civiltà e civilizzazione
Cultura, civiltà, identità
Cultura, civiltà, identità: tre termini dalle storie diverse e riferiti a contenuti diversi ma che nascono dalla volontà di definire il rapporto tra il simile e il diverso, tra «noi» e gli «altri». Nella descrizione dei dati fondamentali che identificano un gruppo sociale hanno un ruolo preminente il linguaggio, la religione, il modo di presentarsi (aspetto fisico, abbigliamento, maniere). Le definizioni e gli usi dei termini generali che definiscono il rapporto tra «noi» e gli «altri» sono caratterizzati dalla tendenza ad affermare generalmente la superiorità del primo gruppo. La superiorità può concentrarsi sulla lingua. La cultura della Grecia antica ha fissato la definizione degli «altri da noi» col termine «barbari», che registra con imitazione onomatopeica il suono di lingue incomprensibili selezionando perciò tra gli elementi della differenza primariamente quello del linguaggio. La differenza stessa può essere ritenuta un dato di natura incancellabile e dare origine a teorie di tipo razziale e a comportamenti di intolleranza razzistica tendenti a eliminare il diverso o a conferirgli uno statuto subumano. Ma può essere assunta all’interno di una concezione dell’essere umano e del gruppo a cui appartiene come realtà modificabili con la forza o con l’educazione. La tradizione della cultura antica greca e romana ha fondato una cultura definita «umanistica» mirante al perfezionamento dell’individuo attraverso una pedagogia adeguata, simile al lavoro dell’agricoltore che addomestica il suolo e al posto degli sterpi ricava frutti utili per la vita. Dal modello della coltivazione dei campi è stato ricavato quello della coltivazione dell’essere umano, la cultura animi (Cicerone, Tusculanae, 2,13). Questa origine del termine da una metafora agricola non verrà più dimenticata. Come i campi coltivati che possono produrre frutti diversi anche gli esseri umani differiranno a seconda dell’educazione e della risposta agli stimoli dell’educatore. Ma le differenze e la superiorità possono essere misurate anche col criterio della «cultura» religiosa (Apuleio, Metamorfosi, 11,22), cioè delle differenze nelle divinità e/o nel culto a esse dedicato. Con l’affermazione del cristianesimo come religione universale questo punto divenne decisivo. Per quanto riguarda «civiltà», anche questo termine nasce per definire differenze: di modi tra città e campagna, di diritti tra il cittadino romano (civis romanus) e le diverse condizioni delle popolazioni via via promosse al rango di associate o asservite o apertamente ostili. Dal titolo di «cittadino» (civis) nell’Europa medievale si forma l’astratto civilitas a indicare ciò che concerne i costumi e le pratiche che distinguono l’abitante della città dai rudes, i rozzi abitanti del contado. Nel mondo cittadino medievale il rapporto di dominio della città sulla popolazione del contado portò a trasformare la figura del pio agricoltore celebrato dalla poesia di Virgilio in quella del villano empio e bestiale. La pedagogia dei maestri umanisti elaborò le regole per acquisire le civilitates come abitudini e comportamenti atti a distinguere colui che viveva nel contesto urbano dall’abitante del contado. Il termine fu consacrato dal titolo di un diffusissimo scritto di Erasmo da Rotterdam (De civilitate morum puerilium), dove si riportava l’elenco delle pratiche e dei costumi da insegnare nell’allevamento dei fanciulli. Quel termine non ebbe fortuna in Italia, perché qui si affermava proprio allora il volgare letterario secondo il modello bembesco e perché il celebre trattatello di monsignor Giovanni Della Casa dedicato alle regole per vivere in società fu conosciuto sotto il nome del personaggio a cui lo scritto fu dedicato, Galeazzo Florimonte, vescovo di Sessa, latinamente Galateo. Alle regole elaborate per distinguere l’educazione «civile» si fece ricorso anche per distinguere gli europei dai «selvaggi», «pagani», cioè le popolazioni che Cristoforo Colombo aveva scoperto nelle «Indie» occidentali. Una cultura nutrita di letteratura classica e di immagini pagane ricorse all’antico per accostarsi alla comprensione della sconvolgente novità del nuovo mondo. Cominciò allora la lunga storia del legame tra antichità pagana e culture folcloriche che doveva caratterizzare gli sviluppi successivi dell’antropologia e degli studi su miti e credenze del mondo antico. Nell’età di Colombo quei popoli nudi, senza conoscenze di monete, di leggi, di forme di potere, di regole sociali furono da un lato classificati come riapparizione dell’età dell’oro della mitologia antica, dall’altro considerati come appartenenti a un’umanità minore e difettiva, quella degli homunculi che secondo Aristotele sarebbero destinati a mansioni servili. Ma prima ancora che nascesse la discussione sulla natura umana o meno di quelle popolazioni (affermata su basi tomistiche dall’estensore