Classi medie
L'espressione 'classe media' diventa di uso comune nel XIX secolo come sinonimo di 'borghesia imprenditoriale', per indicare cioè la classe che per reddito, prestigio e potere occupa una posizione intermedia tra l'aristocrazia e il proletariato. Col progressivo peggioramento della posizione relativa della vecchia classe dominante, e la sua sostituzione a opera della nuova classe imprenditoriale, l'espressione 'classe media', il suo sinonimo 'ceto medio' e i loro plurali passano a indicare quei gruppi sociali che, non appartenendo né alla borghesia né al proletariato, si collocano tra i due occupando una dimensione rilevante della stratificazione sociale.
Per scontato che possa sembrare, è necessario notare fin dall'inizio che parlare di classi medie implica che: a) si considerino le classi come attori rilevanti nella struttura sociale; b) si faccia riferimento a due classi estreme rispetto alle quali una o più altre occupano una posizione di mezzo.
Da queste osservazioni ne derivano altre a volte paradossali, relative al rapporto tra il concetto di classe media e le teorie sociologiche della struttura di classe, e in particolare quelle di tali teorie che usano schemi dicotomici.
I concetti di classe e di struttura di classe non coincidono con quello di stratificazione sociale, con cui sono se mai in un rapporto da specie a genere. L'espressione 'stratificazione sociale' fa riferimento a diversi modelli di classificazione delle diseguaglianze sociali strutturate: gli strati che questi individuano non sono attori sociali collettivi nel senso in cui lo sono le classi. La contrapposizione tra teorie della stratificazione sociale e teorie delle classi è ancora più evidente quando le seconde usano schemi dicotomici, che dividono la società tra governanti e governati, ricchi e poveri, quelli per cui si lavora e quelli che lavorano (v. Ossowski, 1957, cap. 2).
Ora, se da una parte l'espressione 'classe media' fa implicitamente riferimento a un qualche modello dicotomico (e non pluralisticamente articolato) di struttura di classe (e non di stratificazione sociale), dall'altra parlare di classe media fa compiere un passo in direzione di modelli di stratificazione, che generalmente prevedono una pluralità di strati. In questi modelli ogni strato, tranne i due estremi, è in qualche modo 'medio'. Accade così che, sebbene la dicotomia sia il presupposto della medietà, in ogni interpretazione dicotomica della struttura di classe le classi medie abbiano un ruolo secondario, disturbante, transitorio: lo si vedrà in particolare a proposito dell'opera di Marx.
Che il concetto di classe media sia contraddittoriamente ma inestricabilmente legato a interpretazioni di tipo dicotomico è provato anche dalla sua scarsa presenza e dalla sua scarsa rilevanza nei modelli di tipo funzionalistico, anch'essi in genere pluralistici. Anche negli schemi di tipo funzionalistico è possibile individuare due classi estreme in cui reddito, prestigio e potere sono molto più elevati o molto più bassi di quelli di altre classi, 'medie'. Ma se l'accento è posto sulle funzioni svolte da determinate classi, è difficile individuare una gerarchia che renda sensato parlare di classi medie: nell'apologo di Menenio Agrippa ogni organo del corpo umano svolge una funzione egualmente indispensabile. Se invece l'accento è posto sui compensi ottenuti (i sociologi hanno di solito misurato reddito e prestigio), si ricade nella pluralità di strati che rende difficile parlare di classi medie. Ulteriori elementi di complicazione derivano dall'introduzione della dimensione soggettiva. L'autoassegnazione a (l'identificazione con) una classe presuppone intanto che l'individuo che la compie abbia una visione strutturata della società in cui vive, nella quale le classi siano un elemento rilevante. Ma l'autoassegnazione alla classe media implica assai spesso forti elementi normativi, una visione non conflittuale della società, fiducia nelle autorità tradizionali. Anche a prescindere dalle obiezioni metodologiche che di solito si possono rivolgere alle surveys che prevedono domande su questo tema, è quindi quantomeno imprudente dedurre proposizioni sulla strutturazione reale dell'ineguaglianza sociale, in una data società, dall'autoassegnazione di classe dei soggetti interessati, ritenendo, ad esempio, che la crescita del numero delle persone che si considerano classe media corrisponda davvero alla crescente unificazione della situazione di lavoro e di mercato di una vasta parte della popolazione.
Su alcuni di questi problemi torneremo nei capitoli successivi, per discutere le diverse soluzioni teoriche che sono state per essi proposte. Ma prima converrà dedicare qualche rapido cenno alle caratteristiche empiriche e all'evoluzione delle classi medie. Parleremo in genere di 'classi medie' al plurale: l'espressione 'classe media' è diventata estremamente generica a partire dal momento in cui, non designando più la borghesia imprenditoriale, ha cominciato a designare gruppi così diversi come i contadini e i liberi professionisti, gli artigiani e i burocrati. Dati i limiti di questo articolo, il campo di osservazione sarà costituito dai paesi capitalistici industrializzati, nell'ambito dei quali il concetto è stato elaborato e prevalentemente usato.
Dopo le rispettive rivoluzioni industriali, in ognuno dei paesi capitalistici oggi 'avanzati' la struttura di classe è caratterizzata dalla presenza delle due fondamentali classi degli imprenditori e degli operai industriali. Non sempre e non subito queste due classi diventano rispettivamente dominante e maggioritaria. Il fatto che esse siano comunque le classi caratteristiche della nuova formazione sociale fa sì che le altre classi debbano essere in qualche modo definite in rapporto a esse.
