali sono la brocca panciuta, con ampia ansa verticale e per lo più con alto becco sporgente sopra il labbro, le coppe e le tazze consuete; la decorazione è per lo più rettilinea, con righe, fasce, incrociate o reticolate, triangoli reticolati; rare sono le linee curve e i cerchietti. La seconda varietà di ceramiche, limitata soprattutto a fabbriche della parte orientale di Creta (vasilikí, Gourniá, Pseira), si distingue per l'ingubbiatura rossiccia della superficie, su cui per uno speciale procedimento di cottura si producevano delle macchie, con passaggi e sfumature tra il rosso, il color rame e il nero; la superficie ha spesso una lucentezza metallica; si distinguono anche qui dei vasi con alto becco, siano delle brocchette, siano dei vasi ovali a largo labbro e con un lungo becco quasi orizzontale sporgente dal ventre, becco talora lasciato in bianco e decorato col sistema della prima fabbrica sopra descritta (fig. 40). Una terza fabbrica infine, che predilige pure le forme delle due precedenti, usa invece decorare la superficie, coperta di un'ingubbiatura nerastra, con decorazione bianca lattea, applicata in argilla diluita, con ornamenti per lo più lineari, fra cui però si fanno più frequenti le linee curve e le spirali; solo eccezionalmente fanno apparizione delle figure, per es. dei pesci.
Questa terza maniera prelude alla ceramica detta di Kamares (fig. 41 e v. tav. a colori del vol. IV,pag. 584), che ebbe un improvviso fiore, e che raggiunse un reale splendore nelle due prime fasi del medio-minoico, ceramica che si distingue da tutte le altre per la vivace policromia che invade la superficie decorata, per il raro senso ornamentale, per l'eleganza delle forme dei vasi e per la sottigliezza delle pareti. Tale sottigliezza "a guscio d'uovo" deriva evidentemente dall'imitazione di modelli metallici, che talora sono stati rinvenuti accanto alle imitazioni fittili; altre volte tali modelli, purtroppo distrutti, si lasciano indovinare dalla sagoma ondulata delle pareti e degli orli, dallo stacco netto fra le parti tondeggianti e quelle dritte, dalla sottigliezza delle anse, e via dicendo; tra le forme più comuni nominiamo degli stamnoi globulari con anse oblique e dei piccoli pithoi, a corpo più allungato, con due anse orizzontali a metà ventre, od ovoidali con le ansette verticali ai lati del labbro stretto; sono delle brocchette eleganti, delle tazzette, dei calici e via dicendo; i colori, sovrapposti sul fondo nero, sono, oltre al bianco, solamente il giallo, l'arancio, il rosso in varie tonalità, ma la freschezza e la vivacità della policromia dànno l'effetto di una gamma di colori assai più ricca; ai semplici elementi lineari, o alle serie di elementi floreali, fogliette o rametti allineati, subentra ben presto una decorazione che si compiace di intrecciare in modo complicato e inestricabile tutte le varieta di elementi, geometrici, spiraliformi, fitomorfi, con una profusione che invade tutto il corpo del vaso, ma con un sicuro effetto decorativo; per foglie e rami sono adottati dei colori del tutto convenzionali: è anzi proprio questo gusto ornamentale, probabilmente, che soffoca la produzione dei motivi naturali, che abbiamo visto in sul nascere nella ceramica del periodo precedente e all'inizio del periodo di cui ci occupiamo. Una speciale tecnica di queste fabbriche è quella cosiddetta à la barbotine, con la superficie a puntini e a onde increspate prodotte da argilla diluita spruzzata a pennello libero, mentre talora alcune decorazioni sono eseguite in rilievo o incavo, a imitazione probabilmente di borchie, di bottoni, di fasce, adornanti i modelli metallici.
Il naturalismo, di cui abbiamo osservato i primi inizî e i repressi tentativi durante l'impero della moda convenzionale e policroma, prende la sua rivincita e trionfa in un rapido successo all'epoca della costruzione dei secondi palazzi, alla III fase cioè del medio-minoico; i soggetti per la decorazione dei vasi sono riprodotti ormai dal mondo animale marino e dalla flora indigena, sono gigli che si ergono ritti sui loro steli, e ninfee che piegano le loro gravi teste quasi accarezzate dalle crespe dell'acqua, sono polpi con le viscide ventose ondeggianti, e conchiglie e nautili e delfini (fig. 43). Ma non bisogna credere che il mutamento sia stato improvviso e assoluto; le fabbriche di ceramiche policromate hanno continuato nella loro produzione per un certo tempo ancora, parallelamente alla tecnica nuova, e i loro prodotti sono difficilmente distinguibili da quelli dell'epoca di Kamares; non solo, ma la policromia medesima continua a essere adoperata anche per vasi in cui il nuovo stile è già presente, come nel leggiadro vaso di Pseira (fig. 41-a) con grandi teste taurine brune, punteggiate ancora di bianco, e bipenni con manichi a steli di giglio nella zona principale, e decorazione a palmette e spirali nelle fasce secondarie; infine, prima del trionfo della maniera a disegno in vernice bruno-nerastra sul giallo lucente dell'argilla, maniera che resterà in voga fino al tramonto della civiltà micenea, hanno ancora il disegno in chiaro su sfondo scuro vasi già di arte perfettamente naturalistica: tali sono per es. dei vasi a soggetto floreale di più magnifico effetto, come i pithoi di Cnosso coi candidi gigli (fig. 44), nonché il vaso di Zakro con le ninfee cerulee. Insieme alla nuova decorazione subentrano nuove, elegantissime forme di vasi; citiamo i grandi pithoi e le grandi anfore, con una o diverse serie di triplici anse orizzontali, gli alabastra schiacciati, le coppe, e le anfore a staffa o anfore a falso collo, con una piccola bocca, chiusa nel centro tra due ansette, e una seconda vera bocca su un lato: è di tale forma uno dei vasi più famosi in stile naturalistico completamente evoluto, rappresentante il polipo con le viscide spire arrotolate su tutta la superficie del vaso, entro alle quali si muovono attinie, nautili, tritoni e murici, mentre dagli orli si svolgono alghe e si levano fiori di coralli (fig. 45); un soggetto identico si svolge su un'anfora da Palecastro. Tutti i caratteri di tale naturalismo della ceramica minoica si palesano in questi vasi, con l'esuberanza e la freschezza dei motivi, con la libertà assoluta e il pieno dominio del soggetto, con la mancanza di prospettiva e di chiaroscuri, a cui tuttavia supplisce l'efficacia immediata di una maniera che si potrebbe chiamare senz'altro impressionistica, talora addirittura illusionistica.
Tuttavia, accanto a questa libera e fantasiosa decorazione dello spazio, continua ad avere vigore anche la maniera, adottata pure in una classe della ceramica policroma, della divisione della superficie in fascette orizzontali; nel vaso di Pseira sopra riprodotto, recante ancora tracce di policromia e appartenente all'inizio dello stile naturalistico, nelle fascette inferiori, sotto alle teste taurine e ai fiori liberamente disegnati, sono relegati dei motivi secondarî, delle palmette e delle spirali correnti; il motivo della spirale corrente prende grande voga durante la prima fase del tardo-minoico, quando in diversi esemplari occupa di sé stesso, su due o tre zone, tutto il corpo del vaso. Susseguentemente prende piede, specialmente nelle grandi anfore a serie di tre orecchini, l'uso della suddivisione, entro le fascette orizzontali, di riquadri verticali, con decorazioni che ricordano le metope e i triglifi, e che si possono raffrontare ai fregi scultorei in pietre colorate sulle pareti dei palazzi cretesi e delle tombe del continente, stile che giustamente si può denominare quindi architettonico: osserviamo cosi su un vaso cretese (fig. 42-d) una decorazione a larghi archi molteplici, interrotti da sottili zone di scacchi e di spirali, che ricorda assai vivamente tali fregi architettonici; ma nel medesimo tempo anche, e assai rapidamente, le forme naturali di piante e di animali si sciolgono in schemi puramente decorativi, si assestano in uniformi fasce ornamentali, oppure si mescolano motivi floreali e animali in maniera del tutto illogica, senza più nessun intento di riproduzione naturale, ma per solo scopo decorativo: senza moltiplicare gli esempî, confrontiamo con la serie dei gigli sui pithoi di Cnosso un'anfora di questo stile, da Micene (fig. 42-b). Benché dunque non si possa tracciare una netta delimitazione cronologica, e la trasformazione dall'elemento naturalistico a quello schematico e puramente decorativo si faccia sentire assai presto, mentre d'altro canto tentativi nettamente naturalistici continuano a palesarsi anche durante il prevalere della maniera stilizzata, dal punto di vista dell'evoluzione stilistica è giustificata la classificazione di quest'ultima maniera che si afferma e prevale all'epoca del rinnovamento del secondo palazzo di Cnosso, dal quale prende il nome di stile del palazzo. La medesima tendenza invero che si palesa negli altri rami dell'arte, si manifesta pure in certi vasi in cui alla pittura si associa, nella decorazione, il rilievo, come in un pithos del palazzo di Cnosso (fig. 41-d).
L'esportazione della ceramica cretese sul continente greco comincia a farsi sensibile coi prodotti dello stile naturalistico; l'evoluzione della ceramica continentale segue quella della ceramica insulare; abbiamo già avuto occasione di vedere un'anfora di Micene con decorazione floreale stilizzata; altri magnifici vasi del genere hanno dato, oltre a Micene, Pilo, Tebe, Argo; osserviamo un'altra anfora di quest'ultima località, su cui invece appaiono, sapientemente stilizzate in un elegante complesso decorativo, delle figure animali, cioè delle vivaci anatrelle (fig. 42-a): quello che è interessante constatare da questi vasi del continente è che in nessuno di essi né la tecnica figulina né lo stile pittorico ricopiano esattamente esemplari insulari; donde la deduzione che già in tale periodo siano esistite anche sul continente fabbriche indigene, più o meno strettamente dipendenti però dagl'insegnamenti degli artisti cretesi.
