Classico
I classici oggi
Incertezza del termine
È un fatto risaputo che i radicali mutamenti della comunicazione che si sono svolti, con accelerazione in costante aumento, nel corso del 20° sec. hanno prodotto un allontanamento dai modelli letterari, dal tradizionale rapporto educativo e formativo con la letteratura, dal rilievo dei 'classici' nel sistema culturale. In molti Paesi occidentali lo studio della letteratura nella scuola è stato ridimensionato e ridotto ai minimi termini; e dove esso continua a essere comunque imposto dai programmi ufficiali, come in Italia, si è impoverito de facto, spesso evaporando nell'indifferenza e scontrandosi con l'ostilità dei ragazzi, con la schematicità delle formule manualistiche, con l'aridità di certi esercizi strutturali e interpretativi. La televisione e la pubblicità propongono modelli di vita e di comportamento rivolti al consumo esasperato del presente, al culto dell'apparenza e della performance, all'assillo della sorpresa e della trasgressione: il dominio della velocità e della virtualità rende impraticabile il lento e meditato confronto con la densità delle pagine scritte, con il loro procedere lungo e avvolgente; si prospetta l'orizzonte di una conoscenza intuitiva e plurale che può tranquillamente fare a meno dell'identificazione di valori problematici. Siamo entrati o stiamo entrando in quella 'terza fase' (come l'ha chiamata R. Simone nel libro omonimo La terza fase: forme di sapere che stiamo perdendo, 2000), in cui certo si continuerà a leggere, ma secondo gli schemi prestabiliti dal computer e da Internet, in una evanescente aleatorietà della parola, in una continua intercambiabilità delle forme testuali e visive, con passaggi e intersezioni che ci inviteranno in misura crescente a una navigazione di superficie rendendo difficili quelle discese in profondità che la grande letteratura sembra arrogantemente pretendere (di questo interminabile passare da una cosa all'altra è tecnica esemplare quella dell'ipertesto, che non a caso, anche nelle esercitazioni scolastiche, viene sempre più a occupare il campo degli studi letterari e linguistici).
I 'classici' sono in effetti espunti dalla comunicazione corrente, dalla circolazione dell'esperienza quotidiana, anche se i media e perfino la pubblicità sembrano a tratti manifestare una grande attenzione nei loro confronti. Non mancano eventi sui c. e letture pubbliche di c., che, grazie a una valida attività promozionale, sollecitano un appassionato concorrere di spettatori: e peraltro è assai più facile che in passato trovare c. in edizioni economiche e ben fatte (anche distribuite in edicola per iniziativa dei quotidiani). Questo parziale successo pubblico può in effetti trarre in inganno: piuttosto che la reale presenza dei c. nella coscienza comune esso mostra come questi siano percepiti ormai solo come segni esteriori di identità e di distinzione, effimeri segnali occasionali di riconoscimento culturale. Così S. Settis, in Futuro del 'classico' (2004), riferendosi all'antichità classica ha notato che oggi "quanto è etichettabile come 'classico' si presta in modo speciale a un diffuso uso occasionale" (p. 9).
La parola classico, sia come aggettivo sia come sostantivo, continua a circolare variamente e spesso si trova a designare molte scorie della più ovvia comunicazione corrente, del più eterogeneo consumo quotidiano. Nella lingua corrente praticamente tutto può aspirare alla qualifica di 'classico', come peraltro tutto può qualificarsi come 'mitico'. Classico può essere tutto ciò che, facendo parte della nostra vita presente, viene comunque da un tempo precedente, anche se abbastanza vicino; o che si impone con una certa persistenza sulla scena pubblica e sul mercato: un film di pochi anni fa, un qualunque successo musicale di ieri, o addirittura una canzone che domina le classifiche. Ci sono corse classiche (chiamate semplicemente con l'aggettivo sostantivato 'le classiche') e squadre classiche, canzoni e cantanti classici (lasciando da parte il dominio speciale della musica detta classica), trasmissioni televisive classiche e spot pubblicitari classici, stili classici nella moda e nella cucina e non solo. Nella sua nebulosa pervasività la parola classico tende ad assumere un rilievo e un'estensione di significati che si avvicinano notevolmente a quelli dell'inflazionato 'mitico'.