Il grosso delle altre classi può esser fatto rientrare nella piccola borghesia 'relativamente autonoma' e nella piccola borghesia 'impiegatizia' (v. Sylos Labini, 1974). Della prima fanno parte i lavoratori autonomi, proprietari dei loro mezzi di produzione, che non impiegano, o impiegano in misura minima e occasionale, lavoro salariato: coltivatori diretti, commercianti, artigiani. Della seconda fanno parte gli impiegati pubblici e privati. Esistono poi gruppi sociali più difficilmente classificabili, come i liberi professionisti, il clero, i militari. Ognuna di queste classi ha avuto un'evoluzione diversa.Allo spostamento di popolazione attiva dall'agricoltura all'industria e ai servizi ha ovviamente fatto riscontro, in tutti i paesi capitalistici industrializzati, una drastica diminuzione del numero dei coltivatori diretti. In Gran Bretagna la riduzione degli addetti all'agricoltura precede e accompagna la rivoluzione industriale; in un paese late-comer come l'Italia i coltivatori diretti erano ancora il 22,5% della popolazione attiva nel 1881, e sono il 7,6% nel 1983; in Francia l'evoluzione è assai simile; negli Stati Uniti i dati sono ancora abbastanza simili nel 1890, ma la successiva riduzione è assai più drastica (v. Sylos Labini, 1986).
La permanenza o meno di una vasta classe contadina (e di una classe di grandi proprietari terrieri) nel corso del processo di industrializzazione è gravida di conseguenze non solo per la struttura di classe, ma anche per il sistema politico. Nell'interpretazione che dà B. Moore (v., 1966) delle "origini sociali della dittatura e della democrazia", i contadini vengono regolarmente strumentalizzati ai fini di soluzioni politiche autoritarie di destra, quando non costituiscono la base di massa di una rivoluzione comunista. Solo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti - paesi in cui, per ragioni diverse, i contadini non sono più stati un soggetto rilevante dopo la rivoluzione industriale - la democrazia parlamentare si è affermata in maniera solida.Per la seconda componente della piccola borghesia autonoma, i commercianti, la tendenza secolare è quella della stabilità o addirittura della crescita. La crescita è clamorosa in Italia, dove i commercianti passano tra il 1881 e il 1983 dal 2,5 al 10,4% (v. Sylos Labini, 1986).
Nel caso dei coltivatori diretti come nel caso dei piccoli commercianti, l'evoluzione quantitativa della classe è fortemente condizionata dalle decisioni del potere politico: lo Stato interviene a più riprese per correggere una tendenza alla contrazione determinata dal mercato. È il caso delle bonifiche e dei programmi di riforma agraria che promuovono la proprietà contadina nell'Italia fascista e nell'Italia repubblicana; è il caso del complesso e costosissimo sistema di aiuti all'agricoltura della Comunità Economica Europea, che mantiene sul mercato produttori (non soltanto piccoli) di beni destinati all'immagazzinamento permanente e alla distruzione. Per quanto riguarda i commercianti, in tutti i paesi europei il loro numero è stato influenzato dall'atteggiamento più o meno permissivo assunto dal potere politico nei confronti della grande distribuzione. In Italia, per un lungo periodo di storia unitaria, la possibilità stessa di diventare commerciante dipese da una decisione del potere politico locale, attraverso l'istituto della 'licenza'. Recentemente la norma che ha reso obbligatorio per i piccoli commercianti l'uso dei registratori di cassa ha mostrato ancora una volta come l'adozione di un solo provvedimento legislativo possa influire in tempi brevi sulle dimensioni e la composizione di una classe.I casi citati mostrano chiaramente come la persistenza della piccola borghesia tradizionale non sia spiegabile in termini puramente economici. Le spiegazioni sociologiche più interessanti rimandano all'azione del potere politico, che protegge i ceti in declino per le funzioni che essi svolgono nel contenimento della disoccupazione, nel controllo dei lavoratori marginali, nella produzione di consenso (v. Berger, 1974; v. Pizzorno, 1980).
La distinzione tra piccola borghesia tradizionale e piccola borghesia moderna non passa solo attraverso le dimensioni dell'impresa: esistono grandi imprese gestite con criteri del tutto tradizionali e piccole imprese innovative. Ciò appare particolarmente importante nel caso della terza componente della piccola borghesia relativamente autonoma, gli artigiani, la cui evoluzione sembra più direttamente determinata dal mercato e dalle caratteristiche della struttura industriale. In termini generali si può parlare: a) di una riduzione del numero degli artigiani nella prima fase del processo di industrializzazione, quando un gran numero di microimprese vengono eliminate dalla concorrenza delle grandi e un gran numero di artigiani si proletarizzano in senso stretto, passano cioè nelle file del lavoro salariato; b) di tendenze contraddittorie nella fase 'fordistica' caratterizzata dalla grande fabbrica e dal lavoro a catena, in presenza però di una fitta rete di sub-fornitori e di 'nuovi artigiani' che svolgono attività di manutenzione e riparazione; c) di un recente aumento delle piccole imprese e dei lavoratori autonomi nella fase in cui al fordismo subentra la 'specializzazione flessibile' (v. Sabel, 1982). Quantificare queste affermazioni è però assai problematico, date le difficoltà di definizione, classificazione e quindi comparabilità che l'uso del termine 'artigiano' comporta. Lo stesso vale per 'piccolo imprenditore', 'lavoratore autonomo', o per l'inglese self-employed, non a caso non traducibile alla lettera in italiano. La legislazione di diversi paesi prevede una particolare normativa per artigiani diversamente definiti: ad esempio, in Italia in base al numero dei dipendenti e alla partecipazione del titolare al processo produttivo, nella Repubblica Federale di Germania in base al settore di appartenenza e al tipo di bene prodotto. Gli artigiani si collocano in un continuum a un estremo del quale troviamo il lavoratore autonomo che opera senza dipendenti, in una situazione che può configurare forme di lavoro dipendente mascherato (come nel caso in cui l'artigiano ha un unico cliente) e può prevedere periodici passaggi al lavoro dipendente (come accade in settori così diversi come l'edilizia e la produzione di software). Lungo il continuum si incontrano poi i piccoli imprenditori titolari di imprese in cui lavorano dei salariati: ma è difficile decidere in astratto quando un'impresa cessa di esser piccola per diventare media o grande, e quando un piccolo borghese diventa borghese.
