precolombiane, civilta
Definizione invalsa da tempo per indicare l’insieme delle culture indigene dell’America Centrale e andina che si svilupparono tra il 3° millennio a.C. e l’inizio dell’avanzata spagnola nel Nuovo mondo (1519-48). Le civiltà di maggiore rilievo, in questo quadro, furono quelle tolteca, maya e azteca in area mesoamericana (Messico e regione istmica) e quella inca sugli altipiani peruviani. A differenza delle popolazioni autoctone del continente nordamericano e del territorio amazzonico, queste culture evolsero gradualmente verso forme complesse di organizzazione politica, economica e sociale, attestate dalla perizia raggiunta nelle opere di canalizzazione delle acque, a sostegno di una varia agricoltura, nella lavorazione del cotone e dei metalli, nell’arte e nell’architettura pubblica. Le conoscenze astronomiche e l’elaborazione di eterogenei sistemi di scrittura e di numerazione rappresentano connotati ulteriori delle civiltà p., accanto al mancato utilizzo della ruota per fini pratici (in ragione dell’assenza di animali da tiro), dell’aratro e della moneta, e alla scarsa diffusione dell’allevamento. Negli ultimi decenni, studi numerosi e dal carattere multidisciplinare (etnostorici, archeologici, antropologici, linguistico-letterari) hanno indagato l’ultima età delle civiltà p., con particolare riferimento ai regni azteco e inca (N. Wachtel, O. Paz, T. Todorov); il problema delle origini è invece rimasto una questione, anche se molto frequentata, ancora sostanzialmente aperta. Acclarato dunque che molteplici cause determinarono il rapido declino e il crollo demografico degli aztechi e degli inca (le violenze perpetrate dai conquistadores, la diffusione di virus provenienti dall’Europa, una profonda crisi della spiritualità e dei valori tradizionali), il nodo storiografico relativo all’ipotesi di antichi rapporti commerciali con i popoli degli altri continenti (T. Heyerdahl) rimane invece sostanzialmente insoluto, anche se la lettura prevalente assimila le civiltà p. agli altri nativi delle Americhe, nella tesi della comune origine asiatica da popolazioni che attraversarono lo Stretto di Bering in età preistorica e divennero progenitrici di culture sviluppatesi nel più totale isolamento storico.
La vasta regione mesoamericana, compresa tra le aree desertiche del Nord America meridionale e i territori istmici, era già antropizzata nel 4° millennio a.C. Nel corso del millennio successivo l’introduzione della coltura del mais determinò la nascita di società stanziali. Nell’area costiera dell’od. Veracruz, sulle fertili pianure alluvionali prossime ai rilievi di Tuxtla, gli olmechi diedero vita alla prima civiltà urbana, la più importante di età preclassica (15° sec. a.C.-4° sec.), con caratteri che divennero peculiari delle successive civiltà mesoamericane (nascita di numerose e potenti città-Stato legate da solide reti commerciali, ingente produzione agricola e manifatturiera, realizzazione di grandi sculture in pietra e di oggetti in giada, elaborazione di un calendario frutto di accurate rilevazioni astronomiche, sofisticato sistema religioso e cerimoniale). Andrebbero inoltre ascritte agli olmechi la costruzione dei primi complessi sacri e la nascita dell’architettura monumentale (San Lorenzo Tenochtitlán), anche se il dibattito scientifico che circonda il sito archeologico di Cuicuilco (valle di Anáhuac), sede della più antica struttura piramidale del continente americano, potrebbe in futuro sovvertire questo assunto. A seguito di un periodo di grande espansione (13°-8° sec. a.C.), durante il quale l’influenza degli olmechi raggiunse le coste guatemalteche del Pacifico, si aprì una fase di profonda decadenza: l’ascesa di altre culture (zapoteca nella valle di Oaxaca, totoneca nell’area di Veracruz, civiltà delle piramidi di Teotihuacán) costituisce l’epilogo della storia olmeca (3° sec. a.C.). L’alto livello di sviluppo raggiunto dai maya (penisola dello Yucatán), la massima civiltà del periodo classico mesoamericano (3°-9° sec.), d’altro canto, discende in buona parte dal recupero dell’eredità olmeca, che venne spesa per l’elaborazione dei primi compiuti sistemi di scrittura (di tipo geroglifico) e di numerazione (vigesimale), e per il raffinamento delle arti e delle tecniche artigianali. L’organizzazione