Questa attuale diffusione e indeterminatezza della parola classico non è che il risvolto subalterno e banalizzato della varietà e ambiguità di significati del c. nello stesso linguaggio culturale tradizionale e nello stesso nostro modo di riferirci ai c. della letteratura. È noto - come spiega Aulo Gellio (Noctes Atticae, vi, 13) - che il termine designasse in Roma coloro che appartenevano alla classis più alta, dotati di un censo da 125.000 assi in su, in opposizione ai proletarii privi di censo e provvisti solo di prole, e che la prima attestazione del suo uso per la letteratura sia data da un passo di Frontone citato dallo stesso Gellio (xix, 8, 15): la nozione di c. comporta subito all'origine il riferimento a un 'canone', a una scelta di scrittori eccellenti, di prima classe, da studiare nelle scuole.
Nelle lingue moderne il termine classico apparve nel corso del 16° sec., prima nel francese classique e poi in italiano, senza preciso riferimento a un canone particolare, ma in modo indeterminato, per designare genericamente oggetti degni di essere considerati di riconosciuto valore ed eventualmente da imitare. Se già B. Segni nel 1581 parla di "autori classichi o toscani", e G. Marino in La Sampogna (Lettera 4), accenna alla critica che il poeta satirico Lucilio rivolge a "Euripide, Accio, Ennio, Pacuvio et altri poeti classici del primo secolo", soltanto nel 18° sec. si attesta un uso del termine rivolto a indicare in blocco l'orizzonte artistico, culturale, storico dell'antichità greca e latina: il c. e la classicità si proiettano in modo più nettamente definito nel passato in cui si collocano i fondamenti della civiltà occidentale.
Il neoclassicismo riconobbe nell'arte classica un modello di idealità, di purezza e naturalezza, avvertendone nel contempo tutta la distanza dal presente: e mentre si intrecciavano variamente o entravano in conflitto tra loro i propositi di fedeltà alla tradizione classica e i richiami della modernità (che in Italia trovarono un momento particolarmente acuto nella polemica classico-romantica, scatenatasi a partire dal 1816), nell'uso si impose il richiamo determinante all'antichità classica, sostenuto e amplificato dall'organizzazione degli studi classici, da un'articolazione degli insegnamenti e dei quadri disciplinari umanistici tale da prevedere materie rivolte allo studio della cultura greco-romana (filologia classica, archeologia classica ecc.). Si è avuta poi un'immediata estensione del termine classico a indicare quei momenti della storia culturale che hanno avuto come punto di forza il rapporto con il mondo antico (come il Rinascimento italiano) o sono stati espressione di società giunte al massimo grado di fioritura sociale, economica, politica (così âge classique viene chiamata quella della Francia di Luigi xiv).
Con un passo ulteriore il termine è stato esteso a tutte quelle esperienze culturali che si pongono con una forza e un valore modellizzanti, di cui si afferma la coerenza e la validità, da cui sembra potersi estrarre un'esperienza essenziale e determinante. E ormai i c. non sono più soltanto gli antichi, né soltanto coloro che in un modo o nell'altro mirano a far risorgere l'antico: in letteratura vengono man mano indicati come classici tutti gli autori considerati degni di essere letti al di là dei limiti del loro tempo, tutte le opere ritenute costitutive di identità culturale, che dovrebbero 'restare' nel patrimonio dell'umanità e che dagli orizzonti più diversi, lontani o vicini, possono offrire qualcosa di non trascurabile alla nostra esperienza. Per noi ormai, e per il corrente linguaggio culturale, sono classici tutti gli scrittori che si trovano su un gradino più elevato e meritano una superiore visibilità. Capita che vengano indicati come classici tutti gli scrittori che costituiscono il corpus della tradizione letteraria: tutti gli scrittori del passato, tutti quelli che stanno o meritano di stare nelle collane dei c., tutti quelli che vengono sottoposti alle ricerche dei critici, dei filologi, degli storici; ma anche alcuni scrittori contemporanei e perfino viventi, il cui interesse e valore sembra fin d'ora sicuro e duraturo. In fondo, in questo modo anche sul piano del linguaggio colto 'classico' finisce per annegare in un'indeterminatezza simile a quella delle accezioni più banali e correnti.
