Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’antitesi classico-romantico, introdotta da Goethe e da Schiller come opposizione tra la calma serenità degli antichi e la coscienza inquieta dei moderni, prende forme e significati diversi a seconda delle realtà geografiche, storiche e letterarie in cui si trova a operare. Se in Germania il romanticismo si sviluppa dalle radici stesse del classicismo, altrove questa polemica riassume il conflitto ideologico tra vecchia e nuova cultura, ponendo il problema dell’eredità dell’Illuminismo e del significato della tradizione.
Le origini teoriche del romanticismo tedesco
La parola romantic appare per la prima volta in lingua inglese a metà Seicento, per definire alcune caratteristiche negative dei romanzi cavallereschi e pastorali, come la falsità, l’irrealtà e l’eccesso di fantastico. Tutto ciò che sembra prodotto di sregolata fantasia viene definito come romantic; ma già agli inizi del Settecento questo termine assume il significato di attraente e insolito, denotando ciò che colpisce l’immaginazione.
Alla fine del secolo, romantic non si riferisce più solamente agli aspetti della realtà esteriore, ma implica l’intensa emozione suscitata nell’animo umano da spettacoli insoliti o grandiosi. Rousseau se ne serve per definire la sensazione indistinta provocata da un luogo magico, soprannaturale, infinito, nel quale perdersi in contemplazione. Romantico si associa così a una serie di concetti che si riferiscono a una situazione psicologica complessa e indefinibile, come nostalgico, pittoresco, sublime. Ereditando il concetto in questa accezione psicologica, i teorici del movimento romantico vi aggiungono il riferimento storico all’epopea cavalleresca medievale e al cristianesimo, da cui prende origine la poesia moderna.
Le origini teoriche del romanticismo
Alla generazione tedesca venuta dopo Goethe e Schiller spetta il compito di enunciare la poetica del romanticismo dalle pagine della rivista "Athenäum", fondata nel 1798 da August Wilhelm Schlegel e dal fratello Friedrich. Come dimostra il saggio di Friedrich Schlegel, intitolato significativamente Sullo studio della poesia greca, il romanticismo tedesco si sviluppa direttamente dal confronto dialettico con il classicismo di Winckelmann. Riprendendo le ipotesi di Schiller e di Winckelmann, Friedrich Schlegel distingue tra la poesia naturale dei classici, fondata sull’ideale, e la poesia artificiale dei moderni, fondata sull’interessante. E tuttavia l’interessante non è che un criterio intermedio, una fase di transizione nella scoperta di un’estetica del bello supremo, raggiungibile però sempre solo in maniera approssimativa e frammentaria. In altre parole, mentre il bello classico è dato naturalmente agli antichi all’alba della storia, il bello dei moderni deve essere costruito artificialmente, partendo dalla consapevolezza che imitare l’antico nelle sue forme e nei suoi stili non serve; occorre invece appropriarsi dello spirito della grecità attraverso la comprensione storica, filologica e filosofica dei suoi testi.
Nei frammenti di "Athenäum" Friedrich Schlegel definisce i caratteri del nuovo movimento, precisando che il fine della poesia universale e progressiva dei romantici è quello di riunire tutti i generi poetici fino ad allora separati, in una mescolanza di prosa e poesia, retorica e filosofia.
Il compito della cultura romantica è creare nuove forme senza tenere conto della separazione dei generi e degli stili propria della tradizione classica. Il genere composito del romanzo è il risultato primario di quest’arte combinatoria, condotta attraverso la tecnica dell’ironia che impedisce la completa identificazione dell’autore con la materia poetica. Nel romanzo la verità non è data una volta per tutte, ma si costruisce nel confronto tra le diverse prospettive dei personaggi. Per questo il romanzo si presta a esprimere la perdita di unità e l’inquietudine che caratterizza l’epoca romantica, a differenza della calma grandezza dell’antichità classica.