La percezione e la valutazione della piccola impresa hanno rapidamente attraversato, specialmente in Italia, fasi contraddittorie non sufficientemente giustificabili con l'evoluzione dell'oggetto dell'indagine. Negli anni cinquanta e sessanta l'attenzione degli studiosi, ma anche quella degli operatori politici e sindacali, era prevalentemente assorbita dalla grande impresa, nonostante il fatto che, anche negli anni del 'miracolo economico', la maggior parte dei lavoratori industriali fossero impiegati presso imprese piccole e medie, la cui crescita numerica indicava rilevanti processi di mobilità ascendente. Alla fine degli anni sessanta la 'scoperta' del mondo della piccola impresa coincise con la sua interpretazione in termini di arretratezza o come risultato di una strategia di decentramento attuata dalle grandi imprese, volta a creare 'reparti staccati' dove i lavoratori potessero essere meglio controllati e sfruttati. Dalla metà degli anni settanta la consapevolezza del fatto che, almeno dal punto di vista dell'occupazione, le piccole imprese avevano retto alla crisi meglio delle grandi e la crescente notorietà dei successi economici dei 'distretti industriali' dell'Italia centrorientale, caratterizzati da reti di piccole imprese dinamiche e innovative, provocarono valutazioni spesso indiscriminatamente positive dei vantaggi economici e sociali della piccola dimensione.
Gli impiegati pubblici - gruppo sociale già chiaramente identificabile, anche se non particolarmente numeroso, al momento della formazione degli Stati nazionali - aumentano progressivamente con l'estendersi delle funzioni dello Stato e in particolare, nel XX secolo, con l'espandersi del sistema educativo e delle attività caratteristiche dello Stato assistenziale. Nel corso degli ultimi cent'anni circa la loro percentuale sul totale della popolazione attiva passa dal 4,1 al 15,8% in Italia; dal 5,4 al 20,4% in Francia; dal 6 al 21% nel Regno Unito; dal 7 al 17,4% negli Stati Uniti (v. Sylos Labini, 1986).
Gli sviluppi del Welfare State successivi alla seconda guerra mondiale sono stati spesso interpretati con modelli di "carattere 'dicotomico-evoluzionista', in cui il termine a quo - costituito dal mercato, con le sue modalità selettive ed i suoi limiti di soddisfacimento dei bisogni sociali - viene corretto e superato dal termine ad quem - un Welfare State sviluppato ed esteso" (v. Paci, 1982, p. 346). Nel caso della protezione sociale come in quello di una serie di servizi, sembra invece più utile ragionare in termini di mix tra Stato, mercato e 'terzo settore' (famiglia, comunità, associazioni volontarie), le cui variazioni possono dare esiti non unilineari per quanto riguarda l'evoluzione quantitativa del pubblico impiego.
Gli impiegati privati, in particolare dell'industria, sono un gruppo quantitativamente assai ristretto durante la prima fase del processo di industrializzazione. Proprio in relazione al loro basso numero si è spesso sottolineato il loro ruolo di stretti collaboratori e rappresentanti dell'imprenditore; ma ricerche recenti hanno mostrato almeno per un caso nazionale, quello della Germania, quanto vaga fosse la linea di separazione tra colletti bianchi e colletti blu ancora alla fine del XIX secolo, in netto contrasto con la situazione di pochi decenni dopo (v., Kocka, 1981). Sempre secondo le stime di Sylos Labini (v., 1986) per l'ultimo secolo, gli impiegati privati passano in Italia dallo 0,6 al 10,2%; in Francia dal 5,7 al 18,4%; nel Regno Unito dal 3,3 al 23,9%; negli Stati Uniti dal 14,7 al 49,1%.Assai rilevante appare, nell'industria, il fenomeno definito come 'burocratizzazione delle imprese' (v. Bendix, 1956, cap. 4) o come 'impiegatizzazione' (v. Gambetta, 1978). Si tratta della tendenza all'aumento percentuale dei lavoratori non manuali sul totale dei lavoratori industriali, oggi chiarissima, ma già visibile nella prima metà del XX secolo: negli Stati Uniti gli impiegati passano tra il 1889 e il 1947 dal 7,7 al 21% dei lavoratori industriali; in Francia, tra il 1901 e il 1936, dall'11,8 al 14,6%; in Gran Bretagna, tra il 1907 e il 1948, dall'8,6 al 20%; in Germania, tra il 1895 e il 1933, dal 4,8 al 14% (v. Bendix, 1956). Alla fine degli anni sessanta la percentuale degli impiegati sul totale dei dipendenti dell'industria è dell'11,3% in Italia, del 25% nella Repubblica Federale di Germania, del 24,1% in Francia, del 27,5% in Olanda, del 19% in Belgio, del 24,2% in Gran Bretagna (v. Gambetta, 1978). Dati di questo genere costituiscono un elemento importante dello sfondo delle teorie della proletarizzazione degli impiegati (v. cap. 5).
Anche a prendere con cautela le stime fin qui citate, e le categorie cui esse si riferiscono, la crescente rilevanza quantitativa e funzionale delle classi medie risulta evidente. Oltre che da ragioni puramente intellettuali, l'interesse per questi gruppi sociali è stato dettato dal desiderio di spiegare e prevedere il loro comportamento politico, risultato decisivo in più di una circostanza storica. In particolare, come vedremo, l'analisi delle caratteristiche e del comportamento delle classi medie è stata un passaggio obbligato delle interpretazioni sociologiche del fascismo (v. Saccomani, 1977).