L'esistenza di fabbriche sul continente è dimostrata con tutta sicurezza per il periodo successivo miceneo, la terza fase cioè del tardo-minoico, alla quale appartengono le fornaci scoperte a Micene e a Tebe, col materiale ancora grezzo o semipronto per la cottura; in questo periodo però la produzione ceramica della civiltà cretese-micenea forma un'unità inscindibile, una vasta koinè, che si estende da Creta per tutte le isole dell'Egeo, dal Peloponneso alla Tessaglia, a Rodi, a Cipro; oltre alle due fabbriche citate esistevano certamente altre officine entro questo così vasto territorio, ma i prodotti di esse non sono più distinguibili fra di loro. Alle forme di vasi già citate se ne aggiungono delle nuove, che assumono sempre maggiore voga, come gli eleganti nappi, o kilikes ad alto piede, di derivazione metallica (figura 46), o come le numerosissime anfore a staffa; la decorazione trasforma sempre più gli antichi elementi naturali in motivi schematici e convenzionali, tra cui continuano a essere prediletti alcuni motivi della fauna e della flora marina, come polipi stilizzati, conchiglie e tritoni, insieme a cui compaiono disegni di pesci e di uccelli. Ma a poco a poco subentrano e si fanno sempre più frequenti e prediletti i semplici motivi lineari, a cui si riduce pian piano l'intera decorazione dei vasi più tardi; eppure l'accurata tecnica di questi vasi, che varia la vernice nera lucente sul fondo giallo o bruno con quella rossa sull'ingubbiatura crema-verdastra, riesce ancora a trovare a essi uno smercio assai considerevole, che si estende dalle coste della Macedonia, alla Sicilia, all'Egitto; prende anzi dai numerosi rinvenimenti di ceramiche micenee a Tell el-‛Amārnah (1200 a. C.) il suo nome uno stile di vasi, decorati sul corpo quasi esclusivamente da fasce orizzontali; ma non è questa categoria la più tarda della morente civiltà micenea; la ceramica nel Peloponneso, a Salamina, in Grecia e in tutto il vasto territorio della sua koinè, si va ancora lentamente e irrimediabilmente irrigidendo; e una categoria stilisticamente e tecnicamente assai più povera ancora di quella di Tell el-‛Amārnah è quella, certamente contemporanea all'incendio dell'ultimo palazzo di Micene, chiamata del granaio. Non è improbabile, in altre parole, che i più tardi strascichi della ceramica micenea abbiano raggiunto lo scorcio del II millennio, e che anzi addirittura, in regioni appartate dai grandi movimenti politici e dai centri della nuova ispirazione geometrica, siano penetrati assai addentro anche negl'inizî dell'età del ferro. Ma a questo problema assai discusso, si è accennato più sopra.
Merita invece che si dia qui un cenno di un'ultima tarda manifestazione della ceramica micenea, di quella categoria cioè che predilige la decorazione a soggetti umani; ha avuto origine questa classe probabilmente nel Peloponneso, donde proviene uno dei più antichi esemplari, cioè l'anfora detta dei guerrieri, da Micene; altri vasi frammentarî rappresentavano scene di carri e di corse; una speciale predilezione per le scene dei cocchi e degli aurighi palesano le due grandi isole del Mediterraneo, Cipro e Rodi, scene però rappresentate in uno stile sciatto e ignaro (fig. 42-c), che ci fa sentire assai vivo il contrasto tra questa tarda degenerazione e il primo fiore dell'arte cretese. L'isola stessa di Creta, invero, più tenace nel suo gusto e nelle sue tradizioni, sembra aver lasciato penetrare assai tardi questa maniera di decorazione a figure umane, che appaiono soltanto in alcuni esemplari dei grandi sarcofagi fittili, o larnakes, sulla cui vasta superficie più sensibile che altrove è l'impoverimento dell'arte e la stilizzazione del senso ornamentale; le figure umane infine compaiono anche in un grande vaso, cioè un panciuto cratere cinerario di una tomba a tholos di Moulianá: si è già dimostrato (v. sopra) che in queste tombe di Moulianá è sensibile l'arrivo di nuovi popoli e di nuove civiltà.
La pittura. - Si è visto come i palazzi cretesi fossero riccamente decorati di pitture parietali delle quali, nonostante i ripetuti incendî e saccheggi, ci sono pervenuti frammenti considerevoli, e atti a permetterci di ricostruire la storia di tale arte per la civiltà cretese-micenea meglio che per la medesima civiltà ellenica.
La tecnica della pittura è simile a quella della maggior parte degli affreschi antichi, per es., di quelli egiziani; l'artista dipingeva rapidamente sullo stucco bianco ancora fresco, applicato al primo intonaco del muro; i colori venivano sovrapposti, il primo servendo di fondo a quelli successivi, eccezion fatta per il colore bianco, che era risparmiato nel colore dello stucco medesimo. L'uso del compasso e dell'incisione per particolari interni resta del tutto eccezionale; solo l'artista si vale di cordicelle, vibrate sullo stucco fresco, per l'incorniciatura e le divisioni rettilinee; i colori più usati sono il rosso, il bruno, l'azzurro, il giallo, il grigio, il violetto e il verde; adottata è anche dagli artisti minoici la convenzione tanto comune nell'antichità, del colore bruno per le carni maschili e bianco per quelle femminili. La rapidità stessa imposta dalla tecnica dell'affresco ha cooperato a conferire a tale arte quel carattere di impressionismo, che osserveremo fra poco.
Solamente pochi frammenti ci sono stati conservati degli affreschi dei palazzi primitivi; era, in questo periodo più antico, divulgata specialmente la decorazione a semplice fondo rosso, a fasce, e poi a riquadri imitanti l'incrostazione di marmi policromi e di brecce. Uno dei pochi affreschi figurati appartenenti alla fine dell'età di Kamares è il cosiddetto raccoglitore di croco, un giovanetto inchinato a raccogliere fiori in un prato; è curioso che le carni del giovanetto sono in colore azzurrino grigio, i fiori bianchi sul fondo rosso e dorato. È forse questo un permanere del convenzionalismo, che aveva trionfato nella ceramica di Kamares; e pur tuttavia quasi contemporaneamente, ancora cioè durante la III fase del periodo medio-minoico, vediamo anche nella pittura apparire e trionfare rapidamente un naturalismo, per quanto ancora inesperto, già ardito e travolgente. Cosi in alcuni frammenti da Hagia Triada si tenta di rappresentare la natura in uno sboccio rigoglioso di fiori, in cui si confondono in una gamma multicolore edere e gigli, zafferani e viole; come i fiori, così l'artista studia e cerca di rappresentare gli svariati animali della ricca fauna cretese; tra le piante si vede correre una lepre, mentre su una roccia si erge tranquillo un fagiano, appostato ai due lati da due gatti selvatici, che si muovono cauti e leggieri tra le rame dell'edera. Fagiani variopinti, in vivaci atteggiamenti tra l'erbe d'un prato, ritornano anche in un più tardo elegantissimo fregio di una stanza del cosiddetto caravanserraglio di Cnosso. La fauna marina è riprodotta in un affresco del palazzo di Cnosso (fig. 50), che richiama un piccolo frammento di una casa di Melo, in cui osserviamo nel diafano sfondo azzurrino, tra scogli e alghe, numerose rondini marine, o pesci volanti, il pesce caratteristico dei mari cretesi, che vediamo anche riprodotto in numerosi esemplari di maiolica nel piccolo santuario delle dee dei serpenti di Cnosso.
Altri affreschi si riferiscono a scene di vita, e in questi ancora maggiormente possiamo ammirare la freschezza con la quale il pittore si pone di fronte al suo soggetto, l'audacia, che fa riscontro a tendenze assai moderne, con la quale egli con rapidi tratti sa cogliere gli elementi essenziali, la sicurezza di tocco del suo pennello e l'esuberanza di vita che traspare dalle sue composizioni. Da un'affresco, di proporzioni notevolmente inferiori al vero, rappresentante uomini e donne seduti e conversanti, su sfondi alternativamente azzurri e gialli, riproduciamo un ben noto e vivacissimo busto di fanciulla (fig. 51). Un'altra scena della vita dei palazzi è data da un affresco di Cnosso, di proporzioni così piccole, che si chiama appunto l'affresco delle miniature: troviamo qui (fig. 52) una folla di gente, in parte accalcata attorno a un edificio tripartito e tutto coronato dal simbolo delle doppie corna, che abbiamo visto rappresentare verisimilmente uno dei sacelli famigliari del palazzo, in parte assiepata tra alberi entro un recinto, nei giardini o in un temenos sacro del palazzo; sono figure tratteggiate con rapido scorrere della mano, disegnate quasi solo nel contorno e nelle linee essenziali, con quell ardita e precoce tendenza all'impressionismo di cui abbiamo fatto parola. E, sempre restando nell'ambito delle sacre rappresentazioni che avevano luogo nel palazzo, si riproduce (fig. 53) anche un affresco di Cnosso che ne raffigura una scena caratteristica, cioè la taurocathapsia, i pericolosi esercizî ginnastici, sul dorso e sulla testa dei sacri tori infuriati; nell affresco di Cnosso, che fa parte di una vasta composizione, il toro, di proporzioni gigantesche, si lancia di galoppo verso sinistra, mentre sulle sue corna abbassate si afferra per spiccdre il volteggio una fanciulla, e un giovanetto, già spiccato il salto, fa una capriola sul dorso e sta per ricadere a terra dietro l'animale tra le braccia tese d'una compagna.
Trattando della plastica si descriveranno le grandi composizioni decorative in stucchi dipinti appartenenti pur esse all'inizio della fase naturalistica dell'arte cretese; un po' più tarde invece sono altre vaste composizioni del palazzo di Cnosso, con lunghe teorie di personaggi, di grandezza naturale, incedenti e offrenti doni votivi alla divinità; in gran parte purtroppo le figure sono distrutte, e non ne resta che la parte inferiore; a queste processioni appartiene però la famosa figura del coppiere (fig. 54), dal corpo snello e dalla vita sottile stretta dalla cintura, vestito del consueto abito a mutandine semplici, ma riccamente decorate di rosette, e sostenente il lungo rhyton in argento: la sola traccia di quella arcaicità, che la pittura cretese non è mai riuscita a superare, è l'occhio disegnato di prospetto.