Le Lezioni sull’arte e sulla letteratura drammatica tenute da August Wilhelm Schlegel a Vienna nel 1808, subito tradotte in italiano, francese e inglese, completano la teoria romantica attraverso il rapporto con la tradizione classica. La tesi fondamentale delle Lezioni viennesi è la distinzione tra due generi di teatro radicalmente diversi: classico e romantico. Il primo è formato dalle opere dei Greci e dei loro imitatori latini, francesi e italiani, fedeli ai principi di ordine e simmetria della tradizione classicistica. Il secondo trae origine dalle opere degli Spagnoli, degli Inglesi e dei Tedeschi che ricercano l’interessante, l’energico e il sublime senza lasciarsi condizionare dalle regole della rappresentazione ideale. Le due forme di arte drammatica sono dunque il prodotto di due civiltà storiche e culturali, animate da uno spirito profondamente diverso. Il teatro ideale degli antichi è basato sulla religione dei greci come divinizzazione delle forze naturali e della vita terrestre, ed esprime la poetica della consonanza perfetta con la natura. Invece il cristianesimo, su cui si fondano l’arte e la civiltà dei moderni, esprime la coscienza del limite di tutte le cose e l’aspirazione a un infinito irraggiungibile.
August Wilhelm Schlegel
Conseguenze delle mescolanze tra il carattere nordico ed il Cristianesimo
Corso di letteratura drammatica, lezione I
Appresso il Cristianesimo, l’energico carattere de’ conquistatori del Nord è quello che soprattutto determinò il corso della civiltà européa; perocchè queste bellicose schiatte furono le prime che arrecarono nuovi principj di vita alle nazioni degenerate. La severa natura del Nord costringe l’uomo a concentrarsi in sè stesso; ma quello ch’egli perde dal canto de’ luminosi sviluppamenti d’una imaginazione sensuale, torna a profitto delle disposizioni più nobili e più serie della sua anima. Il che viene provato dalla leale franchezza con cui li antichi popoli germanici abbracciarono il Cristianesimo. In nessun luogo esso guardò così lungamente la sua forza e la sua attività; in nessun luogo penetrò così addentro nel cuore umano, nè si combinò così intimamente co’ diversi affetti che lo riempiono.
La mescolanza dell’eroismo rozzo, ma fedele, de’ conquistatori del Nord, co’ sentimenti del Cristianesimo fe’ nascere la Cavallería. Questa bella istituzione avéa per iscopo di frenare, con sacri voti, guerrieri ancor feroci, e di preservar per tal guisa lo spirito militare dal barbaro abuso della forza in cui non è che pur troppo suggetto a cadere. Sotto la salvaguardia della virtù cavalleresca, l’amore prese un carattere più puro e più sacro; divenne un omaggio esaltato verso li enti che nell’umana natura sembrano dover maggiormente accostarsi alla natura degli angeli; parve che la religione medesima consecrasse questo culto, presentando, sotto forma divina, alla venerazione de’ mortali ciò che è su la terra di più puro e di più commovente: l’innocenza d’una vergine e l’amor d’una madre.
Siccome il Cristianesimo, al pari che il culto de’ falsi Iddii, non si contentava di cerimonie esteriori, ma si rivolgeva al cuore dell’uomo e a’ suoi più nascosti affetti, e se ne voleva insignorire, così l’energico sentimento della interna libertà, e quella nobile indipendenza d’animo che repugna a piegarsi sotto il giogo delle leggi positive, si ripararono nel dominio dell’onore. Questa morale mondana si colloca a fianco della morale religiosa, e par talvolta che si trovi con essa in contradizioni. Pure una gran corrispondenza di simiglianza raccosta l’una all’altra. La religione, altresì come l’onore, non calcola mai le conseguenze delle azioni; e quella e questo hanno consecrato de’ principj assoluti, e li hanno posti fuor della possanza d’una ragione scrutatrice.
La Cavallería, l’amore e l’onore furono li oggetti della poesia naturale che verso il principio del medio evo difuse le sue produzioni con una incomprensibile abondanza, e precedette al grado sovrano di cultura che in processo di tempo andò acquistanto lo spirito romantico. Quest’epoca ha pure la sua mitologia, fondata su le leggende e le favole della Cavallería; ma l’eroismo e il maraviglioso che vi regnano, sono d’un genere interamente opposto a quello della mitología antica.