Come è stato più volte osservato, nell'opera di Marx il concetto di classe, sebbene centrale, non è definito con precisione né trattato sistematicamente. A maggior ragione questo vale per le classi medie e per la loro posizione nella struttura di classe. In quella che S. Ossowski chiama "la sintesi marxiana", la piccola borghesia "viene definita applicando contemporaneamente due criteri, ciascuno dei quali separatamente costituisce una base per una demarcazione dicotomica delle classi sociali" (v. Ossowski, 1963; tr. it., p. 87). La prima dicotomia è quella tra classi che posseggono e classi che non posseggono gli strumenti di produzione; la seconda è quella tra classi lavoratrici e classi non lavoratrici. La piccola borghesia è composta da coloro che posseggono propri mezzi di produzione e li adoperano personalmente; in una versione più restrittiva il secondo criterio comporta che non si utilizzi in alcun modo lavoro salariato. La definizione, come si vede, riguarda le classi medie tradizionali e non la nuova classe media impiegatizia, che costituirà in seguito per i marxisti un difficile problema teorico e pratico. Ossowski fa poi notare la presenza (marginale) in Marx di un'interpretazione delle classi medie fondata su uno schema di gradazione, in cui la collocazione di classe varia al variare dell'ammontare del capitale e delle dimensioni dei mezzi di produzione, e la presenza (rara, ma non marginale) di uno schema funzionalistico di origine smithiana (proprietari di sola forza lavoro, proprietari di capitale, proprietari fondiari) in cui non c'è posto per classi intermedie.
Nell'opera di Marx coesistono quindi schemi interpretativi diversi, da cui è possibile ricavare una struttura a più classi. Lo stesso Marx, in opere come Il 18 brumaio, ricava dalla 'struttura stabile' dicotomica una 'struttura mobile' articolata, attraverso l'uso di variabili politiche, organizzative, istituzionali (v. Pizzorno, 1980, p. 68). La dicotomia tra capitalisti e proletari resta tuttavia fondamentale, soprattutto perché indica la direzione dell'evoluzione storica, nel corso della quale le classi medie sono destinate a scomparire progressivamente. Sta qui l'origine delle teorie della proletarizzazione, con le quali tanti marxisti cercheranno in seguito di spiegare e prevedere l'evoluzione della vecchia e della nuova classe media. Come sottolinea efficacemente Giddens, in Marx il modello 'astratto' o 'puro' di struttura di classe è sempre dicotomico. "Le classi medie sono o classi transitorie o segmenti delle classi fondamentali": classi transitorie e segmenti di classe complicano il modello dicotomico, ma è questo che si afferma progressivamente, con la loro eliminazione (v. Giddens, 1973, cap. 1).
I termini essenziali del dibattito sulle classi medie in campo marxista si profilano chiaramente già alla fine del secolo scorso. 'Revisionisti' come Bernstein, David, Kampffmeyer - confutati dagli 'ortodossi' Kautsky, Pannekoek, Lenin - anticipano molte delle obiezioni rivolte a Marx dalla sociologia contemporanea (v. Fetscher, 1964; tr. it., vol. II, p. 278). La previsione della progressiva proletarizzazione delle classi medie e della progressiva polarizzazione della struttura e del conflitto di classe si scontra con la persistenza delle classi medie tradizionali e soprattutto con la crescita della nuova classe media degli impiegati e dei tecnici, cui Marx aveva dedicato solo rapidissimi cenni. Il comportamento di questi gruppi sociali diventa potenzialmente determinante nei conflitti sindacali e politici: il movimento socialista si pone il problema dell'alleanza con le (nuove) classi medie, e i suoi intellettuali si pongono il problema della loro collocazione nella struttura di classe, nella convinzione che l'individuazione di tale collocazione, e degli interessi 'oggettivi' che essa comporta, permetta di prevederne il comportamento politico.
Nella definizione della collocazione di classe della piccola borghesia impiegatizia sono state regolarmente usate altre due dicotomie: la prima, fondata sull'osservazione e sul senso comune, è quella tra lavoro manuale e lavoro intellettuale o, in modo più neutro, non manuale; la seconda, tipica della tradizione marxista, è quella tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo.In una classificazione particolarmente rigorosa e restrittiva (v. Poulantzas, 1974, parte III) - e come tale presa a bersaglio favorito da un critico neoweberiano (v. Parkin, 1979, cap. 2) - le due dicotomie vengono combinate distinguendo tra lavoro salariato a) produttivo intellettuale, b) produttivo manuale, c) improduttivo intellettuale, d) improduttivo manuale. Solo il lavoro produttivo manuale caratterizza la classe operaia, mentre gli altri tre tipi individuano diverse componenti della piccola borghesia.
La distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo è stata al centro di una lunga controversia teorica, che non possiamo qui ricostruire e che ha lasciato seri dubbi sulla sua fondatezza. Inoltre, essa si è rivelata inutile al fine della spiegazione e della previsione degli atteggiamenti e comportamenti politici dei gruppi sociali che pretendeva di individuare.
Commentando tentativi di questo genere, Parkin ha scritto che "indipendentemente dal rigore scientifico e dalla precisione con cui sono definite le categorie tassonomiche, sembra che i principali gruppi sociali continuino ad agire nella più palese indifferenza rispetto a tali categorie" (v. Parkin, 1979; tr. it., p. 22). La critica di Parkin non si limita a questo, e considera del tutto incoerenti i tentativi di marxisti come Poulantzas e Carchedi di introdurre nell'analisi delle classi variabili politiche e ideologiche, perché i conflitti politici "non corrispondono mai ai confini del modello delle classi" (ibid., p. 23). Affermare che non vi sia mai corrispondenza tra posizione di classe e comportamento politico sembra francamente eccessivo. È vero però che, come mostrano l'osservazione e la ricerca empirica, la formazione di identità collettive e i comportamenti che ne conseguono dipendono da variabili talmente diverse che la posizione di classe non sembra un predittore privilegiato.
