Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La teoria delle élites, elaborata alla fine dell’Ottocento da Gaetano Mosca e sviluppata da Vilfredo Pareto e dal tedesco Robert Michels, postula, contro le dottrine politiche socialiste e liberali, l’esistenza di una struttura oligarchica all’interno di tutte le strutture politiche e l’ineluttabilità del dominio delle minoranze organizzate e considerate come dotate di qualità superiori sulle maggioranze. Tale teoria acquisisce un ruolo significativo per lo sviluppo dei metodi delle scienze politiche e sociali fin dal Novecento.
Una teoria tra Ottocento e Novecento
Emersa sul finire dell’Ottocento, la cosiddetta teoria delle élites ottiene una certa risonanza nel dibattito scientifico e pubblico per poi giungere a imporsi in modo rilevante nel secolo successivo. Secondo tale teoria, l’analisi scientifica di tutte le società rivela un fenomeno fondamentale per quanto generalmente ignorato o giustificato ideologicamente: entro ogni società, una minoranza, comunemente assai piccola ma organizzata, esercita il proprio dominio sul resto della popolazione, derivando dalla subordinazione di questa m tutti i privilegi di cui gode. La teoria viene espressamente formulata per la prima volta nel 1896 a proposito dei rapporti politici – con riferimento ad autori del passato, a partire da Machiavelli – da uno studioso italiano: Gaetano Mosca nei suoi Elementi di scienza politica (1896). In seguito, essa viene variamente ampliata e elaborata da un altro italiano, l’economista Vilfredo Pareto e da Robert Michels, studioso tedesco a lungo attivo in Italia.
Gli elitisti sono accomunati dall’intento di rivelare una realtà “effettuale” (per riprendere un’espressione di Machiavelli), che la stessa minoranza dominante nasconde e giustifica nel nome di principi e valori che evocano il consenso anche della maggioranza dominata. Si impegnano particolarmente nella critica di due ideologie contemporanee. Per la prima, le istituzioni liberal-democratiche (a cominciare dalla rappresentanza parlamentare) escludono che anche in società moderne abbia luogo il dominio della minoranza sulla maggioranza. L’ideologia socialista a sua volta critica quella liberale, ma argomenta che la vittoriosa lotta della classe operaia contro l’ordine esistente ne produrrà uno nuovo, caratterizzato dall’eguaglianza universale e privato da ogni rapporto di dominio.
Lo scetticismo degli elitisti nei confronti di tali teorie politiche deve essere inquadrato nell’ambito delle trasformazioni del contesto europeo alla fine dell’Ottocento. La rapida diffusione delle idee socialiste tra le masse urbanizzate di operai industriali, divenute sempre più numerose e organizzate, l’allargamento del suffragio e la crescita del capitalismo internazionale conducono a un’esacerbata conflittualità politica in Europa. Le basi su cui si fonda lo stato liberale e le monarchie ottocentesche si sgretolano. L’emergere delle masse come protagoniste della vita politica provoca un radicale cambiamento nell’equilibrio delle istituzioni. Da allora la politica si svolge prevalentemente fuori dai parlamenti: nelle piazze dove si radunano le masse, nelle fabbriche dove si organizzano gli scioperi e le serrate, e nelle organizzazioni di partito, in cui vengono selezionati i leader e i temi per le campagne politiche.
Gli elitisti italiani, il liberale Gaetano Mosca e il liberista e poi fascista Vilfredo Pareto, risentono del clima di crisi che serpeggia nell’Italia di fine secolo: essi condividono un sentimento di scetticismo riguardo sia alla democrazia, sia al socialismo. Al contrario l’elaborazione teorica di Robert Michels (1876-1936) emerge dal terreno della militanza e poi della delusione politica all’interno del Partito socialista europeo più forte e organizzato: il Partito Social Democratico tedesco (SPD).
La teoria delle élites ha avuto e ha un ruolo fondamentale nelle scienze politologiche sia da un punto di vista metodologico, sia nell’ambito della critica delle ideologie. Sono notevoli gli spunti che essa ha fornito agli studi della scienza politica e della sociologia delle organizzazioni. Inoltre, secondo Bobbio, essa “contribuisce tuttora a scoprire e mettere a nudo la finzione della ‘democrazia manipolata’” (N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, Novara, De Agostini, 2006, Vol. 1, p. 650).
Gaetano Mosca e la classe di governo
La teoria della classe di governo è esplicitamente fondata da Gaetano Mosca nel 1896 sull’osservazione che “fra le tendenze e i fatti costanti, che si trovano in tutti gli organismi politici, uno ve n’è la cui evidenza può essere facilmente a tutti manifesta: in tutte le società [… ] esistono due classi di persone: quella dei governati e quella dei governanti” (Elementi di scienza politica, Bari, Laterza, 1953, Vol. 1, p. 78). La ragione del dominio dei pochi sulle maggioranze risiede nella loro capacità di organizzazione e cioè nell’abilità di formare un gruppo che sia più o meno internamente coeso.
