INDO, Civiltà dello (v. vol. I, p. 713, s.v. Asia, Civiltà antiche della; vol. IV, p. 135, s.v. Indiana, Arte)
) Civiltà urbana dell'Età del Bronzo, che prende il nome dal sistema geografico formato dal bacino del fiume Indo e dei suoi affluenti (oggi in gran parte in territorio pakistano) lungo le cui rive si svilupparono i centri maggiori. Viene spesso denominata anche «civiltà di Harappā» o «harappana» dal nome del sito in cui per la prima volta venne identificata. A E e SE del confine pakistano, molti siti, anche di grandi dimensioni, si trovano oggi in India.
In precedenza, le sole informazioni sulla preistoria e sulla protostoria del subcontinente indiano erano rappresentate dai testi vedici, i più antichi dei quali vengono convenzionalmente attribuiti alla metà del II millennio a.C. (pur essendo di redazione assai più tarda), e agli scarsi accenni che tali testi contenevano a popolazioni autoctone, sconfitte dagli Arii invasori. L'attenzione di filologi e archeologi era concentrata sullo studio del sanscrito e sulla ricostruzione dell'antica geografia del mondo buddhista, e nessuno poteva immaginare la reale antichità dell'evoluzione culturale del subcontinente indiano.
Per quanto le vaste distese di rovine delle città di Harappā (ν.) e Mohenjo-daro (v.) fossero note da tempo, la scoperta che esse celavano i resti materiali di una ignota civiltà protostorica fu dovuta al grande archeologo inglese Sir John Marshall. Dai primi saggi di scavo a Harappā e Mohenjo-daro (inizî degli anni '20) allo scoppio della seconda guerra mondiale, scavi estensivi in questi due siti e nel centro minore di Chanhu-daro permettevano la ricostruzione di un modo di vita urbano altamente evoluto, caratterizzato dall'uso di una scrittura sillabica e da una cultura materiale estremamente raffinata.
Il problema della cronologia venne parzialmente risolto mediante il riconoscimento di un ristretto numero di sigilli provenienti da precedenti scavi in Mesopotamia. I contesti stratigrafici di questi rinvenimenti, non sempre del tutto chiari e congruenti, permettevano di collocare approssimativamente le fasi di maggiore sviluppo della civiltà dell'I, a partire dalla conquista della Mesopotamia a opera di Sargon di Akkad, cioè entro gli ultimi quattro secoli del III millennio a.C. Le attestazioni di oggetti indiani cessavano dopo il c.d. periodo di Isin-Larsa, quindi dopo i primi due secoli del II millennio a.C. Oggi, l'insieme dei dati resi disponibili dal metodo del radiocarbonio colloca l'inizio della civiltà dell'I, (con le grandi città, l'uso della scrittura e delle ceramiche dipinte tipicamente harappane) intorno al 2600 a.C. Sebbene alcuni archeologi ritengano che la fase propriamente urbana abbia avuto una durata relativamente breve, alcune datazioni recenti dal sito di Harappā mostrano che la civiltà dell'I, continuò, in questa città, almeno fino al 1900 a.C.
Un secondo problema era rappresentato dal fatto che la civiltà dell'I., con la sua complessità culturale, sembrava sorgere improvvisamente dal nulla: fenomeno che inizialmente si tendeva a spiegare soltanto sulla base di ipotetiche migrazioni o da contatti culturali o «stimoli» provenienti dalle più avanzate civiltà dell'Occidente asiatico. Anche la scrittura harappana, evidentemente sillabica, e tuttora indecifrata, veniva ricondotta all'influsso del mondo mesopotamico. Gli ultimi decenni di ricerca, e in particolare gli scavi francesi nel sito di Mehrgarh (v.), hanno però dimostrato come la civiltà dell'I, rappresenti uno stadio di uno sviluppo culturale lungo e complesso, in cui vennero integrate per la prima volta economie ed esperienze culturali molto antiche e diffuse in un areale geografico estremamente vasto. Nel corso di questo sviluppo, le comunità neolitiche e calcolitiche della valle dell'Indo e del Belucistan intrapresero autonomamente la domesticazione del grano e dell'orzo e, tra le specie animali, dei bovini, della pecora e della capra, gettando le basi dell'economia delle più tarde città harappane.