politica maya si fondava su una rete di insediamenti rurali, ovvero su terre coltivate in regime di comproprietà dagli abitanti dei villaggi; estensioni agricole ricavate dal periodico disboscamento e fertilizzate mediante incendi. Le sontuose città-Stato (Chichén Itzá, Copán ecc.) rappresentarono il vertice politico, sede di potenti monarchie ereditarie, dell’aristocrazia (che ricopriva ruoli militari e amministrativi) e del corpo sacerdotale (deputato all’educazione della nobiltà e agli studi scientifici e astronomici), ma anche luogo di scambi commerciali e di cerimonie religiose. Il complesso pantheon maya fu dominato da divinità associate a fenomeni naturali (cielo, acqua, pioggia ecc.) e cioè al buon esito dei raccolti di mais, come pure ad ambiti diversi della vita dell’uomo (di cui gli dei erano ritenuti creatori). Per l’edificazione dei grandi complessi sacri (sorti attorno alle celebri piramidi a gradoni) e delle altre opere pubbliche, la manodopera schiavile (garantita dai prigionieri di guerra, dai detenuti e dai miserabili costretti a vendere la propria libertà o quella dei loro figli) venne affiancata a manovalanze che raggiunsero elevati livelli di specializzazione. Ne risultarono imponenti complessi monumentali adorni di scritture scolpite, opere che ancora oggi costituiscono il principale strumento per lo studio di questa civiltà, estintasi attorno al 9° sec. per ragioni che rimangono oggetto di indagine scientifica (tra le tesi più accreditate, quella delle ribellioni interne, delle migrazioni di popolazioni provenienti dal Messico e di catastrofi naturali).
A partire dal 10° sec., numerose città maya vennero conquistate dai toltechi, il cui regno di Tula, nel Messico centrale (sorto a opera dei teotihuacani), era stato abbattuto dai chichimechi (12° sec.), guerrieri nomadi del Messico settentrionale, come i toltechi (
). L’arrivo di questi ultimi nello Yucatán decretò la nascita della civiltà maya-tolteca di Chichén Itzá, che sopravvisse sino all’inizio della conquista spagnola (1545). Anche gli aztechi erano di lingua nahuatl, e cioè originari del Messico settentrionale, ma la loro migrazione, un’epopea che divenne elemento centrale di una ricca cultura religiosa e mitologica, si concluse presso il lago Texcoco, al centro del quale venne fondata Tenochtitlán (1325), odierna Città di Messico. Lo sviluppo di questa città-Stato, che le cronache della conquista ci hanno descritto come un gioiello di architettura monumentale e di ingegneria idraulica, fu così sostenuto da portare nell’arco di un secolo alla sottomissione dei tepanechi (1427), e cioè alla piena affermazione del dominio azteco sugli altipiani del Messico centrale, a scapito di quegli stessi popoli di cui gli aztechi si erano inizialmente accettati vassalli. Seguì un’ulteriore fase di conquista, sorretta da tenaci credenze religiose (il mito di una terra promessa dagli dei): quando la storia della civiltà europea incrociò quella mesoamericana, sotto il regno di Montezuma II (1502-20), l’impero azteco costituiva ormai un’entità politico-statuale di cui erano divenuti tributari vasti territori, estesi dal Golfo del Messico alle coste del Pacifico. I popoli assoggettati, pur avendo potuto conservare le loro tradizionali strutture economiche e sociali, erano stati obbligati a fornire anche manodopera schiavile e numerose vite umane, vittime che gli aztechi sacrificavano periodicamente alle loro divinità. Questo è forse l’aspetto della cultura azteca che più ha suscitato l’attenzione e la violenta reazione degli europei (d’altro canto H. Cortés, con cui ebbe inizio la fase eroica della conquista, non esitò a fare leva sull’odio nutrito dai popoli sottomessi). Sebbene i sacrifici umani avessero raggiunto una centralità e un’incidenza notevolissima in questa civiltà (le cronache della conquista suggeriscono una stima di svariate migliaia di vittime per anno), sappiamo oggi che tale pratica era diffusa presso la maggior parte delle civiltà precolombiane. È invece rimasto terreno di dibattito il problema del significato assunto da questi cruenti riti, per cui sono state proposte letture anche ardite: dall’ipotesi nutrizionale (M. Harner, M. Harris), secondo la quale il sacrificio sarebbe stato in origine strettamente connesso al cannibalismo, al fine di riequilibrare