Classici
"Canzone, io t'ammonisco
che tua ragion cortesemente dica"
(Francesco Petrarca, Canzoniere)
I classici oggi
di Giulio Ferroni
8 maggio
Si inaugura ai Musei Civici agli Eremitani di Padova la mostra Petrarca e il suo tempo, allestita nell'ambito delle manifestazioni celebrative del settimo centenario della nascita del poeta. Attraverso un'ampia raccolta di documenti, codici e opere d'arte, l'esposizione, al pari dei numerosi altri eventi nei quali si articola in Italia e all'estero il ricco programma delle celebrazioni, propone una riflessione su quale significato Petrarca e gli altri autori classici continuino a rivestire nella cultura contemporanea, che in essi affonda le sue radici.
Incertezza del termine
È un fatto risaputo che i radicali mutamenti della comunicazione che si sono svolti, con accelerazione in costante aumento, nel corso del 20° secolo hanno prodotto un allontanamento dai modelli letterari, dal tradizionale rapporto educativo e formativo con la letteratura, dal rilievo dei 'classici' nel sistema culturale. In molti paesi occidentali lo studio della letteratura nella scuola è stato ridimensionato e ridotto ai minimi termini; e dove esso continua a essere comunque imposto dai programmi ufficiali, come in Italia, si è impoverito de facto, spesso evaporando nell'indifferenza e scontrandosi con l'ostilità dei ragazzi, con la schematicità delle formule manualistiche, con l'aridità di certi esercizi strutturali e interpretativi. La televisione e la pubblicità offrono modelli di vita e comportamentali rivolti al consumo esasperato del presente, al culto dell'apparenza e della performance, all'assillo della sorpresa e della trasgressione: il dominio della velocità e della virtualità rende impraticabile il lento e meditato confronto con la densità delle pagine scritte, con il loro procedere lungo e avvolgente; in tal modo si prospetta l'orizzonte di una conoscenza intuitiva e plurale che può tranquillamente fare a meno dell'identificazione di valori problematici. Siamo entrati o stiamo entrando in quella 'terza fase' (come l'ha chiamata Raffaele Simone), in cui certo si continuerà a leggere, ma secondo gli schemi prestabiliti dal computer e da Internet, in una evanescente aleatorietà della parola, in una continua intercambiabilità delle forme testuali e visive, con passaggi e intersezioni che ci inviteranno in misura crescente a una navigazione di superficie rendendo difficili quelle discese in profondità che la grande letteratura sembra arrogantemente pretendere (di questo interminabile passare da una cosa all'altra è tecnica esemplare quella dell'ipertesto, che non a caso, anche nelle esercitazioni scolastiche, viene sempre più a occupare il campo degli studi letterari e linguistici).
I 'classici' sono in effetti espunti dalla comunicazione corrente, dalla circolazione dell'esperienza quotidiana, anche se i media e perfino la pubblicità sembrano a tratti manifestare una grande attenzione nei loro confronti. Non mancano eventi sui classici e letture pubbliche di classici che, grazie a una valida attività promozionale, sollecitano un appassionato concorrere di spettatori: e peraltro è assai più facile che in passato trovare classici in edizioni economiche e ben fatte (anche distribuite in edicola per iniziativa dei quotidiani). Questo parziale successo pubblico può in effetti trarre in inganno: piuttosto che la reale presenza dei classici nella coscienza comune esso mostra come questi siano percepiti ormai solo come segni esteriori di identità e di distinzione, effimeri segnali occasionali di riconoscimento culturale (così Salvatore Settis, in Futuro del classico, Torino, Einaudi, 2004, riferendosi all'antichità classica ha notato che oggi "quanto è etichettabile come 'classico' si presta in modo speciale a un diffuso uso occasionale").
La parola 'classico', sia come aggettivo sia come sostantivo, continua a circolare variamente e spesso si trova a designare molte scorie della più ovvia comunicazione corrente, del più eterogeneo consumo quotidiano. Nella lingua corrente praticamente tutto può aspirare alla qualifica di 'classico', come peraltro tutto può qualificarsi come 'mitico'. Classico può essere tutto ciò che, facendo parte della nostra vita presente, viene comunque da un tempo precedente, anche se abbastanza vicino; o che si impone con una certa persistenza sulla scena pubblica e sul mercato: un film di pochi anni fa, un qualunque successo musicale di ieri, o addirittura una canzone che domina l'hit parade di oggi. Ci sono corse classiche (chiamate semplicemente con l'aggettivo sostantivato 'le classiche') e squadre classiche, canzoni e cantanti classici (lasciando da parte il dominio speciale della musica detta classica), trasmissioni televisive classiche e spot pubblicitari classici, fogge di vestimenti classiche (anche se trasgressive e alternative) e stili classici nella moda e nella cucina, ecc. Nella sua nebulosa pervasività la parola 'classico' tende ad assumere un rilievo e un'estensione di significati che per l'appunto si avvicinano abbastanza a quelli dell'inflazionato 'mitico'.
Questa attuale diffusione e indeterminatezza della parola 'classico' non è che il risvolto subalterno e banalizzato della varietà e ambiguità di significati del 'classico' nello stesso linguaggio culturale tradizionale e nello stesso nostro modo di riferirci ai classici della letteratura. È noto - come spiega Aulo Gellio (Noctes Atticae, VI, 13) - che il termine designasse in Roma coloro che appartenevano alla classis più alta, dotati di un censo da 125.000 assi in su, in opposizione ai proletarii privi di censo e provvisti solo di prole, e che la prima attestazione del suo uso per la letteratura sia data da un passo di Frontone citato dallo stesso Aulo Gellio (XIX, 8, 15): la nozione di classico comporta subito all'origine il riferimento a un 'canone', a una scelta di scrittori eccellenti, di prima classe, da studiare nelle scuole.
Nelle lingue moderne 'classico' apparve nel corso del 16° secolo, prima nel francese classique e poi in italiano, senza preciso riferimento a un canone particolare, ma in modo indeterminato, per designare genericamente oggetti degni di essere considerati di riconosciuto valore ed eventualmente da imitare. Se già Bernardo Segni nel 1581 parla di "autori classichi o toscani", e Giambattista Marino ne La Sampogna (Lettera 4), accenna alla critica che il poeta satirico Lucilio rivolge ad "Euripide, Accio, Ennio, Pacuvio et altri poeti classici del primo secolo", è solo nel 18° secolo che si viene attestando un uso del termine rivolto a indicare in blocco l'orizzonte artistico, culturale, storico dell'antichità greca e latina: il classico e la classicità si proiettano in modo più nettamente definito nel passato in cui si collocano i fondamenti della civiltà occidentale.