È stato chiarito che, su gran parte del territorio in cui sono stati riconosciuti depositi della civiltà dell'I., tali depositi si sovrapponevano a strati più antichi (come nei siti di Sarai Khola, Amri, Kot Diji e molti altri), in cui potevano essere riconosciuti stadî evolutivi e processi formativi di alcuni tratti culturali della civiltà stessa. Malgrado il fatto che la natura del rapporto tra questi orizzonti archeologici (definiti, non senza controversie, pre-harappani o antico-harappani) e quelli della civiltà dell'I, sia ancora oggetto di discussione, appare certo che quest'ultima, nel corso del III millennio a.C., maturò (con un processo tuttora non privo di incognite) da un esteso reticolo di insediamenti pre-urbani, le cui società erano già articolate in gruppi di artigiani specialisti nella manifattura di un vasto raggio di prodotti. Oltre a raffinate ceramiche, nella prima metà del III millennio venivano prodotti strumenti, utensili e ornamenti in rame e bronzo, mezzi di trasporto su ruota, beni di lusso e di prestigio in pietre semipreziose e conchiglie marine, e in molti casi grandi opere architettoniche (soprattutto sistemazioni monumentali degli insediamenti con costruzione di grandi piattaforme e cinte murarie in pietra e mattoni crudi). Si presume che la differenziazione sociale sviluppatasi in questi centri pre- o protourbani tra produttori agricoli, allevatori, pastori, amministratori, artigiani, sia riflessa - in alcuni siti - dalla bipartizione spaziale degli insediamenti in due settori, tradizionalmente definiti «cittadella» e «città bassa»; una soluzione che ricorrerà come un importante tratto dell'urbanistica della seconda metà del III millennio a.C. in India non meno che nell'Asia occidentale dove del resto essa era attestata in precedenza.
L'insieme dei siti conosciuti per la civiltà dell'I, supera oggi il numero di un migliaio, anche se non possiamo essere certi che fossero tutti abitati contemporaneamente. Questi insediamenti sono distribuiti in diverse regioni geografiche (il bacino disseccato del fiume Ghaggar-Hakra e la parte occidentale della piana gangetica, il Panjab, il Cholistan, il Sind, la regione del Makran presso il confine attuale tra Iran e Pakistan, e, a SE, la penisola del Kathiawar in India). Altri insediamenti periferici sono stati rinvenuti, a N, nella piana alluvionale dell'Amu Daryā, presso il confine settentrionale dell'Afghanistan, e, sulla sponda opposta del Golfo Persico, sulle coste dell'Oman. Si tratta di un areale enorme, molto più esteso di quelli interessati dalle altre civiltà protostoriche, in cui le società harappane erano in grado di controllare ecosistemi profondamente diversi. Studi recenti sembrano confermare che nel III millennio a.C. la valle dell'Indo era solcata da due fiumi paralleli, l'Indo a O e il Ghaggar-Hakra a E, delimitanti un territorio fertile dalle grandi potenzialità agricole. Alla periferia di questa regione nucleare, potevano essere sfruttate le risorse economiche delle zone pedemontane del Belucistan, e, verso E, dei monti Aravalli, come le risorse marine della regione del Kutch e delle coste del Gujarat. I contemporanei testi mesopotamici ci parlano del commercio per via di mare effettuato con il paese di Melukhkha, identificato con i centri costieri della civiltà dell'I., che ebbe senza dubbio un ruolo fondamentale nella sistematizzazione dello sfruttamento delle risorse marine e nell'esplorazione delle rotte commerciali sull'Oceano Indiano.