una dieta alimentare troppo povera sul piano proteico, a lavori di psicostoria (L. deMause) che si sono invece concentrati sul sacrificio volontario come risposta inconscia a traumi infantili. È oggi largamente prevalente la lettura politica, in base alla quale il sacrificio umano rappresenterebbe uno strumento forgiato da una tradizione millenaria per incutere terrore nei propri nemici, per ottenerne la sottomissione e scongiurare l’insorgere di ribellioni interne. Tra i culti aztechi più violenti, vanno ricordati quelli del Sole, della Terra, della Pioggia (divinità cui si offrivano bambini) e del dio Tezcatlipoca (che ispirò devozioni particolarmente efferate, come l’estrazione del cuore pulsante dal corpo della vittima). Al culto di Quetzalcoatl (Serpente piumato), la cui origine è tolteca, era invece associata l’idea di un ritorno di questa divinità dalla carnagione chiara, come indicato dall’iconografia tradizionale; aspetto che avrebbe inizialmente favorito il conquistador Cortés, accolto con riguardo dal sovrano Montezuma. Ai protagonisti della conquista, e in specie ai missionari che per primi raggiunsero il nuovo Messico spagnolo (Nuova España), dobbiamo informazioni concernenti anche aspetti sociali e culturali della civiltà azteca; ne risulta un quadro più nitido di quello relativo alle altre civiltà mesoamericane. Sappiamo ad esempio che la gerarchizzazione sociale fu contrassegnata da una maggiore rigidità rispetto al più antico caso maya: il vertice politico azteco era rappresentato da un sovrano con attributi sostanzialmente divini, coadiuvato da un potente ceto aristocratico (i cui titoli divennero col tempo ereditari) esente da oneri fiscali. I nobili (pilli) esprimevano le massime cariche religiose e di governo, mentre le carriere militari potevano rappresentare una chance di ascesa sociale e politica anche per le classi inferiori. Mercanti e artigiani specializzati rappresentarono un ceto più agiato delle classi popolari, composte in prevalenza da contadini-proprietari o da coltivatori di terre aristocratiche o demaniali. Anche la società azteca contemplò la schiavitù, e la stessa manodopera contadina fu soggetta a prestazioni di lavoro gratuite (opere pubbliche, approvvigionamento delle grandi città ecc.) e al reclutamento coatto in occasione dei conflitti. La condizione schiavile rappresentava un vincolo ereditario, l’emancipazione poteva discendere dall’ascesa patrimoniale o da meriti personali. La condizione femminile, sebbene subordinata all’autorità maschile e fortemente ancorata al ruolo procreativo e alla sfera domestica, avrebbe beneficiato, almeno in ambito urbano, di un efficiente sistema di istruzione primario (che introduceva allo studio delle discipline superiori). In ambito scientifico, artistico e letterario (applicazioni prettamente maschili), gli aztechi raggiunsero elevati livelli di elaborazione orale e scritta e di suddivisione per discipline e generi (astronomia, matematica, medicina, pittura, scultura, lirica, epica, drammaturgia, storiografia ecc.). La letteratura azteca, di cui possediamo rarissime testimonianze (accanto a quelle vergate, come nel caso maya, in epoca posteriore alla conquista), fu espressa attraverso una scrittura geroglifica di complessa interpretazione, in ragione del largo uso di concetti astratti e metafisici. Tra le arti, meritano specifica menzione il mosaico, la ceramica, l’oreficeria e la scultura, che si sviluppò in stretta relazione con l’architettura pubblica e produsse esiti originali (attraverso la ricezione e la sintesi del naturalismo olmeco, del geometrismo teotihuacano e dell’imponente arte monumentale maya-tolteca). Nel corso della seconda metà del 16° sec., tutte le civiltà mesoamericane si estinsero, sebbene taluni loro caratteri (lingua, credenze e culti religiosi, musica e arti minori, pratiche agricole e artigianali ecc.) siano sopravvissuti a livello di isolate comunità di villaggio e di cultura in prevalenza orale. A eccezione di antichi insediamenti che risultavano già in abbandono all’arrivo dei conquistadores (di cui si era talora persa memoria, come nel caso dei più impervi siti maya), anche la maggior parte delle architetture precolombiane venne distrutta, di pari passo con l’edificazione di chiese ed edifici dell’amministrazione spagnola.