Classico e anticlassico
Ogni riferimento al c., comunque lo si intenda, fa affacciare subito il fantasma del 'classicismo', di una prospettiva culturale rivolta alla diretta ripresa dei modelli classici, segnata dalla ricerca di perfezione, di equilibrio, di stabilità e di armonia, tesa ad allontanare avventure sperimentali e a filtrare la realtà, espungendo gli aspetti inquietanti e laceranti. Il classicismo percorre in effetti tutta la storia della nostra cultura, portandovi un'esigenza di chiarezza, nitidezza, razionalità espressiva, a cui fa da corrispettivo l'eliminazione dal linguaggio di elementi grezzi, realistici, informi. Il culto classicistico della forma, che risale indietro fino ai grandi c. dell'antichità, mira spesso a farsi espressione di società compiaciute di sé stesse, sicure dei loro modelli di vita, aspiranti a sottrarsi al flusso disgregatore del tempo: società rivolte verso un orizzonte 'imperiale', che in qualche modo riproduca e rilanci nel presente quello della Roma di Augusto (con il rilievo dei suoi c. più grandi e universali, Virgilio e Orazio). In tutta la storia della letteratura occidentale si suole scorgere, del resto, un conflitto sempre riproposto tra classicismo e anticlassicismo, tra propositi di costruzione, di rigore razionale, di equilibrio formale, e propositi di negazione, di rottura, di disintegrazione della forma. E in particolare la dialettica delle avanguardie novecentesche può essere ricondotta al riproporsi dell'eterna lotta senza scampo contro ogni sorta di classicismo, della ricerca esasperata di 'avventure' in contrasto con l'opposta pretesa di costruire e fissare un 'ordine' perfetto e incrollabile.
Se però le cose si guardano più da vicino, ci si accorge subito che non sempre il classicismo corrisponde al punto di vista di una società costituita, all'esigenza egemonica di classi sociali abbarbicate al loro dominio sull'insieme sociale: il classicismo può assumere anche valori alternativi, può rivolgersi a contestare il disordine negativo del mondo, può cercare un'idealità utopica. L'assolutezza della forma può essere strumento di una ragione demistificatrice, opposta alla perversa irrazionalità del mondo e dei poteri costituiti. La dialettica storica tra classicismo e anticlassicismo è insomma complessa e contraddittoria: ed è bene diffidare di troppo sicure e disinvolte attribuzioni di valori ideologici predefiniti alle due linee, che in realtà si trovano intrecciate e sovrapposte molto più spesso di quanto comunemente non si pensi. Ci sono tanti diversi classicismi, che tra l'altro possono fare riferimento a c. tra loro molto diversi: e ci può essere chi si trova ad arruolare tra i modelli classici qualche 'classico' che da qualcun altro viene invece considerato 'anticlassico'. Si può sentir parlare legittimamente di c. dell'anticlassicismo. Classicismo o no, tutti gli autori di valore, anche quelli che hanno combattuto contro i canoni dell'equilibrio e della razionalità, che si sono scagliati contro la tradizione, possono alla fine essere accolti tra i c., riconosciuti addirittura come modelli, dato che la loro ricchezza, coerenza e complessità suggeriscono sempre dei mondi umani possibili. Da ogni grande esito artistico e linguistico, sia che si immerga fino in fondo nella realtà esterna, sia che sia tutto chiuso nel proprio spazio strutturale e formale, sprigionano sempre delle integrali immagini di vita.
Variabilità del canone
Come si è visto, fin dall'antichità l'individuazione degli scrittori classici presuppone la definizione di un canone: scrittori di prima classe sono quelli che vanno letti nelle scuole o che comunque il sistema culturale considera irrinunciabili. Tutte le culture e tutti i programmi educativi hanno definito canoni, più o meno espliciti: e la questione del canone è quella in cui più direttamente si misura la convergenza tra la scuola e l'insieme culturale. I canoni sono ovviamente variabili e si sono modificati più volte, secondo le esigenze e le ideologie delle diverse società: e non è un caso se oggi, nell'inquietudine che percorre le società occidentali, nel continuo vacillare di certezze e di punti di riferimento sicuri, la questione del canone si trovi all'ordine del giorno.