Alle radici dello sviluppo della civiltà dell'I, dobbiamo quindi presumere un'economia ricca e fortemente integrata, coordinata da un reticolo di insediamenti in cui una costellazione di piccoli centri rurali di pochi ettari di estensione gravitava su pochi centri urbani le cui rovine superano 80 ha di estensione. Mentre sino a poco tempo fa Harappā e Mohenjo-daro erano considerate le uniche due «capitali», sono stati identificati negli anni '80 altri due centri con simili dimensioni: Ganweriwala nel Cholistan e Rakhigarhi nell'alta piana gangetica. Un altro sito di almeno 50 ha, Dholavira, è in corso di scavo nella regione del Kutch. Queste città sembrano essere sorte in un reticolo a zig-zag, a distanze regolari di c.a. 300 km l'una dall'altra. Molti dei siti harappani sono parzialmente coperti da spessi strati alluvionali, che rendono impossibile l'osservazione archeologica; p.es., la periferia di Mohenjo-daro è sepolta da almeno 7 m di limo fluviale, ed è possibile che l'estensione delle rovine sia superiore agli 80 ha di monticoli visibili in superficie.
Caratteristica è l'apparente regolarità della struttura urbana dei centri harappani. Sia Harappā che Mohenjodaro e Kalibangan sono caratterizzate da planimetrie quadrangolari, con reticoli viari interni che tendono all'ortogonalità, e, come avveniva nei centri pre-harappani, dalla bipartizione urbana in una cittadella a NO e una città bassa a SE. Anche se le soluzioni adottate sembrano piuttosto variabili, simili forme di bipartizione urbana si osservano anche in insediamenti minori. Si crede che le cittadelle fossero destinate ad accogliere architetture monumentali, forse residenze di élites o complessi di carattere pubblico e religioso, ma i dati archeologici sono insufficienti. La grande piscina con scalinate di accesso e circostante scalinata in mattoni cotti scavata nel centro della cittadella di Mohenjo-daro (il c.d. Grande Bagno) rimane un unicum (sembra però che una simile struttura sia stata scoperta a Dholavira); gli edifici a basamento compartimentato di Mohenjo-daro e di Harappā, solitamente interpretati in passato come «granai» statali, alla luce delle revisioni critiche non possono più essere considerati tali. Per quanto non manchino, almeno sulla cittadella di Mohenjo-daro, agglomerati architettonici di notevoli dimensioni, tali da suggerire complessi palaziali o religiosi, in nessun caso si è stati in grado di riconoscere qualcosa di paragonabile ai templi e ai palazzi tradizionalmente oggetto dell'archeologia del Vicino Oriente Antico. L'assenza di centri rituali affini a quelli mesopotamici e di evidenze immediate di coercizione economica e militare è stata addotta a prova di un ipotetico carattere non gerarchico e non statale della civiltà dell'Indo. È tuttavia sufficiente considerare le modalità di costruzione, manutenzione e organizzazione degli spazi urbani, e la loro evidente valenza ideologica per intuire l'esistenza di una forte autorità centrale in grado di coordinare il comportamento collettivo.
Gli insediamenti erano costruiti all'interno o sopra massicce sostruzioni o piattaforme in mattoni crudi. Queste strutture erano spesso fornite di ingressi monumentali che consentivano un accesso controllato. Con la crescita dei monticoli dell'insediamento, le piattaforme laterali venivano progressivamente adattate e ristrutturate, anche se sembra che a Mohenjo-daro tratti di piattaforme laterali lunghi centinaia di metri siano stati costruiti con imponenti sforzi collettivi secondo una concezione unitaria. L'interpretazione di queste imponenti opere di ingegneria civile oscilla tra l'ipotesi di opere militari difensive e quella secondo cui le piattaforme proteggevano le città dalle piene del fiume; la seconda ipotesi sembra la più fondata.