D'altro canto, in un'opera ricca, articolata, e anche internamente contraddittoria come quella di Marx, non mancano appigli per una definizione delle classi in cui gli aspetti soggettivi e culturali, da una parte, e le forme della rappresentanza degli interessi, dall'altra, abbiano un peso rilevante. È il caso del passo frequentemente citato sui contadini francesi: "Nella misura in cui milioni di famiglie vivono in condizioni economiche tali che distinguono il loro modo di vita, i loro interessi e la loro cultura da quelli di altre classi e li contrappongono a esse in modo ostile, esse formano una classe. Ma nella misura in cui tra i contadini piccoli proprietari esistono soltanto dei legami locali, e l'identità dei loro interessi non crea tra di loro una comunità, una unione politica su scala nazionale e una organizzazione politica, essi non costituiscono una classe" (v. Marx, 1852; tr. it., pp. 208-209).Una prospettiva di questo genere risulta però compiutamente sviluppata solo con Max Weber.
Nell'analisi weberiana delle classi presenti nella formazione sociale capitalistica compaiono, tra le classi medie, la piccola borghesia tradizionale e i colletti bianchi (v. Weber, 1922; tr. it., vol. I, p. 302). Dei secondi viene chiaramente riconosciuta la crescente importanza, e la progressiva erosione della prima viene attribuita al suo passaggio nelle file dei lavoratori manuali altamente specializzati e dei lavoratori non manuali, più che alla 'proletarizzazione'.
Se l'individuazione concreta delle classi non si discosta molto da quella marxista, i criteri che Weber propone per l'individuazione di gruppi sociali rilevanti (classe, ceto, partito) portano a risultati più articolati di quelli della tradizione marxista, e da essi divergenti. Il criterio della 'capacità di mercato' apre la possibilità di disarticolare la classe media impiegatizia in una quantità di gruppi professionali. L'affermazione che la formazione di identità collettive può fondarsi su elementi diversi da quelli su cui si fondano le classi apre la strada alla possibilità di individuare nella piccola borghesia (vecchia e nuova) una pluralità di attori collettivi. Dopo Weber il sociologo non può più parlare indifferentemente di 'classi medie' e 'ceti medi'. Il ceto, raggruppamento sociale fondato "sull'onore e sulla condotta di vita", può essere interno alla classe o tagliare trasversalmente più classi: quanto e più della classe è capace di mobilitazione per il perseguimento di obiettivi materiali o simbolici (v. Parkin, 1982, cap. 5).
Weber afferma che quasi ogni "caratteristica esteriormente determinabile" può essere assunta da un gruppo per fondarvi strategie di chiusura nei confronti di altri (v. Weber, 1922; tr. it., vol. I, pp. 340 ss.). Il concetto di 'strategie di chiusura', ricavabile da un capitolo di Economia e società diverso da quello dedicato alle classi e ai ceti, è al centro di una promettente analisi neoweberiana delle classi medie. Secondo Parkin (v., 1974) la distinzione fondamentale tra borghesia e proletariato sta nelle strategie di chiusura prevalentemente adottate, esclusione e solidarismo; è il passaggio dall'uno all'altro tipo di chiusura che segna la frattura fondamentale nell'ordine della stratificazione. Naturalmente, strategie di esclusione si riscontrano anche tra i lavoratori manuali, ma con alcune importanti differenze. Le professioni cercano di stabilire un 'monopolio legale' sull'offerta di certi servizi, diventando in tal modo "gruppi legalmente privilegiati"; il raggiungimento di questo status è assai più raro nel caso dei mestieri manuali (v. Parkin, 1979; tr. it., p. 50). Tipiche strategie di esclusione utilizzate dalle classi medie sono il credentialism (richiesta vincolante di titoli di studio) e appunto la professionalizzazione. Assai frequente è il caso di "strategie duali" (usurpazione verso l'alto, esclusione verso il basso): ad esempio le "semiprofessioni" (insegnanti, social workers, infermieri, ecc.), non essendo riuscite a garantirsi la completa chiusura e il controllo legale sull'accesso che caratterizzano le professioni, ricorrono anche alle tattiche proprie del solidarismo operaio (ibid., cap. 6).
Il concetto di strategie di chiusura, nell'elaborazione di Parkin, appare del tutto compatibile con i risultati di alcune tra le più interessanti ricerche sul comportamento di gruppi d'interesse della classe media impiegatizia, sia che lo usino esplicitamente (v. Baldissera, 1988), sia che usino apparati concettuali di altro genere (v. Barbagli, 1974; Boltanski, 1979): i maestri elementari italiani negli anni venti, i quadri francesi negli anni trenta, i quadri italiani negli anni ottanta sono altrettanti casi esemplari.
Le classi, a differenza degli ordini e delle caste, sono gruppi sociali aperti, l'uscita dai quali e l'entrata nei quali è giuridicamente possibile. L'esistenza di processi anche intensi di mobilità sociale, orizzontale e verticale, caratterizza e trasforma continuamente la struttura di classe delle società capitalistiche a partire dalla loro formazione: alcuni dei flussi di mobilità più rilevanti hanno come punto di arrivo o di partenza le classi medie, o si svolgono al loro interno. La proletarizzazione è definibile come "il passaggio dalla condizione di piccolo produttore indipendente, in un qualsiasi ramo di attività economica - artigianale, industriale, agricola, commerciale - alla condizione di lavoratore salariato, o proletario, alle dipendenze di un'azienda o di un privato, causa l'avvenuta perdita dei mezzi di produzione" (v. Gallino, Proletarizzazione, 1978). Come fa notare lo stesso autore, il termine è però stato frequentemente e impropriamente usato per indicare diversi processi di perdita di status.