Alcuni filosofi, i queli per altro s’accordano con noi nella maniera di riguardare il genio particolare dei moderni, hanno creduto che il carattere distintivo della poesía del Nord fosse la melancolía; la quale opinione, dove sia chi bene la intenda, non s’allontana dalla nostra. Appo i Greci, la natura umana bastava a sè stessa, non presentiva alcun vôto, e si contentava d’aspirare al genere di perfezione che le sue proprie forze possono realmente farle conseguire. Ma, quanto a noi, una più alta dottrina c’insegna che il genere umano, avendo perduto per un gran fallo il posto che gli era stato originariamente destinato, non ha sulla terra altro fine che di ricuperarlo; al che tuttavía non può giungere, s’egli resta abbandonato a sè stesso. La religione sensuale de’ Greci non prometteva che beni esteriori e temporali: l’immortalità, se pur vi credevano, non era da essi che appena appena scorta in lontananza, come un’ombra, come un leggier sogno che altro non presentava se non una languida imagine della vita, e spariva dinanzi alla sua luce sfolgoreggiante. Sotto il punto di vista cristiano, tutto è precisamente l’opposito: la contemplazione dell’infinito ha rivelato il nulla di tutto ciò che ha de’ limiti; la vita presente si è sepolta nella notte; e sol di là dalla tomba risplende l’interminabile giorno dell’esistenza reale. Una siffatta religione risveglia tutti i presentimenti che riposano nel fondo dell’anime sensitive, e li mette in palese; ella conferma quella voce secreta la qual ne dice che noi aspiriamo ad una felicità cui non si può conseguire in questo mondo, - che nessun oggetto caduco può mai riempire il vôto del nostro cuore, - ch’ogni piacere non è quaggiù che una fugace illusione. Allorchè dunque, simile agli schiavi ebréi i quali prostesi sotto i salci di Babilonia faceano risonare de’ loro lamentevoli canti le rive straniere, la nostr’anima esigliata su la terra sospira la sua patria, quali possono mai essere i suoi accenti, se non quelli della melancolía? E però la poesía degli antichi era quella del godimento; la nostra è quella del desiderio: l’una si ristringeva al presente, l’altra si libra fra la ricordanza del passato e il presentimento dell’avvenire.
Nondimeno non bisogna credere che la melancolía si vada al continuo esalando in monótone querimonie, nè ch’ella si manifesti sempre distintamente. Nella stessa maniera che la tragedia fu sovente appresso de’ Greci energica e terribile, non ostante l’aspetto sereno sotto cui essi riguardavano la vita, anche la poesía romantica, come l’abbiamo pur anzi dipinta, può passare per tutti i toni, da quello della tristezza infino a quello della gioja; ma sempre trovasi in essa un certo che d’indefinibile che dinota l’origine sua; il sentimento è in essa più intimo, l’imaginazione meno sensuale, il pensiero più contemplativo. Contuttociò in realtà i limiti si confundono alcuna volta, e li oggetti non si mostrano mai interamente distaccati li uni dagli altri, e quali siamo costretti di rappresentarceli per averne una idéa distinta.
I Greci vedeano l’ideale della natura umana nella felice proporzione delle facultà e nel loro armonico accordo. I moderni all’incontro hanno il profondo sentimento d’una interna disunione, d’una doppia natura nell’uomo che rende questo ideale impossibile a effettuarsi: la loro poesía aspira di continuo a conciliare, a unire intimamente i due mondi fra’ quali ci sentiamo divisi, quello de’ sensi e quello dell’anima; ella si compiace tanto di santificare le impressioni sensuali che l’idéa del misterioso vincolo che le congiunge a sentimenti più elevati, quanto di manifestare a’ sensi i movimenti più inesplicabili del nostro cuore e le sue più vaghe percezioni. In breve, essa dà anima alle sensazioni, corpo al pensiero.
Non è dunque maraviglia che i Greci ne abbiano lasciato, in tutti i generi, de’ modelli più finiti. Essi miravano ad una perfezione determinata, e trovarono la soluzione del problema che s’aveano proposto: i moderni a rincontro, il cui pensiero si slancia verso l’infinito, non possono mai compiutamente satisfare sè stessi, e rimane alle loro opere più sublimi un non so che d’imprefetto che le espone al pericolo d’esser male apprezzate.
A.W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, trad. e note a cura di G. Gherardini, Genova, Il Melangolo, 1980
Se l’arte degli antichi è plastica, luminosa e ariosa, quella dei moderni è pittorica, ovvero si esprime per chiaroscuri, in un insieme composito dove le ombre non hanno meno significato della luce. Mentre la poesia degli antichi afferma il possesso dell’universo da parte dell’uomo che in esso si riconosce, quella dei moderni esprime lo struggimento e la malinconia per un mondo perduto. La poesia moderna nasce dunque sotto il segno della nostalgia e dell’irrequietezza eterna, dal sogno di una felicità lontana e irraggiungibile.
Lo specchio e la lampada: il romanticismo inglese
Le Lyrical Ballads di William Wordsworth e Samuel Taylor Coleridge, pubblicate nel 1798, rappresentano l’atto di nascita della stagione romantica inglese. Nella Prefazione alla seconda edizione del 1800, Wordsworth delinea la poetica del nuovo movimento, affermando che la poesia emerge da un processo fantastico della mente, in cui i sentimenti hanno un ruolo preponderante.
