CLAUDIA de' Medici, duchessa di Urbino
Ultimogenita di Ferdinando I, granduca di Toscana, e di Cristina di Lorena, nacque a Firenze il 4 giugno del 1604, divenendo molto presto una pedina dell'indaffarata politica matrimoniale medicea sempre oscillante tra aspirazioni grandiose e grettezze contabili. Sin dal marzo del 1608 la sua esistenza venne infatti pignorata dal padre il quale, su suggerimento del segretario Belisario Vinta, la promise al duca d'Urbino Francesco Maria II Della Rovere per suo figlio, il nemmeno treenne Federico Ubaldo. Impegno ribadito dopo la morte del padre dal fratello Cosimo II: il 4 apr. 1609 si stipulò il fidanzamento ufficiale fissando per la futura sposa la dote di 300.000 scudi "di lire sette e mezzo di moneta fiorentina". Giulio Cesare Capaccio, in un panegirico scritto per l'occasione, assicura che il frutto dell'unione sarà "uberrimus" tale da colmare di felicità i fortunatissimi "Urbinates".
Affidata alle monache del monastero delle Murate, un'accorta regia si preoccupò nel frattempo di plasmare C. alla meta nuziale in concomitanza con l'analogo trattamento cui venne sottoposto ad Urbino il principino. Entrambe le corti si adoperarono perché i due promessi si sentissero tali, incanalassero le prime fantasticherie verso il radioso approdo matrimoniale, si pensassero a vicenda. E i regali concorsero ad invischiare i sentimenti. Nel giugno del 1609 C. donò "un cavallino sauro", nel novembre aggiunse un altro "cavallino ben guarnito" ed un "barboncino" assieme ad "un moretto" e ad un "calamaio" ove era raffigurato il "calvario" con "molte cose dentro". L'anno dopo inviò ancora un "morettino", un "cagnolino", una "balestrina". L'abate G. Brunetti, segretario particolare di Francesco Maria II, assicurava la gratitudine e il gradimento da parte del piccolo destinatario: Federico Ubaldo andava "spesso in maschera... nel suo cavallino et con la sella ricamata mandatagli dalla sua cara e serenissima sposa". C'è, pure, lo scambio dei ritratti: C. può contemplare il fidanzatino vestito da cacciatore, e questi può a sua volta vagheggiarla quale minuscola Diana. Solerte, l'abate Brunetti scriveva a Firenze che la piccola "Diana... è la più bella e la più leggiadra cosa che si possa vedere"; ottimamente ritratta la sua "bellezza", sì che il principio "n'ha fatto" un'indicibile "festa" ed "ogni hora la vuoi vedere e seco parla e si consiglia". Ormai maturo - mentre l'accordo del 1609 viene riconfermato nel 1612 e s'infittivano i complimenti tra le due corti - il momento dell'incontro: Federico, con splendido seguito, giunge, il 6 ott. 1616, a Firenze e, accolto con gran pompa, incede, su di un bellissimo cavallo tutto luccicare di bardature preziose, sino a corte. Qui lo ricevettero i granduchi assieme a C., alla quale volle baciare la mano; invano, però, ché "ella la ritirò". Strepitosi i festeggiamenti: alla venuta, di per sé spettacolare, seguirono la gran giostra del 10 ottobre, le scene musicali e i canti del 12, le rappresentazioni degli zanni del 13, 14, 15 e finalmente, il 16, la meravigliosa "festa a cavallo" della "guerra di bellezza" degli occhi e delle labbra preceduta dalla comparsa d'una complicatissima e "superbissima" macchina rappresentante, ad illustrazione delle benemerenze culturali della corte urbinate, il Parnaso. E Federico - che ad un osservatore distaccato quale il residente veneto Giovan Francesco Trevisan parve "di poco spirito" - partì il 18 colla mente frastornata; una volta ritornato, avvisa il solito Brunetti, non fa che parlare con entusiastica eccitazione di Firenze e di Claudia. "Se prima era innamorato - insiste l'abate -, ora si può dire che arde d'amore".