Con particolare asprezza e in forme davvero estreme una vera e propria guerra di canoni ha luogo negli Stati Uniti: una guerra che non riguarda una semplice modificazione del catalogo degli autori irrinunciabili, ma mette in questione l'intero sistema della cultura umanistica e della tradizione letteraria; non è in pericolo questo o quell'autore, ma tutta la letteratura occidentale, tutta l'eredità del passato letterario. L'affermazione del valore delle culture e dei modi di vita 'altri', emarginati e repressi nella lunga storia dell'Occidente, conduce al rifiuto dello studio dei grandi autori del passato, bollati tutti come dead white males: e si tende a sostituirlo con lo studio di linee e tendenze alternative, con la storia delle minoranze etniche e sessuali, con indagini delle forme più varie della cultura di massa contemporanea, del presente anche più degradato, ma 'popolare' e politically correct. È l'ampio universo dei Cultural studies, che imperversa nelle facoltà umanistiche americane: quando non esclude direttamente la letteratura, mira a sottoporne la storia a punti di vista alternativi, recuperando testimonianze delle culture emarginate e represse, scritture del sottosuolo; da questo punto di vista gli stessi c. vengono letti e studiati solo per 'decostruirne' i modelli ideologici e i ruoli sessuali (e si apre così un campo vastissimo di elucubrazioni accademiche, una produzione critica a chiavi prestabilite, che si riflette all'infinito su sé stessa). Quali che siano le intenzioni dei loro sostenitori, queste tendenze finiscono per convergere con gli esiti della più degradata cultura di massa, con l'emarginazione dei c. e dei loro valori dall'orizzonte della cultura quotidiana (e la cosa è tanto più pericolosa in quanto si impone nei sistemi educativi di un Paese che ha in mano le sorti del mondo).
In termini più ridotti e moderati la discussione sul canone coinvolge anche l'Italia, soprattutto in riferimento alla scelta degli autori da leggere a scuola, nel quadro di una generale aspirazione ad abbandonare il percorso dell'intera storia letteraria, a espungere (o quasi) alcuni autori considerati troppo lontani ed estranei alla sensibilità moderna, a proiettarsi verso lo studio del Novecento e più in generale della contemporaneità, ad aprirsi verso la multiculturalità e verso le letterature straniere, a muoversi secondo percorsi tematici che garantirebbero l'interdisciplinarità od offrirebbero ai giovani più forti motivazioni. Le fantasie dei pedagogisti e le impazienze dei docenti conducono a formulare ipotesi e progetti effimeri e aleatori, con combinazioni più o meno peregrine, che spesso partono da buone ragioni, ma che approdano comunque a una riduzione dello spazio dei c., arrivando a mettere in causa perfino quelli che hanno avuto un rilievo fondante per tutta la cultura europea, come F. Petrarca.
Qualsiasi limitazione o definizione rigida di un canone di scrittori da leggere, di c. obbligatori, resterebbe comunque qualcosa di puramente strumentale, non potrebbe richiamarsi a valide ragioni storiche e teoriche: ogni scelta vincolante si inscriverebbe inevitabilmente entro un quadro 'politico', in contraddizione con le più profonde e autentiche ragioni culturali. È certo peraltro che, se rapportati ai tempi e alle disponibilità della scuola, gli autori importanti e irrinunciabili sono davvero troppi, specie se si afferma (come è giusto) la necessità di rivolgere lo sguardo fuori del proprio Paese e di aprirsi a una prospettiva europea e mondiale, a tutta la grande letteratura che, nella nostra lingua e nelle altre, può dirci qualcosa di essenziale per la nostra vita, può tracciare un ponte dal passato verso un possibile futuro.
I c. vanno letti e scelti al di là di ogni discussione o guerra sul canone: il vastissimo orizzonte di scritture che abbiamo alle spalle, i molteplici capolavori che sono stati prodotti entro le lingue e le culture più diverse, l'inevitabile allargamento della nostra visione verso il passato e il presente dell'intero pianeta, impongono di evitare ogni discriminazione 'canonica'. È necessario mantenere un atteggiamento di apertura totale verso tutte le esperienze della grande letteratura, verso tutti gli autori e le opere che meritano ascolto, che venendo da lontano possono continuare a dire qualcosa di essenziale per il nostro presente. Questa apertura richiede naturalmente una disponibilità a muoversi verso le direzioni più diverse, come una sorta di 'nomadismo' della lettura. E proprio da questo nomadismo, e non certo da una legislazione di canoni vincolanti, si può arrivare a riconoscere il rilievo di autori e opere comunque imprescindibili: in ogni contesto particolare (come quello di una lingua e di una tradizione nazionale o internazionale) si potranno così individuare dei c. senza i quali non si può riconoscere ciò che si è diventati, senza i quali sfuggono particolari settori dell'esperienza, senza i quali non si riescono nemmeno ad ascoltare e a capire, dal contesto in cui ci si colloca, gli altri molteplici c. del mondo.