Il potere creativo dell’immaginazione non consiste più nel riprodurre la realtà, abbellendola e trasformandola, ma nell’accenderla dall’interno attraverso una rete di simboli e di metafore. Al principio classicista dell’arte come specchio della natura, il poeta romantico sostituisce la funzione illuminante della poesia che come una lampada rivela il senso profondo delle cose. Rifiutando di lasciarsi plasmare dalle impressioni esterne, come predicavano le poetiche settecentesche legate al sensismo, l’artista rivendica il ruolo attivo di chi infonde vita, fisionomia e passione alla realtà circostante. La metafora culminante di questo processo di interazione è il matrimonio fra la mente e la natura che ricorre nella poesia di Wordsworth e di Blake.
Tale mutamento di prospettiva si riverbera anche sulla storia letteraria e sul modo di concepire il rapporto con la tradizione.
Al canone del gusto, afferma Coleridge, occorre ormai sostituire l’impulso del cuore. D’altro canto cuore e intelletto del poeta devono essere intimamente fusi e unificati con le grandi immagini della natura. A differenza di quanto affermato nelle poetiche dell’ideale, la nuova letteratura non piange le lacrime degli angeli, ma lacrime umane, dunque le parole del poeta devono essere adeguate a esprimere gli stati psicologico-affettivi della passione. La poesia stessa non è contemplazione del bello, ma spontaneo traboccare di forti sentimenti che nasce dall’emozione rivissuta in tranquillità.
L’immaginazione creatrice dell’uomo, opposta al primato settecentesco della ragione analitica, diventa il parametro per giudicare le opere letterarie. E tuttavia l’universo romantico appare fin dall’inizio segnato dall’impossibilità di far coincidere le passioni con una realtà delimitata dal freddo cerchio della ragione filosofica e scientifica.
Nella visione di Wordsworth, poesia e natura appaiono irrimediabilmente divise, così come l’universo mitico e completo degli antichi è diviso da quello consapevole ma limitato dei moderni.
Tra due culture: il gruppo di Coppet
Il cenacolo letterario di Coppet, dal nome del castello nei pressi di Ginevra dove Madame de Staël riunisce nei primi anni dell’Ottocento un gruppo di letterati e filosofi avversi alla politica imperialistica di Napoleone, costituisce un importante momento di transizione tra la cultura classicistica e razionalistica dell’Illuminismo e il nascente movimento romantico. Ammiratrice fervente dei philosophes francesi, ma allieva di August Wilhelm Schlegel, il teorico del romanticismo tedesco, Madame de Staël contesta i risultati più radicali della cultura illuministica, come il materialismo ateo e l’utilitarismo, impegnandosi nello stesso tempo a diffonderne gli ideali di progresso e di fiducia nella ragione umana. Attraverso l’unione di ragione e sentimento, infatti, il compito dell’intellettuale diviene quello di accordare la sensibilità alla religione e all’impegno civile, per recuperare la moralità, la dignità e la libertà delle lettere, compromesse dagli eccessi del Terrore e dalla tirannide napoleonica.
Tra il 1805 e il 1810 il gruppo composto in origine da Charles Victor de Bonstetten, Benjamin Constant, Simonde de Sismondi e Prosper de Barante è fortemente influenzato dalla presenza a Coppet di August Wilhelm Schlegel e del fratello Friedrich, che all’osservazione dei precetti e delle regole di tradizione aristotelica oppongono la dottrina del genio creatore.
Contestando l’imperialismo politico e culturale francese, il gruppo rivendica la legittimità di un gusto nazionale prodotto dello spirito di un popolo, aprendo la via al riconoscimento delle letterature nazionali. Quest’idea pervade alcune delle opere più significative del cosmopolitismo letterario di Coppet, come il De la littérature du midi de l’Europe (1813) di Sismondi e L’homme du midi et l’homme du nord (1824) di Bonstetten, dove le ipotesi settecentesche sull’influenza del clima vengono utilizzate per delineare una nuova geografia letteraria su base antropologica. L’indole appassionata dei popoli meridionali, la loro tendenza spontanea alla poesia e all’effusione drammatica si contrappongono allo spirito speculativo dei popoli del Nord, il cui ripiegamento interiore è la risposta psicologico-esistenziale all’inclemenza della natura. Nella prospettiva antropologica divulgata da La Germania (1813) di Madame de Staël la geografia dell’anima costituisce anche il criterio dell’interpretazione storica. Mentre il concetto di classico definisce la poesia solare e pagana degli antichi, lo spirito romantico coincide con la poetica della malinconia dei moderni, ispirata agli ideali della rassegnazione e della pietà del cristianesimo.