Al di là delle esagerazioni interessate delle due corti, volte ad enfatizzare le qualità d'entrambi, Federico, spruzzato di qualche lettura, attese soprattutto alle "cose cavalleresche" e C. si dilettò di pittura e musica (pare se la cavasse con l'arpa e la mandola) sino a brillare nel 1617 in un'"accademia" approntata per festeggiare le nozze della sorella Caterina col duca di Mantova Ferdinando Gonzaga.
Nel frattempo Francesco Maria, facendosi sostituire durante un breve periodo di riposo, volle il figlio assaggiasse le parvenze del comando con soddisfazione degli osservatori medicei ravvisanti nel ragazzo "molta capacità e giudizio". Intenzionato ad abdicare in suo favore, il vecchio padre - in un assieme di suggerimenti normativi presentati in veste di "ricordi" - gli raccomandava, il 22 marzo 1618, di "effettuare", quando sarà il "suo tempo", il "matrimonio... con la sorella del granduca poiché meglio per questo paese, per la casa nostra e per voi medesimo non si è potuto trovare, essendo per ogni via appropriatissimo a tutto ciò che possa succedervi. Et a essa vostra moglie - precisava - sarete sempre amorosissimo", senza tuttavia permetterle ingerenze "in cose del governo".
Ma un'ombra offuscava le direttive del Della Rovere. Si parlava di "dissolutione del matrimonio", ché il granduca Cosimo II offriva al neoimperatore - nonché suo cognato, poiché ne aveva sposato la sorella Maria Maddalena - Ferdinando II la mano di C., cercando inoltre di tacitare il "disgusto" del duca d'Urbino proponendo per il figlio la sua primogenita Margherita.
"Tutta questa città - scrive il residente veneto a Firenze Trevisan il 21 marzo 1620 - pubblica per stabilito il matrimonio... con l'mperatore"; la "dote" di C. consisterebbe in una "gran somma" che l'imperatore ricambierebbe concedendo in feudo perpetuo ai Medici "tutti i luoghi e castelli... nella Lunegiana de'... Malaspina, quando, per mancanza di linea o di successione, venissero a cadere". Poco importa che il Della Rovere "resti - come informa il 18 apr. il Trevisan - assai alterato per l'affronto". In breve, comunque, sfuma l'allettante prospettiva: la Spagna si oppone; troppo esose inoltre le pretese dell'imperatore in fatto di dote. E C., forse con disappunto, deve riadattarsi all'idea delle nozze, ben più modeste, con Federico che Francesco Maria, ad evitare ulteriori intralci, esige avvengano al più presto.
Da poco era scomparso, il 28 febbraio il granduca Cosimo II, quando Federico, lasciata Urbino, raggiunse Firenze. Il 25 aprile, "nella villa di Baroncello", ci fu il secondo incontro con Claudia. Ancora una volta si rispettano le convenienze che esigono il giovinetto focoso, la fanciulla pudica e ritrosa: "il principe volse baciar la mano, ma ella non volse accettare per modestia" annota Angelo Conti, un agente urbinate del seguito. Finalmente, il 29, nella cappella della villa, l'arcivescovo di Firenze sposa i due adolescenti.
"Il principe - riferisce meticoloso il Conti - non si fece troppo pregare a dir di sì". Lauto, ma non fastoso il banchetto nuziale; troppo recente la morte di Cosimo, troppo inquietante il serpeggiare dell'epidemia in città, a letto con le "petecchie" anche Lorenzo de' Medici, un fratello di Claudia. Quindi gli sposi si recarono alla chiesa dell'Annunziata, a riverirvi l'immagine miracolosa della Vergine, ritirandosi poi con effetti rassicuranti per i parenti e i cortigiani: "siamo questa mattina del 30 - così una postilla in calce alla lettera del Conti a proposito delle nozze - a 11 ore. Il... principe è sveglio e sappiamo da buone parti che tutto è consumato a gusto. Sia ringraziato Iddio". Lieta la luna di miele inframmezzata da pranzi e intrattenimenti: "gli sposi stanno benissimo ogni giorno più contenti e con acquisto di grande e reciproco amore", assicurava loquacemente ottimista il Conti.