Il neoclassicismo riconosce nell'arte classica un modello di idealità, di purezza e naturalezza, avvertendone nel contempo tutta la distanza dal presente: e mentre si intrecciano variamente o entrano in conflitto tra loro i propositi di fedeltà alla tradizione classica e i richiami della modernità (che nel nostro paese trovano un momento particolarmente acuto nella polemica classico-romantica che si scatena a partire dal 1816), nell'uso si impone il richiamo determinante all'antichità classica, sostenuto e amplificato dall'organizzazione degli studi classici, da un'articolazione degli insegnamenti e dei quadri disciplinari umanistici che prevede materie rivolte allo studio della cultura greco-romana (filologia classica, archeologia classica ecc.).
Si ha poi un'immediata estensione del termine 'classico' a indicare quei momenti della storia culturale che hanno avuto come punto di forza il rapporto con il mondo antico (come il Rinascimento italiano) o sono stati espressione di società giunte al massimo grado di fioritura sociale, economica, politica (così âge classique viene chiamata quella della Francia di Luigi XIV).
Con un passo ulteriore il termine è stato esteso a tutte quelle esperienze culturali che si pongono con una forza e un valore modellizzanti, di cui si afferma la coerenza e la validità, da cui sembra si possa estrarre un'esperienza essenziale e determinante. E ormai i classici non sono più soltanto gli antichi, né soltanto coloro che in un modo o nell'altro mirano a far risorgere l'antico: in letteratura vengono man mano indicati come classici tutti gli autori considerati degni di essere letti al di là dei limiti del loro tempo, tutte le opere ritenute costitutive di identità culturale, che dovrebbero 'restare' nel patrimonio dell'umanità e che dagli orizzonti più diversi, lontani o vicini, possono offrire qualcosa di non trascurabile alla nostra esperienza. Per noi ormai, e per il corrente linguaggio culturale, sono classici tutti gli scrittori che stanno su un gradino più elevato, che meritano una superiore visibilità. Capita che vengano indicati come classici tutti gli scrittori che costituiscono il corpus della tradizione letteraria: tutti gli scrittori del passato, tutti quelli che stanno o meritano di stare nelle collane dei classici, tutti quelli che vengono sottoposti alle ricerche dei critici, dei filologi, degli storici; ma anche alcuni scrittori contemporanei e perfino viventi, tutti coloro il cui interesse e valore ci sembri già fin d'ora sicuro e duraturo. In fondo, in questo modo, anche sul piano del linguaggio colto, 'classico' finisce per annegare in un'indeterminatezza simile a quella delle accezioni più banali e correnti.
Classico e anticlassico
Ogni riferimento al classico, comunque lo si intenda, fa affacciare subito il fantasma del 'classicismo', di una prospettiva culturale rivolta alla diretta ripresa dei modelli classici, segnata dalla ricerca di perfezione, di equilibrio, di stabilità e di armonia, tesa ad allontanare avventure sperimentali e a filtrare la realtà, espungendo gli aspetti inquietanti e laceranti. Il classicismo percorre in effetti tutta la storia della nostra cultura, portandovi un'esigenza di chiarezza, nitidezza, razionalità espressiva, a cui fa da corrispettivo l'eliminazione dal linguaggio di elementi grezzi, realistici, informi. Il culto classicistico della forma, che risale indietro fino ai grandi classici dell'antichità, mira spesso a farsi espressione di società compiaciute di sé stesse, sicure dei loro modelli di vita, che aspirano a sottrarsi al flusso disgregatore del tempo: società rivolte verso un orizzonte 'imperiale', che in qualche modo riproduca e rilanci nel presente quello della Roma di Augusto (con il rilievo dei suoi classici più grandi e universali, Virgilio e Orazio). In tutta la storia della letteratura occidentale si suole scorgere, del resto, un conflitto sempre riproposto tra classicismo e anticlassicismo, tra propositi di costruzione, di rigore razionale, di equilibrio formale, e propositi di negazione, di rottura, di disintegrazione della forma. E in particolare la dialettica delle avanguardie novecentesche può essere ricondotta al riproporsi dell'eterna lotta senza scampo contro ogni sorta di classicismo, della ricerca esasperata di 'avventure' in contrasto con l'opposta pretesa di costruire e fissare un 'ordine' perfetto e incrollabile.
Se però le cose si guardano più da vicino, ci si accorge subito che non sempre il classicismo corrisponde al punto di vista di una società costituita, all'esigenza egemonica di classi sociali abbarbicate al loro dominio sull'insieme sociale: il classicismo può assumere anche valori alternativi, può rivolgersi a contestare il disordine negativo del mondo, può cercare un'idealità utopica; l'assolutezza della forma può essere strumento di una ragione demistificatrice, opposta alla perversa irrazionalità del mondo e dei poteri costituiti. La dialettica storica tra classicismo e anticlassicismo è insomma complessa e contraddittoria: ed è bene diffidare di troppo sicure e disinvolte attribuzioni di valori ideologici predefiniti a una o all'altra delle due linee, che in realtà si trovano intrecciate e sovrapposte molto più spesso di quanto comunemente non si pensi. Ci sono tanti diversi classicismi, che tra l'altro possono fare riferimento a classici tra loro molto diversi: e ci può essere chi si trova ad arruolare tra i modelli classici qualche 'classico' che da qualcun altro viene invece considerato 'anticlassico'. Si può sentir parlare legittimamente di classici dell'anticlassicismo. Classicismo o no, tutti gli autori di valore, anche quelli che hanno combattuto contro i canoni dell'equilibrio e della razionalità, che si sono scagliati contro la tradizione, possono alla fine essere accolti tra i classici, riconosciuti addirittura come modelli, dato che la loro ricchezza, coerenza e complessità suggeriscono sempre dei mondi umani possibili. Da ogni grande esito artistico e linguistico, sia che si immerga fino in fondo nella realtà esterna, sia che resti tutto chiuso nel proprio spazio strutturale e formale, sprigionano sempre delle integrali immagini di vita.
Variabilità del canone
Abbiamo visto che fin dall'antichità l'individuazione degli scrittori classici presuppone la definizione di un canone: scrittori di prima classe sono quelli che vanno letti nelle scuole o che comunque il sistema culturale considera irrinunciabili. Tutte le culture e tutti i programmi educativi hanno definito dei canoni, più o meno espliciti: e la questione del canone è quella in cui più direttamente si misura la convergenza tra la scuola e l'insieme culturale. I canoni sono ovviamente variabili e si sono modificati più volte, secondo le esigenze e le ideologie delle diverse società: e non è un caso se oggi, nell'inquietudine che percorre le società occidentali, nel continuo vacillare di certezze e di punti di riferimento sicuri, la questione del canone si trova all'ordine del giorno.