In America Meridionale, le prime civiltà si svilupparono sugli altipiani delle Ande (Quechua, Puna ecc.), ove l’introduzione dell’agricoltura (3° millennio a.C.), legata in specie alla coltivazione di mais, patata e cotone, implicò la realizzazione di poderose opere di terrazzamento. A differenza delle civiltà mesoamericane, le culture andine praticarono in modo sistematico la concimazione e l’irrigazione artificiale, unitamente all’allevamento di alcune specie animali (lama, alpaca). Una peculiarità ulteriore è rappresentata dalla struttura sociale e politica, che conservò un più marcato assetto clanico. La prima civiltà di rilievo fiorì in area peruviana, presso Chavín (1° millennio a.C.), nella valle di Mosna, a oltre 3000 m di altitudine, e si caratterizzò anche per l’elevata specializzazione tessile, ceramica, artistica e metallurgica, e per l’architettura monumentale. La successiva cultura Nazca (1°-6° sec.), sviluppatasi più a sud lungo la costa pacifica, è invece nota in specie per l’imponente sistema di geoglifi teriomorfi tracciati sull’altopiano omonimo (Linee di Nazca), il cui significato divide la comunità scientifica (lettura religioso-cerimoniale, astronomico-meteorologica ecc.). Si affermarono in età postclassica (9°-15° sec.) le civiltà peruviane di Huari-Tiahuanaco, Chimú, Cajamarquilla e Chincha (Perù e Bolivia), la cui eredità politica, economica e culturale verrà rilevata dall’impero inca. Gli inca (vocabolo che propriamente designa il solo sovrano e la nobiltà più insigne), popolo nomade migrato dal Lago Titicaca (12° sec.) e forse originario della regione istmica, diedero vita alla più importante entità politico-statuale preispanica del Sudamerica, una delle massime espressioni della storia precolombiana, specie sul piano dell’efficienza amministrativa. La mitologia incaica attribuisce la fondazione di Cuzco, futura capitale del regno, al valoroso condottiero Manco Capac (divinizzato dalla tradizione posteriore), la cui stirpe avrebbe originato la dinastia regnante. Nel corso del 13° sec., lo sviluppo della città inca andrebbe misurato in specie attraverso la rilevanza assunta dal suo santuario, divenuto il principale centro di devozione delle Ande. Per effetto di tali suggestioni linguistiche e culturali e della mescolanza etnica, gli inca assunsero rapidamente la fisionomia di una civiltà evoluta. Un ulteriore snodo politico si individua nella prima metà del 15° sec.: il rafforzamento del potere monarchico e la crescita d’influenza di Cuzco oltre i confini dell’altopiano (a scapito di un crescente numero di insediamenti peruviani che, come il regno di Chimú, furono indotti a gemellarsi con gli inca) si fondò sul compromesso raggiunto tra potere regio e potere religioso. Il vertice politico rimase il grande inca, monarca ereditario disceso dal Sole (Inti), cui si affiancò un ristretto organo consultivo espresso dall’aristocrazia. Come nelle maggiori civiltà p., i nobili erano esenti dagli oneri tributari e godevano di appannaggi fondiari anche molto cospicui, in ragione dei loro ruoli militari e di governo. Ai curacas, signori dei popoli assoggettati che avevano riconosciuto l’autorità inca, spettava l’amministrazione delle relative province, entro un impero che gradualmente assunse una struttura confederale. Il vertice religioso era invece rappresentato dal fratello dell’inca, sacerdote supremo di Inti e Viracocha (il Creatore); la casta sacerdotale aveva cioè ottenuto poteri, patrimoni ed emolumenti affini a quelli della massima gerarchia politica. Il sostentamento delle classi privilegiate era garantito da quelle inferiori, escluse dalla proprietà della terra, attribuita invece al sovrano, alle classi superiori e alle comunità di villaggio (ayllu), e in quest’ultimo caso ripartita tra le famiglie. Questo aspetto ha suggerito i concetti (inefficaci) di comunismo inca e di civiltà per eccellenza basata sul lavoro coatto (M. Weber). Dai villaggi venivano d’altronde reclutate anche le milizie e la manodopera che gratuitamente assolveva ai lavori pubblici, giacché la formazione di un ceto specificamente delegato a servire, ma non propriamente schiavile, risulterebbe assai tarda, e conseguente all’esigenza di reprimere episodi di dissenso politico interno. Lo Stato inca seppe dotarsi di un’estesa rete viaria (dall’Ecuador al Cile) e compì stupefacenti imprese di terrazzamento e governo delle acque (canalizzazioni, cisterne, acquedotti). Sebbene non sia attestata l’esistenza di vere e proprie professioni mercantili (né di un sistema di scambi monetari), anche le comunicazioni, i trasporti e i commerci (gestiti dallo Stato, come il periodico sistema di corrieri che collegava gli altipiani) raggiunsero un ottimo sviluppo, agevolati dall’utilizzo del lama come animale da soma. Prodotti agricoli e merci, anche provenienti dalle coste pacifiche e dai confini con i territori amazzonici e di cultura chibcha (Colombia), giungevano regolarmente nei centri andini, alcuni dei quali sorsero in prossimità di importanti siti minerari (gli inca eccellevano nella lavorazione dell’oro e del bronzo, ma non svilupparono quella del ferro). Al contrario i rapporti con le civiltà dell’area mesoamericana, discontinui ed episodici, riguarderebbero i secoli a cavallo tra l’età classica e postclassica, come attesta il culto di Viracocha, influenzato da quello di Quetzalcoatl (divinità tolteca e azteca) e la pratica dei sacrifici umani (di scarsa incidenza nella cultura inca). Invece le conoscenze più avanzate nel campo della scrittura e della numerazione non filtrarono in area inca, ove si sopperì con un sistema arcaico di cordicelle annodate e colorate per indicare numeri e parole (quipo). Il concetto di letteratura inca apparirebbe dunque improprio, alla luce dell’esiguo numero di testimonianze scritte, elaborate in massima parte durante la prima età spagnola; si tratta cioè di tarde trascrizioni di componimenti poetici o narrativi (di vicende storico-mitologiche, di aspetti di folclore ecc.) desunti dalla tradizione orale quechua. Scritture da cui pure trasparirebbero lo spessore politico e sociale guadagnato da talune figure femminili (sovrane e nobildonne) e una grande sensibilità per il mondo naturale, aspetto che si era riverberato anche sull’arte ceramica e sulla scultura lignea, che attingevano a un ricco repertorio di motivi animali e vegetali stilizzati. Sovente le arti minori riprodussero anche templi ed edifici pubblici, a dimostrazione della centralità guadagnata dall’architettura nella cultura inca. La traccia più significativa di questa civiltà è appunto testimoniata dalle imponenti rovine di alcuni complessi religiosi e civili (Machu Picchu), che, a differenza dell’antica Cuzco e delle altre capitali precolombiane, sopravvissero al disegno di ristrutturazione urbanistica e monumentale tenacemente perseguito dalle autorità spagnole. L’incontro tra gli inca e la civiltà europea avvenne sotto il regno di Atahualpa (1532-33), sovrano che il conquistador F. Pizarro imprigionò nella battaglia di Cajamarca, decretandone la morte al termine di un grottesco processo. L’efficienza militare e politica degli inca, unitamente alle difficoltà logistiche e tattiche incontrate sulle Ande dalle guarnigioni nemiche, favorirono però la nascita di un’indomita resistenza alla Spagna, la cui effettiva egemonia nell’area cominciò solo nella seconda metà del 16° sec., con la nascita della Nuova Castiglia (1542). L’uccisione di Tupac Amaru (1572), sotto il viceregno di Francisco de Toledo, rappresentò la definitiva estinzione della dinastia reale. Il tramonto della cultura inca, sebbene per molti aspetti analogo a quello delle altre civiltà p. (massacri, epidemie, deportazioni e crisi di civiltà), presentò indubbie note di originalità anche sul piano della sofferta integrazione con i nuovi dominatori, come nel caso dell’autonomia infine riconosciuta da questi ultimi alla figura del capo villaggio (cacique), cui venne affidato il compito di mediare tra le istanze dei vincitori e le suppliche dei vinti.
Pur con numerose differenziazioni per la molteplicità dei popoli che li praticarono, i culti degli autoctoni antecedenti la scoperta del Nuovo Mondo furono accomunati da una combinazione di politeismo, animismo e sciamanesimo, nonché dalla credenza che le forze naturali fossero divinità e dalla forte compenetrazione tra vita civile e religiosa. Tale commistione fu particolarmente marcata presso le popolazioni mesoamericane, che attribuirono ai propri governanti caratteristiche divine o un ruolo di mediatori tra gli dei e gli uomini. Presso gli aztechi era sviluppato il culto degli astri e diffusissimo il ricorso a sacrifici umani. I maya incentrarono il proprio credo su una rigida visione dualistica della realtà e su una concezione ciclica dell’universo per la quale il mondo sarebbe stato creato e distrutto più volte. Gli inca posero al centro dei loro culti la venerazione degli antenati, considerati spiriti benevoli, ma ai quali assegnavano un grado di divinità che era funzione del livello sociale ricoperto in vita. Gli indiani dell’America Settentrionale ipotizzarono un grande spirito, creatore del mondo, che si rivelava nel corso di riti estatici.