La medesima tecnica di esecuzione, il medesimo stile, e perfino i medesimi soggetti caratterizzano le pitture che adornano i palazzi micenei del Peloponneso e della Grecia, i cui artisti erano certamente stati chiamati in gran numero dall'isola. A Tirinto si sono ritrovati numerosi frammenti anteriori alla costruzione del più antico palazzo, e corrispondenti ancora alla più antica maniera cretese; vi sono decorazioni a semplici riquadri imitanti marmi incrostati, e fasce di eleganti e accurati elementi ornamentali (fig. 55), che racchiudevano fasce figurate; i miseri resti di queste ci mettono di fronte a scene di culto, a serie di cacciatori e di guerrieri, su sfondi architettonici o entro paesaggi; importanti i guerrieri, vestiti del chitonisco lungo fino al ginocchio, con mezze maniche sul braccio, costume questo estraneo alla civiltà di Creta e adatto al clima più freddo del continente. Un altro cospicuo numero di affreschi è stato ritrovato in uno scarico; essi appartengono ancora all'inizio del secondo palazzo di Tirinto; alla processione del corridoio presso all'ingresso occidentale del palazzo di Cnosso, cui appartiene il coppiere citato, corrisponde qui una processione di donne, egualmente portanti offerte alla divinità, tra cui appare la conosciuta figura della donna con la pisside (v. affresco; I, p. 692), vestita dell'abito cretese di maggior lusso, col rigoglioso seno ignudo, le lunghe maniche cucite e orlate, la veste campanata ad ampî sbuffi paralleli che giunge fino ai piedi ignudi; il volto leggiadro che spicca in bianco sotto l'acconciatura, il busto ripiegato indietro, le braccia, ornate di braccialetti, che sorreggono la pisside eburnea, conferiscono alla figura un aspetto di solennità e di grazia. Una serie di donne consimili, offerenti dei gigli, adornava pure il palazzo di Tebe. Più convenzionale ci appare un fregio, in proporzioni minori, in cui era rappresentata una caccia con bighe guidate da fanciulle, cacciatori vestiti del chitonisco e sorreggenti sulla spalla i due giavellotti, efebi con cani, e cinghiali distesi in precipitosa fuga tra erbe e fiori, assaliti da cani (fig. 56); del tutto innaturali sono i colori degli animali, come il giallo dei cinghiali e delle piante e dei fiori, mentre gli alberi assumono una forma del tutto schematica, a somiglianza di grandi ventagli rossi e turchini con una decorazione stilizzata per l'indicazione delle foglie. La prospettiva, sconosciuta qui come in tutta l'arte cretesemicenea, sovrappone le figure che dovrebbero essere affiancate, in modo da non nascondere nessun tratto di alcuna. Ancora più innaturali che nell'affresco ora descritto sono i colori di alcuni piccoli cervi di un altro affresco di Tirinto, dal corpo. dipinto in giallo, turchino e rosa. Ma è il disegno stesso, e la freschezza e sicurezza nella rappresentazione della natura, che decade e diminuisce lentamente quando dagli affreschi più antichi ci si volge a quelli della più tarda epoca del secondo palazzo di Tirinto: basta mettere a confronto, per convincersi, l'affresco della taurocathapsia di Cnosso (fig. 53) con una tarda rappresentazione consimile, in proporzioni minori, di Tirinto (Schliemann, Tirynthe; tav. XIII), nella quale il grosso toro, con la decorazione convenzionale del vello, in confronto alla foga dell'animale di Cnosso ha una rigidità quasi lignea.
A Creta, al contrario che a Tirinto e nelle altre località di Grecia, assai pochi e poco considerevoli affreschi si sono conservati per l'età posteriore alla distruzione dei grandi palazzi, cioè per la terza fase del tardo-minoico. Uno degli ultimi affreschi conservati di Cnosso è quello della sala del trono, coi grifi araldicamente opposti, in uno stile che ci richiama in qualche modo lo stile ceramico del palazzo. Affreschi di periodo miceneo sono stati rinvenuti solo ad Hagia Triada; tra questi è di massimo interesse, tanto per la buona conservazione e la freschezza dei colori quanto per i soggettí rappresentati, il famoso sarcofago in pietra rinvenuto entro la tomba a camera della necropoli.
Il sarcofago è di forma rettangolare, e aveva un coperchio, oggi perduto; la tecnica della decorazione è quella stessa degli affreschi murali. Le scene, dipinte su sfondi alternati, bianco, azzurro e giallo, e limitate da fascette ornamentali, sono ancora in parte d'incerta interpretazione: ma con molta probabilità si riferiscono a scene di culto e a riti funerarî. Su un lato è un sacrificio cruento: nel centro, sopra una tavola, è disteso il toro ucciso: altre vittime sono pronte sotto la tavola. A destra una sacerdotessa tende le mani con gesto ieratico sopra un cesto poggiato sopra una tavola; sul muro, probabilmente appesi, sono un cesto pieno di frutta e una brocca; nello sfondo è indicato un altare, o sacello, sormontato dalle corna: dietro a esso sorge l'ulivo sacro, davanti un'alta bipenne, su cui si posa un uccello, forse un corvo. A sinistra della tavola col toro incede un tibicine, dietro al quale seguiva una processione di cinque donne. Sul lato opposto del sarcofago continua a sinistra la scena di sacrificio: una donna, che indossa la pelle sacrale, versa, sembra, il sangue della vittima entro un grande cratere, posto in mezzo a due alte bipenni, sormontate dal corvo: seguono un'altra donna, con ampio berretto gigliato in capo, che reca su un bastone appoggiato alla spalla due secchi, e il musico che suona la cetra. Nella seconda metà dello stesso lato è una scena di offerta: tre figure maschili portano i doni votivi, una barca e due immagini di tori, a una quarta figura, avvolta, anche le braccia, in lunga veste, ritta davanti a un altare: tale figura si può interpretare sia come l'apparizione della divinità nel suo sacello sia come l'ombra del morto. A scene dell'oltretomba e al viaggio funebre si possono riaccostare gli affreschi dei lati minori della cassa: una biga tirata da cavalli, e un carro recante una coppia di personaggi, riccamente vestiti.
Malgrado l'imprecisione dei contorni, la frettolosità del disegno, la povertà delle fasce ornamentali e la trascuratezza di alcune figure, il vivace effetto d'insieme, l'efficacia del raffronto e la leggiadria di alcune figure, ci attestano quanto l'arte pittorica cretese era ancora capace di esprimere, pur vicina al suo rapido tramonto.
La plastica. - La civiltà cretese non ha conosciuto la grande statuaria, quale ha avuto, per es., l'Egitto nelle colossali figure asservite per la maggior parte alla decorazione architettonica, o quali ha creato l'arte ellenica. La plastica si è esercitata tuttavia a Creta, gia nella modellatura delle decorazioni in stucco dipinto, fiorite parallelamente alla semplice pittura degli affreschi, sia nell'esecuzione delle numerose statuette decorative e votive in piccole proporzioni, di argilla, di maiolica, di avorio, di bronzo, sia nelle teste e nelle figure in steatite e nei rilievi che adornavano vasi e altri oggetti d'uso.
Sino dall'alba della civiltà minoica gli artefici, ammaestrati a intagliare le più leggiadre forme di vasi dalla dura pietra, si azzardano già a modellare la figura umana; ai rozzi e informi idoli di età neolitica, ai talismani schematici a forma di mummia della tholos di Hagia Triada, si associano i delicati sigilli in avorio, per la presa dei quali si sbizzarrisce la fantasia degli artisti nelle più svariate forme e decorazioni, dove troviamo la fresca immagine d'un animale, d'una scimmia, o quella di una nidiata di colombi rifugiati sotto le ali della madre, o perfino la scena d'una leonessa che calpesta un uomo abbattuto. Non siamo discosti dai primi inizî dell'arte, quando un altro artista modella, per la decorazione d'una delle consuete pissidi in steatite, un levriero che stende le lunghe zampe, quasi in riposo, sopra al coperchietto rotondo. È da questa medesima scuola che esce, infine, un capolavoro decorativo come la testa di leopardo che forma l'elsa di un'ascia da Mallia (fig. 57). Così la plastica, fino dalle sue lontane origini, palesa quello sforzo di riproduzione naturalistica che abbiamo visto essere peculiare dell'arte cretese-micenea, e che, senza l'interruzione manifestatasi nella ceramica durante la moda della policromia e della convenzionalità, si sviluppa gradatamente fino a raggiungere - o a provocare in una certa maniera - il meraviglioso sboccio naturalistico che abbiamo visto prodursi in tutte le arti dopo la distruzione dei primi palazzi, alla fine cioè del II periodo medio-minoico; trae allora certamente la plastica maniere e motivi dall'arte sorella, la pittura, a cui si associa nella creazione degli stucchi colorati; ma non è forse soltanto per questa concomitanza e dipendenza che la plastica palesa una maniera pittorica, specialmente negli stucchi suddetti, e nei rilievi dei vasi in steatite: ché questa maniera si può far risalire invece alle tendenze impressionistiche che la plastica, come le altre arti cretesi, mostra fin dal suo nascere, per cui ammiriamo l'ardire con cui essa affronta, pur col più scarso corredo di esperienze tecniche, i più difficili e disparati soggetti, sapendone cogliere con straordinaria intuizione i tratti essenziali, ma senza volersi mai assoggettare a una meticolosa analisi, a una lenta e paziente indagine anatomica, onde acquistarsi faticosamente, come ha fatto la scultura greca, un patrimonio sicuro di conoscenze scientifiche sulle quali fondare la creazione dei suoi tipi ideali
Per cominciare dai rilievi, l'ardire dell'invenzione e la varietà dei soggetti si palesa per es. nelle maioliche smaltate e dipinte, tecnica questa indubbiamente derivata dall'Egitto, ma trapiantata di buon'ora a Creta dove si sono trovate delle matrici nel palazzo di Cnosso, e dove gli artisti si tengono ben lontani dalla monotona ripetizione di modelli osservata in Egitto. Sino dal periodo di Kamares, assieme alle lastre raffiguranti facciate di case, sono riprodotte figurine di piante, di animali, di guerrieri; ma il rilievo acquista il suo modellato, o, addirittura nelle forme, si compongono delle figurine a tutto tondo, al tempo del trionfante naturalismo: assieme a una grande quantità di conchiglie, di granchi, di pesci volanti, eseguiti in piena corporeità, si sono rinvenute nel santuarietto di Cnosso, con le cosiddette dee dei serpenti (v. qui sotto), alcune lastre di maiolica ritagliate nel contorno, similmente alle lastre fittili di Melo di arte ellenica arcaica, e riproducenti soggetti animali, come la capra selvatica (fig. 58) che allatta i suoi piccini, in colore verde pallido-grigiastro con macchie brune, nella quale l'effetto del gruppo e la vivacità degli atteggiamenti sorprendono come un'improvvisa rivelazione di squisito sentimento artistico.