È ormai tempo per C. di lasciare i suoi. Preceduta dal marito partito l'11 maggio per predisporle degna accoglienza, ella, accompagnata dal fratello Carlo, mosse il 22 alla volta del ducato. Ogni località la riceve splendidamente: giostre musiche cannonate a salve scampanii recite declamazioni balli. Ma una volta esaurita la festosa effervescenza che aveva salutato il suo ingresso - si smontano i "segni di grandissimo ossequio, amore et reverentia", si demoliscono gli "apparati di molta spesa" e gli "archi trionfali", si spengono i "bellissimi spettacoli di fuochi" -, la vita coniugale si rivela un'amara delusione, un cocente disinganno.
Federico non è certo il gentile e trepidante innamorato cesellato per lei dalle mendaci informazioni dei cortigiani. Si smaschera nella vita d'ogni giorno la sua indole rozza e bizzosa; l'adolescente "gratioso e amabilissimo" delle sue fantasie è, di fatto, un ragazzotto immaturo e irascibile. Né l'abdicazione del 3 nov. 1621, da parte del padre a suo vantaggio lo trasforma in autorevole e austero uomo di Stato. Ne approfitta per essere più libero nelle sue scapestrataggini, mentre i cortigiani più ambiziosi si ritagliano - nel vuoto della sua incuria ed incompetenza - spazi di maggiore influenza e li allargano esasperando la tensione tra lui e il padre (il quale, scrivendone a Firenze, deve ammettere che "si prende poco pensiero del governo") ed alimentando in questo il rancore contro la nuora. Federico sa cavalcare, non regnare! Sua eminenza grigia il fiorentino Luigi Vettori accumula potere e ricchezze, mentre egli, da lui assecondato, gozzoviglia in triviali bagordi. Pessimo principe Federico: scorrazza impunemente su di un cocchio a briglia sciolta incurante dei passanti; s'aggira mascherato per le strade di notte, attacca briga, insulta le donne. È anche, pessimo marito: senza tatto senza delicatezza senza rispetto, è brutale e manesco, specie - il che capita spesso - quando è ubriaco. Né si preoccupa di occultare i suoi amorazzi. Nemmeno la nascita, nel febbraio del 1622, d'una figlia, Vittoria, vale a migliorarne la condotta o, almeno, a rendere meno vistosa la sua dissipatezza. Anzi questa rasenta la più clamorosa stravaganza, quasi volesse così protestare contro il soffocante cappio d'un matrimonio non voluto. E alla moglie impone di non uscire dal palazzo se non coll'ingombrante scorta di dodici alabardieri. È come obbligarla ad una sorta di clausura. Non basta: incapace di celare il fastidio datogli dalla sua presenza, da "qualche tempo in qua", non solo rifiuta di dormire con lei, ma preferisce alloggiare "in un appartamento molto lontano da essa". Tutto preso dalla furiosa passione per una "commediante", la bella Argentina, s'imbranca con la sua compagnia, la ospita nel palazzo d'Urbino e in quello di Pesaro. Non solo: non pago d'assistere a tutti gli spettacoli, vi prende egli stesso parte, diventa - così Scipione Ammirato - per "amore... comico et zanni".