Con particolare asprezza e in forme davvero estreme una vera e propria guerra di canoni ha luogo negli Stati Uniti d'America: una guerra che non riguarda soltanto una semplice modificazione del catalogo degli autori irrinunciabili, ma mette in questione l'intero sistema della cultura umanistica e della tradizione letteraria; non è in pericolo questo o quell'autore, ma tutta la letteratura occidentale, tutta l'eredità del passato letterario. L'affermazione del valore delle culture e dei modi di vita 'altri', emarginati e repressi nella lunga storia dell'Occidente, conduce al rifiuto dello studio dei grandi autori del passato, bollati tutti come dead white males: e si tende a sostituirlo con lo studio di linee e tendenze alternative, con la storia delle minoranze etniche e sessuali, con indagini delle forme più varie della cultura di massa contemporanea, del presente anche più degradato, ma 'popolare' e politically correct. È l'ampio universo dei cultural studies, che imperversa nelle facoltà umanistiche americane: quando non esclude direttamente la letteratura, mira a sottoporne la storia a punti di vista alternativi, recuperando testimonianze delle culture emarginate e represse, scritture del sottosuolo; da questo punto di vista gli stessi classici vengono letti e studiati solo per 'decostruirne' i modelli ideologici e i ruoli sessuali (e si apre così un campo vastissimo di elucubrazioni accademiche, una produzione critica a chiavi prestabilite, che si riflette all'infinito su sé stessa). Quali che siano le intenzioni dei loro sostenitori, queste tendenze finiscono per convergere (e la cosa è tanto più pericolosa in quanto si impone nei sistemi educativi di un paese che ha in mano le sorti del mondo) con gli esiti della più degradata cultura di massa, con la conseguente emarginazione dei classici e dei loro valori dall'orizzonte della cultura quotidiana.
In termini più ridotti e moderati la discussione sul canone coinvolge anche il nostro paese, soprattutto in riferimento alla scelta degli autori da leggere a scuola, nel quadro di una generale aspirazione ad abbandonare il percorso dell'intera storia letteraria, a espungere (o quasi) alcuni autori considerati troppo lontani ed estranei alla sensibilità moderna, a proiettarsi verso lo studio del Novecento e più in generale della contemporaneità, ad aprirsi verso la multiculturalità e le letterature straniere, a muoversi secondo percorsi tematici che garantirebbero l'interdisciplinarità o offrirebbero ai giovani più forti e stimolanti motivazioni. Le fantasie dei pedagogisti e le impazienze dei docenti conducono a formulare ipotesi e progetti effimeri e aleatori, con combinazioni più o meno peregrine, che spesso partono da buone ragioni, ma che approdano comunque a una riduzione dello spazio dei classici, arrivando a mettere in causa perfino quelli che hanno avuto un rilievo fondante per tutta la cultura europea, come Francesco Petrarca (alla cui 'noiosa poesia' un certo pedagogista, anni or sono, suggerì di sostituire il più moderno e vitale Umberto Eco).
Qualsiasi limitazione o definizione rigida di un canone di scrittori da leggere, di classici obbligatori, resterebbe comunque qualcosa di puramente strumentale, non potrebbe richiamarsi a valide ragioni storiche e teoriche: ogni scelta vincolante si inscriverebbe inevitabilmente entro un quadro 'politico', in contraddizione con le più profonde e autentiche ragioni culturali. È certo peraltro che, se rapportati ai tempi e alle disponibilità della scuola, gli autori importanti e irrinunciabili sono davvero troppi, specie se si afferma (come è giusto) la necessità di rivolgere lo sguardo fuori del proprio paese e di aprirsi a una prospettiva europea e mondiale, a tutta la grande letteratura che, nella nostra lingua e nelle altre, può dirci qualcosa di essenziale per la nostra vita, può tracciare un ponte che dal passato si proietti verso un possibile futuro.
I classici devono essere letti e scelti al di là di ogni discussione o guerra sul canone: il vastissimo orizzonte di scritture che abbiamo alle spalle, i molteplici capolavori che sono stati prodotti entro le lingue e le culture più diverse, l'inevitabile allargamento della nostra visione verso il passato e il presente dell'intero pianeta ci impongono di evitare ogni discriminazione 'canonica'. È necessario mantenere un atteggiamento di apertura totale verso tutte le esperienze della grande letteratura, verso tutti gli autori e le opere che meritano ascolto, che venendo da lontano possono continuare a dire qualcosa di essenziale per il nostro presente. Questa apertura richiede naturalmente una disponibilità a muoversi verso le direzioni più diverse, come una sorta di 'nomadismo' della lettura. E proprio da questo nomadismo, e non certo da una legislazione di canoni vincolanti, si può arrivare a riconoscere il rilievo di autori e opere comunque imprescindibili: in ogni contesto particolare (come quello di una lingua e di una tradizione nazionale o internazionale) si potranno così individuare dei classici senza i quali non è possibile riconoscere ciò che si è diventati, senza i quali sfuggono particolari settori dell'esperienza, senza i quali non si riescono nemmeno ad ascoltare e a comprendere, dal contesto in cui ci si colloca, gli altri molteplici classici del mondo.
Tra identità e alterità
Assodato che non si possono fissare canoni assoluti e restrittivi, che la nozione stessa di canone non è teoricamente credibile e che scelte canoniche possono farsi soltanto in modo strumentale e pratico e sempre possono essere riviste e contraddette, come riconosciamo un classico? Cosa intendiamo per classico, nel senso allargato e non canonico che si è detto, al di fuori di ogni classicismo e di ogni pretesa modellizzante? Perché ci accostiamo a certi libri considerandoli classici? In che senso leggerli è qualcosa di diverso dal leggere un fumetto, un romanzo giallo, un bestseller alla moda?
La cultura del Novecento ha dato molte risposte, diverse tra loro, anche in ragione dei diversi orientamenti di chi ha avuto del classico una nozione restrittiva e di chi invece ne ha ampliato i confini. Una risposta in ogni senso 'classica' è quella data da Thomas Stearns Eliot nel famoso saggio del 1944 What is a classic? (Londra, Faber & Faber), in cui l'idea di classicità si collega a quella di "maturità" e si distinguono "classico relativo" (che resta legato a un contesto e a una tradizione particolari) e "classico assoluto" (caratterizzato dalla sua 'comprensività', dalla capacità di sintetizzare in sé "l'intero genio di un popolo"): Eliot riconosce il classico assoluto in Virgilio, che per lui è un vero e proprio criterio di paragone, il poeta che ha fissato una volta per tutte un modello con cui si è poi misurata tutta la letteratura europea, garanzia della stessa "libertà" della cultura e della stessa "difesa della libertà contro il caos". Negli anni tremendi della Seconda guerra mondiale quel richiamo alla classicità poteva valere come un segnale di salvezza per l'Europa lacerata: affermazione di continuità con un ordine, un rigore, un equilibrio, con una complessa identità che la cieca volontà di potenza del nazismo aspirava a distruggere dalle fondamenta.