Non siamo più, così, impreparati a contemplare i capolavori del rilievo cretese, che ci sono dati dai vasi in steatite, appartenenti per la maggior parte all'inizio del periodo tardo-minoico; frammenti assai notevoli si sono rinvenuti nel palazzo di Cnosso, in cui erano rappresentate delle offerte davanti a un santuario, un arciere che scocca l'arco, un grande polipo con le ventose aperte; ma i tre oggetti più importanti sono usciti dagli scavi di Hagia Triada. Il più grande, purtroppo assai frammentario, è un rhyton (figg. 59-60), di forma conica allungata, sul quale sono scolpite tutto attorno esternamente quattro fasce con esercizî atletici; nella seconda fascia dall'alto è una taurocathapsia, con due tori in furioso galoppo tra le corna d'uno dei quali scivola il ginnasta; nelle tre altre zone sono scene di lotta e di pugilato. Ma la vivacità delle mosse, l'abilità nella variazione dei temi e la compiacenza del tratto individuale, si manifestano in sommo grado nel secondo vaso, pur esso un rhyton, ma a forma più larga ovale (figura 61): è esso conosciuto sotto il nome di vaso dei mietitori, per il suo significato più probabile, malgrado l'opinione di alcuni che vi scorgono invece una marcia di soldati; della scena è conservata tutta la parte superiore, lavorata separatamente dalla metà inferiore del vaso; è una processione di uomini, che fanno ritorno dalla campagna dopo la mietitura o la battitura degli ulivi, recandosi a compiere verisimilmente un sacro rito, e marciando a due a due dietro la guida di un capo che indossa una larga casacca squamata; in testa portano dei berretti rotondi, e appoggiato sulla spalla un tridente ligneo con una roncola legata presso al manico, strumento che assai difficilmente si può interpretare come un antico strumento guerresco caduto più tardi in disuso; nel centro della processione è il gruppo dei cantori, che sono allineati tutti e tre in una fila e alzano le teste e spalancano le bocche cantando a squarciagola, preceduti da un suonatore di sistro; ma l'ordine nelle ultime righe è scompigliato dall'incidente di un caduto, contro il quale si sfogano l'ira del compagno che lo precede e che, urtato, volge la testa indietro imprecando, e l'ilarità dei marciatori che seguono: uno strano modernismo, si può dire senza esitazione, anima tutta quest'opera, nella sapiente distribuzione dei piani, nell'accurata ricerca di individualità e nella sagace spezzatura della monotonia, nel ritmo vivificatore che si irradia dal concetto d'insieme fino a ogni minimo dettaglio della rappresentazione, nel brillante senso di umorismo dell'incidente imprevisto. Il terzo e più piccolo vaso di steatite, a forma di coppa conica ristretta sul piede, rappresenta una rivista militare: un ufficiale, seguito da tre soldati, nascosti dietro i loro grandi scudi di pelli bovine, si presenta in posizione di attenti, di fronte al capo, o principe, che maestosamente stende innanzi il braccio destro posando a terra il lungo scettro (v. armi; IV, p. 472, figg. 18 e 19).
L'arte cretese del rilievo, oltre che nell'incisione della steatite, si è esercitata con eguale abilità e fortuna anche nell'intaglio dell'avorio e del legno, materiali però più deperibili e che ci hanno lasciato tracce meno cospicue; delle suppellettili in legno, scomparse completamente a Creta, il clima secco dell'Egitto ci ha conservato un coperchio e resti di alcune belle pissidi, di provenienza cretese, con decorazioni di leoni che abbattono la preda; in quanto al rilievo sull'avorio, trascurando le scarse testimonianze cretesi, dobbiamo rivolgerci soprattutto a una copiosa serie di monumenti, caratteristici dell'ultima fase micenea, e rinvenuti sul continente ellenico, soprattutto nelle tombe di Micene, di Sparta e di Menidi; si tratta in modo speciale di oggetti d'uso, finemente decorati, come pettini e manichi di specchio, o di intagli su lastre d'avorio di diverso spessore adoperate per l'incrostazione di cassette e mobili; negli uni e negli altri, soggetti predominanti sono gli animali fantastici, quali i grifi e le sfingi; altre volte sono figure di animali, araldicamente contrapposti o in lotta, o compare la stessa figura umana, sia un'immagine isolata e intagliata di donna, riccamente vestita e seduta su una roccia, come in un rilievo di Micene, siano le donne sorgenti dalla chioma d'un palmizio e come sedute una di fronte all'altra, quali appaiono nei manichi di specchi; sono per noi di grande interesse, perché ci aiutano a ricostruire l'immagine d'un guerriero miceneo, alcune teste staccate e di maggiori proporzioni, coperte di un elmo conico con paranuca e paragnatidi, tutto formato da strisce di cuoio rinforzate da lamelle di denti di cinghiale (v. avorio; V, p. 658, fig. 6-b). Queste fabbriche di avorî intagliati hanno trovato un favore speciale e una tarda fioritura sul suolo di Cipro, com'è dimostrato da numerose serie di oggetti trovati a Enkomi, fra cui alcuni manichi di specchi del tutto simili a quelli di Micene. I caratteri delle fabbriche cipriote si riflettono anche nei prodotti di colonie micenee, diramatesi verisimilmente dall'isola, e stanziatesi sull'opposta sponda della Siria, come dimostrano le recenti scoperte di Ras Shamra di cui si riproduce appunto un caratteristico rilievo in avorio con una figura femminile seduta su una roccia (fig. 63).
Passando dal rilievo alla plastica delle statuette a tutto tondo, è necessario anche qui risalire a un periodo assai primitivo dell'arte cretese per classificare certe rozze statuette fittili votive, come quelle di Chamaízi e di Zakro, non molto avanzate rispetto agl'idoli quasi informi della tholos di Hagia Triada. Già più arditamente tentano di riprodurre il vero le statuette fittili del santuario di Petsofá, che ci hanno interessato per l'abbigliamento dell'epoca di Kamares (v. sopra). Alla terracotta si sostituisce la maiolica nel prossimo periodo, all'inizio del quale possiamo esaminare, per constatare i progressi compiuti dall'arte plastica, le famose statuette note col nome di dee dei serpenti, del santuario di Cnosso: sia una divinità o una sacerdotessa, l'immagine femminile, rappresentata nella fig. 64, è certo piena di efficacia e di suggestione col grembiule tutto trapunto sul davanti della veste campanata, con le braccia protese e le mani stringenti le teste di due dei tre serpenti che si avvinghiano attorno al corpo e incorniciano i floridi seni ignudi, arrampicandosi fin sopra l'alto copricapo tronco-conico; un senso di mistero e di incanto si sprigiona dai larghi occhi con lo sguardo fisso nel vuoto.
Statuette consimili dovevano indubbiamente essere lavorate pure in avorio e in marmo; la statuetta in avorio del Museo di Boston e la statuetta in marmo di Cambridge, sono di molto dubbia autenticità; ma la tecnica della scultura nell'avorio, che abbiamo detto raggiungere un alto grado di perfezione fin dal più antico periodo dell'arte cretese nelle figure dei manichi di sigilli, ci ha lasciato anche altre, per quanto rare, cospicue testimonianze; da Palecastro provengono graziose immagini di fanciulletti ignudi; e di nuovo agli scavi di Cnosso si deve la famosa, benché mal ridotta, statuetta del saltatore (v. avorio; V, pag. 658, fig. 7), colta proprio nell'attimo del salto sopra al dorso del toro infuriato, col corpo completamente disteso, in un movimento di aerea leggerezza; all'eleganza del movimento però è accoppiata la più accurata minuzia dei dettagli, con la sicura distinzione dei muscoli, dei tendini, delle vene delle braccia e delle gambe; i capelli, che erano incrostati in oro, palesano quasi un'anticipazione della plastica ellenica criselefantina. Non più alla deperibilità del materiale, ma alla rapacità dei depredatori antichi, è dovuta la scarsità delle statuette in bronzo a noi pervenute, soprattutto per i periodi primitivi dell'arte cretese; una delle più antiche e la più grande è la statuetta dell'adorante di Tilisso, col braccio sinistro steso lungo il fianco e la mano destra alla fronte, dal corpo però tozzo e panciuto come volesse indicare una razza straniera; alla posizione ora descritta per gli uomini, corrisponde l'atto di adorazione della donna, con una mano al seno e l'altra alla fronte reclinata, come appare per es. in una graziosa statuetta del Museo di Berlino: tale motivo si tramanda in una copiosa serie di statuette votive, sempre più rigide e decadenti, più goffe nel movimento e più sproporzionate nelle membra, di cui un ricco campionario ci è offerto dai bronzetti del tardo palazzo di Hagia Triada; in questo attardato strascico d'arte alle statuette in bronzo si alternano altre in piombo (come la statuetta da Campo di Messenia al Museo nazionale di Atene), e altre in argilla, queste sempre più frequenti, che assumono talora forme addirittura grottesche, e si tramandano cosi al periodo sub-miceneo e geometrico, fino a incontrare il nuovo risveglio dell'arte protogreca.
Abbiamo già constatato con quanta abilità gli artisti cretesi fino da un'epoca assai remota abbiano ritratto le forme animali sia nell'avorio sia nella steatite; questa loro capacità ha avuto agio di esercitarsi e svilupparsi nell'esecuzione delle numerose figurine richieste per gli ex-voto: oggetti popolari e a buon prezzo, di esecuzione sommaria e ripetuti in copiose serie, che ritroviamo assieme alle statuette umane nei santuarî e nei depositi votivi, per es. a Petsofá; tra gli esemplari più accurati si sviluppa una categoria speciale di vasi rituali, i vasi a zampillo o rhyta, specie di aspersorî forse: diversi fra questi, in argilla, rappresentano il sembiante del sacro toro, fra cui ricordiamo per es. la vivace e assai accurata figura proveniente dall'isola di Pseira e appartenente a un periodo ancora buono; qualche volta, da un rhyton di forma consueta, panciuta e terminante a imbuto in basso, è solo una testa animale che sporge nella parte superiore, come in un bel vaso da Palecastro su cui sorge una testa cervina; altre volte invece tutto il rhyton è foggiato a testa animale, taurina per lo più o leonina; un tardo esemplare fittile da Festo riproduce anche una testa umana. Di questi rhyta a teste animali si conservano diversi esemplari, più o meno frammentarî, in materiali più nobili; dal palazzo di Cnosso proviene la grande testa di una leonessa (fig. 65) in calcare gialliccio, con gli occhi incrostati entro un cerchio di marmo rosso, e le froge, perdute, pure lavorate a parte e in materiale diverso; egualmente di grande accuratezza ed efficacia era il rhyton in steatite a testa taurina, proveniente dal medesimo palazzo di Cnosso, pur esso incrostato di materiali policromi più preziosi nelle narici, negli occhi e nelle corna. Forse la superficie della steatite era ricoperta di una foglia d'oro; altri esemplari erano tutti eseguiti in tali materiali preziosi; possiamo ricordare qui i due superbi oggetti rinvenuti nella IV tomba a fossa di Micene, uno a testa di leonessa in lamina d'oro battuta e cesellata, l'altro (fig. 66) a testa taurina, in lamina d'argento con incrostazioni di rame e d'oro e una rosetta d'oro applicata sulla fronte. Tuttavia, malgrado la ricercatezza e lo sfarzo di questi esemplari, dobbiamo constatare una certa monotonia nella ripetizione dei soggetti, una certa rigidezza nell'esecuzione, soprattutto nei piani angolosi del muso della leonessa, nella stilizzazione del pelame a cerchietti sulla fronte, rigidezza dovuta certo in parte anche alla difficoltà di trattazione della materia. Se vogliamo infatti vedere a quale altezza la plastica cretese, lasciata libera nella propria ispirazione e nelle proprie risorse, sapesse assurgere nella medesima rappresentazione d'una testa taurina, dobbiamo far ritorno al rilievo, e precisamente a quel ramo dell'arte in cui la plastica e la pittura si associano nell'unico intento di decorare le vaste superficie parietali dei palazzi, cioè lo stucco colorato; ramo che abbiamo detto essere di grande importanza, per lo sviluppo e la comprensione del rilievo cretese in genere, ma di cui purtroppo solamente scarsi avanzi sono a noi pervenuti, quasi tutti dal palazzo di Cnosso, appartenenti al fiore del periodo naturalistico: piena di effetto, per quanto incompleta, è la leggiadra immagine del principe, coronato d'un diadema gigliato da cui s'alza un superbo ciuffo di penne di pavone, con una collana aurea a fiori di giglio sul petto, e incedente in mezzo a un campo di gigli; per eleganza e leggiadria corrispondevano a questa figura di principe le figure femminili sedute d'uno stucco di Pseira ma quale descrizione potrebbe rendere la vita che spira dalla testa taurina di Cnosso (fig. 67), che sprigiona il furore e il dolore dell'animale impennato, dagli occhi uscenti dall'orbita, dalla bocca semi-aperta come in un muggito, dalle umide narici dilatate?