Nessun ritegno nelle sue esibizioni in palcoscenico, specie in quella del 28 giugno 1623, quando "non solo recitò ma, facendo una parte molto vile" - quella del "giumento" - portò sulle spalle "quasi tutti i comici et inoltre una soma di stoviglie" che deliberatamente "lasciò cascare" per "far ridere" ulteriormente il pubblico schiamazzante; e traspare da questa dilapidazione forsennata della propria immagine il bisogno di distruggere se stesso come principe, e, insieme, di vendicarsi del padre. Finito lo spettacolo - racconta l'Ammirato - "cenò et bevve" oltre misura "al suo solito" coricandosi all'alba del 29 giugno. Fu trovato in serata da un "cameriere" (preoccupato di non vederlo comparire, era entrato nella sua stanza) steso bocconi sul letto "con gli occhi mezzo aperti et con la bocca piena di schiuma". Venne il Vettori, venne - per quanto si cercasse di trattenerla - pure C.: s'accosta al corpo - narra l'Ammirato -, gli tira i capelli, gli mette "le mani sotto le reni e trovatovi alquanto caldo" ordina si rechino "elisir et cose simili per fargli tornar gli spiriti". Ma egli è morto da un pezzo: "il cadavere" era, infatti, "freddo et si giudicava che fosse morto da sette o otto ore avanti". Al che C. sviene. "Le do parte - scrive alla madre il giorno dopo - della morte del prencipe mio... seguita hieri all'improviso d'apoplesia". Morte per colpo apoplettico avevano, infatti, sentenziato i medici, senza per questo fugare i sospetti di veleno o addirittura di strangolamento (il collo - si diceva - aveva dei lividi), ché circolavano le voci d'una vendetta medicea.
Svanita la speranza d'una "gravidanza" e d'un postumo erede maschio, C. lascia definitivamente Urbino il 7 agosto ritornando a Firenze indurita nell'animo e irrigidita nei tratti, quale appare nel ritratto eseguito qualche tempo dopo da Giusto Sustermans. Urge riutilizzarla per le ragnatele matrimoniali ordite a corte, ove già si è provveduto a fidanzare sua figlia, la neonata Vittoria, col cugino Ferdinando, primogenito di Cosimo II e suo successore. Pare, inoltre, sia opportuno riaccasarla al più presto per placare la sua ingordigia di feste e divertimenti, per frenare la sua sconcertante disponibilità a molteplici relazioni.
Ma a tal proposito si ha l'impressione che la nomea sia più che altro frutto di posteriori esagerazioni: Dumas la taccia di dissolutezza; Pieraccini, dando per scontata la sua scandalosa condotta, la fa per questo rinchiudere in monastero, non esitando altresì nella sua ricognizione storico-medica sui Medici, ad attribuire, con greve positivismo catalogatorio, a C. "intelligenza paramediana inferiore", collocandola quindi tra le "paramediane inferiori" quanto a sentimento affettivo e, addirittura, tra le "inferiori assolute" quanto a senso morale.
Comunque sia, non si attende molto perché si presenti un non disprezzabile partito: l'arciduca d'Austria-Tirolo Leopoldo V, fratello della cognata Maria Maddalena e di Ferdinando II, l'imperatore, anni prima fugace e poco convinto pretendente di Claudia. Evidenti i difetti: è poco attraente, corpulento, troppo amante della tavola, troppo dedito alla caccia. Ma pure evidenti i vantaggi, tali da evitare a C. il ripetersi delle amarezze della prima esperienza matrimoniale: maturo d'anni, è assennato, ha esperienze politiche e militari alle spalle, non è privo di cultura. "Martedì mattina di buon hora - informa il residente veneto a Firenze Agostino Vianoli il 25 nov. 1625 - con la sorella in una carrozza chiusa fu al monasterio a veder la principessa d'Urbino che deve esser sua moglie e vi si trattenne buona pezza". Superato - non senza riluttanza, da parte del papa, nel concedere la dispensa - l'inciampo degli ordini minori (Leopoldo era stato dapprima avviato alla carriera ecclesiastica), definito, con qualche difficoltà, l'ammontare della dote e precisate le garanzie della controdote, il 25 marzo C., "conforme al concerto, ... sposò il granduca", suo nipote cioè nonché futuro genero, "in nome dell'arciduca Leopoldo di cui si lesse la procura".