Non sappiamo molto sul tipo di abitazioni e di attività che venivano svolte nelle «città basse» di Harappā e Mohenjo-daro. Si può supporre che si trattasse di insiemi di edifici privati, forse prossimi a negozi o bazàr in cui viveva una parte (comunque privilegiata) della popolazione urbana. Alcuni edifici sono provvisti di guardiole per guardiani preposti agli ingressi, scale per i piani superiori, bagni con impianti igienici. Un'altra caratteristica dell'urbanismo della civiltà dell'I, è un'avanzata ingegneria idraulica. La città di Mohenjo-daro aveva probabilmente non meno di 700 pozzi, pubblici e privati; molte strade erano provviste di canali di drenaggio coperti per il deflusso delle acque di scarico, a volte provenienti da abitazioni. L'attenzione al controllo del flusso delle acque in città è stato messo in relazione, da alcuni autori, al fatto che nelle successive società hindu l'acqua rappresenta un pericoloso mezzo di contaminazione rituale. Nelle città e nelle periferie erano certamente attivi gruppi di artigiani specializzati in una lunga serie di attività industriali. Ricerche condotte a Mohenjo-daro hanno dimostrato che alcune manifatture pregiate (lavorazione della pietra semipreziosa, taglio della conchiglia, produzione di ceramiche invetriate di lusso) venivano praticate in città. Altre, di carattere più utilitario e che causavano maggiore inquinamento ambientale, erano probabilmente organizzate in insediamenti decentrati (p.es., manifattura dei laterizi). A Harappā, recenti scavi hanno portato in luce, lungo le piattaforme di uno dei monticoli principali, un'area di lavorazione della ceramica che sembra essere stata attiva nello stesso luogo per diversi secoli.
Al di sotto delle abitazioni, tecniche complesse di isolamento rendevano i pavimenti impermeabili alla risalita dell'umidità; le stanze da bagno erano coperte da pavimentazioni in mattoni cotti. L'uso del mattone cotto era molto diffuso sia a Harappā che a Mohenjo-daro; anche se la maggior parte delle costruzioni dovevano essere realizzate con mattoni crudi, questo materiale, relativamente costoso, era usato non solo negli edifici più importanti ma anche nei basamenti delle case private. Mattoni di forme particolari venivano prodotti per installazioni specifiche (come, p.es., nel caso dei conci radiali dei pozzi). Il grande canale di drenaggio della vasca del «Grande Bagno» nella cittadella di Mohenjo-daro è un esempio della perizia dei costruttori nell'applicare il principio dello pseudo-arco ad aggetti progressivi. L'architettura in crudo e in cotto era inoltre integrata da elementi come pali e rivestimenti lignei. Il rinvenimento di una serie di capitelli in pietra in un edificio di grandi dimensioni, a Mohenjo-daro, ha fatto supporre la presenza di colonne lignee.
Singolare appare la rarità, nei siti della civiltà dell'I., delle manifestazioni di arte figurativa pubblica così frequenti in Egitto o in Mesopotamia. È possibile che il fenomeno sia imputabile al fatto che Harappā e Mohenjo-Daro sembrano essere state gradualmente abbandonate, piuttosto che improvvisamente distrutte, e
che questa immagine possa essere modificata da scavi futuri; ma è anche possibile che si tratti di una scelta ideologica.
Il fatto che il modo di vita urbano di questa civiltà abbia comportato, anche nelle aree più remote, l'uso degli stessi sigilli, di un unico sistema standardizzato di pesi, delle medesime forme ceramiche, degli stessi strumenti e di identiche tecniche di manifattura ha fatto ipotizzare un carattere rigidamente «conformista», non creativo della sua cultura materiale. Questa uniformità, del resto tutt'altro che assoluta, va piuttosto considerata come l'effetto di stretti vincoli esistenti all'interno di gruppi di produttori specializzati e come l'espressione dell'integrazione politica della società.