Tra identità e alterità
Assodato che non appare possibile fissare canoni assoluti e restrittivi, che la nozione stessa di canone non è teoricamente credibile e che scelte canoniche possono farsi soltanto in modo strumentale e pratico e sempre possono essere riviste nonché contraddette, come si riconosce un c. e per quali ragioni un libro viene considerato tale?
La cultura del Novecento ha dato molte risposte, differenti tra loro, anche in ragione dei diversi orientamenti di chi ha avuto del c. una nozione restrittiva e di chi invece ne ha ampliato i confini. Una risposta in ogni senso 'classica' è quella data da T.S. Eliot nel famoso saggio del 1944 What is a classic?, in cui l'idea di classicità si collega a quella di "maturità" e si distinguono "classico relativo" (che resta legato a un contesto e a una tradizione particolari) e "classico assoluto" (caratterizzato dalla sua 'comprensività', dalla capacità di sintetizzare in sé "l'intero genio di un popolo"): Eliot riconosce il c. assoluto in Virgilio, che per lui è un vero e proprio criterio di paragone, il poeta che ha fissato una volta per tutte un modello con cui si è poi misurata tutta la letteratura europea, garanzia della stessa "libertà" della cultura e della stessa "difesa della libertà contro il caos". Negli anni tremendi della Seconda guerra mondiale quel richiamo alla classicità poteva valere come un segnale di salvezza per l'Europa lacerata: affermazione di continuità con un ordine, un rigore, un equilibrio, con una complessa identità che la cieca volontà di potenza del nazismo aspirava a distruggere dalle fondamenta.
La scelta di Eliot si incontrava con l'inquieta interrogazione che lo scrittore austriaco H. Broch, esule negli Stati Uniti, rivolgeva al personaggio stesso di Virgilio nel grande romanzo The death of Virgil, pubblicato nel 1945 (trad. it. 1993), e con la grande summa sulla tradizione occidentale (con al centro proprio Virgilio e Dante) che il filologo e critico tedesco E.R. Curtius, esule in Svizzera, andava allora costruendo, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, il capolavoro critico pubblicato nel 1948 (trad. it. 1992), in cui la storia del concetto di c. e dei diversi classicismi europei si appoggiava sull'ipotesi di "un umanesimo purificato dal pedagogismo (e dalla politica), aperto al godimento della bellezza". La considerazione della classicità si poneva in quegli anni come inquieta partecipazione ai disastri del presente, speranza per un recupero di civiltà, di autenticità, di libertà, per il superamento del caos in cui il mondo era stato trascinato: il c. valeva come coscienza di sé dell'Occidente, come ritrovamento del legame perduto con le origini dell'Europa, come ricerca inesauribile di un valore incompiuto, in un anelito al "compimento".
Al di là degli orizzonti di Eliot e di Curtius, nel secondo Novecento il concetto di c. si è dilatato in più direzioni: e si può ricordare la riflessione di uno dei più autorevoli critici inglesi, F. Kermode, che, in un piccolo libro del 1975, The classic. Literary images of permanence and change, ha discusso l'orizzonte ideologico delle definizioni di Eliot e ha riconosciuto per suo conto nel c. il convergere di una spinta a fissarsi in un valore eterno e di quella contraria ad adattarsi alle diverse facce del mondo che muta; per lui i c. sono nello stesso tempo aperti a farsi attualizzare (anche con evidenti forzature da parte degli interpreti) e chiusi nella loro distanza, incastonati nella propria storia lontana. Kermode distingue c. antichi e c. moderni, sottolineando come questi ultimi incorporino dentro di sé l'instabilità del mondo: essi pongono ai lettori delle domande, mentre invece gli antichi offrivano loro delle risposte.