La scelta di Eliot si incontrava con l'inquieta interrogazione che lo scrittore austriaco Hermann Broch, esule negli Stati Uniti, rivolgeva al personaggio stesso di Virgilio nel grande romanzo La morte di Virgilio, pubblicato nel 1945 (ora Milano, Feltrinelli, 1993), e con la grande summa sulla tradizione occidentale (con al centro proprio Virgilio e Dante) che il filologo e critico tedesco Ernst Robert Curtius, esule in Svizzera, andava allora costruendo, La letteratura europea e il Medioevo latino, il capolavoro critico pubblicato nel 1948 (Firenze, La Nuova Italia, 1992), in cui la storia del concetto di classico e dei diversi classicismi europei si appoggiava sull'ipotesi di "un umanesimo purificato dal pedagogismo (e dalla politica), aperto al godimento della bellezza". La considerazione della classicità si poneva in quegli anni come inquieta partecipazione ai disastri del presente, ma anche come speranza per un recupero di civiltà, di autenticità, di libertà, per il superamento del caos in cui il mondo era stato trascinato: il classico valeva come coscienza di sé dell'Occidente, come ritrovamento del legame perduto con le origini dell'Europa, come ricerca inesauribile di un valore incompiuto, in un anelito al "compimento".
Al di là degli orizzonti di Eliot e di Curtius, nella seconda metà del Novecento il concetto di classico si è dilatato in più direzioni: e si può ricordare la riflessione di uno dei più autorevoli critici inglesi, Frank Kermode, che, in un piccolo libro tradotto in Italia nel 1976 (Roma, Lerici), Il classico, ha discusso l'orizzonte ideologico delle definizioni di Eliot e ha riconosciuto per suo conto nel classico il convergere di una spinta a fissarsi in un valore eterno e di quella contraria ad adattarsi alle diverse facce del mondo che muta; per lui i classici sono nello stesso tempo aperti a farsi attualizzare (anche con evidenti forzature da parte degli interpreti) e chiusi nella loro distanza, incastonati nella propria storia lontana. Kermode distingue classici antichi e classici moderni, sottolineando come questi ultimi incorporino dentro di sé l'instabilità del mondo: essi pongono ai lettori delle domande, mentre invece gli antichi offrivano loro delle risposte.
Questa nuova natura dei classici moderni ci conduce d'altra parte a trovare domande, e non più risposte, anche negli antichi. Il classico moderno modifica così il nostro modo di leggere il classico antico: e in ogni classico si aprono dei vuoti di senso, amplificati dallo scorrere del tempo, arricchiti dal cancellarsi delle ideologie e delle società che essi hanno espresso; si moltiplicano le possibilità di interpretazione; si creano dei surplus di significato, che danno luogo a letture sempre diverse di generazione in generazione. Nel tempo dell'ermeneutica i classici divengono così modello dell'apertura dell'interpretazione: nel loro linguaggio tanto ricco e complesso si aprono i varchi di una sempre nuova leggibilità. Essi si trasformano mantenendo la loro identità. La loro vita non è data una volta per tutte, ma si prolunga e si modifica, svelando significati e contenuti che potevano anche essere ignoti allo stesso autore. E se un'ermeneutica come quella di Hans Georg Gadamer in Verità e metodo del 1972 (Milano, Bompiani, 1983) ha visto nel classico "un modo eminente dell'essere storico, l'atto storico della conservazione che mantiene in essere un certo vero attraverso una sempre rinnovata verifica", gli esiti più radicali delle teorie orientate sul lettore, reader oriented, sono giunti a proiettare la consistenza stessa del classico nel perpetuo movimento della ricezione, fino a riconoscergli un'identità solo nella prospettiva del lettore, nel prolungarsi indefinito degli usi da parte delle sempre diverse comunità interpretative (ma qui l'estremismo teorico finisce per coincidere con la negazione dei classici, con la loro condanna all'irrilevanza e all'indifferenza).
Tra gli italiani, Franco Fortini, in un articolo apparso nel 1978 nel terzo volume dell'Enciclopedia Einaudi, riconduce il valore attribuito ai classici alla distanza storica, che fa allontanare "gli antagonismi interni", ne riduce la carica conflittuale; classico è ciò che si presenta sotto il segno della conciliazione, di un superamento assoluto delle scorie della realtà. Ma proprio per questo la perenne vitalità dei classici è segnata da una costitutiva ambiguità: "I classici di ogni cultura sono 'vivi', però, nella misura in cui sono 'morti', ossia sono stati successivamente abbandonati dalle diverse forme di energia antagonistica che furono capaci di incarnare lungo le generazioni […]. Come il sorriso dei defunti o delle maschere o delle cere, il classico educa alla contemplazione della morte di quanto sembra più vivente".
Una prospettiva meno radicale, più adeguata alle attese e alle possibilità di una lettura diffusa, è invece quella indicata da Italo Calvino, nel citatissimo intervento del 1981, articolato in 14 punti, Perché leggere i classici, raccolto nell'omonimo volume postumo del 1991 (Milano, Mondadori): tra questi punti vanno ricordati soprattutto quello in cui viene definito classico "un libro che si configura come equivalente dell'universo, al pari degli antichi talismani", e quello in cui si afferma che è classico "ciò che tende a relegare l'attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno". In quest'ultimo paradosso si sintetizzano in fondo i vari paradossi su cui si articolano quasi tutte le altre definizioni del classico: autori e libri classici sono (e diventano) quelli che riescono a essere nello stesso tempo attuali e inattuali; sono quelli che costruiscono dei mondi complessi e coerenti, che possono sembrare sufficienti a se stessi, ma che ci dicono qualcosa di essenziale sia sul significato di quel mondo esterno da cui essi sorgono sia sul significato del nostro mondo, della vita di noi che leggiamo a una distanza che può essere più o meno grande, ma che è sempre determinante nel rapporto che istituiamo con essi. La ricchezza del classico, del mondo che esso ci presenta, è data dall'intreccio inestricabile tra la forza del linguaggio e la forza dello sguardo sulla realtà (per quanto inattingibile o fantastica questa possa apparire).
I classici sono quei libri che fanno sì che ciò che ci è distante (nel tempo, nella storia, nello spazio, nell'esperienza) ci venga incontro come presente, come 'proprio' nel momento stesso in cui è 'altro'.