Mosca distingue nettamente il suo approccio scientifico realistico da quello proprio delle teorie e ideologie a lui contemporanee, In altre parole decreta l’inadeguatezza delle dottrine politiche democratiche e socialiste e delle teorizzazioni sulle forme di governo a descrivere i modi effettivi di esercizio del potere, e cioè a descrivere la struttura oligarchica di qualsiasi sistema politico. I precursori di tale approccio sono indicati esclusivamente in Machiavelli, Saint-Simon, Comte, Marx ed Engels e Hyppolite Taine.
Mosca definisce generalmente il principio organizzativo come il criterio decisivo per la costituzione della classe politica e per il suo dominio, ma non chiarisce le relazioni di potere fra i diversi ambiti di azione, e cioè fra l’economia, la politica e la cultura. L’organizzazione è pertanto un principio interno che regola la costituzione della classe politica, mentre il modo in cui essa esercita il suo potere “all’esterno” è individuato nell’elaborazione delle “formule politiche”. Queste ultime legittimano la classe dominante, permettendole di economizzare l’uso della forza e far leva sul consenso della maggioranza. Le formule politiche non sono, però, mere mistificazioni, ma rispondono a un bisogno insito nell’uomo ed esprimono i valori fondamentali su cui si basa la società.
Mosca, malgrado la sua idea dell’ineluttabilità del principio oligarchico, prende sul serio la distinzione tra classi politiche autocratiche, legittimate dal principio secondo cui il potere procede dall’alto della società e chiuse, e classi politiche liberali, legittimate dal basso e relativamente aperte. Queste ultime sono proprie degli assetti e processi politici moderni e li rendono ampiamente preferibili come risposta al problema del reclutamento dell’élite dominante. Tale valutazione, tuttavia, non contraddice la tesi centrale del pensiero elitista. La classificazione di vari regimi in base alla loro apertura permette al liberale Mosca di sottrarsi a una concezione esclusivamente pessimistica del governo liberale e di reinserire nel suo modello teorico una differenziazione più articolata per descrivere i modi di esercizio del potere.
Pareto e l’elitismo
L’uso del termine élite risale a Vilfredo Pareto, che alcuni anni dopo la pubblicazione degli Elementi di scienza politica di Mosca pubblica Systèmes socialistes (1902). Inizialmente Pareto non ambisce a elaborare un’analisi del potere politico come quella di Mosca: il suo campo di interesse primario è quello economico. Due questioni, tuttavia, lo conducono allo studio politologico, anzi più in generale alla sociologia: l’impossibilità di spiegare a partire dal modello di azione economica razionale in primo luogo i comportamenti sociali in generale e, in secondo luogo, la distribuzione ineguale del potere tra i gruppi in particolare. Pareto affronta la prima questione separando le azioni razionali da quelle non-razionali; la seconda elaborando la sua teoria delle élites.
La questione dell’irrazionalità dell’agire era un tema di moda nei primi anni del Novecento: oltre all’emergente psicanalisi di Sigmund Freud, le teorie di Gustave Le Bon, George Sorel e prima di loro Marx e Nietzsche rivelavano il ruolo delle emozioni e dell’irrazionalità nella politica. Anche l’economista Pareto si confronta con i limiti della teoria razionale dell’agire e li supera, categorizzando i comportamenti irrazionali come devianti rispetto al modello economico, ma, al contempo, riconoscendo loro una enorme importanza negli effettivi processi sociali.
Pareto dedica il suo pensiero non più di economista ma di sociologo al compito (d’ispirazione illuministica) di elaborare un’analisi “razionale” della componente dell’agire umano rappresentata dalle azioni irrazionali, che non sono orientate da conoscenze simili a quelle proprie delle scienze logico-sperimentali. Le azioni irrazionali generalmente esprimono una visione fallace del rapporto tra i mezzi e i fini dell’agire, anche se generalmente gli uomini le giustificano e le rielaborano tramite ragionamenti più o meno espliciti – che Pareto chiama “derivazioni”. Le derivazioni sono estremamente variate, ma una loro analisi permette di individuare, dietro quella varietà, alcune classi di “residui” che costituiscono invece i moventi autentici (anche se spesso non consapevoli o confessati) dell’agire. In particolare, due residui in deciso contrasto l’uno con l’altro, denominati da Pareto rispettivamente “residuo della conservazione degli aggregati” e “residuo delle combinazioni”, servono a trattare la questione di come si acquisisce e si mantiene il potere da parte dell’élite. A differenza di Mosca, tuttavia, Pareto esplora questo fenomeno non solo nell’ambito per quanto importante del potere politico, ma più in generale dalla marcata e inevitabile diseguaglianza che caratterizza tutti gli ambiti sociali significativi, tra la minoranza dominante costituita dalle élite dalla maggioranza dominata. L’esercizio del potere è, in altre parole, fondato sullo sfruttamento di sentimenti e atteggiamenti irrazionali – magici, rituali, non logici – da parte di minoranze dotate di abilità superiori.