Questa nuova natura dei c. moderni ci conduce d'altra parte a trovare domande, e non più risposte, anche negli antichi. Il c. moderno modifica così il nostro modo di leggere il c. antico: e in ogni c. si aprono dei vuoti di senso, amplificati dallo scorrere del tempo, arricchiti dal cancellarsi delle ideologie e delle società che essi hanno espresso; si moltiplicano le possibilità di interpretazione; si creano dei surplus di significato, che danno luogo a letture sempre diverse di generazione in generazione. Nel tempo dell'ermeneutica i c. divengono così modello dell'apertura dell'interpretazione: nel loro linguaggio tanto ricco e complesso si aprono i varchi di una sempre nuova leggibilità. Essi si trasformano mantenendo la loro identità. La loro vita non è data una volta per tutte, ma si prolunga e si modifica, svelando significati e contenuti che potevano anche essere ignoti allo stesso autore. E se un'ermeneutica come quella di H.G. Gadamer in Wahrheit und Methode (1960, 19723; trad. it. 1972, 200113) ha visto nel c. "un modo eminente dell'essere storico stesso, l'atto storico della conservazione che mantiene in essere un certo vero attraverso una sempre rinnovata verifica" (p. 336), gli esiti più radicali delle teorie orientate sul lettore, reader oriented, sono giunti a proiettare la consistenza stessa del c. nel perpetuo movimento della ricezione, fino a riconoscergli un'identità solo nella prospettiva del lettore, nel prolungarsi indefinito degli usi da parte delle sempre diverse comunità interpretative (ma qui l'estremismo teorico finisce per coincidere con la negazione dei c., la loro condanna all'irrilevanza e all'indifferenza).
Tra gli italiani, F. Fortini, in un saggio del 1978, riconduce il valore attribuito ai c. alla distanza storica, che fa allontanare "gli antagonismi interni" (p. 197), ne riduce la carica conflittuale; c. è ciò che si presenta sotto il segno della conciliazione, di un superamento assoluto delle scorie della realtà. Ma proprio per questo la perenne vitalità dei c. è segnata da una costitutiva ambiguità: "I classici di ogni cultura sono 'vivi', però, nella misura in cui sono 'morti', ossia sono stati successivamente abbandonati dalle diverse forme di energia antagonistica che furono capaci di incarnare lungo le generazioni […]. Come il sorriso dei defunti o delle maschere o delle cere, il classico educa alla contemplazione della morte di quanto sembra più vivente " (pp. 198-99).
Una prospettiva meno radicale, più adeguata alle attese e alle possibilità di una lettura diffusa, è invece quella indicata da I. Calvino, nel citatissimo intervento del 1981 (Italiani, vi esorto ai classici, poi raccolto nel volume postumo Perché leggere i classici), articolato in 14 punti: tra questi punti vanno ricordati soprattutto quello in cui viene definito classico "un libro che si configura come equivalente dell'universo, al pari degli antichi talismani" (p. 16), e quello in cui si afferma che è c. "ciò che tende a relegare l'attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno" (p. 18). In quest'ultimo paradosso si sintetizzano in fondo i vari paradossi su cui si articolano quasi tutte le altre definizioni del c.: autori e libri classici sono (e diventano) quelli che riescono a essere nello stesso tempo attuali e inattuali; sono quelli che costruiscono mondi complessi e coerenti, che possono sembrare sufficienti a sé stessi, ma che ci dicono qualcosa di essenziale sia sul significato di quel mondo esterno da cui essi sorgono sia sul significato del nostro mondo, della vita di noi che leggiamo a una distanza che può essere più o meno grande, ma che è sempre determinante nel rapporto che istituiamo con essi. La ricchezza del c., del mondo che esso ci presenta, è data dall'intreccio inestricabile tra la forza del linguaggio e la forza dello sguardo sulla realtà (per quanto inattingibile o fantastica questa possa apparire).
I c. sono quei libri che fanno sì che ciò che ci è distante (nel tempo, nella storia, nello spazio, nell'esperienza) ci venga incontro come presente, come 'proprio' nel momento stesso in cui è 'altro'. La distanza, il senso dell'altro e del diverso, si manifestano così attraverso quelle che G. Steiner ha chiamato real presences in un saggio del 1989: nel processo della lettura, al di là di ogni esplicita intenzione didattica, apprendiamo il valore di ciò che noi non siamo, e nello stesso tempo riconosciamo questo diverso come parte di noi, come un'altra possibilità del mondo, come un'altra configurazione del tempo, dello spazio, dell'esperienza. Ci stacchiamo da quella "sopravvalutazione dell'importanza dei tempi in cui viviamo", che proprio Eliot denunciò in un saggio sulla rivista Criterion del 1932, e dall'abbarbicamento nei nostri giorni, nei nostri luoghi, nelle nostre abitudini, nel nostro orizzonte ambientale, nei nostri grovigli esistenziali; e nello stesso tempo sentiamo di poter dare un nuovo più ricco significato a tutto ciò che ci sta intorno.