Così, seccamente, il residente veneto, per altro ammirato del corteo di "gentilhuomini" a cavallo e di "dame" in carrozza da cui C. "fu precessa" e soprattutto della "carrozza di veluto cremesino ricamato d'oro, tirata da 4 cavalli", che la condusse "alla chiesa maggiore". Segue, il 28, la partenza con ben quaranta carri tutti stracolmi di vesti mobili arazzi quadri. Festosamente accolta a Bologna, il 4 aprile è a Mantova, ove il 5 si svolge in suo onore un eccezionale spettacolo pirotecnico - un meraviglioso "apparato di fuochi": Pallade su di una rocca, accesa la quale ed "abbrugiati sei mille pezzi di fuochi", anziché esserne distrutta, si trasforma in un "bellissimo tempio dedicato alla gloria et alla pace" - ideato dalla fertilissima inventiva di Gabriele Bertazzolo. Ultima e definitiva tappa del viaggio Innsbruck, dove C. giunge il 19; rinnovata la cerimonia nuziale, inizia per lei - nel castello di Amras, dall'incantevole posizione, ma ben lontano dal lusso e dall'ampiezza degli ambienti cui era abituata - la nuova vita coniugale.
Immediatamente incinta, gravidanza e parti si succedono con ritmo ininterrotto: nascono, infatti, nel 1627 Maria Eleonora (che, però, morrà due anni dopo), nel 1628 Carlo Ferdinando, nel 1629 Isabella Clara, nel 1630 Francesco Sigismondo, nel 1632 Maria Leopoldina. Non per questo si adatta ad una vita ritirata. Le donne e i cavalieri trasferitisi con lei da Firenze, cui si aggiungono, in fitto andirivieni, musici architetti letterati pittori (da Sustermans a Lorenzo Lippi, che a C. dedica il burlesco e ribobolesco Malmantile), costituiscono una presenza vivace che solleva il tono depresso della vita del castello.
Irritati gli altri cortigiani brontolano, protestano, se ne dolgono aspramente coll'arciduca; scandalizzati i nobili tirolesi di fronte a tanti banchetti, alla girandola d'intrattenimenti e d'amori. Certo dannoso alle non floride finanze arciducali l'impulso mondano impresso da C.; dispendiossisimi sicuramente i festeggiamenti e le luminarie per il passaggio, nel 1628, per Innsbruck del nipote, il granduca Ferdinando II, e per quello successivo della cognata Maria Maddalena. Ma, al di là degli effimeri divertimenti e dei frivoli sperperi, v'è anche l'incidenza, in termini di gusto e di cultura, derivata dal trapianto nell'alpestre contesto tirolese della principessa medicea. A lei vanno ricondotti l'eleganza dei restauri e dei rifacimenti di tante dimore nobiliari, l'esigenza d'interni più riccamente arredati, la grazia più affinata delle esecuzioni musicali, l'incipiente propensione a giardini con giochi d'acqua, la spruzzatura rinascimentale che alleggerisce e ingentilisce l'aspetto ferrigno dei castelli. ÈC. che affida ad Alfonso Parigi la fortificazione di Innsbruck, che vi fa ultimare la chiesa della Trinità, che vuole l'ampliamento e l'abbellimento del palazzo del Tribunale; a lei si deve l'erezione delle fortezze di Ehrenberg, Kufstein, Schamitz.
Scomparso, nel settembre del 1632, il marito, C. è investita di dirette responsabilità di governo quale reggente sino a che, il 9 apr. 1646, il potere passa al figlio Ferdinando Carlo ormai uscito di minorità.