La proletarizzazione, nel significato corretto del termine, è storicamente alla base della formazione del proletariato, e flussi di mobilità provenienti dalle classi medie tradizionali (in particolare contadine) alimentano il proletariato industriale per tutto il processo di industrializzazione, spesso coincidendo con la mobilità geografica dei soggetti interessati. Processi di questo genere non sono rilevanti solo quantitativamente: la provenienza sociale dei suoi membri ha importanti conseguenze sulle caratteristiche psicologiche e sociali di una classe, sul suo comportamento politico, ecc., come dimostrano ad esempio le ricerche sugli operai di origine agricola (v. Touraine e Ragazzi, 1961).
Il termine 'proletarizzazione' è stato spesso - in genere impropriamente - usato nella discussione teorica e nella ricerca empirica relativa alla 'nuova classe media' impiegatizia. Nel tentativo di "definire questo gruppo che non è un gruppo, questa classe che non è una classe, questo strato che non è uno strato" (v. Dahrendorf, 1957; tr. it., p. 101), lo si è di volta in volta considerato come estensione della classe dominante, come nuova classe, come insieme composito di frazioni di classi diverse, come parte del proletariato (o 'in via di proletarizzazione').
Alcune aporie caratteristiche delle teorie della proletarizzazione degli impiegati sono chiaramente visibili in un libro che ha esercitato un'influenza determinante negli anni settanta e ottanta. Secondo H. Braverman (v., 1974), gli impiegati della fase del capitalismo monopolistico sono qualcosa di totalmente diverso dai ristretti gruppi impiegatizi del secolo scorso. L'ufficio è tendenzialmente un luogo di lavoro manuale come la fabbrica, e già da tempo vi vengono applicate le regole dello scientific management; situazione di mercato e situazione di lavoro degli impiegati e degli operai si vanno progressivamente unificando. Il materiale empirico presentato è di una ricchezza e di un interesse che spiegano l'attrattiva esercitata dal libro, ma non bastano a fondarne la proposta teorica. Braverman oscilla tra il significato della proletarizzazione come processo e l'affermazione che gli impiegati sono stati sempre proletari; trascura settori fondamentali, come la pubblica amministrazione; concentra dichiaratamente l'attenzione sulle posizioni impiegatizie non qualificate. Soprattutto, la sua analisi è inserita in una più generale teoria della progressiva degradazione del lavoro, che può essere falsificata, in particolare, attraverso analisi multidimensionali della qualità del lavoro (v. Gallino, 1983).
Le ricerche più recenti e più autorevoli sul lavoro industriale (v. Kern e Schumann, 1984), e in particolare sul lavoro impiegatizio (v. Baethge e Oberbeck, 1986), mostrano l'esistenza di importanti processi di riqualificazione legati all'introduzione di nuove tecnologie. Queste ultime producono anche effetti negativi, come l'aumento dello stress e l'intensificazione del controllo, effetti peraltro comuni a operai e impiegati. Questo tipo di attenuazione della distinzione tra lavoratori manuali e non manuali, se non conferma le tradizionali teorie della proletarizzazione (che ipotizzavano un comune e globale peggioramento della situazione di mercato e di lavoro) rende d'altro canto ancora più problematica la possibilità di utilizzare il concetto di 'classe media' per i lavoratori non manuali dell'industria. Il lavoro industriale si presenta sempre più come attività di elaborazione di informazioni, e gli 'impiegati' si collocano quindi lungo un continuum di compiti di diversa complessità e autonomia (v. Rieser, 1988).
Le strategie di flessibilità delle imprese e lo sviluppo delle tecnologie informatiche stanno inoltre rendendo più incerta, in questo campo, la linea di separazione tra lavoro dipendente e lavoro autonomo. I passaggi dall'uno all'altro sono più frequenti, e più spesso reversibili; il lavoratore autonomo ('consulente') si ritrova spesso in azienda a svolgere mansioni di routine in nulla diverse da quelle degli impiegati; il lavoratore dipendente può operare a domicilio su un terminale (ibid.).
Le teorie della proletarizzazione degli impiegati hanno in genere concentrato l'attenzione sulle trasformazioni strutturali (mercato e lavoro), deducendone proposizioni e previsioni relative alla coscienza sociale e al comportamento politico dei gruppi interessati. Le teorie dell'imborghesimento della classe operaia, popolari soprattutto nei primi anni sessanta, hanno invece prevalentemente concentrato l'attenzione sui valori e sugli stili di vita e di consumo, la cui evoluzione trasformerebbe gli operai in classe media. Gli indicatori strutturali di una trasformazione di questo genere erano così deboli che "non restava altra via, per sostenere la tesi dell'imborghesimento, che dimostrare l'avvenuta interiorizzazione, da parte operaia, dei valori della classe media, in una sorta di processo di socializzazione anticipatoria rispetto a dinamiche reali di evoluzione troppo lente" (v. Romagnoli, 1973, p. 16).
L'ipotesi di un progressivo imborghesimento della classe operaia 'opulenta' fu radicalmente confutata dai risultati di una nota ricerca sugli operai industriali inglesi. Gli autori pervennero alla conclusione che permanevano ambiti di esperienza sociale tipicamente operai; che gli operai non si sforzavano affatto di emulare comportamenti e stili di vita borghesi; che non si poteva parlare di assimilazione nella società borghese come tendenza in atto né come obiettivo desiderato (v. Goldthorpe e altri, 1969; tr. it., p. 311).
Altre ricerche, specialmente britanniche, sull'immagine della società e sulla valutazione della gerarchia delle occupazioni da parte degli operai, pervennero a risultati analoghi (v. Paci, 1969). È peraltro dimostrato che una parte degli operai si considerano membri della classe media, e che questa identificazione ha conseguenze importanti, in particolare sul comportamento elettorale (v. Runciman, 1966).
Il problema della mobilitazione politica delle classi medie, e della loro posizione negli schieramenti di classe, si pone in maniera drammatica nel periodo tra le due guerre mondiali, segnato dall'affermarsi di regimi fascisti in Europa. Dalla discussione politica e dalla riflessione scientifica - spesso strettamente intrecciate - sui rapporti tra classi medie e fascismo, sviluppatesi innanzitutto tra i marxisti, emergono con una certa chiarezza alcuni problemi centrali.