Il manufatto più caratteristico della civiltà dell'I, è senza dubbio il sigillo a stampo in steatite fortemente standardizzato dal punto di vista morfologico e grafico, recante di regola una breve iscrizione soprastante la raffigurazione di un animale, generalmente associato a oggetti di funzione ignota. In circa il 70% dei casi si tratta di un quadrupede raffigurato di profilo, con un corno frontale, spesso definito come «unicorno»; lo stesso essere compare anche in altre iconografie harappane. Per alcuni si tratta semplicemente di un bovino con la coppia di corna raffigurate di profilo, ma piccole statuette sembrano indicare che si tratta effettivamente di un animale mitologico. L'animale sporge la testa su un oggetto composto di due parti fissate su un supporto, variamente interpretato come braciere, incensiere o mangiatoia. Più rari sono i sigilli in cui all'«unicorno» sono sostituiti altri animali, come il toro, il bufalo, l'elefante, la tigre, il gaviale, il rinoceronte indiano: non mancano altre creature composite di probabile significato simbolico, a volte formate da parti di animali diversi. In alcuni sigilli sono raffigurate scene più complesse, forse scene di adorazione o di riti sacrificali, in cui la figura umana è resa con tratti schematici, estremamente stilizzati. La figura di un eroe che afferra due fiere per la gola è uno dei rarissimi casi in cui sembra riconoscibile un parallelo iconografico con il mondo mesopotamico. Alcuni sigilli recano l'immagine di una figura, forse una divinità a tre facce, nella c.d. posizione yoga del fiore di loto, in un caso adorata da un gruppo di animali diversi. Alcuni vi riconoscono gli attributi di un proto-Śiva. Queste rare immagini su sigilli rappresentano la quasi totalità delle fonti figurative che possediamo sulla religione della civiltà dell'Indo.
Poiché la scrittura non è stata ancora decifrata, possiamo solo congetturare che i sigilli rechino nomi, forse accompagnati da notazioni sul ruolo e sullo status dell'individuo, e che l'animale raffigurato sia un'ulteriore qualificazione di ordine sociale, forse accessibile anche a quanti non sapevano leggere. Malgrado il fatto che alcuni insistano a considerarli amuleti a carattere magico-religioso, tutto indica che i sigilli venissero utilizzati, in larga misura, in modo analogo a quanto avveniva nelle contemporanee civiltà dell'Età del Bronzo, e cioè imprimendoli su placchette di argilla cruda affìsse su contenitori, imballaggi e porte per controllare l'accesso ai beni ivi contenuti.
Alla ricchezza figurativa dei sigilli si contrappone una produzione statuaria a tutto tondo piuttosto sporadica. A Harappā, il torso di una statuetta composita raffigurante un nudo maschile, eseguita con notevole attenzione per i dettagli anatomici, e il torso di un secondo nudo, forse atteggiato a un passo di danza, dimostrano una notevole dimestichezza con la concezione e i canoni espressivi della scultura a tutto tondo, ma rimangono purtroppo reperti isolati. A Mohenjo-daro, la scultura in pietra più famosa è un piccolo busto frammentario in steatite di un personaggio maschile, con la veste decorata da un motivo a trifoglio, tipico della civiltà dell'Indo. La scultura, a differenza di quelle di Harappā, è fortemente stilizzata: il personaggio ha un'espressione ieratica, tanto che viene comunemente definito come il «re-sacerdote» di Mohenjo-daro. Molto probabilmente, la stessa figura è riprodotta a Mohenjo-daro in una serie di sculture frammentarie, apparentemente rinvenute tutte negli strati superiori della città. Da questa serie si desume che il personaggio era stato in origine rappresentato in posizione canonica, inginocchiato sulla gamba destra e seduto sul tallone del piede, con la mano sinistra poggiata sul ginocchio sollevato. Ignoriamo se si tratti di raffigurazioni di divinità o (come è forse più probabile) di personaggi in posizione di supplica. L'inventario delle statue in pietra è completato da poche figure animali, i cui volumi sono trattati con una notevole eleganza e senso delle proporzioni.