La distanza, il senso dell'altro e del diverso, si manifestano così attraverso quelle che George Steiner ha chiamato real presences in un saggio del 1989 (Vere presenze, Milano, Garzanti, 1992): nel processo della lettura, al di là di ogni esplicita intenzione didattica, apprendiamo il valore di ciò che noi non siamo, e nello stesso tempo riconosciamo questo diverso come parte di noi, come un'altra possibilità del mondo, come un'altra configurazione del tempo, dello spazio, dell'esperienza. Ci stacchiamo da quella "sopravvalutazione dell'importanza dei tempi in cui viviamo", che proprio Eliot denunciò in un saggio sulla rivista Criterion del 1932, e dall'abbarbicamento nei nostri giorni, nei nostri luoghi, nelle nostre abitudini, nel nostro orizzonte ambientale, nei nostri grovigli esistenziali; e nello stesso tempo sentiamo che possiamo dare un nuovo più ricco significato a tutto ciò che ci sta intorno.
Molto recentemente, nel quadro di una riflessione dedicata in particolare ai 'classici' antichi, Salvatore Settis, nel già ricordato Futuro del 'classico', ci ha fatto notare che il valore dello studio dei classici sta "nella spola tra identità e alterità", nella capacità di "evocare l'altro da sé che è dentro di noi". Proprio in questo intreccio tra identità e alterità possiamo arrivare a percepire il senso del nesso che lega passato, presente e futuro, memoria, coscienza e speranza: e particolarmente calzante a tal proposito è la formula con cui Giuseppe Pontiggia ha definito i classici, nel titolo del suo libro del 1998, I contemporanei del futuro (Milano, Mondadori). Se nel corso della storia la nozione di classico, l'uso dei classici, i vari classicismi possono avere avuto funzioni di esclusione, di sostegno delle classi dominanti e di apologia del presente, è la condizione attuale della comunicazione, è quella stessa situazione di emarginazione della letteratura di cui si è detto all'inizio a dare alla lettura dei classici (nel senso più ampio e meno canonico possibile) questa funzione di apertura, di uscita dalla concentrazione sul nostro universo chiuso e di confronto con tutto ciò che è diverso nello spazio e nel tempo.
Il pericolo dell'indiscrezione
La presenza dei classici è insomma urgente e necessaria: la nostra società avrebbe quanto mai bisogno di una diffusa disponibilità a leggerli e a farli leggere. E tale necessità è tanto più forte quanto più i classici stessi sembrano allontanarsi, quanto più ci rendiamo conto dei pericoli che essi corrono nella situazione presente (che pure li ha liberati dalle antiche funzioni ideologiche e repressive, di ordine e di controllo). Tra questi pericoli, oltre quelli dati dal dominio della pubblicità e della virtualità (che, in quanto tali, tendono proprio a contraddire e a escludere ogni 'vera presenza'), ci sono quelli che potrebbero riassumersi nell''indiscrezione', termine usato in proposito da Maurizio Bettini in un libretto del 1995, I classici nell'età dell'indiscrezione (Torino, Einaudi): la tendenza cioè ad annullare il senso della distanza, ad appropriarsi di tutto dal punto di vista del consumo e della dissipazione del presente, a ridurre ogni dato culturale e comportamentale all'esibizione (di cui oggi troviamo uno degli esiti più squallidi nella moda televisiva dei reality shows). È probabile che un eccesso di indiscrezione ci sia anche nell'immensa proliferazione di studi accademici che si sovrappongono ai classici in modi sempre più invadenti, che li nascondono sotto ricostruzioni, elucubrazioni, interpretazioni infinite, che ricostruiscono e decostruiscono la loro realtà storica e testuale: si tratta di quell'espansione abnorme del 'discorso secondo', i cui guasti sono stati notati da Steiner. Calvino vi aveva già accennato nello scritto sopra ricordato, notando che scuola e università "dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d'un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario. C'è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l'introduzione, l'apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano saperne più di lui".
A questa aggressione dei discorsi critici e teorici (che però secondo Calvino il classico alla fine riesce sempre a scrollarsi di dosso) si aggiunge quella della cultura pubblicitaria di massa (rispetto a cui l'accademia resta spesso in atteggiamenti di venerazione subalterna), in cui tutto viene usato, fruito, degustato, macinato, trasformato in esteriore affermazione di sé, in presenza artificiale e indifferente. Nell'indiscrezione precipitano molti degli eventi che mettono in gioco i classici, che li trasformano in strumenti della chiacchiera presente, in frammenti dell'apparenza collettiva, li riducono in formule alla moda o in modelli di distinzione sociale.
L'indiscrezione può raggiungere dei livelli assurdamente macabri, come nel caso, che purtroppo nell'occasione di questo anno centenario riguarda Francesco Petrarca, delle riesumazioni con intenti di ricostruzione scientifica dell'identità personale dell'autore classico: all'uso di queste riesumazioni e alla miserabile eco mediatica che suscitano possiamo riferire quello che ha osservato Guido Baldassarri (Questi italiani. Discorsi di moralità pubblica e privata, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 209-211), a proposito di operazioni che furono compiute alcuni anni fa sui resti dell'imperatore Federico II: "Dunque: noi celebriamo, non richiesti, il personaggio, scaviamo, per quanto possibile, nella sua epoca e nelle carte superstiti, nella certezza bovina che se avessimo un video sapremmo tutto". Baldassarri notava come dall'attuale esasperata difesa della privacy fosse escluso completamente ogni grande uomo del passato: "A lui, a calci in culo, gli facciamo il prelievo. È morto, non vota, non può fare lo sciopero della fame. Il passato, insomma, è roba nostra". Per Petrarca, in occasione del centenario, lo specialista dell'ateneo padovano Vito Terribile Wiel Marin ha compiuto l'exploit di violare (ovviamente con tutte le legittime autorizzazioni della burocrazia e della scienza) la tomba di Arquà e di analizzare tutto ciò che rimane della "carne travagliata e l'ossa" del poeta: indiscrezione assoluta, di grande risonanza mediatica, che peraltro, a quanto poi si è saputo, ha dato un esito di evanescenza e di assenza, mostrando che quelli analizzati non sono nemmeno i resti del poeta, trafugati e fuggiti forse verso "più riposato porto / e più tranquilla fossa".