Lo stucco variopinto era chiamato probabilmente a prestare una funzione ausiliaria anche nelle uniche grandi sculture in pietra che ci ha lasciato l'arte cretese-micenea, cioè nei rilievi monumentali di Micene; a Creta stessa la scultura in pietra ha prodotto solamente decorazioni ornamentali, come le fasce di decorazione che abbellivano le pareti dei locali di gala del palazzo di Cnosso o la leggiadra decorazione di un ramo d'edera che avvolge il fusto di un candelabro, o quella di un polipo che apre i suoi tentacoli, su un grande talento, oggetti entrambi costruiti in un gesso rosso simile al porfido; le fasce di decorazioni in pietra si ripetevano anche nei palazzi, sulle facciate e nelle grandi celle delle tholoi sul continente greco; ma qui, inoltre, artisti locali probabilmente si sono azzardati a riprodurre la figura umana, nelle scene rappresentate sulle stele che sormontavano le tombe a fossa di Micene, scene di corse di carri e di cacce, in cui contrasta la rozzezza del disegno e la piattezza delle figure con la ricca e precisa ornamentazione geometrica tutto intorno; tale rozzezza solo in parte è giustificata dalla scomparsa dello stucco: una stele micenea assai tarda ha sovrapposto, a una prima decorazione ornamentale incisa, uno strato di stucco liscio e dipinto a piccoli riquadri; è verosimile che la pittura avesse completato la lavorazione anche del più grandioso di tali monumenti in pietra micenei, il rilievo cioè che sormontava la porta dei leoni; si tratta di un antichissimo soggetto orientale assai presto adottato e poi prediletto dall'arte cretese; le teste, mancanti, sporgevano di prospetto ed erano perciò lavorate a parte in tutto tondo, forse in materiale diverso e più prezioso; è verisimile che lo stucco o il colore alleggerissero le forme piuttosto massicce e rigide degli animali. Non è possibile attardarsi a discutere se tutti questi rilievi siano opere di artefici cretesi, o di artefici locali scaltriti dall'arte cretese; certo l'ispirazione prima e l'insegnamento tecnico provenivano dall'isola; addirittura con le opere dei palazzi cretesi si potrebbero confondere i due frammenti Elgin del British Museum, probabilmente appartenenti alla decorazione che riproduceva una scena di tauromachia; e riconstatando l'unità di concetti e d'ispirazione che permane, dai lontani primordî, per tutto il millenario svolgimento dell'arte cretese, chiuderemo questo schizzo sulla sua plastica ammirando davanti alla Porta dei leoni, malgrado tutte le deficienze, l'imponenza degli animali, fieri custodi della città degli Atridi, e insieme quasi dei tesori d'arte e di pensiero dell'antica civiltà, che, sepolta nell'incendio e nella distruzione del palazzo, non è morta del tutto sotto le sue ceneri.
Le arti minori: la metallotecnica, l'oreficeria, la glittica. - La civiltà cretese non ha conosciuto, come è stato esposto nei capitoli precedenti, la grande arte, fine e soddisfacimento a sé stessa, non s'è affaticata in un incessante travaglio per riuscire a esprimere la sua forma ideale; essa s'è compiaciuta piuttosto, fin dal suo nascere, a decorare leggiadramente i luoghi delle sue dimore e gli utensili per il suo uso, a ricopiare, con attenzione e fresca intuizione, la natura circostante, a profondere con eleganza e gusto i motivi della sua fantasia. È ovvio che, per completare il quadro di una tale civiltà, bisognerebbe studiare tutti i numerosi prodotti delle arti minori e delle industrie decorative. Gli artisti cretesi hanno saputo adornare gli oggetti d'arredo dei palazzi, hanno incrostato i mobili di paste vitree, di porcellane, di placche d'avorio; con la medesima accuratezza e col medesimo amore per l'eleganza e la finitezza, erano decorate le armi per la guerra; su una potente ascia da Hagia Triada si vede incisa, per es., una graziosa farfallina; erano decorati i vasi e le coppe in bronzo: si sono conservati magnifici esemplari di ampie patere e di spaziose brocche in bronzo da Festo e da Cnosso, come pure altre brocche simili dalle tombe di Micene, decorate le prime da serie di protuberanze sull'orlo a forma di chiocciole, o da ghirlande di foglie, da gigli le altre, o da perle, da lacci spiraliformi e da spirali correnti; dal periodo più fiorente dell'arte, dobbiamo risalire per alcuni di questi vasi certo ancora all'epoca di Kamares, perché alcune tazze policrome di quest'epoca imitano il giro di chiocciole in rilievo. E quale importanza sia stata attribuita all'abbigliamento personale, ci appare dalla quantità di ornamenti portata dai personaggi degli affreschi e degli stucchi parietali, oltre che dai resti degli ornamenti originali rinvenuti nelle tombe: appaiono, sulle carni ignude e sulle vesti ricamate, ricche collane, pendagli, anelli, braccialetti, spilloni da capelli; nelle collane gli ornamenti d'oro si alternano ai vezzi di pietre ricercate, in cristallo di rocca, in pasta vitrea blu; all'oro si alterna talora, più prezioso, l'argento; il ferro, di cui l'uso si estende soltanto nell'epoca posteriore al crollo della civiltà cretese-micenea, è tuttavia conosciuto prima in scarsissime quantità, e adoperato per qualche oggetto di lusso, per es., in un anello di Festo composto per metà di oro e per metà di ferro; abbiamo visto le pietre preziose adoperate nell'incrostazione dei rhyta di oro e di argento (v. sopra, pag. 886); l'abilità degli artisti cretesi nell'incrostazione di materiali diversi - abilità tramandata nella leggenda greca col nome di daidala, perché l'invenzione di tale tecnica era attribuita appunto a Dedalo - appare, per es., in una grande scacchiera, o tavola da gioco, della reggia di Cnosso, di oltre un metro di lunghezza, in cui sul piano di avorio sono incastrate margaritine sul contorno, e disegni diversi nel centro, in cristallo di rocca e in oro, in pasta vitrea e in argento. A questa tecnica dell'incrostazione si ricollega l'arte della sovrapposizione di diversi metalli, oppure, con l'aggiunta di particolari in una speciale amalgama, il niello, arte che ha dato i meravigliosi pugnali e i vasi delle tombe di Micene (v. agemina; vol. I, p. 850, figg. 2-6 e tav. a p. 848).
L'abilità degli orefici cretesi ci è attestata di buon'ora, per es. nella varia suppellettile delle tombe di Mochlos, con diademi, pendagli, ghirlande di foglie e di fiori; i prodotti dei loro opifici ci sono palesati anche per le epoche successive, per es. in minuscoli oggetti, lavorati a tutto tondo, da Cnosso, come pesci e quadrupedi; ma indubbiamente non mancavano, a fianco dei vasi bronzei, più lussuosi vasi aurei: ne fanno fede le iscrizioni degli inventarî del palazzo di Cnosso, in cui diversi capitoli sono intitolati dai segni di tali vasi; ed è più che probabile la provenienza da Creta dei superbi esemplari di vasi aurei, dalle identiche forme, che le tombe di Micene ci hanno restituito; sono basse tazze troncoconiche, sono eleganti coppe, è il calice dall'alto piede e con le anse riunite al fondo cilindrico per mezzo di due lamine, sulle quali anse posano due colombe che sembrano voler abbeverarsi entro ad esso: tale era il calice di Nestore descrittoci da Omero. Su alcuni di questi vasi v'è una decorazione di spirali correnti, o di rosette, o di foglie; su altri è applicata una più ricca ornamentazione figurata, con leoni fuggenti, con delfini natanti. Ormai ci muoviamo nei campi dell'arte; e arte altissima, e ammirevole per ogni età, è quella delle due famose tazze auree di Vaphió in Laconia (fig. 68), lavorate con mirabile abilità a sbalzo dall'interno, con finissimi ritocchi incisi, e rivestite internamente d'una seconda lamina liscia; nell'una si assiste alla cattura dei tori selvaggi; la prospettiva, ignara, sovrappone al solito in piani diversi gli alberi che dovrebbero essere allineati, e la maniera pittorica si compiace di contorcere in modo innaturale le membra del toro catturato; nella seconda tazza i tori ormai domati assistono l'uomo nelle faticose opere dei campi; lì tutto foga e spasimo, qui tutto pace e serenità; in entrambi i vasi, nuvole nel cielo, e rocce, e come polvere sul terreno: dovranno trascorrere assai secoli perché nell'arte si possa ritrovare una capacità così evoluta e cosciente nella riproduzione di scene della natura.
Come per gli altri vasi sopra accennati così per queste due tazze, la forma e le rappresentazioni ci persuadono che ci troviamo di fronte a oggetti importati da Creta; per qualche altro oggetto la provenienza è più dubbia, come per es. per il ben conosciuto rhyton argenteo di Micene (v. arcieri; IV, p. 95), rappresentante una scena di assedio: la nudità di alcuni difensori e alcune armi, come la fionda, sconosciute nelle rappresentazioni cretesi, possono far sorgere il pensiero che si tratti di un prodotto del continente. L'incertezza sul luogo di fabbricazione è ancora più giustificabile per altre suppellettili delle tombe a fossa di Micene, fra cui menzioneremo specialmente le maschere auree (fig. 69), applicate verisimilmente sulla cassa lignea che avvolgeva il morto, e imitanti con efficacissimo naturalismo le sembianze del defunto; alcune di queste immagini ci conservano delle effigi i cui tratti, forniti di barba e di baffi, contrastano vivamente col costume dei signori di Creta, e sono proprî appunto dei principi del continente: sennonché, come per il maggior numero delle suppellettili delle tombe degli Atridi, quali i ricchi e grandi diademi, le piccole piastrine auree (v. brattea), ecc., anche per queste maschere esistono dei timidi e lontani prototipi nelle fascette auree con tratti umani di Mochlos, come dei tardi strascichi, nella maschera di elettro, con la sola prominenza del naso, di una tomba di Moulianá; ciò conferma che nei prodotti dell'arte micenea, ispirazione e motivi, almeno, provengono da Creta.