Persiste la sua inclinazione al lusso sì che, quando, ad esempio, nel 1634 si reca a Firenze per le nozze della figlia di primo letto col granduca, sbalordisce gli astanti per lo sfoggio di vesti e gioie e il variopinto codazzo di sovrabbondante seguito. Compresente tuttavia una accentuata vena devota che la spinge a favorire i cappuccini e i gesuiti: non senza conseguenze politiche, ché favorisce con ostinazione caparbia la sfrenata propaganda - volta ad esasperare la frattura tra cattolici e riformati - dei primi nella bassa Engadina ed è attenta ai suggerimenti del suo confessore, il gesuita Eustachio Pagani cui si deve un progetto di scambio per cui le tre leghe grigione avrebbero dovuto cederle la Valtellina venendo ricambiate con le quattro signorie dell'Arlberg.
Aspetti questi - attaccamenti al fasto e fanatismo religioso - che non intaccano la sostanziale lucidità della determinazione di C. di sottrarre i minacciatissimi territori a lei sottoposti agli sconvolgimentidella guerra dei Trent'anni.
Per quanto fornisca truppe all'Impero, per quanto le soldatesche asburgiche transitino per il paese (e anche per questo le vallate conoscono, nel 1634-37, il dilagare dell'epidemia), la furia devastatrice degli eserciti lambisce, ma non oltrepassa i confini. Fomentando tra i Grigioni il partito ispanizzante riuscì a vanificare la presenza francese con accortezza ed astuzia: le trattative, tra la fine del 1636 e l'inizio del 1637, per sostituire il trattato stipulato da suo marito con quelli nel 1629 servirono, infatti, da copertura per tramare e nella trama rientra pure il patto, del 17 genn. 1637, tra gli inviati grigioni e l'ambasciatore spagnolo a Innsbruck Federigo Henriquez de Luxan, premessa della futura alleanza con la Spagna, la congiura contro il duca Henri de Rolian e l'occupazione delle Valtellina. Ne sortì - con grande sollievo di C. - l'uscita definitiva delle truppe del Cristianissimo dal suolo grigione.
Oltre ad avviare Francesco Sigismondo alla carriera ecclesiastica sì che nel 1646 è vescovo di Augusta - ma sin dal 1637 C. aveva brigato per lui cercando, come avvisa una lettera del 22 settembre degli ambasciatori straordinari veneti Angelo Contarini e Renier Zeno, "col mezzo di Cesare e di Roma", di farlo nominare, anche se appena bambino, "coadiutore" del "vescovato" di Trento, "fondamentando il tentativo su la soverchia scrupolosità del vescovo principe presente nella regenza del politico" -, oltre a migliorare, come annotano i due ambasciatori veneti in una successiva lettera del 29 settembre, "considerabilmente le rendite de' ... figlioli, ricuperando sovente castelli già impegnati dal marito per cinquanta epiù mille fiorini l'uno", C. svolse una sagace politica matrimoniale rinsaldante i legami sia coll'Impero che con Firenze; ci sono, infatti, le nozze, del 1646, di Ferdinando Carlo con la cugina nonché sorelladel granduca Anna e quelle, del 1648, di Maria Leopoldina coll'imperatore Ferdinando III. Quanto a Isabella Clara si mariterà, nel 1649, col duca di Mantova Carlo II Gonzaga.
Incline a favorire glielementi italiani, C., comunque, si guardò bene dall'affidare loro grosse questioni e preferì valersi della collaborazione continuata di Isaak Volmar e di WilhelmBiener.