Ma i classici, quelli vicini come quelli lontani nel tempo, quelli moderni come quelli antichi, resistono alla nostra indiscrezione, alla nostra brama di violare il passato, alla pretesa di appropriazione e di consumo che percorre le nostre società, al nostro gusto dell'esibizione, dell'attualizzazione: diventano veramente 'nostri', possono essere parte di noi, dirci delle cose essenziali per la nostra vita, solo se sappiamo ascoltarli, rispettarne le ragioni vitali e linguistiche, riconoscere la consistenza del loro mondo. Certo la nostra ossessione del presente e dell'immediatezza consumistica e comunicativa è una delle ragioni determinanti del loro attuale allontanarsi da noi. E davvero le nostre società, anche quando si trovano più insicure e disgregate, continuano a essere così illusoriamente certe di se stesse! così vanamente attaccate a ciò che sono! Nel ronzio continuo e indeterminato della comunicazione, nell'angosciosa inflazione di messaggi che percorre il pianeta e le sue infinite reti comunicative, siamo sempre più incapaci di 'ascoltare', spinti irresistibilmente a gridare e consumare, a lacerare e gettar via senza fine parole, immagini, cose. Ma è probabile che solo se sapremo davvero ascoltare, se sapremo sentire la diversità, se sapremo uscire dalle imposizioni del presente e 'staccare la spina' che ci vuole sempre on line, solo così potremo capire davvero questo nostro presente, ciò che siamo divenuti e ciò che rischiamo di divenire: e per tutto questo avremo e abbiamo bisogno dei classici, della densità di esperienza, di conoscenza, di forza critica che soltanto essi possono garantirci.
Un classico per eccellenza: Petrarca e il petrarchismo
Il Canzoniere
Canzoniere è il titolo con cui si suole designare la raccolta di rime di Francesco Petrarca (1304-1374), i Rerum vulgarium fragmenta ("Frammenti di cose in volgare"), costituiti da 366 componimenti, per la maggior parte sonetti (317), ma anche canzoni, ballate, sestine, forme metriche consacrate dalla tradizione precedente, dai trovatori provenzali ai rimatori siciliani, agli stilnovisti. Le liriche d'amore sono distinte "in vita" e "in morte" di Madonna Laura, incontrata "il dì sesto d'aprile" 1327 in una chiesa di Avignone. Al loro ordinamento in un'architettura organica e in un 'libro' compiuto, Petrarca attese in varie fasi; nella sua forma definitiva, che risale all'ultimo anno di vita del poeta, il Canzoniere rappresenta la 'storia di un'anima dalla terra a Dio'. L'ordinamento ha come base un principio cronologico ma influirono anche i criteri dell'affinità o contrapposizione dei motivi e dei metri; ne risulta un'autobiografia ideale in sé conclusa e con una sua morale, sul modello prossimo della Vita nuova di Dante. Il poeta mette a punto un linguaggio chiuso e selettivo, sottratto alle occorrenze della vita reale, deputato alla rappresentazione di una vicenda esclusivamente interiore.
Nel libro si percorre il diagramma di un amore umano e terreno - sempre inappagato - che non esclude l'aspetto sensuale. Il poeta chino su sé stesso esplora moti e conflitti interiori, oscilla tra poli opposti senza mai una risoluzione definitiva, gioca simbolicamente sul nome della donna, ne contempla in vari modi l'immagine creata dal sogno, dalla fantasia o dalla memoria (Laura è sempre lontana, 'altrove' nello spazio e nel tempo). L'amore, non immediatamente identificabile con la vicenda vissuta dal poeta, è soprattutto un mito letterario, il fulcro cui Petrarca fa convergere le linee di stati d'animo fluttuanti, e un omaggio alla recente tradizione romanza che imponeva di incentrare nell'amore e nella donna ogni più varia esperienza. Ma Petrarca se ne serve per cantare il più generale destino di un'attitudine contemplativa che non ha potuto evitare l'esperienza dello smarrimento e dopo il lungo 'vaneggiare' è tornata in sé, sino alla considerazione della labilità, e perciò della vanità, di ogni bellezza e bene terreno, compresa la gloria letteraria.
La svolta che si attua nelle 'rime in morte' è l'aspirazione al ritrovamento dell'integrità intellettuale, alla riunificazione di un io diviso a causa della passione amorosa (esperienza irrazionale su cui si abbatte il giudizio etico) e al volgersi verso qualcosa di più saldo e duraturo. Si fa quindi insistente il pensiero di Dio. In questo orizzonte, che è ancora medievale seppure dell''autunno' del Medioevo, si inscrive l'innovativa scoperta dell'io, protagonista dell'opera, e in ciò Petrarca rompe con la tradizione cortese che aveva posto al centro la figura della donna, il rituale del corteggiamento e quello di una società nobiliare. Petrarca rovescia il meccanismo. La donna esiste solo perché investita dall'amore-desiderio, e il soggetto che desidera va a occupare tutto lo spazio fino allora riservato alla sua raffigurazione.
Sulle tracce di Petrarca
In senso storico ristretto il petrarchismo è l'imitazione della lirica d'amore di Petrarca che si afferma come vero e proprio fenomeno letterario nei secoli 15° e 16°. Più in generale con questo termine si intende la tendenza, che sotto vari aspetti e con varia fortuna giunge fino al 20° secolo, a filtrare la tematica amorosa attraverso i modelli canonici della forma del canzoniere e del sonetto.
Un'influenza del Canzoniere si ritrova già in rimatori contemporanei del Petrarca o di poco posteriori come Sennuccio del Bene, Buonaccorso da Montemagno il Vecchio, Cino Rinuccini, ma al momento non diede origine a una vera e propria tradizione e si accompagnò con la ripresa di elementi di altra provenienza, stilnovistici, danteschi, umanistici e popolareschi. Nel Quattrocento fu un modello prestigioso ma non l'unico; la sua influenza era tuttavia già notevole presso rimatori di formazione e in regioni diverse, e un petrarchismo non rigoroso è presente in poeti fra loro lontani come Lorenzo il Magnifico e Matteo Maria Boiardo.
Più generalmente il richiamo a Petrarca era dettato da fattori di natura culturale e ideologica. Petrarca era stato l'antesignano di tematiche e valori tipici della Rinascenza. Aveva aperto la strada a un recupero sistematico e a una lettura critica dei testi latini e greci, e difeso il latino classico come lingua naturale opposta al gergo scolastico, sistema tecnicizzato di segni arbitrari. Aveva impostato tutte le grandi battaglie della nuova cultura umanistica: l'appello a Platone contro l'Aristotele 'barbaro' delle traduzioni medievali, la centralità delle discipline morali e delle lettere contro la superiorità dello scientismo scolastico. Aveva rappresentato il nuovo tipo di intellettuale in grado di influire sull'attività di signori e città, al di fuori delle scuole universitarie e della loro organizzazione del sapere, stabilendo nuovi rapporti con la Curia e i gruppi dirigenti, avviando la formazione di nuovi istituti culturali, biblioteche, accademie e liberi incontri di dotti. Con lui erano nate la figura del 'cortigiano', seppure autonomo, destinata ad avere fortuna nei secoli successivi, e quella dell'intellettuale cosmopolita, distante da quello comunale legato a un preciso ambiente cittadino. Petrarca aveva accettato la nuova istituzione della Signoria e scelto di sostenerla con il suo prestigio di uomo di vasta cultura e di fama europea; si era posto come un libero professionista, il primo a vivere del proprio mestiere di letterato.