Madame De Staël
La poesia tedesca ha come fonte principale il terrore
Sulla Germania
Dobbiamo ancora parlare della fonte inesauribile di effetti poetici che troviamo in Germania: il terrore. Gli spettri e gli stregoni piacciono al popolo e alle persone colte: è un resto della mitologia nordica, una disposizione che ispirano abbastanza naturalmente le lunghe notti dei climi settentrionali: e d’altronde, benché il cristianesimo combatta tutti i timori infondati, le superstizioni popolari hanno sempre qualche analogia con la religione dominante. Quasi tutte le verità sono seguite da un errore, accolto dalla fantasia come l’ombra a fianco della realtà: lusso della fede, che s’accompagna abitualmente con la religione come con la storia; né so perché si debba sdegnar di usarne. Shakespeare trae prodigiosi effetti dagli spettri e dalla magia, né la poesia potrebbe esser popolare, disprezzando un potere irriflessivo, che si esercita sull’immaginazione. Il genio e il gusto possono vigilare sull’uso di queste favole, che per la volgarità del fondo esigono un più grande ingegno; ma forse proprio a quest’unione dobbiamo la potenza di un poema. E’ probabile che gli avvenimenti narrati nell’Iliade e nell’Odissea fossero cantati dalle nutrici, prima che Omero ne facesse il capolavoro dell’arte.
Bürger ha colto meglio di ogni altro tedesco quella vena di superstizione che penetra così profondamente nei cuori. Per questo in Germania tutti conoscono le sue romanze. La più famosa, Leonora, non credo sia tradotta in francese, o almeno sarebbe difficilissimo esprimerne tutti i particolari, sia in prosa che in versi. Una fanciulla è atterrita di non aver notizie dell’amante, partito per il campo; si fa la pace; tutti i soldati tornano alle loro case. La madre ritrova il figlio, la sorella il fratello, la moglie il marito; le trombe guerriere accompagnano i canti della pace e la gioia è in tutti i cuori. Leonora cerca invano nelle file dei soldati: non trova il suo amante; non si sa nulla di lui. La fanciulla si dispera; sua madre vorrebbe calmarla; ma il giovane cuore di Leonora si ribella al dolore, e, nel suo smarrimento, essa rinnega la Provvidenza. Pronunciata la bestemmia, si sente nel racconto qualcosa di funesto, e da quel momento l’animo è continuamente scosso.
A mezzanotte, un cavaliere si ferma alla porta di Leonora, che sente nitrire il cavallo e risonar gli sproni: il cavaliere batte, essa scende e riconosce l’amante. Egli le chiede di seguirlo, perché non ha un momento da perdere prima di tornare al campo. La fanciulla si slancia, egli la mette dietro a sé sul cavallo, e parte rapido come il lampo. Galoppa nella notte per luoghi aridi e deserti; la fanciulla è invasa dal terrore e gli chiede continuamente il perché di una così rapida corsa; il cavaliere affretta ancora il passo del cavallo con gridi cupi e sordi, e dice piano: "I morti vanno in fretta, i morti vanno in fretta". Leonora gli risponde: "Ah! lascia in pace i morti!". Ma ad ogni domanda inquieta, egli ripete le stesse parole funeste.
Nei pressi della chiesa, dove diceva di condurla per unirsi a lei, l’inverno e la neve fanno anche della natura un orrendo presagio: dei preti portano un feretro in processione e le loro vesti nere strisciano lente sulla neve, lenzuolo funebre della terra; lo spavento della fanciulla aumenta, l’amante torna a rassicurarla, e fanno rabbrividire le sue parole miste di noncuranza e d’ironia. Tutto quel che dice ha un monotono suono accelerato, come se il suo linguaggio non avesse ormai più l’accento della vita; promette di condurla nella casa stretta e silenziosa, dove si faranno le nozze. Si vede da lontano il cimitero, presso la porta della chiesa; il cavaliere bussa, la porta s’apre; egli vi si precipita col cavallo, che fa passare tra le pietre sepolcrali; e prede a poco a poco l’apparenza di un vivo; si muta in scheletro, e la terra si schiude a ingoiarlo con l’amante.