Nel quadro di una riflessione dedicata in particolare ai 'classici' antichi, Settis (2004) ha fatto notare che il valore dello studio dei c. sta "nella spola tra identità e alterità" (p. 108), nella capacità di "evocare l'altro da sé che è dentro di noi" (p. 110). Proprio in questo intreccio tra identità e alterità possiamo arrivare a percepire il senso del nesso che lega passato, presente e futuro, memoria, coscienza e speranza: e particolarmente calzante a tale proposito è la formula con cui G. Pontiggia ha definito i c., nel titolo del suo libro del 1998, I contemporanei del futuro. Se nel corso della storia la nozione di c., l'uso dei c., i vari classicismi possono avere avuto funzioni di esclusione, di sostegno delle classi dominanti e di apologia del presente, è la condizione attuale della comunicazione, è quella stessa situazione di emarginazione della letteratura di cui si è detto all'inizio a dare alla lettura dei c. (nel senso più ampio e meno canonico possibile) questa funzione di apertura, di uscita dalla concentrazione sul nostro universo chiuso e di confronto con tutto ciò che è diverso nello spazio e nel tempo.
Il pericolo dell'indiscrezione
Quanto più la presenza dei c. risulta urgente e necessaria tanto più sono forti i pericoli che i c. corrono nella situazione presente, che pure li ha liberati dalle antiche funzioni ideologiche e repressive, di ordine e di controllo. Tra questi pericoli ci sono quelli che potrebbero riassumersi nella 'indiscrezione', termine usato in proposito da M. Bettini in un libro del 1995, I classici nell'età dell'indiscrezione: la tendenza cioè ad annullare il senso della distanza, ad appropriarsi di tutto dal punto di vista del consumo e della dissipazione del presente, a ridurre ogni dato culturale e comportamentale all'esibizione. È probabile che un eccesso di indiscrezione ci sia anche nell'immensa proliferazione di studi accademici che si sovrappongono ai c. in modi sempre più invadenti, ricostruendone e decostruendone la realtà storica e testuale: si tratta di quell'espansione abnorme del 'discorso secondo', i cui guasti sono stati notati da Steiner. Calvino vi aveva già accennato nello scritto sopra ricordato, notando che scuola e università "dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d'un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario. C'è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l'introduzione, l'apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano di saperne più di lui" (p. 14).
Ma i c., quelli vicini come quelli lontani nel tempo, quelli moderni come quelli antichi, resistono alla nostra indiscrezione, alla nostra brama di violare il passato, alla pretesa di appropriazione e di consumo che percorre le nostre società, al nostro gusto dell'esibizione, dell'attualizzazione: diventano veramente 'nostri', possono essere parte di noi, dirci delle cose essenziali per la nostra vita, solo se sappiamo ascoltarli, rispettarne le ragioni vitali e linguistiche, riconoscere la consistenza del loro mondo. Nel ronzio continuo e indeterminato della comunicazione, nell'angosciosa inflazione di messaggi che percorre il pianeta e le sue infinite reti comunicative, siamo sempre più incapaci di 'ascoltare', spinti irresistibilmente a gridare e consumare, a lacerare e gettar via senza fine parole, immagini, cose. Ma è probabile che solo se sapremo davvero ascoltare, se sapremo sentire la diversità, se sapremo uscire dalle imposizioni del presente, solo così potremo capire davvero questo nostro presente, ciò che siamo divenuti e ciò che rischiamo di divenire: e per tutto questo avremo e abbiamo bisogno dei c., della densità di esperienza, di conoscenza, di forza critica che solamente essi possono garantirci.
bibliografia
H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen 1960, 19733 (trad. it. Milano 1972, 200113).
F. Kermode, The classic. Literary images of permanence and change, New York 1975 (trad. it. Roma 1980).
F. Fortini, Classico, in Enciclopedia Einaudi, 3° vol., Torino 1978, ad vocem; G. Steiner, Real presences, Chicago 1989 (trad. it. Milano 1992).
I. Calvino, Perché leggere i classici, Milano 1991.
M. Bettini, I classici nell'età dell'indiscrezione, Torino 1995.
G. Pontiggia, I contemporanei del futuro, Milano 1998.
S. Settis, Futuro del 'classico', Torino 2004.