A tal proposito la teoria di Pareto si discosta da quella della classe politica di Mosca. Nella concezione antropologica da cui prende avvio la teoria paretiana, la diversità degli individui non è data dalla loro organizzazione, ma da un dato naturale che si rispecchia nella loro posizione sociale. In tutti i campi e in tutte le situazioni storiche esistono, allora, gerarchie sociali al vertice delle quali stanno le élite, cioè coloro che dimostrano, attraverso il loro successo, le loro superiori capacità nei rispettivi campi di attività. È anche per questo che generalmente si forma una distinzione fra élite le politiche, quelle economiche e quelle intellettuali. Le élite governanti, inoltre, si distinguono in volpi e leoni, a seconda che utilizzino il consenso o la forza per esercitare il potere.
Benché il dominio dei pochi sui molti sia una realtà politica immodificabile, le élites devono rinnovarsi per poter conservare il potere. La regola della “circolazione delle élites”, secondo cui le classi elette devono alternarsi o modificarsi internamente ammettendo l’ingresso di elementi delle classi dominate, permette alla società di mantenere un equilibrio dinamico e di non andare incontro a un processo di decadenza. Questo principio svolge un ruolo centrale nell’intera dinamica storica; secondo Pareto, infatti, la storia tutta intera può essere considerata come un “cimitero di aristocrazie”.
Michels e l’analisi delle organizzazioni complesse
Robert Michels rielabora in modo originale la teoria della classe politica di Mosca conducendo uno studio empirico esemplare sulle strutture organizzative di partiti e sindacati, nonchè (come risulta da molteplici studi successivi) su altre organizzazioni “volontarie”. Amico e allievo di Max Weber, con cui scambia una fitta corrispondenza, egli rivela i meccanismi che trasformano qualsiasi organizzazione in una macchina burocratica al servizio delle finalità del gruppo dirigente. Per testare la sua ipotesi, secondo cui l’organizzazione crea fatalmente l’oligarchia – la cosiddetta “legge ferrea dell’oligarchia” –, lo studioso di Colonia analizza uno dei più famosi e grandi partiti socialdemocratici europei, la SPD tedesca. È significativa la sua scelta, sia perché Michels all’inizio della sua carriera, è un attivo militante di quel partito, sia per la dottrina egualitaria che caratterizza l’SPD.
Nella sua Sociologia del partito politico (1911) Michels dimostra la sua tesi secondo la quale “chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia” (R. Michels, La sociologia del partito politico, Bologna, Il Mulino, 1966, p. 56), indicando le ragioni di questo complesso fenomeno e delineando le fasi del processo in cui avvengono l’instaurazione e il consolidamento dell’élite dirigente. La necessità di ricorrere all’organizzazione, insieme con la particolare “psicologia delle masse” e la psicologia dei leaders politici, determina il processo di trasformazione del partito in una struttura verticistica, nella quale pochi comandano sulla maggioranza. L’organizzazione muta la sua funzione solo gradualmente.
Burocratizzazione del processo
Nella prima fase la canalizzazione e definizione degli interessi degli elettori dà origine alla formazione di un’élite interna, la quale, in un secondo momento, si articola selezionando un corpo più o meno ampio di personale amministrativo, e assegnandogli compiti e risorse che progressivamente lo distingue dai politici eletti dalla base. Questo processo di burocratizzazione e la formazione di un gruppo dirigente inamovibile, che “si appropria” della delega conferita dagli elettori e gestisce le risorse materiali e simboliche del partito, conducono alla terza fase della trasformazione. In essa il gruppo dirigente si isola dagli elettori e conduce il partito a deviare dai propri scopi “sostituzione dei fini”: a questo punto l’effettiva finalità del SPD (per quanto mascherata dal richiamo retorico al suo messaggio ideologico) è la realizzazione non più degli interessi dei suoi membri, bensì di quelli dell’élite gelosa del proprio potere. In questo modo “l’organizzazione, da mezzo per raggiungere uno scopo, diviene fine a se stessa. L’organo finisce per prevalere sull’organismo [...] Suprema legge del partito diviene la tendenza a eliminare tutto ciò che potrebbe fermare il meccanismo e minacciare così la sua forma esteriore, l’organizzazione” (R. Michels, Potere e oligarchie. Antologia 1900-1910, a cura di E. A. Albertoni, Milano, Giuffrè, 1989, p. 495). Insomma, anche un partito rivoluzionario e fondato idealmente sulla partecipazione dei militanti si trasforma in una grande macchina burocratica, il cui scopo è la conservazione e l’accrescimento del potere del suo gruppo dominante.