In primo luogo, quello della posizione delle classi medie negli schieramenti di classe che determinano l'affermarsi del fascismo, e della misura in cui il regime fascista tutela i loro interessi. Le interpretazioni vanno da quella che considera la piccola borghesia come attore principale nel processo di affermazione del regime a quella opposta, che considera le classi medie al completo servizio del grande capitale, da cui vengono strumentalizzate: la piccola borghesia fornisce la 'base di massa' e il personale politico necessario, ma resta solo uno strumento. Nel mezzo ci sono interpretazioni più articolate, che sottolineano gli aspetti contraddittori dell'alleanza tra piccola borghesia e grande capitale, e la misura in cui il fascismo, pur appoggiando essenzialmente gli interessi di quest'ultimo, dà agli interessi della piccola borghesia voce e spazio (v. Saccomani, 1977, cap. 2). La posizione secondo cui la piccola borghesia ha interessi oggettivamente contrastanti con quelli del grande capitale, e può perciò stabilire alleanze non occasionali con il movimento operaio, è fatta propria e sviluppata nel secondo dopoguerra soprattutto dal Partito Comunista Italiano (v. Togliatti, 1973).
Dalle analisi politiche più attente ai fatti, e dalla ricerca storiografica e sociologica, emerge peraltro chiaramente quanto possa esser fuorviante parlare genericamente di classe media, ceti medi, piccola borghesia, dato che le loro diverse componenti hanno una rilevanza e un ruolo assai differenti. La mobilitazione politica di destra coinvolge soprattutto la piccola borghesia impiegatizia e intellettuale, per l'effetto combinato delle difficoltà economiche e occupazionali e delle difficoltà psicologiche, derivanti dal ritorno alla 'vita mediocre' dopo l'esperienza della guerra compiuta in posizioni di comando (v. Romano, 1977, parte V).
Nel tentativo di spiegare le motivazioni della mobilitazione politica e dell'agire di classe della piccola borghesia (o meglio, di una parte di essa e delle sue organizzazioni) in questo periodo storico, si è attribuita grande importanza al suo impoverimento, sottolineando il fatto che attivi nell'appoggio al movimento fascista furono soprattutto piccoli borghesi 'spostati', rovinati e simili. Il peggioramento assoluto della situazione della piccola borghesia nel periodo postbellico è però assai meno rilevante del suo peggioramento relativo, e degli acuti sentimenti di privazione relativa suscitati dal confronto (non sempre empiricamente fondato) con gli operai, come mostrano le poche ricerche sociologiche su questo tema (v. Barbagli, 1974, cap. 5).
Sempre ai fini della spiegazione dell'agire di classe, una certa attenzione è stata riservata alle ideologie, caratteristiche della piccola borghesia, atte a promuovere il consenso nei confronti dei regimi autoritari e fascisti. Tali ideologie hanno spesso radici assai lontane nel tempo: per sottolinearne alcuni elementi comuni con il liberalismo classico (avversione per la grande impresa, per il sindacato, per l'intervento statale), che diventano reazionari ed eversivi nella moderna società industriale, è stata coniata la categoria di "estremismo di centro" (v. Lipset, 1960) e, in campo marxista, quella di "anticapitalismo reazionario" (v. Guérin, 1936).Esiste infine un filone di ricerca, iniziato negli anni trenta, che ha studiato le radici del consenso al fascismo della piccola borghesia attraverso l'analisi, condotta utilizzando categorie psicanalitiche, delle strutture familiari e dei processi di socializzazione primaria che danno luogo alla formazione di personalità 'potenzialmente fasciste' (v. Saccomani, 1977, cap. 3). Il concetto di 'personalità autoritaria' viene elaborato nella più celebre e influente di queste ricerche, peraltro assai criticata dal punto di vista metodologico: il problema di partenza è appunto quello dell'individuazione delle strutture della personalità che determinano nei confronti del fascismo non "sottomissione atterrita" ma "collaborazione attiva" (v. Adorno e altri, 1950).
Negli anni settanta, un contributo decisivo alla comprensione dei rapporti tra classi medie e fascismo è venuto da indagini comparative. In particolare, le ricerche di Kocka sugli impiegati hanno messo definitivamente in crisi l'idea che i loro atteggiamenti e comportamenti politici possano essere dedotti dalla loro posizione nell'organizzazione del lavoro e dalle loro vicende economiche. Esposti a mutamenti abbastanza simili nell'organizzazione del lavoro e a una stessa crisi economica, gli impiegati americani e tedeschi hanno infatti reagito in maniera radicalmente diversa per quanto riguarda l'appoggio fornito a movimenti autoritari e fascisti. La spiegazione viene ricercata da Kocka in una complessa combinazione di fattori politici e culturali: il significato della distinzione tra 'manuali' e 'non manuali', le caratteristiche del movimento operaio, i tassi di mobilità, la presenza o meno di divisioni etniche e di valori e tradizioni precapitalistici (v. Kocka, 1977).
Il lavoro di Kocka, oltre che per il suo significato teorico, è importante come contributo alla storia sociale degli impiegati. Tanto più importante in quanto il fatto che la riflessione sulla mobilitazione politica delle classi medie si sia a lungo concentrata sugli eventi drammatici e sulle crisi che hanno accompagnato l'affermarsi di regimi fascisti, se da una parte ha contribuito a evidenziarne alcuni aspetti fondamentali, dall'altra ha forse distolto l'attenzione scientifica da aspetti più quotidiani e istituzionalizzati dell'agire di queste classi. Esiste peraltro tra i sociologi e gli studiosi di relazioni industriali una tradizione di ricerca sui processi di sindacalizzazione dei 'colletti bianchi' o 'giacche nere', che ha prodotto da tempo opere rilevanti (v. Lockwood, 1958), mentre più recente è l'attenzione per i gruppi d'interesse delle classi medie tradizionali.