I rari esempi di piccola statuaria in bronzo a noi pervenuti sono concettualmente più vicini ai torsi in pietra di Harappā che non alle figure appena descritte, e testimoniano le capacità tecniche e la vivacità creativa dei metallurghi della civiltà dell'Indo. Famosa è la statuetta di una giovane danzatrice nuda, rappresentata mentre, nel corso di una danza, sta per fare risuonare la pila di braccialetti che le ricopre il braccio sinistro.
Estremamente ricca e variata è la produzione coroplastica, che si esprime in raffigurazioni di numerose specie animali, in primo luogo bovini; ma non sono rari capridi, canidi, cinghiali, rinoceronti, felini, scimmie, rettili, uccelli. Tipiche della civiltà dell'I, sono figurine composite, con parti mobili applicate. Vengono anche raffigurate creature immaginarie simili a centauri. Tra le figurine umane in terracotta le più frequenti raffigurano personaggi femminili, in genere dotati di una corta gonna e a busto scoperto, con elaborate acconciature, copricapi e gioielli, che si è inclini a riferire alla sfera religiosa. Stilisticamente, immagini umane e animali sono caratterizzate da una estrema vivacità e libertà espressiva, che tendono a sfuggire sia ai canoni grafici delle raffigurazioni dei sigilli, che a quelli della scultura in pietra e metallo. Le figurine in terracotta, a volte, sembrano avere carattere fortemente espressivo, umoristico o dichiaratamente grottesco.
Uno dei tratti culturali di questa civiltà è la predilezione per materiali ottenuti artificialmente mediante complessi processi di impasto e cottura: al lapislazzuli e al turchese, tanto ricercati dalle città mesopotamiche, si affiancano pietre e ceramiche invetriate, prodotti ceramici finissimi di tipo porcellanaceo e paste vitree. La steatite veniva invetriata, dipinta e cotta, oppure polverizzata e integrata per trasformarla in una pasta artificiale lavorata tramite procedimenti di estrusione. Con questi materiali si creava una vasta gamma di ornamenti: piccole figurine miniaturistiche, di solito animali come scimmie o scoiattoli, rappresentati con un sorprendente naturalismo, ma anche vaghi di collana, pedine da gioco, gettoni per computo, elementi di intarsio, braccialetti.
Le città harappane hanno restituito una grande quantità di strumenti specializzati in rame e bronzo, che venivano utilizzati nell'industria e nel lavoro domestico a fianco dei meno costosi strumenti in selce e pietra levigata. Particolarmente ricco è l'assortimento di lame, coltelli, rasoi, punte di lancia e asce di bronzo che in alcuni casi recano notazioni grafiche, numeriche o ponderali. Altrettanto elaborato è il repertorio dei recipienti in rame-bronzo o argento. Altri ornamenti di lusso venivano prodotti con molte varietà di pietre semipreziose: calcedonio, cristallo di rocca, diaspro, eliotropio, serpentino, marmo, steatite e altre ancora. Tra le varietà di calcedonio, quella rossa, la cornalina, sembra essere stata particolarmente apprezzata; era ottenuta riscaldando il calcedonio in apposite fornaci, una delle quali è stata forse scavata nel sito di Chanhu-daro. Tipici prodotti harappani, apparentemente esportati in Mesopotamia, sono elementi di collana in cornalina su cui, con un procedimento chimico, venivano tracciati degli indelebili motivi decorativi bianchi. Altri ornamenti venivano ricavati dalla conchiglia marina (bracciali ricavati da conchiglie marine sono ancor oggi un importante elemento rituale hindu) e dall'avorio.