domenicano delle bolle papali di Paolo III del 1537) si sviluppò il ricorso all’argomento del diritto di possesso su quelle popolazioni da parte dei sovrani spagnoli e portoghesi in base alle bolle che da Niccolò V fino ad Alessandro VI avevano legato la concessione papale al compito di cristianizzazione delle popolazioni scoperte. Ma si poteva usare la forza contro le popolazioni che non accettavano il dominio politico e sociale dei conquistadores? Nonostante la resistenza della scuola teologica domenicana di Salamanca guidata da Francisco de Vitoria, fedele all’insegnamento di Tommaso d’Aquino sul riconoscimento del valore dei diritti naturali di proprietà e di potere anche se posseduti da popoli non cristiani, la strategia della conquista militare e dell’asservimento si fondò sul principio del dovere dei principi cristiani di combattere i comportamenti contro natura (sodomia, cannibalismo). «Civilizzazione» e «cristianizzazione» si saldarono e portarono a costruire modelli di vita e di costumi identici a quelli europei, pur mantenendo la discriminazione tra immigrati europei e popoli indigeni. Spettò ai membri degli ordini religiosi scelti e autorizzati col mandato delle monarchie iberiche il compito di organizzare un sistema di inquadramento e di educazione delle popolazioni indigene basato sui sacramenti e sull’insegnamento di pratiche e di principi che saldarono nozioni teologiche e norme morali e di comportamento: abolizione della nudità e della poligamia in primo luogo. Il problema che si pose fu se la differenza tra i costumi delle popolazioni nomadi e senza leggi e il modello europeo di vita «civile» era una differenza incolmabile – come sostenevano i difensori dello sfruttamento schiavistico – oppure no. La Compagnia di Gesù fu la protagonista di molte esperienze di confine tra culture e fu al suo interno che emerse la tendenza a sostenere l’adattamento o accomodamento, cioè a un compromesso che consentisse l’avvio dell’opera di conquista religiosa accettando elementi di credenze e delle pratiche indigene. Il gesuita José de Acosta propose una sistemazione teorica dell’esperienza dei missionari, lasciando aperta la possibilità di una crescita dei «selvaggi» fino a raggiungere le forme evolute e mature della vita civile europea. Alla base della concezione della Compagnia di Gesù c’era l’idea della educazione controllata da autorità religiose come mezzo per allevare e indirizzare le giovani piante umane come virgulti da potare e da far crescere: alla «coltura degl’ingegni» fu intitolata l’ampia introduzione premessa dal gesuita mantovano Antonio Possevino alla sua Bibliotheca selecta (1593). Si trattava di usare la persuasione e l’autorità per garantire uno sviluppo della pianta umana esente da cattive inclinazioni: pertanto la cultura andava di pari passo con la censura, cioè con la proibizione di tutte quelle occasioni di entrare in contatto con idee e pratiche considerate negative. Gli strumenti scelti furono quelli della educazione nel chiuso dei collegi gesuitici, sottratta ai rischi della libertà che si incontravano nel funzionamento delle università medievali: organizzati in classi e controllati dai superiori, gli allievi dei collegi sperimentavano un modello educativo commisurato alla condizione di privilegio sociale delle loro famiglie d’origine. All’età delle crociate contro l’islam e delle guerre di religione appartenne l’uso terroristico e mostrificante delle differenze tra «noi» e gli «altri». Ma la reazione alle violenze dell’intolleranza prese forma con l’autocritica delle coscienze più vigili davanti alle violenze dei roghi antiereticali e del colonialismo fondato sul presupposto della missione civilizzatrice. Sia l’umanista savoiardo Sébastien Castellion, polemizzando contro il rogo di Serveto a Ginevra (De haereticis, 1554), sia Michel de Montaigne, riflettendo su di un incontro coi «selvaggi» del Brasile alla corte del re a Rouen, riconobbero la radice dell’avversione per il diverso nel fatto che ciascuno è prigioniero delle sue abitudini: si chiama eresia (secondo Castellion) o barbarie (secondo Montaigne) ciò che non appartiene alle proprie abitudini. Ma fu proprio nell’epoca delle più radicali divisioni religiose e politiche dell’Europa che si venne definendo l’idea di una comune appartenenza europea capace di distinguere gli europei dal resto dell’umanità. Il vocabolario politico e pedagogico dell’Europa moderna si venne assestando tra Seicento e Settecento intorno a una definizione dell’idea di Europa come realtà che nelle sue divisioni politiche era caratterizzata dalla comune «civiltà» (civilisation, prima attestazione in Turgot) come condivisione di regole e pratiche civili e dalla capacità di diffonderla nel mondo a Paesi meno fortunati. Così la nozione di civiltà si legò a quella di «progresso» che sostituì il termine «conquista» ritenuto politicamente scorretto già dall’imperatore Carlo