Le ricerche sulle classi medie, ormai troppo numerose e disparate perché si possa pensare di darne conto nei limiti assegnati a questo articolo, continuano ad avere molto spesso in comune il fatto di essere originate dall'intenzione di spiegarne e prevederne il comportamento politico. Ciò non vale solo per quelle di ispirazione weberiana, o comunque teoricamente attente alla formazione e al comportamento degli attori sociali. Anche nella recente produzione marxista, in cui le preoccupazioni di ordine classificatorio e tassonomico appaiono spesso soverchianti, classificazioni e tassonomie vengono utilizzate come strumenti per la comprensione del comportamento nei conflitti di classe.
La crescente attenzione scientifica per i gruppi sociali intesi come attori, assieme all'erosione di alcuni dei tradizionali criteri strutturali in base ai quali le classi medie venivano definite, evidenziano la crescente difficoltà di utilizzare il concetto di 'classi medie' nella ricerca empirica. D'altro canto, ammesso che parlare di classi medie abbia ancora senso, sembra difficile negare che buona parte dei loro comportamenti risultino pressoché inspiegabili se non si tiene conto della collocazione di queste classi nella divisione sociale del lavoro e dei mutamenti nei processi di produzione e di distribuzione. I risultati in genere fuorvianti delle teorie della proletarizzazione e dell'imborghesimento non devono far dimenticare i problemi che esse hanno cercato senza successo di spiegare.
Per orientarsi in un campo ormai difficilmente definibile nei termini tradizionali, sembrano mantenere o accrescere la loro rilevanza alcuni concetti e alcune teorie di 'medio raggio'.In primo luogo, la teoria già illustrata delle 'strategie di chiusura' (v. cap. 4). È proprio l'analisi dell'agire di classe che evidenzia la fecondità di questo concetto weberiano. La formazione di identità collettive e l'azione collettiva di gruppi di classe media sono regolarmente avvenute contro altri gruppi; strategie di esclusione sono state regolarmente usate ogni volta che la situazione sembrava consentire qualche appiglio in questa direzione; forme di sindacalizzazione di tipo operaio ricorrono invece quando il gruppo sociale in questione appare troppo vasto e i suoi membri troppo deboli in termini di capacità di mercato per consentire strategie di esclusione (buona parte della letteratura sulla sindacalizzazione dei colletti bianchi può esser letta in questa chiave).
La possibilità di individuare le classi in termini relazionali, invece che come soggetti dati una volta per tutte, sembra particolarmente utile alla luce delle difficoltà che la delimitazione delle classi medie non cessa di porre (come quella relativa alla distinzione manuale/non manuale nell'industria).
La teoria dei gruppi di riferimento e della privazione relativa ha dato ripetutamente buona prova nell'analisi degli atteggiamenti e dei comportamenti delle classi medie, a determinare i quali è spesso risultata decisiva la frustrazione nascente dal confronto con altri gruppi. Questo strumento concettuale si è rivelato abbastanza agile da consentire analisi assai articolate e disaggregate senza perdere di vista la dimensione propriamente di classe: "Qualunque persona ha una molteplicità di gruppi di riferimento: di appartenenza, comparativi e normativi. Non solo questi possono variare da argomento ad argomento, ma anche sullo stesso argomento possono in teoria cambiare da un momento all'altro. Sui grandi problemi dell'eguaglianza sociale le privazioni relative comuni a un gruppo o a una classe saranno però abbastanza coerenti" (v. Runciman, 1966; tr. it., p. 24).
Rispetto alla teoria che spiega il comportamento politico con l'esistenza di una incongruenza di status, con lo stress che ne deriva e con il tentativo di riequilibrare lo status al livello più elevato (v. Giampaglia e Ragone, 1981), la teoria della privazione relativa presenta il vantaggio di una maggior attenzione al contesto culturale, resa possibile dall'individuazione non solo dei gruppi di riferimento comparativi (quelli che posseggono il bene di cui ci si considera privi), ma anche di quelli 'normativi' (da cui la persona trae i suoi criteri di giudizio) e 'di appartenenza' (quello in cui la persona si colloca ai fini del confronto). Non è detto infatti che sempre si cerchi di ridurre l'incongruenza di status: in certe culture, ad esempio, non si ritiene che la ricchezza dia diritto all'influenza politica (v. Pichierri, 1972).
Infine, alcune importanti ricerche sui gruppi d'interesse nell'Europa occidentale hanno mostrato, proprio a proposito delle classi medie, che la formazione di identità collettive è il risultato di un complesso processo di interazione tra divisione sociale del lavoro e organizzazioni di rappresentanza degli interessi. I gruppi d'interesse "sono manifestazioni di modelli di classe e di gruppo, ma retroagiscono anche su tali modelli consolidandoli e talvolta determinandone la ridefinizione. I gruppi d'interesse servono inoltre come veicoli per la trasmissione degli interventi governativi i quali, più o meno intenzionalmente, contribuiscono a modellare il sistema di classi e di gruppi sia al momento del suo emergere che nelle sue trasformazioni successive" (v. Kocka, 1981; tr. it., pp. 130-131). Il concetto di gruppo d'interesse offre, rispetto a quello di classe, il vantaggio di stabilire con molto maggiore immediatezza i nessi tra interessi e comportamenti (v. Gallino, Gruppo d'interesse, 1978) e costituisce quindi un altro dei possibili strumenti analitici da utilizzare per una ridefinizione del campo d'indagine sempre meno adeguatamente coperto dall'etichetta di 'classi medie'. (V. anche Artigiani; Borghesia; Classi e stratificazione sociale; Dirigenti; Impiegati e funzionari; Tecnici).
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