Una considerazione speciale, fra tutte le arti minori, deve essere data alla glittica; infatti, nella minuziosa incisione sulla piccola superficie dei sigilli, gli artisti fin da remotissimi tempi hanno avuto agio di provare e di esercitare la loro capacità di rappresentazioni figurate; in essa, attraverso agl'ideogrammi che simboleggiavano i primi segni della scrittura, ha potuto trovare la sua strada la tendenza naturalistica innata nel carattere degli artisti, e, nella compendiosa estrinsecazione delle figure e dei quadretti entro un limitato spazio, ha avuto il suo specchio e il suo campo di prova la maniera rapida e succinta, che ha conferito un carattere pittorico e impressionistico anche alle arti maggiori; contemporaneamente all'incisione della superficie piana, la modellatura dei manichi dei primitivi sigilli ha fatto muovere i primi passi alla plastica a tutto tondo. L'importanza della glittica è tanto maggiore in quanto i suoi monumenti, in materiali più resistenti e più facilmente sfuggiti alla distruzione e alla rapina, ci hanno conservato una quantità di documentazioni sulla vita e sulla civiltà di Creta; ai sigilli originali da noi posseduti bisogna aggiungere numerosissime cretule, cioè impronte di sigilli in argilla, che l'incendio dei palazzi cretesi invece di distruggere, come i documenti a cui essi erano fermati, ha, naturalmente, vieppiù consolidato; da Hagia Triada, da Zakro e da Cnosso provengono tre notevoli gruppi di tali cretule.
Fino dalle prime fasi della civiltà paleocretese ci imbattiamo in una copiosissima serie di questi sigilli intagliati in osso, in avorio, in steatite, o modellati in terracotta, provenienti soprattutto dalle tombe a tholos della Messará; se anche altre civiltà, come quella babilonese, possono vantare un'alta antichità per l'uso dei sigilli, conformati però a cilindro, l'indipendenza e l'originalità dell'uso cretese è dimostrata dalla fantasia e dalla leggiadria con la quale gli artisti di Creta variano la forma dei loro sigilli, in gran numero tagliati a cono, o a bottone, ma ben presto configurati a forme animali, o addirittura con immagini umane. Anche nell'incisione i motivi sono del tutto conformi alle tendenze dell'arte cretese, che profonde da prima eleganti motivi ornamentali, e poi foglie stilizzate, e animali e uomini; le forme animali e umane sono ancora rozzamente intagliate a mano libera nella materia tenera, con contorni angolari e membra sproporzionate; tuttavia le immagini ideografiche esprimono, con spontanea efficacia, gruppi di cani che camminano o si contrappongono, vasai intenti al lavoro, cacce, ecc. (fig. 70).
Sembra coincidere con l'inizio dell'epoca medio-minoica e con la formazione dello stile policromo di Kamares, il passaggio graduale della scrittura cretese dal sistema ideografico a quello geroglifico (fig. 71); dall'indifferente varietà delle rappresentazioni ideografiche, si è scelto un certo numero ristretto di segni, che si sono dovuti schematizzare per una più rapida riproduzione; ma, per la fortuna dell'arte cretese, il naturalismo, mentre era cacciato dalla scrittura, trovava una sua via indipendente nelle figurazioni dei segni personali, sui sigilli d'uso pubblico e privato; nel medesimo tempo avveniva l'invenzione del tornio e del trapano, che permettevano di adornare con finezza e precisione anche le pietre dure: mutano infatti i materiali dei sigilli, e ne mutano le forme; si fanno più frequenti i prismi triangolari, le cui superficie piane sono adoperate specialmente per la stesura dei segni scritti; rimangono infine uniche padrone del campo le forme a cilindro schiacciato, lenticolare, amigdaloide; e ai pochi e facili materiali della prima epoca, subentra tutta la variopinta gamma delle preziose pietre delle isole, come sono state chiamate dai primi rinvenimenti, assieme alla steatite e all'ematite, l'onice e la sardonice, l'agata, la corniola, il calcedonio, i diaspri colorati, il trasparente cristallo di rocca, l'ametista; subentrano, per i sigilli più lussuosi, gli anelli d'oro, d'argento dorato e di porfido.
Fino dal periodo di Kamares, abbiamo detto, la glittica cretese continua per la sua strada nella sicura e fresca riproduzione della natura; nella scarsità di monumenti sicuramente databili, sono di grande interesse i documenti provenienti dal palazzo di Cnosso, le cretule in cui vediamo già degli uccelli che si lisciano le piume, degli animali sorpresi o fuggenti, una capra che allatta un bambino, e infine, su una cretula, due teste, di un adulto e di un fanciullo, forse due principi del palazzo (fig. 72). Ma se vogliamo ammirare lo sboccio impetuoso della corrente naturalistica, possiamo dare una scorsa agli svariati soggetti delle cretule di Hagia Trada (fig. 73), appartenenti tutte probabilmente all'ultima fase del medio- mnoico: un solo tipo riproduce ancora segni geroglifici; poi sono decorazioni semplicemente ornamentali, protomi animali contrapposte, è un elmo con rigido pennacchio; sono soggetti floreali, foglie, steli, arbusti; ma assai più frequenti sono le rappresentazioni animali, di uccelli volanti, di cigni, di colombe, di oche natanti e di anatrelle incedenti tra i fiori, di farfalle e di mosche, di pesci e di molluschi; fra i quadrupedi dominano naturalmente i leoni e i tori, in lotta fra loro; egualmente appaiono i cerbiatti, le capre, le gazzelle, i cinghiali e i cani; assieme agli animali s'incontrano mostri ed esseri fantastici, sfingi, grifi, leoni alati; la presenza dell'uomo è presupposta dove vediamo aquile, o pesci, o tori, stretti fra le maglie di reti; ma l'uomo stesso appare, e lo vediamo in tutte le sue funzioni civili, reali e sacre: aurighi conducenti cocchi e ginnasti tra le corna dei tori, arcieri e opliti, pugilisti e rematori; e uomini e donne che eseguiscono sacre cerimonie, in processioni maestose, con gesti rituali, portanti labari e asce, personaggi in atteggiamenti e danze strane presso a santuarî o in ginocchio presso al sacro betilo, o sorreggenti il palladio divino, o forse le divinità stesse, nell'apparizione ai mortali o esposte alla venerazione di essi.
Degne di osservazione sono le particolarità artistiche di tali prodotti, come la lavorazione delicata e quasi superficiale dei piani, con sfumature e trapassi pressoché insensibili, e come la preferenza, fra tutti i soggetti, di quelli tolti dalla natura e dalla vita reale: solo in casi eccezionali la fantasia dell'artista si compiace di creare esseri bizzarri e mostruosi: tale predilezione per lo stravagante si fa quasi una regola nelle cretule di Zakro (fig. 74), che appartengono a un periodo leggermente più avanzato di quelle di Hagia Triada, e dove c'imbattiamo nelle più impossibili combinazioni di membra umane e bestiali, nelle più inattese variazioni di protomi e di maschere. Nel medesimo tempo l'incisore, per accentuare l'effetto, pur sempre gradevole e decorativo, di tali rappresentazioni, scava più profondamente i piani della pietra, gettando luci e ombre più forti nel disegno: tecnica che acquista voga ormai anche per le riproduzioni dalla natura, quanto più ci avviciniamo all'epoca dello stile del palazzo.
Sulla guida di queste cretule sicuramente datate si possono classificare - malgrado la mancanza di stratificazioni e la difficoltà intrinseca di datazione di tal genere di monumenti - anche alcuni sigilli singoli; e si possono trovare raffronti e spunti su documenti cretesi per gli anelli e i sigilli a cilindro schiacciato in oro da Micene (fig. 75); sui tre cilindri vediamo un leone ferito che si trascina in un terreno roccioso, una lotta fra un cacciatore e un altro leone, e una tenzone di due guerrieri; su un anello assistiamo a una caccia al cervo con una biga, su un altro a combattimenti tra due gruppi di due guerrieri, su altri a scene religiose (v. sopra, p. 867); abbiamo anche riprodotto (v. albero: Gli alberi nelle religioni; II, p. 168) il grande anello con simboli astrali.
Piuttosto che una decadenza tecnica o una diminuzione di capacità, ci avverte della fine del periodo naturalistico la ripetizione, che si fa sempre più monotona, dei medesimi soggetti, la mancanza di quella fresca ispirazione inventiva, che si compiaceva di variare composizioni e particolari in ciascuna di esse, il prevalere ormai di schemi fissi; cosi in alcune delle più belle tra le ricche gemme da Micene e da Vaphió (fig. 76) si può ammirare ancora, insieme all'eleganza del disegno, la vivezza dell'espressione, per es. nel leone che assale il toro; ma in altre la posizione degli animali si fa rigida e convenzionale; per la simmetria della composizione, le membra degli animali stessi cominciano a torcersi in modo innaturale; ben presto tali contorsioni si fanno impossibili, con la testa e il collo piegati ad angolo retto sul corpo, oppure addirittura con tutta la parte posteriore del corpo scavezzata in posizione opposta a quella anteriore, per riempire il contorno rotondo della gemma. La medesima decadenza che nelle gemme di Vaphió si potrebbe seguire in quelle di provenienza cretese, come per es. nei sigilli della necropoli di Festo. Pure durante l'ultima fase dell'arte minoica, nell'età micenea, la glittica segue questa parabola discendente; per questa tarda epoca è attestata anche la lavorazione sul suolo di Micene, come dimostra l'officina dell'intagliatore, contenente numerose pietre non ancora lavorate, scoperta nelle rovine del palazzo; eppure per quest'arte minuta e prediletta nella civiltà cretese la decadenza sembra più lenta che per le arti maggiori; mentre queste, trascurate nei tempi difficili delle invasioni straniere, cadevano in oblio, e la ceramica stessa, al contatto di nuovi concetti e di nuovi ideali, si irrigidiva in produzioni sempre più consuete e misere, forse l'eredità di conoscenze tecniche e il bisogno intrinseco di varietà potevano sostenere ancora la glittica, libera d'ogni concorrenza: così a Creta delle precise associazioni, per es. nelle tarde tombe di Gournes, ci palesano la contemporaneità di schematici vasi micenei e di larnakes quasi ignude di decorazioni con una serie di gemme, coi soliti soggetti di animali, di un effetto ancora abbastanza gradevole. Poi, lentamente, anche in questo campo subentra l'irrigidimento geometrico, penetra il gelo del Medioevo ellenico. (V. tavola a colori).