Soprattutto, la lirica petrarchesca possedeva tutte le caratteristiche del modello, presentandosi come un sistema di funzioni e valori altamente formalizzato, e proponendosi in tal modo come oggetto di imitazione: sul piano esistenziale (tematica amorosa), dello schema metrico (il sonetto consentiva un limitato movimento discorsivo o delle immagini), del ritmo (scorrevole e musicale), del lessico (omogeneo e circoscritto, selezionato e aristocratico, privo di note dissonanti). Quello del Petrarca rappresentava un linguaggio codificabile e ricomponibile in uno schema concluso. Per queste caratteristiche la lirica petrarchista, favorita anche dall'affermazione dell'editoria, divenne un genere di largo consumo, letto e praticato a tutti i livelli, fino a essere una moda.
In quanto a sottigliezza psicologica, Petrarca era assai in anticipo rispetto ai suoi tempi sicché era difficile per i suoi imitatori quattro-cinquecenteschi inventare qualcosa nella stessa direzione: la loro versatilità poteva esercitarsi nella rifinitura di particolari, in variazioni su vecchi temi. Il successo di un poeta mediocre come Serafino de' Ciminelli, detto Serafino Aquilano, attivo nelle corti di Urbino, Milano e Mantova e tra i maggiori rappresentanti della poesia cortigiana del secondo Quattrocento, fu dovuto solo all'abilità nel ripresentare in forma condensata e come un gioco a sorpresa concetti petrarcheschi. Serafino e i poeti suoi maestri, Benedetto Gareth di Barcellona, detto il Cariteo (adattamento umanistico del cognome), con uffici presso i re aragonesi a Napoli e autore del canzoniere Endimione (in cui celebra una donna chiamata Luna; 1506), e il ferrarese Antonio Tebaldi, che latinizzò il nome in Tebaldeo, poeta presso le corti di Mantova e Ferrara, imitatori entrambi del Petrarca più concettoso e degli artifici stilistici più vistosi, saccheggiarono i predecessori e misero o rimisero in voga una quantità di metafore e di paragoni che circolarono per tut-to il Cinquecento e anche in seguito, riproponendosi in ogni libro di versi. L'influsso di questi poeti fu sproporzionato al loro merito. La lirica moderna in Francia e in Inghilterra cominciò a scriversi sulle loro orme, con una fortuna riconducibile al fatto che le raccolte che essi avevano composto erano enciclopedie di arguzie, in un tempo in cui l'arguzia era tenuta in alta stima negli ambienti artificiali delle corti.
L'imitazione di Petrarca si modificò attorno al volgere del 15° secolo sulla base delle proposte del veneziano Pietro Bembo, che in reazione agli eccessi dei rimatori di corte del Quattrocento teorizzò un 'ritorno a Petrarca', a un'interpretazione più sobria e più vicina al gusto del trecentista. La normalizzazione fu scandita da tappe successive: la riproposta del Canzoniere in un'edizione puntigliosamente corretta e annotata, pubblicata nel 1501 da Aldo Manuzio - avvio del lavoro esegetico che si concretò poi in una serie di commenti -, l'approccio teorico al nesso platonismo-petrarchismo, la codificazione del linguaggio petrarchesco come esempio supremo e assoluto della poesia (Prose della volgar lingua, 1525). Contro l'eclettismo del 15° secolo, Bembo applicò alla produzione volgare il canone umanistico dell'imitazione dell''autore unico', indicando nel Canzoniere e nel Decameron i modelli esclusivi della poesia e della prosa. Nelle Prose Bembo illustrò i principi della nuova poetica indicando nella 'gravità' e nella 'piacevolezza' i caratteri distintivi del petrarchismo, e applicando egli stesso nelle Rime (1530) questo paradigma. Le rime e il loro supporto teorico offrirono un'ideologia letteraria e una pratica combinatoria di tale solidità culturale da sedurre generazioni di rimatori e convincerli della 'ineluttabilità' del codice proposto. Il petrarchismo bembiano assunse anche una valenza sociale, fu una moda amplificata dalla diffusione dei canzonieri, in grado di caratterizzare precisi ambiti e livelli socioculturali. In questa prospettiva il Canzoniere divenne il modello di vita raffinata e di aristocratica sensibilità da cui ricavare le regole generali di comportamento e le forme espressive conseguenti.
Il petrarchismo tra 15° e 16° secolo compì quindi un percorso che lo portò, da posizioni razionalmente filologiche, a essere exemplum di una moderna e unitaria spiritualità che, continuando l'imitazione dei classici, poteva anche collegarsi a una concezione cristiana della vita e dell'arte, in opposizione alle soluzioni dell'estetica e della scolastica medievali.
Il modello poetico
Segno dell'autorità e dell'imitabilità del modello petrarchesco proposto da Bembo fu il fiorire nel 16° secolo di una nutrita schiera di rimatori. In generale, pur in un quadro mosso e articolato anche in rapporto a centri e aree geografiche definiti, di essi si può dire che fecero letteratura più che poesia, scrissero cioè componimenti tanto apprezzabili sotto l'aspetto formale quanto poveri, eccetto alcuni casi, di veri accenti poetici. Nelle loro rime il petrarchismo si presenta in una casistica di variazioni più o meno consapevoli, con un massimo di ortodossia nei poeti veneti raccolti nella casa-cenacolo di Domenico Venier in Santa Maria Formosa a Venezia (Trifone Gabriele, Bernardo Cappello, Antonio Brocardo, Celio Magno ecc.) e una maggiore libertà dall'influsso normativo di Bembo in area toscana (Ludovico Martelli, Giovanni Guidiccioni, Giulio Strozzi ecc.). Nel contesto centrosettentrionale non si discostarono dall'imitazione pedissequa Matteo Bandello (invece eccellente narratore), Lelio Capilupi, Jacopo Marmitta; più autonome le esperienze del perugino Francesco Beccuti, detto il Coppetta, di Francesco Maria Molza, modenese di nascita e romano di elezione, e di Annibal Caro, nativo di Civitanova nelle Marche, che intese arginare l'egemonia di Bembo sostenendo nella disputa letteraria con Lodovico Castelvetro la legittimità dell'uso poetico di parole 'nuove'.
Per la prima volta nella storia della letteratura un folto numero di donne, nobili e 'cortigiane', si cimentò nello scrivere liriche e sonetti, ponendosi non solo come termini di riferimento ideale ma come soggetti attivi della produzione letteraria. Nella generale monotonia degli esiti del tempo, soprattutto lo stuolo eletto delle poetesse elaborò forme meno manierate d'espressione. Tra queste, Veronica Gambara, autrice di sonetti in memoria di Gilberto X signore di Correggio, Vittoria Colonna, amata da Michelangelo, intellettuale di spicco anche in relazione alle dispute religiose suscitate dal movimento riformista in Italia, Gaspara Stampa, il cui canzoniere, espresso in toni accesi di confessione, è dominato dall'amore per Collatino di Collalto, Laura Battiferri, rimatrice d'intenti morali e religiosi, Isabella di Morra, rinchiusa e uccisa dai fratelli in un castello della Lucania, il cui breve canzoniere contiene alcune delle note più risentite della lirica cinquecentesca.