La produzione ceramica si distingue per la prevalenza assoluta dei vasi non dipinti rispetto a quelli figurati; le ceramiche sono generalmente di color camoscio chiaro o rosàceo, e sono molto comuni i vasi che presentano ingubbiature di colore rossastro o bruno. La foggiatura alla ruota di forme eleganti e slanciate, spesso fortemente curvilinee, viene completata, in molti casi negli stessi contenitori, dalla formatura a stampo. Le superfici, oltre all'ingubbiatura, vengono sabbiate, raschiate alla ruota, coperte di bagni di barbottina; in particolari tipi ceramici, le pareti vengono perforate o traforate secondo eleganti schemi geometrici. La lista dei pochi tipi ceramici usualmente dipinti comprende giare piriformi, contenitori medio-piccoli a forma chiusa, e grandi giare da immagazzinamento a base appuntita. In questi casi, la figurazione dipinta assume caratteristiche esuberanti: larghe fasce vengono riempite da motivi geometrici (fasci di linee parallele, cerchi in intersezione, motivi a scacchiera e a pettine, e altri) in campi alternati o in combinazione con motivi di estrazione naturalistica, come piante e foglie, figure animali e umane molto stilizzate che, a volte, sembrano combinarsi in insiemi narrativi. La figurazione è eseguita, di regola, con rapidità e libertà di esecuzione, e si conforma a un gusto quasi barocco e a un certo horror vacui.
Complessivamente, le iconografie delle diverse classi di materiali sono caratterizzate da una scarsa omogeneità stilistica, come se ogni gruppo di artigiani avesse sviluppato in relativa autonomia i propri codici formali.
Le ragioni del declino e della scomparsa della civiltà dell'I, sono ancora sconosciute. Negli strati superiori di Mohenjo-daro l'architettura mostra i segni di un progressivo affollamento, in seguito al quale gli spazi delle abitazioni vennero suddivisi, utilizzando materiale di recupero. Fornaci e altre installazioni vennero erette nelle strade, segno di una crisi nelle pratiche di manutenzione urbana. In questi strati sono stati rinvenuti diversi scheletri umani, in contesti di giacitura ambigui e non adeguatamente scavati per poter essere correttamente interpretati, ma che hanno suggerito a molti l'insorgere di epidemie o il verificarsi di episodi di violenza. Le città harappane, e con esse molti centri minori, vennero abbandonate nel primo quarto del II millennio a.C. Questa crisi è stata tradizionalmente imputata all'effetto di invasioni provenienti dal Belucistan, all'arrivo delle popolazioni indoeuropee (lettura basata su interpretazioni non sempre critiche dei testi vedici), e a varî ordini di catastrofi naturali.
Più recentemente si è cercato di spiegare il fenomeno con una generalizzata crisi dell'economia agricola della civiltà dell'I, e, di conseguenza, del suo tessuto sociale, forse in seguito a modificazioni ambientali di larga scala come il disseccamento del corso fluviale orientale e lo spostamento del letto dell'Indo.
Le comunità rifluirono in piccoli centri agricoli, che avrebbero espletato con successo il compito di estendere lo sfruttamento di nuove risorse biologiche quali il riso, la palma da dattero, il sorgo, il cammello: specie che, sebbene già conosciute dagli agricoltori della civiltà dell'I., avrebbero quindi avuto un impatto rivoluzionario sull'economia del II millennio a.C. I nuovi centri ci appaiono provvisti di una cultura materiale di base (industria litica, ceramica) molto simile a quella della civiltà dell'I, e delle precedenti comunità calcolitiche. Malgrado ciò, le piccole comunità del II millennio non cercarono di perpetuare gli atteggiamenti ideologici e le conoscenze che permettevano di riprodurre le molteplici espressioni materiali e figurative harappane, gran parte delle quali non sopravvissero alla fine di questa prima fase di centralizzazione politica del subcontinente.
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