Bibl.: Bibliografie riassuntive. - J. Maraghiannis, Antiquités crétoises, I-III, Candia 1906-1915; Mau-Mercklin, Katalog der Bibliothek des k. deutsch. Arch. Inst. in Rom., Roma 1893, I, p. 169 segg., s. v. Kreta; ibid., s. v. Mykenae, p. 149 seg.; ibid., Tirnys, p. 161 ecc.; L. Bürchner, G. Karo, J. Oehler, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XI, col. 1719 segg.
Opere d'insieme. - C. Schuchhardt, Schliemann's Ausgrabungen in Troja, Tiryns, Mykenae, Orchomenos, Ithaka, im Lichte der heutigen Wissenschaft, 2ª ed., Lipsia 1891; G. Perrot e Ch. Chipiez, Histoire de l'art dans l'antiquité, VI, Parigi 1894; Chr. Tsountas e J. Manatt, The Mycenaean age, Boston 1897; W. Ridgeway, The early age of Greece, I, Cambridge 1901; H. R. Hall, The oldest civilization of Greece, Londra 1901; A. Burrows, The discoveries in Crete and their bearing on the history of ancient civilization, Londra 1907; M. J. Lagrange, La Crète ancienne, Parigi 1908; P. Cavvadias, Προϊστορική 'Αρχαιολογία, Atene 1909; A. Mosso, Escursioni nel Mediterraneo e gli scavi di Creta, Milano 1907 (2ª ed., col titolo La preistoria, I, Milano 1910); id., Le origini della civiltà mediterranea (La preistoria, II), Milano 1910; E. Drerup, Omero (trad. Pernier), Bergamo 1910; R. v. Lichtenberg, Die Aegaeische Kultur, Lipsia 1911; G. E. Rizzo, Storia dell'arte greca, I, Torino 1913; R. Dussaud, Les civilisations préhelléniques, 2ª ed., Parigi 1914; H.R. Hall, Aegean archaeology, Londra 1915; G. Glotz, La civilisation égéenne, Parigi 1923; H. Th. Bossert, Altkreta, Kunst und Kunstgewerbe im ägäischen Kultur-Kreise, 2ª ed., Berlino 1923; D. Fimmen, Die Kretisch-Mykenische Kultur, 2ª ed., Lipsia e Berlino 1924; Valentin Müller, Kret.-Mykenische Studien, in Jahrb. d. Arch. Inst., XL (1925), p. 85 segg.; G. Karo, in Ebert, Reallexicon der Vorgeschichte, s. v. Kreta, VII, p. 65 segg.; s. v. Aegaeische Kultur, I, p. 29 segg.; A. Evans, The Palace of Minos at Knossos, I, Londra 1921, II, 1928.
Esplorazioni e scavi. - Sulle esplorazioni antiche di Creta, vedi specialmente: R. Pashley, Travels in Crete, voll. 2, Londra 1837-38; E. Falkener, A description of some important theatres and other remains in Crete, from a ms. history of Candia by Onorio Belli in 1586, Londra 1854; T.A.B. Spratt, Travels and Researches in Crete, voll. 2, Londra 1865-68. Per le ricerche recenti, v. soprattutto i rapporti di F. Halbherr e dei suoi compagni, in Am. Jour. of Arch., 1894-1902; di L. Mariani, in Mon. ant. Lincei, VI (1895), p. 153 segg.; di A. Taramelli, ibid., IX (1899), p. 285 segg., e di L. Savignoni e G. De Sanctis, ibid., XI (1901), p. 285 segg. Per le pubblicazioni degli scavi di Cnosso, oltre alle opere d'insieme sopra citate, vedi i rapporti di A. Evans, in Annual of the British School at Athens, VI-IX (1899-1905), e in Archaeologia, LIX e LXV. Per gli scavi italiani, i rapporti in Mon. ant. Lincei, XII-XIV (1902-1904), in Memorie dell'Ist. Lombardo, XXI (1905), ecc.; cfr. un riassunto sugli scavi italiani in B. Pace, Trent'anni di ricerche archeologiche italiane in Creta, Roma 1919. Per gli scavi dello Schliemann, v. le sue opere. Mykenae, Lipsia e Londra 1878; Orchomenos, Lipsia 1881; Ilios, Lipsia 1881; Troja, 1884; Tirynthe, Parigi 1885; W. Dörpfeld, Troja und Ilion, Atene 1902. Per gli ultimi scavi di Micene vedi anche Annual Brit. School, XXV (1921-23); cfr. A. Evans, The Shaft graves and the Beehive tombs at Mycenae, Oxford 1929; G. Karo, Die Schachtgräber von Mykenä, Berlino 1930; per Tirinto, le pubblicazioni dell'Ist. germanico, Tiryns, II, Atene 1912; III (K. Müller), 1930; per Orcomeno, il vol. I della pubblicazione ancora non terminata di H. Bulle, Orchomenos, Monaco 1907. Per gli scavi americani vedi: H. Boyd Hawes e B.E. Williams, Gournià, Vasiliki and other prehistoric sites on the isthmus of Hierapetra (Crete), Philadelphia 1908; R.B. Seager, Vasiliki, in Trans. of the Univ. of Pennsylvania, Filadelfia 1907; id., Excavations in the island of Pseira, ibid., Filadelfia 1910; id., Explorations in the island of Mochlos, Boston e New York 1912. Per gli scavi della Scuola inglese a Palecastro, vedi i rapporti nell'Annual of the Brit. School, VIII-XI, e il vol. I dell'opera riassuntiva, Bosanquet-Dawkins, The unpublished objects from the Palaikastro Excavations, 1902-1906, in Annual of the Brit. School, Suppl. Paper, n. i, I, 1923. Per gli altri scavi, vedi J. Hatzidakis, Tylissos à l'époque minoenne, Parigi 1921; F. Chapoutier e J. Charbonneaux, Fouilles exécutées à Mallia, I rapporto, Parigi 1928; F. Lapoulier, Les écritures minoennes au palais de Mallia, Parigi 1930. Riproduzioni, spesso discrete, di scavi e monumenti di Creta, sono raccolte in tre volumi di grandi tavole, con prefazioni di Pernier, Karo e Seager, pubblicate da J. Maraghiannis, Antiquités crétoises, Candia 1906-1915.
Etnografia, lingua, costumi. - Sulla teoria della razza mediterranea v. G. Sergi, Europa, l'origine dei popoli europei, Torino 1908; L. Pareti, Storia di Sparta arcaica, I, Firenze 1917, passim. Sull'abbigliamento cfr. anche W. Deonna, Les toilettes modernes de la Crète minoenne, Ginevra 1911. Sulle tavolette di Preso e sulla lingua degli Eteocretesi v. Conway, in Annual of the Brit. School., VIII, p. 125 segg.; X, p. 115 segg.; un'interessante lista delle parole cretesi che sarebbero passate nella lingua greca è data dal Glotz, op. cit., p. 441 segg. Sulla scrittura cretese restano ancora fondamentali le opere di A. Evans, Cretan pictographs and prae-phoenician script, in Journ. Hell. Studies, XIV (1894), p. 270 segg., e Londra 1895; id., Scripta minoa, I, Oxford 1909; vedi inoltre J. Sundwall, Die Kretische Linearschrift, in Jahrbuch d. deutsch. arch. Inst., XXX (1915), p. 57 segg.; id., Kreitsche Schrift, in Reallexikon d. Vorgesch., VII, p. 97; cfr. id., Zur Deutung Kreitscher Tontäfelchen, in Acta Academiae Aboensis, Humaniora, II, p. 9 segg.; M. P. Nilsson, Die übername und Entwicklung des alphabets durch die Griechen, in Det Kgl. Danske Videnskabernes Felskab, Hist.-filol. Medd., I, 6, p. 9 segg. Sui pesi, vedi Evans, Minoan weights and mediums of currancy, in Corolla numismatica, Oxford 1906, p. 336. Su un ultimo tentativo di decifrazione della lingua cretese v. Axel Wl. Persson, Schrift und Sprache in Alt-Kreta, in Uppsala Universitets Arsskrift, 1930, Progr. 3; e cfr. la recensione di J. Sundwall, in Deutsche Literaturzeitung, 13 settembre 1930, p. 1748 segg.
Religione. - Vedi la bibl. del Karo, negli articoli cit., in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., e nel Reallexikon der Vorgesch. V. inoltre Dussaud, op. cit., 1ª ed., p. 193 segg.; H. Prinz, Bemerkungen zur altkretischen Religion, in Ath. Mitth., XXXV (1910), p. 149 segg.; G. Karo, Religion des Ägaischen Kreises, Lipsia 1925; M. P. Nilsson, The Minoan-Mycenaean Religion and its survival in Greek Religion, Lund e Parigi 1927; cfr. R. Pettazzoni, La religione nella Grecia antica, Bologna 1921, p. 7 segg., bibl. p. 28 segg. Sui demoni e sui rapporti con le religioni dell'Oriente asiatico, cfr. Della Seta, in Rendic. Lincei, 1908, p. 399 segg.; e D. Levi, Annuario d. Scuola it. di Atene, VIII-IX, p. 190 segg.; sul culto dei pilastri vedi A. Evans, Tree and Pillar Cult, in Journ. Hell. Studies, XXI (1901), p. 99 segg.; D. G. Hogarth, Aegean Religion, in Encyclopaedia of Religion and Ethics, I, pp. 141-148.
Cronologia cretese e rapporti con l'Egitto. - A. Evans, Essai de classification des époques de la civilisation minoenne, Londra 1906; id., The nine Minoan periods, Londra 1914; K. J. Beloch, Griechische Geschichte, 2ª ed., I, ii, Strasburgo 1814, p. 121 segg.; Rizzo, op. cit,. cap. IV, p. 231 segg.; Fr. v. Bissing, Der Anteil der Aegyptischen Kunst am Kunstleben der Völker, Monaco 1914; D. Fimmen, op. cit., p. 152 segg.; Röder, in Reallexikon d. Vorgesch., s. v. Aegäischer Einfluss auf Palästina-Syrien, I, p. 44 segg.; R. von Lichtenberg, Einflüsse der aegaeischen Kultur auf Aegypten und Palästina, in Mitt. der Vorderasiat. Gesell., 1911, n. 2.
Vita sociale e materiale. - Vedi Glotz, op. cit., p. 153 segg. Sulle vie di comunicazione, Fimmen, op. cit., p. 113 segg.