I petrarchisti del Cinquecento furono una legione, tuttavia nella massa di una produzione quasi meccanica, nei ricalchi di frasi, rime e progressioni petrarchesche (si hanno anche centoni petrarcheschi, di cui diede l'esempio il Bembo) si distinguono voci originali. Giovanni Della Casa attuò nelle Rime (1558) uno scarto dalla consuetudine variando il ritmo del sonetto: introdusse enjambements separando l'unità di senso dall'unità del verso, senza riguardo alla divisione in quartine e terzine, con effetti di sospensione e asimmetria (sui sonetti di Della Casa nel Seicento modellò i suoi John Milton); Michelangelo, a margine della sua attività creativa maggiore, compose rime percorrendo un itinerario che va da momenti formali ad altri di stile personale, con una sintassi e un lessico liberi dai vincoli della scuola bembiana; Galeazzo di Tarsia, rimatore meridionale di spicco, nei sonetti in morte della moglie Camilla usò un'arte disadorna e antimelodica. Una posizione radicalmente innovativa, rispetto a un fenomeno ormai in via d'esaurimento, fu quella di Torquato Tasso le cui liriche approfondiscono le intuizioni psicologiche petrarchesche con un patetismo inedito.
Il petrarchismo del secondo Cinquecento diede segni di stanchezza anche per il venir meno dell'equilibrio indicato da Bembo tra 'gravità' e 'piacevolezza': la ricerca della piacevolezza portava a una poesia 'dilettevole' e galante, in una musicalità esteriore; per altro verso, l'inclinazione alla gravità portava a un'intonazione tragica o eroica, oppure a un'enfasi celebrativa o declamatoria. Di conseguenza, quando dopo la metà del secolo emersero nell'Italia meridionale poeti che combinavano il gusto per le arguzie con l'impeccabile dizione dei bembisti (i napoletani Angiolo Di Costanzo e Bernardino Rota, il venosino Luigi Tansillo), il loro successo fu immediato. A Napoli si sperimentò un petrarchismo 'ingegnoso', fortemente attratto dalla metafora e dalle sue potenzialità analogiche che portarono alla dissoluzione del sistema e alla confluenza della 'maniera' nel barocco. Da quei poeti a Giambattista Marino, che nel Seicento doveva far trionfare il concettismo, il passo fu breve. Il petrarchismo in eclissi si risolse nell'esasperazione degli elementi concettosi e sembrò aver concluso la sua parabola: si era esaurito il significato storicamente valido di un'esperienza che era stata modulo di comportamento ideale e sociale.
La fruizione del classico: Petrarca nel Novecento
Una ripresa del petrarchismo si ebbe nel 18° secolo con Eustachio Manfredi - capo del gruppo dei bolognesi 'riformatori della bella letteratura' che opposero alle gonfiezze secentesche la semplicità dei trecentisti - e nell'ambito dell'Accademia dell'Arcadia con la tendenza che faceva capo a Giovanni Mario Crescimbeni. Ma l'influenza di Petrarca continuò anche dopo di allora. Si è individuato un petrarchismo in Vittorio Alfieri (nelle Rime prese a modello il Canzoniere come esempio di 'passione viva, letterariamente dominata') e in Giacomo Leopardi (si inserì nella tradizione della eloquente lirica civile risalente a Petrarca, si ispirò al trecentista nell'andamento del verso e nella descrizione della natura, curò un commento al Canzoniere e al poema allegorico Trionfi per l'editore Passigli, uscito postumo).
Si arriva per questa strada fino ad autori recenti, come Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Andrea Zanzotto, Vittorio Sereni, Sandro Penna. La continuità del petrarchismo ha infatti fissato una lingua che ha attraversato i secoli consegnando uno strumento nitido e coeso, 'dicibile' dal Trecento al Novecento, e ha indicato pure le direttrici di una poetica dominante che si ritrova in correnti e poeti della contemporaneità. Accanto al canone espressionistico che porta da Dante a Carlo Emilio Gadda e al controcanone delle avanguardie, in posizione di rottura, è proceduto parallelo il canone platonico del petrarchismo. Pur nella distanza temporale e nella diversità delle ragioni e degli esiti poetici, l'impostazione della lirica contemporanea appare petrarchesca nel suo inseguimento dell'ideale, nella tendenza all'artificiosità del linguaggio, nella ricerca dell'ineffabile, nella negazione della narratività e storicità degli eventi, così come avviene nel continuo andirivieni, nelle contraddizioni e revisioni che costituiscono la vicenda del Canzoniere.
La ripetitività dei temi è già parte delle rime petrarchesche, inesauribile variazione dello stesso tema. Con Petrarca nasce quell'ossessione che Zanzotto - il quale in una certa fase ha parlato di Petrarca come "doppio di sé stesso" - chiama la "pastura mentale" che poi è il linguaggio, il continuo lavoro critico sulla sua essenza. Lo studio di Petrarca portò Ungaretti a un approfondimento della coscienza artistica e a un costante lavoro di perfezionamento dei versi già pubblicati. Nel clima di 'ritorno all'ordine' dopo le avanguardie, sulla rivista Tevere (1929) Ungaretti rivendicò il suo primato di petrarchista, ma sempre "dopo l''elegantissimo Mallarmé", e definì Petrarca il "primo inventore della poesia moderna", per l'arte sottile con cui aveva risolto i problemi del rapporto contenuto-forma, per aver fissato in qualche misura l''inesprimibile', per l'affermazione di un moderno sentimento del tempo come 'durata', per la scoperta del vuoto dell'assenza e del 'potere taumaturgico' della memoria. Montale chiamò 'petrarcheggiante' una parte di sé e si interrogò sulla possibilità di avere scritto anch'egli un canzoniere denso di 'angeliche presenze'. Nelle nuove edizioni di Frontiera (1941-42; 1966) e Diario d'Algeria (1947; 1965) di Sereni si ripropone un caso simile a quello del Petrarca con il Canzoniere: un autore-regista che nel tempo e con sapienza ha riorganizzato tutti i testi seguendo un disegno e determinate trame narrative. Petrarca ha avuto un ruolo non trascurabile nel corpus poetico di Penna; la ripetizione monotematica di una ricerca d'amore e le infinite variazioni formali intorno a quell'unico tema fanno sì che le sue raccolte, da Appunti fino al postumo Viaggiatore insonne, appaiano come un ininterrotto canzoniere.