V. Da questo momento data l’avvio di un’idea unificante e progressiva della civiltà, come movimento dell’intera umanità, sia sotto il profilo della capacità di produrre ricchezza e mezzi di sostentamento (A. Smith, An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations, 1776) sia sotto il profilo dei progressi del sapere (M.J.A.N. Condorcet, Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, postumo, 1795). In italiano, si parlò di «incivilimento» (G.D. Romagnosi). Si affermò così l’idea dell’Europa come una grande Repubblica unitaria articolata in più Stati (Voltaire), dove vigevano le stesse regole e ci si identificava nei valori di quella che A. Robertson definì la civil society. Al dominio di «civiltà» nella cultura francese e inglese si oppose la fortuna tedesca e luterana di «cultura» (Kultur) come termine che indicava il possesso individuale di valori interiori frutto di maturazione intellettuale e spirituale. Secondo I. Kant, le «buone maniere» in cui si voleva identificare la civiltà erano «solo la maschera della virtù». L’opposizione rimase a lungo viva. Ma dalla tradizione luterana del concetto di cultura si distaccò la proposta dello storico basileese J. Burckhardt: in Die Kultur der Renaissance in Italien (1860) raccontò la vittoria dell’individualismo e dei valori di libertà nell’Italia dei secc. 13°-16°. Intanto F. Guizot proponeva la sua concezione di una unità della civilisation come elaborazione fondamentalmente francese ma capace di abbracciare l’intera Europa. E l’uso della nozione della civilisation come categoria storiografica unificante è rimasto nelle opere di storia generale fino ai
nostri giorni conservando l’impronta originariamente francese. Nel secondo Ottocento la questione se si potesse parlare di una civiltà dei popoli non europei passò dalle mani degli storici a quelle dei filosofi e della nuova scienza che si dedicò allo studio delle culture primitive. Si tratta sempre di termini che riguardano gruppi sociali e collettività anche se emerge nella cultura ottocentesca il tema dell’individualismo come prodotto di una specifica cultura, quella dell’Italia del Rinascimento o come patrimonio di una tradizione intimistica e spirituale tipica della Germania luterana. Intanto restava all’ordine del giorno il problema del rapporto tra civiltà europea e popoli coloniali. Fu la cultura inglese dell’età dell’imperialismo a fondare una scienza dello studio di quella che fu definita dal suo fondatore la cultura primitiva (E.B. Tylor, Primitive culture, 1871). All’origine della svolta ci fu la scoperta di C. Darwin sull’origine della specie. Si aprì un campo di studi che venne definito in modo diverso: antropologia, sociologia. Mentre da una costola del darwinismo si sviluppava l’antropologia come scienza positiva dell’animale umano destinata a dare fondamento all’idea di differenze naturali tra razze e tra tipi umani (il criminale, il folle), cresceva lo studio delle regole sociali e dei costumi dei popoli primitivi come fonte per lo studio delle convenzioni sociali e dei rapporti inter-individuali nella loro forma elementare. L’Année sociologique fondata e diretta da E. Durkheim svolse il compito di raccogliere sistematicamente studi e recensioni per fondare una scienza della società. Da allora le ricerche sulle culture primitive condotte attraverso le fonti orali e l’inchiesta sul campo crebbero di importanza. Da qui si affermò una concezione pluralistica e relativistica dell’idea di cultura o di civiltà che caratterizzò lo sviluppo del pensiero antropologico. Tra le due guerre mondiali la crisi del predominio europeo nel mondo condusse all’introduzione del plurale nell’uso dei termini abolendo ufficialmente la gerarchia precedente tra l’Europa e il resto del mondo. Fu M. Mauss a proporlo nel contributo al colloquio di Parigi del 1929 organizzato intorno al concetto e all’idea di civilisation. Opere di diversissimo valore come quella di O. Spengler (Der Untergang des Abendlandes, 1918-1922) e di J. Huizinga (da Nelle nebbie del domani, 1935, e Homo ludens, 1938, fino a L’autunno del Medioevo, 1940) sancirono la presa d’atto della crisi del valore unificante e progressivo della civiltà europea e del suo dominio sul resto del mondo ma anche l’avvio di uno studio della cultura che si rivolgeva a dati fino ad allora rimasti in ombra: il gioco, lo sport, il linguaggio delle immagini e l’uso dei simboli, le tecniche del corpo. N. Elias (Über den Prozess der Zivilisation, 1939) propose la sua interpretazione delle origini della cultura europea partendo dalle pratiche sociali e dalle norme di comportamento elaborate nelle corti della prima Età moderna. Rimane aperto il problema proposto dagli studi sulle culture di tendenza strutturalista (C. Lévi-Strauss) se i codici cognitivi e i modelli sociali dipendano da strutture astratte e inconsapevoli che determinano le differenze e ne sostengono la permanenza.