Non ho certo sperato di tradurre in questo riassunto lo stupendo pregio della romanza: tutte le immagini, tutti i rumori rispondenti agli stati dell’animo sono meravigliosamente espressi dalla poesia: le sillabe, le rime, tutta l’arte delle parole e del loro suono è usata per incutere terrore. Il rapido passo del cavallo sembra più solenne e cupo della lentezza di una marcia funebre. L’energia del cavaliere nell’affrettar la corsa, quell’impetuosità della morte suscita un turbamento inesprimibile; e ci si crede rapiti dallo spettro, come la sventurata ch’egli trascina con sé nell’abisso.
Madame De Staël, Sulla Germania, Torino, De Silva, 1943
Il tempo del "Conciliatore": classico e romantico in Italia
Il romanticismo italiano ha inizio storicamente nel 1816 con la polemica suscitata dalla pubblicazione nella "Biblioteca italiana" dell’articolo Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, in cui Madame de Staël esorta la cultura italiana ad aprirsi alle novità della letteratura europea.
Contro le vivaci reazioni dei letterati che insorgono a difesa del canone classicistico del gusto e della tradizione italiana, un gruppo di intellettuali eredi dell’Illuminismo lombardo accoglie l’invito a una letteratura che si fonda sulla rappresentazione problematica della realtà. Così, mentre le posizioni dei classicisti trovano spazio sulla "Biblioteca italiana", di ispirazione conservatrice, i romantici danno vita al foglio liberale "Il Conciliatore", sorto nel 1818 in opposizione alla cultura ufficiale e subito colpito dalla repressione austriaca che mette fine, appena un anno dopo, ai tentativi politici e culturali di rinnovamento.
I temi della polemica italiana ruotano intorno alla questione dell’uso della mitologia in letteratura, a cui i romantici oppongono temi tratti dalla storia o dall’immaginazione popolare, e il rapporto con le letterature straniere. Sia Pietro Borsieri nel Programma del "Conciliatore", sia Berchet nella Lettera semiseria di Grisostomo rivendicano l’esistenza di un pubblico moderno e colto, a cui indirizzare la proposta di una letteratura applicata alle esigenze della società del tempo, senza tenere conto della distinzione di generi e stili. A causa dei suoi legami con l’Illuminismo lombardo, il gruppo del "Conciliatore" sente fortemente la frattura aperta dalla Rivoluzione francese e il problema del rapporto storico-letterario con gli ideali del Settecento razionalista. Nella Lettera a Monsieur Chauvet, Alessandro Manzoni affronta da un lato la questione delle regole aristoteliche, che impediscono la libera espressione dei sentimenti, mentre dall’altro pone il problema della moralità del teatro.
A differenza del modello settecentesco che mira al dispiegamento delle passioni sulla scena, il teatro romantico è inteso da Manzoni come rappresentazione etica degli affetti, regolati e guidati dall’autore che rivendica la possibilità di un giudizio storico e letterario. Nel Conte di Carmagnola, ma ancor più nell’ Adelchi, Manzoni mette in scena il conflitto tra la morale e la storia, e la possibilità – propria della poesia – di dar voce ai personaggi minori e alle vicende trascurate o ignorate dalla ricostruzione ufficiale degli avvenimenti. Secondo una teoria che sfocia poi nell’esperimento romanzesco dei Promessi sposi, il compito del poeta diviene quello di rimediare poeticamente all’arbitrio della storia.
Nelle Idee elementari sulla poesia romantica, l’ideologo Ermes Visconti sostiene che alla poesia romantica appartengono tutti i soggetti ricavati dalla storia moderna e dal Medioevo, e che compito del poeta moderno è di coniugare l’ideale con il vero e con l’utile. Commentando Il Giaurro di Byron, Ludovico Di Breme enuncia invece i caratteri del romanticismo italiano, fondato sul patetico; patetico che non coincide con i soggetti lugubri in voga alla fine del Settecento, ma consiste nella vastità e nella profondità del sentimento che dà vita alla nuova mitologia dei moderni, fondata sull’osservazione del cuore umano e dei suoi misteri.