Suo amante il secondo e perciò inviso ai cortigiani, i cui tenaci e invidi rancori ne provocheranno, dopo la morte di C., la caduta in disgrazia: verrà decapitato il 17 luglio 1651 pretestuosamente accusato di sottrazione di documenti e di lesa maestà (avrebbe parodiato un distico sottostante un ritratto di Claudia). Si tratta, comunque, di una relazione dagli esiti politicamente positivi, ché Biener si rivelò un infaticabile funzionario, ottimo conoscitore dei meccanismi amministrativi e soprattutto deciso fautore d'un brusco ridimensionamento dell'arrogante alterigia nobiliare e di una drastica compressione dell'autonomia dei vescovati di Bressanone e Trento, nei confronti dei quali non esitò a minacciare l'intervento delle milizie spagnole di stanza nel Tirolo. Una politica fatta propria da C. perché funzionale all'accentramento amministrativo da lei perseguito, perché necessaria all'urgenza d'una regolare riscossione dei contributi imposti senza tanti riguardi ad un clero e ad una aristocrazia riottosi ad accettare gli oneri derivanti dal reclutamento - nel 1636 si costituisce, ad esempio, un corpo permanente di 8.000 uomini -, dall'acquartieramento di truppe imperiali e spagnole, dalle intensificate opere di fortificazioni. Ringhiosa custode della propria autorità C. si sbarazza, quando questa le sembra scalfita, d'ogni scrupolo devoto, senza tema di scontrarsi duramente coi vescovi. Clamorosi, nel 1636, il prelievo nottetempo e l'incarceramento d'un giudice, sottoposto al vescovo di Bressanone, che aveva contrastato l'erezione d'un posto di guardia nella zona di Chiusa, che pure rientrava nella giurisdizione di quel prelato. Un tendenziale assolutismo l'indirizzo di C., un governo retto - anche dopo la maggior età del primogenito che non appare all'altezza del compito - con mano ferma talvolta ferrea, non privo di spunti, peraltro, di illuminata saggezza. È il caso, in particolare, del riconoscimento e della regolamentazione, del 15 sett. 1635, del Magistrato mercantile di Bolzano costituitosi nel 1633 che - con compresenza paritetica di mercanti italiani e tedeschi, forte di precise attribuzioni giudiziarie e amministrative - tutelerà il regolare andamento dei traffici di Terci e del cambi delle quattro fiere annuali ritmanti il fervore commerciale della città.
Quando, nel dicembre del 1648, l'inviato veneto si ferma a Innsbruck per chiedere la concessione di transito per le truppe destinate alla Serenissima, C. è ormai prossima alla fine.
Ciononostante, "se ben con male grave..., volse, far l'honore... d'incomodarsi" - così Cavazza - per ricevere "di mia mano, seduta in una seggia bassa", il 20, "le lettere di stima e riverenza" del Senato, cui "rispose con voce languida, ma con concetti vivacemente indicanti le scambievoli sue affettuosissime inclinationi" per Venezia.
Morì, a Innsbruck, il 24 dic. 1648, "d'hidropesia", informa lo stesso Cavazza, come "ultimamente" suo fratello Lorenzo a Firenze.
La malattia - spiega Cavazza - è stata, contrariamente al solito, di breve decorso; ha infierito per "poche settimane" sino a stroncare C., che pur era "d'assai valida salute per adietro". I figli - prosegue - "et la nipote rissentono la perdita acerbamente et è compianta con universale amarezza da questi popoli perché, nella sua reggenza et doppo sostenendo il governo a' preghiere dell'istesso arciduca, li ha retti con singolare prudenza e carità. Onde godeva la veneratione et l'amore de tutti generalmente. Né potrà riuscire che grave la giattura a questi stati", conclude Cavazza, data la scarsa affidabilità dell'arciduca, "sendo state sin hora" le sue "applicationi" esclusivamente volte "alla caccia". Un elogio non sospetto di C. questo di Cavazza che conferma quello espresso, ancora in una lett. del 29 sett. 1637, da Contarini e Zeno: "col suo prudente governo si è conciliato et conserva... intiero e sviscerato lo affetto de' sudditi". Riconoscimenti che ridimensionano indubbiamente la sbrigativa qualifica di "dissolutissima" appioppata a C. dal Litta che il Pieraccini vorrà arbitrariamente aggravare col marchio d'una scarsissima intelligenza.
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