Civiltà egee. - Sugli scavi a Coo e a Calimno, e in genere su tutta l'età neolitica nell'Egeo, v. D. Levi, in Annuario d. Scuola Arch. it. di Atene, VIII-IX, p. 235 segg. Per la civiltà tessalica vedi Ch. Tsountas, Διμήνιον καὶ Σεσκλον, Atene 1908; A. J. B. Wace e M. S. Thomson, Prehistoric Thessaly, Cambridge 1912; Wace, in Journ. Hell. Studies, XLI (1921), p. 260 segg.; G. Karo, in Reallexikon der Vorgesch., s. v. Aegaeische Kultur, I, p. 30 segg. Per la civiltà della Macedonia cfr. Fimmen, op. cit., p. 95, e p. 100 segg.; Rey, in Bull. Corr. Hell., XL (1916), p. 258 segg.; XLI (1917), p. 1 segg.; G. Wilke, in Reallexikon d. Vorgesch., VII, p. 349 seg.; Casson, Macedonia, Thrace and Illyria, Oxford 1927; G.E. Mylonas, Excavations at Olynthus, I: The Neolithic settlement, Baltimora 1929; v. inoltre le ultime pubblicazioni degli scavi in Macedonia del Casson, Heurtley ecc., in Annual Brit. Sch., XXVI segg. (1923 segg.). Non è escluso che la civiltà della Macedonia si sia irradiata anche nelle Sporadi settentrionali; una specie di tumba è stata scoperta dal Levi a Lemnos, nella località di Vrokastro non lungi dalla baia di Mudros, con cocci superficiali neolitici decorati a incisioni lineari e spiraliformi, resti di macine, ecc., stazione che però non è stata ancora scavata. Sulla civiltà elladica, oltre alla pubblic. su Orcomeno, v. specialmente C.W. Blegen, Korakou. A prehistoric Settlement near Corinth, Boston e New York 1921; id., Zygouries, 1928; cfr. per la Beozia, Hetty Goldmann, Excavations at Eutresis, Fogg Art Museum, Harvard Univ., 1927. Sulla civiltà cicladica, v. la pubblicazione degli scavi di Ch. Tsountas, in 'Αρχ ἐϕ., 1898, p. 137 segg., e 1899, p. 73 segg.; Karo, in Reallexikon d. Vorgesch., s. v. Aeg. Kultur, I, p. 38 seg.; merita di essere menzionata la stazione preistorica cicladica stanziatasi sulla costa attica a H. Cosmás, non lungi dal Falero, in corso di esplorazione. Su Melo, v. Excavations at Phylakopi in Melos, Londra 1904; cfr. gli scavi successivi, in Ann. Brit. School, XVII (1910-11), p. 1 segg.; cfr. anche Karo, in Reallexikon ecc., s. v. Melos, VIII, p. 137. Le notizie archeologiche su Tera sono contenute nell'opera geologica di F. Fouqué,. Santorin et ses éruptions, Parigi 1879; cfr. anche Thera, III, p. 39 segg. (trattazione della ceramica preistorica di R. Zahn), e vedi un accenno ai recenti scavi in Jahrb. Arch. Anzeiger, XLV (1930), col. 135 seg. Su Troia, vedi, oltre alle opere sopra citate, C. Schuchardt, Alteuropa, 2ª ed., Berlino 1926, p. 201 segg.; Karo, Reallexikon ecc., s. v. Troja, XIII, p. 442 segg.; per lo strato miceneo, cfr. Ath. Mitth., XLVII (1922), p. 110 segg. Sulla Troia omerica, cfr. Ch. Vellay, Les nouveaux aspects de la question de Troie, Parigi 1930.
Fine e sopravvivenza della civiltà cretese-micenea. - Sui popoli del mare e i rapporti con l'Egitto cfr. oltre a quanto sopra, Maspero, Hist. anc. des peuples de l'Orient classique, II, p. 461 segg.; G. Farina, in Aegyptus, I (1920), p. 8 segg.; A.-R. Burn, Minoans, Philistines, und Greeks, before Ch. 1400-900, Londra 1930; e vedi lo schizzo riassuntivo di W. Weber, Die Staatenwelt des Mittelmeers in der Frühzeit des Griechentums, Stoccarda 1925; sui Shirdani vedi anche v. Bissing, in Studi Etruschi, IV (1930), p. 69 segg. Sulla fine della civiltà micenea, la cronologia relativa e l'eredità nella civiltà ellenica, v. G. Beloch, in Ausonia, IV (1909), p. 219 segg.; D. Levi, Arkades, in Annuario d. Scuola it. di Atene, X-XII, p. 625 segg.
Architettura. - Oltre alle op. cit. e al lavoro fondamentale dell'Evans, The Palace ecc., v. Mackenzie, in Annual Brit. School, XI, p. 181 segg.; XII, p. 216 segg.; XIII, p. 423 segg.; XIV, p. 343 segg.; W. Dörpfeld, in Ath. Mitth., 1905, p. 257 segg.; 1907, p. 575 segg.; H. Bulle, Orchomenos, I, Monaco 1907; F. Noack, Homerische Paläste, Lipsia 1903; id., Ovalhaus und Palast in Kreta, Lipsia 1908; Fiechter, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., s. v. Haus; G. Leroux, Les origines de l'édifice hypostyle, Parigi 1913. Sulla colonna, v. anche J. Durm, in Oest. Jahresh., X (1907), p. 41 segg.; e id., in Baukunst d. Griechen, Lipsia 1910, pp. 58 segg. e 75 segg.; cfr. Fimmen, op. cit., p. 39 segg.; Glotz, op. cit., p. 119 segg. Sulla casa preistorica di Magasá, v. Annual Brit. School, XI, p. 260 segg.; sulla grotta di Miamú, A. Taramelli, in Am. Jour. of Arch., 1897, p. 287 segg.; sui ruderi preistorici di Festo, L. Pernier, Annuario Scuola arch. it. di Atene, I, p. 357. Sulla città di Vasilikí, v. Boyd-Hawes, Gournià, ecc., p. 45 ecc. Sulle case di Psiera e di Mochlos, v. le op. cit. del Seager. Per Festo, in attesa della pubbl. integrale in corso, v. le relazioni nei Mon. ant., cit.; per Hagia Triada, v. soprattutto Halbherr, in Mem. Ist. lomb., XXI (1905), p. 235 segg. Sulle tombe a cupola della Messará, v. St. Xanthoudides, The Vaulted Tombs of Mesarà, Londra 1924; A. Evans, l'introd. al vol. suddetto, e The Palace ecc., II, i, p. 35 segg.; sulle tombe micenee v. Fimmen, op. cit., p. 54 segg.; Wace, in Annual Brit. School, XXV (1921-23), p. 282 segg.; G. Karo, in Ath. Mitth., XL (1915, pubblicato nel 1927); A. Evans, The Shaft graves and Beehive tombs of Mycenae, Londra 1929.
Ceramica. - A. Furtwängler e G. Löschcke, Mykenische Vasen, Berlino 1886; Mackenzie, in Journ. Hell. studies, XXIII (1903), p. 157 segg.; XXVI (1906), p. 243 segg.; E. Hall, The decorative art of Crete in the bronze age, Philadelphia 1907; E. Reisinger, Die kretische Vasenmalerei von Kamares bis zum Palast-Stil, Lipsia 1912.
Pittura. - Vedi per gli affreschi e il sarcofago di Hagia Triada, R. Paribeni, in Mon. ant. Lincei, XIII (1903), p. 55 segg. e XIX (1908), p. 6 segg.; per quelli di Cnosso, nel vol. di Evans, The Palace ecc.; per quelli di Tirinto e di Micene, G. Rodenwaldt, Tiryns, II. Die Fresken des Palastes, Atene 1912, e Der Fries des Megarons von Mykenai, Halle 1921; per gli ultimi scavi di Micene, v. W. Lamb, in Annual Brit. School, XXV (1921-23), p. 162 segg. Per la tecnica vedi anche N. Haton, in Jour. Royal Inst. of Brit. Archit., XVIII (1911), p. 697 segg.; e cfr. K. Müller, in Ath. Mitth., 1913, p. 78 segg. V. recentemente le riproduzioni in Mary Hamilton Swindler, Ancient Painting, New Haven 1929, pp. 91 segg. e 131 segg.
Plastica. - Sulla statuetta di Cambridge e sulla plastica cretese in genere vedi A.J.B. Wace, A Minoan Statuette in the Fitzwilliam Mus., Cambridge 1927; sui frammenti Elgin, v. A. Evans, The Shaft graves ecc., p. 78 segg.; sulle tendenze impressionistiche e le conoscenze anatomiche dell'arte cretese, vedi D. Levi, in Annuario cit., p. 149 segg.; sui principî formali dell'arte cretese, cfr. anche O. Waser, Das Formprinzip der Kretisch-mykenischen Kunst, in Jahrb. Anz., 1925, p. 253 segg. V. anche recentemente V. Müller, Frühe Plastik in Griechenland und Vorderasien, Vienna 1929.
Arti minori. - Sui ritrovamenti di Vaphió, vedi Ch. Tsountas, in Αρχ ἐϕ., 1889, p. 129 segg. Sul rhyton argenteo di Micene, vedi A. Kumanudis, in Αρχ ἐϕ., 1891, tav. II, e recentemente Sp. Marinatos, Νέα ἑρμηνεία τοῦ ἀργυροῦ ῥντοῦ τῶν Μυχηνῶν, in 'Αρχ δελτίον, X (1926), p. 78 segg. Sulle maschere auree di Micene vedi Evans, The Shaft graves ecc., p. i segg. Sulla glittica cfr. A. Furtwängler, Die Antiken Gemmen, Lipsia 1900; G. Karo, in Ath. Mitth., XXXV (1910), p. 178 segg.; sui primitivi sigilli in avorio, vedi Halbherr, in Mem. Ist. Lomb., XXI (1905), p. 235 segg.; St. Xanthoudides, The Vaulted Tombs of Mesarà, Londra 1924; Fr. Matz, Die frühkretischen Siegel, Berlino e Lipsia 1928. Per i sigilli con segni pittografici, A. Evans, Scripta Minoa, sopra cit.; per le cretule di Zakro, Hogarth, in Jour. Hell. Studies, XXII (1902), p. 76 segg.; per quelle di Hagia Triada e di Zakro, D. LVI, in Annuario d. Scuola Arch. it. di Atene, VIII-IX, p. 71 segg.; per le gemme di Creta, St. Xanthoudides, in Αρχ εζ., 1907, p. 141 segg.; per quelle di Vaphió e di Micene, edi le pubblicazioni in 'Αρχ ἐϕ. del 1888 e 1889. Sulla glittica cretese in genere, vedi A. Evans, The Ring of Nestor, ecc., in Journ. Hell. Studies, XLV (1925), p. 1 segg. Sulle arti industriali in genere cfr. H. Th. Bossert, Geschichte des Kunstgewerbes aller Zeiten und Völker, I, Berlino 1928, p. 258 segg.