Sul versante spesso opaco e difensivo dei classicisti, la posizione di Vincenzo Monti è emblematica di un pensiero che difende una poesia basata sulla meraviglia e il portento delle favole mitologiche, opposte all’arido vero. Creatore di un "classicismo borghese" dai caratteri nazionali, Monti mostra alcune consonanze con il modello romantico di poesia impegnata e fiduciosa nel progresso, pur continuando a esprimersi in un linguaggio aulico e sublime che riveste formule e tipi tradizionali. Opposto ma per molti versi complementare è il pensiero di Ugo Foscolo e di Giacomo Leopardi, lontani sia dalle posizioni arretrate di un classicismo pedante sia dalle proposte romantiche. Per Foscolo, che sperimenta nell’ Ortis la profonda lacerazione storica e individuale degli ideali settecenteschi e il tradimento della politica napoleonica, la mitologia rappresenta il mondo ideale delle illusioni, lo strumento capace di dare voce ai fondamenti originari e mitici.
Nel velo delle Grazie, posto dal poeta tra sé e il mondo, Foscolo esprime quella distanza dalle passioni che consente di attingere a un ideale di bellezza purificatrice e consolatoria. Per Leopardi la mitologia e il suo corredo di immagini esprimono la giovinezza primitiva e vitale del mondo degli antichi che l’uomo moderno ha perduto come ha dimenticato il tempo della sua infanzia, consegnandosi alla simbolica aridità dell’epoca moderna.
Giacomo Leopardi
Per qualche anno, tutti siamo stati come gli antichi
Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica
Imperocché quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia; quando il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna; quando ciascun oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo accennando, quasi mostrasse di volerci favellare; quando in nessun luogo soli, interrogavamo le immagini e le pareti e gli alberi e i fiori e le nuvole, e abbracciavamo sassi e legni, e quasi ingiuriati malmenavamo e quasi beneficati carezzavamo cose incapaci d’ingiuria e di benefizio; quando la maraviglia tanto grata a noi che spessissimo desideriamo di poter credere per poterci maravigliare, continuamente ci possedeva; quando i colori delle cose quando la luce quando le stelle quando il fuoco quando il volo degl’insetti quando il canto degli uccelli quando la chiarezza dei fonti tutto ci era nuovo o disusato, né trascuravamo nessun accidente come ordinario, né sapevamo il perché di nessuna cosa, e ce lo fingevamo a talento nostro, e a talento nostro l’abbellivamo; quando le lagrime erano giornaliere, e le passioni indomite e svegliatissime, né si reprimevano forzatamente e prorompevano arditamente. Ma qual era in quel tempo la fantasia nostra, come spesso e facilmente s’infiammava, come libera e senza freno, impetuosa e istancabile spaziava, come ingrandiva le cose piccole, e ornava le disadorne, e illuminava le oscure, che simulacri vivi e spiranti che sogni beati che vaneggiamenti ineffabili che magie che portenti che paesi ameni che trovati romanzeschi, quanta materia di poesia, quanta ricchezza quanto vigore quant’efficacia quanta commozione quanto diletto. Io stesso i ricordo di avere nella fanciullezza appreso coll’immaginativa la sensazione d’un suono così dolce che tale non s’ode in questo mondo; io mi ricordo d’essermi figurate nella fantasia, guardando alcuni pastori e pecorelle dipinte sul cielo d’una mia stanza, tali bellezze di vita pastorale che se fosse conceduta a noi così fatta vita, questa già non sarebbe terra ma paradiso, e albergo non d’uomini ma d’immortali; io senza fallo (non m’imputate a superbia, o Lettori, quello che sto per dire) mi crederei divino poeta se quelle immagini che vidi e quei moti che sentii nella fanciullezza, sapessi e ritrargli al vivo nelle scritture e suscitarli tali e quali in altrui. Ora che la memoria della fanciullezza e dei pensieri e delle immaginazioni di quell’età ci sia straordinariamente cara e dilettevole nel progresso della vita nostra, non voglio né dimostrarlo né avvertirlo: non è uomo vivo che non lo sappia e non lo provi alla giornata, e non solamente lo provi, ma se ne sia formalmente accorto, e purch’abbia filo d’ingegno e di studio, se ne sia maravigliato. Ecco dunque manifesta e palpabile in noi, e manifesta e palpabile a chicchessia la prepotente inclinazione al primitivo, dico in noi stessi, cioè negli uomini di questo tempo, in quei medesimi ai quali i romantici proccurano di persuadere che la maniera antica e primitiva di poesia non faccia per loro. Imperocché dal genio che tutti abbiamo alle memorie della puerizia si deve stimare quanto sia quello che tutti abbiamo alla natura invariata e primitiva, la quale è né più né meno quella natura che si palesa e regna ne’ putti, e le immagini fanciullesche e la fantasia che dicevamo, sono appunto le immagini e la fantasia degli antichi, e le ricordanze della prima età e le idee prime nostre che noi siamo così gagliardamente tratti ad amare e desiderare, sono appunto quelle che ci ridesta l’imitazione della natura schietta e inviolata, quelle che ci può e secondo noi ci deve ridestare il poeta, quelle che ci ridestano divinamente gli antichi, quelle che i romantici bestemmiano e rigettano e sbandiscono dalla poesia, gridano che non siamo più fanciulli: e pur troppo non siamo; ma il poeta deve illudere, e illudendo imitar la natura, e imitando la natura dilettare: e dov’è un diletto poetico altrettanto vero e grande e puro e profondo? e qual è la natura se questa non è? anzi qual è o fu mai fuorché questa?