Nella politica statale dall’Ottocento in poi si è sviluppata la tendenza a rafforzare il sentimento di unità nazionale con una politica della cultura che ha investito molto nella scuola pubblica e nell’insegnamento della storia. Con l’avvento dell’età post-industriale il governo della cultura come impiego del tempo libero nella società di massa dei Paesi affluenti ha assunto il carattere di un’area di grande importanza per l’esercizio del potere di controllare e indirizzare l’opinione pubblica. Ed è qui che si è riproposta la versione esclusivista della nozione di «cultura» e di «civiltà» che si era affacciata col nazionalismo europeo dell’Ottocento. L’idea della diversità incancellabile tra i popoli basata su fattori naturalistici – il sangue e il suolo – era stata combattuta allora da ideologie liberali e democratiche che si erano scontrate con quelle del razzismo culminate nell’antisemitismo. Ma l’esito dei due conflitti mondiali del Novecento ha segnato la sconfitta della versione razzistica della supremazia di una cultura sulle altre. Ha finito con l’affermarsi il carattere aperto ed evolutivo che nella loro lunga storia ha accomunato i concetti e i termini di civiltà e cultura. L’ultima incarnazione è avvenuta con la proposta della storiografia francese raccolta intorno alla rivista Annales di passare dal concetto di civilisations a quello di «mentalità collettive». Accanto a questi termini e spesso con lo stesso carattere di indicazione relativizzante si è venuto sviluppando di recente l’uso di un termine tendenzialmente assai diverso: identità. Quando ancora il problema dell’immigrazione di minoranze di diversa lingua e religione non aveva assunto lo sviluppo massiccio degli ultimi anni, ci sono state discussioni e osservazioni critiche nei confronti di quello che fu chiamato lo «stato culturale» in nome della cultura come formazione individuale libera e consapevole e acquisizione di un patrimonio intellettuale personale (M. Fumaroli, L’État culturel, 1991). Ma quello stato culturale è diventato oggi uno stato «identitario». L’accostamento di cultura e identità è stato consacrato nella denominazione attuale del Ministero dell’identità culturale (Francia). Anche lo Stato italiano si è dotato di un Dipartimento dell’identità culturale, seguendo il modello di altri Paesi e in modo specifico della Francia. Il suo fine istituzionale è definito come «sostegno alla formazione della coscienza critica del Paese e della sua identità storica». Questo mostra che si è imposto un termine rivale accanto a quello di cultura, di cui occorre dunque tenere conto: come mostra il caso del dipartimento italiano, cultura è diventato un aggettivo che qualifica il termine dominante: che è identità. Le fondamenta dell’unificazione terminologica e di campo intellettuale sono state rintracciate nel modo in cui la filosofia dell’idealismo tedesco risolse il problema del rapporto tra io e non io: la dialettica di G.W.F. Hegel (Phänomenologie des Geistes, 1807) propose il movimento ideale attraverso il quale il rapporto servo-padrone si rovescia. Si tratta di un paradigma ideale della lotta per l’affermazione della identità, un termine che da allora si è andato affermando grazie agli studi dedicati all’analisi dell’io. Ma l’avanzata del termine «identità» è legata a processi storici che hanno accelerato la circolazione dei gruppi umani nel mondo intero. Essa appare connessa inoltre con la crisi nel secondo Novecento delle appartenenze collettive di tipo ideologico o sociale e con il processo di globalizzazione. Sono nati così apparati politici e amministrativi dedicati a riempire il tempo libero degli abitanti dei Paesi economicamente sviluppati con iniziative di intrattenimento tese a svolgere la stessa funzione che avevano nel passato la famiglia, la comunità di lavoro, l’organizzazione di difesa e di lotta del sindacato e del partito: una funzione di costruzione della memoria e di legittimazione della tradizione locale. Qui identità ha assunto il significato di una proiezione nell’indefinito di una «memoria storica» intemporale dei tratti attuali di una società determinata come dati ereditari e assoluti. Il processo di globalizzazione stimolando flussi migratori dai Paesi più poveri a quelli dall’economia più sviluppata ha messo a contatto popoli diversi. La resistenza e le reazioni al contatto hanno fatto ricorso alla memoria e agli stereotipi di secoli di conflitti, soprattutto religiosi. Se sul piano delle politiche di incontro e di dialogo si contrappone l’universalismo culturale della dottrina dei diritti umani al relativismo culturale come patto di non intervento tra culture, nei Paesi toccati dall’immigrazione di masse umane in cerca di lavoro si è prodotta una reazione di due tipi: da un lato una politica difensiva dell’identità caratterizzata dal recupero programmatico delle tradizioni culturali e religiose e dei costumi locali, dall’altro lo sviluppo di tendenze xenofobe spinte fino alla teorizzazione e alla pratica del razzismo.