G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di W. Binni, Firenze, Sansoni, 1976
I fantasmi della Rivoluzione: il romanticismo francese
Uno dei tratti peculiari del romanticismo francese è il suo immediato affermarsi come movimento letterario, legato ad ambienti sociali e politici diversi.
L’unione tra il romanticismo di matrice liberale e borghese e quello aristocratico e religioso si attua attraverso la personalità dominante di Victor Hugo. Erede dell’inquietudine e della sensibilità settecentesca mediata dalle teorie di Coppet, il romanticismo francese si sviluppa a stretto contatto con l’esperienza italiana del "Conciliatore". Rifacendosi alle idee espresse da Ermes Visconti, nel 1823 Stendhal pubblica una serie di lettere intitolata Racine et Shakespeare, nelle quali definisce l’opposizione tra lo spirito classico e quello romantico. Mentre lo spirito romantico consiste nel presentare ai popoli un riflesso dei loro costumi e delle loro abitudini attraverso le opere letterarie, quello classico rimane fedele ai capolavori del passato, ai gusti e alle aspettative di un pubblico che non esiste più. A differenza del classicismo, inoltre, il romanticismo procede alla scoperta dell’attuale, del reale e della storia. La sensibilità dei moderni, intesa come capacità di intuire e rappresentare i misteri della coscienza umana, deve saper sostituire al canone degli autori classici i turbamenti e le inquietudini delle tragedie di Shakespeare, del Manfred di Byron e del Faust di Goethe.
Il trauma storico e culturale provocato dagli eventi della Rivoluzione francese e dalla frattura degli ideali dell’Illuminismo favorisce nel romanticismo francese la scoperta dell’individuale e del relativo e si concretizza nel recupero di epoche storiche prima ignorate o disprezzate come barbare e incivili. L’interesse per il Medioevo, risvegliato dalla diffusione dei romanzi di Walter Scott, conduce a una prospettiva storica che a differenza di quella tradizionale dà voce agli oppressi e ai perdenti. Le ricostruzioni corali di Prosper de Barante, Augustin Thierry e Jules Michelet propongono un nuovo modello storiografico che non si limita a interpretare gli avvenimenti dal punto di vista dei protagonisti, ma vede in essi il prodotto dell’energia spirituale di un intero popolo.
La visione relativamente ottimista della storia non impedisce che la generazione letteraria degli anni Venti si senta preda di uno spaesamento politico e sociale che si esprime sempre più nel ritorno al passato. Il mito di un mondo incontaminato, il primitivismo e il gusto per l’esotico sono altrettanti caratteri del romanticismo francese, espressi in modi e forme differenti nelle opere di Théophile Gautier, di Lamartine e di Nerval. Nello spirito di Schlegel e di Herder si sviluppa l’interesse per le forme di letteratura popolare e per il mondo orientale, che assecondano il bisogno di certezze e di stabilità. La malinconia di un mondo perduto, esemplificata dai romanzi di Chateaubriand, contrasta con la celebrazione dell’energia e della vitalità nelle opere di Hugo e di Stendhal e con quella che è stata definita l’estetica dello choc. Sulla scorta di Goethe, di Schiller e di Byron, le figure del brigante, dell’eroe maledetto e del condannato a morte invadono la letteratura e i fantasmi del sangue e del terrore legati alla rivoluzione sembrano prendere corpo in una sorta di ritorno del rimosso.
Gli stati eccessivi del sogno, della follia e dell’allucinazione, ignorati o contenuti dal pensiero e dall’arte classica, rappresentano per i romantici lo strumento conoscitivo a cui ricorrere per dare voce alle passioni, trasfigurandole sul piano letterario.