ABBADO, Claudio
Direttore d’orchestra, nacque a Milano il 26 giugno 1933, terzo di quattro figli, da una famiglia di musicisti. Il padre Michelangelo, violinista, fu dal 1925 al 1970 titolare di violino e viola – e nel biennio 1967-69 anche vicedirettore – nel Conservatorio di Milano; pianista e scrittrice era la madre Maria Adele (Carmela) Savagnone, direttore d’orchestra e compositore lo zio Giuseppe Savagnone, pianista e compositore – e poi direttore dello stesso Conservatorio – il fratello maggiore Marcello (nato nel 1926). Un ruolo importante nella formazione intellettuale del giovane musicista ebbe il nonno materno, Francesco Guglielmo Savagnone, per diversi anni docente nelle università di Palermo e Messina: una singolare figura di erudito, anche buon musicista dilettante, i cui interessi andavano dalla storia del diritto romano alle lingue antiche, dal diritto ecclesiastico alla papirologia.
Claudio Abbado cominciò lo studio del pianoforte a sette anni sotto la guida della madre, studio proseguito poi con il fratello; più volte avrebbe ricordato la prima impressione indelebile dell’infanzia, l’ascolto dal loggione della Scala dei Nocturnes di Debussy diretti nel 1941 da Antonio Guarnieri «quasi con un dito» (Musica, 1980, p. 242), ma anche i momenti drammatici durante l’occupazione tedesca di Milano dopo l’8 settembre 1943, quando l’abitazione degli Abbado in via Fogazzaro venne parzialmente distrutta da un bombardamento, la famiglia si adoperò per aiutare musicisti perseguitati, e la Gestapo bussò alla loro porta perché il piccolo Claudio aveva scritto «viva Bartók!» sul muro sotto casa, e i militari l’avevano preso per il nome di un partigiano. In un’intervista rilasciata nel 1995 ricordò come – un mese prima della fine della guerra – la madre fosse anche stata imprigionata per aver protetto il figlio di amici ebrei, e come si fosse salvata «solo perché aveva incontrato un tenente delle SS italiane che era stato allievo di suo padre» (Corriere della Sera, 12 dicembre 1995). Sviluppò allora un duraturo odio verso il fascismo, ed esso alimentò in seguito le idee progressiste cui rimase fedele per tutta la vita, limpidamente rispecchiate nel suo stesso modo democratico e mite di lavorare con le orchestre, convinto com’era che la musica non possa prescindere dall’impegno civile, ma che a sua volta «l’impegno può davvero raggiungere l’esterno solo partendo dall’interno del linguaggio artistico» (Il cittadino e le note, in La primavera di Micromega, 2001, n. 2, pp. 11 s.).
Nel conservatorio milanese studiò pianoforte con Vincenzo Calace, composizione con Giulio Cesare Paribeni e direzione d’orchestra con Antonino Votto. Si diplomò in pianoforte nel 1953 e due anni dopo in composizione; a Salisburgo prese poi lezioni di pianoforte da Friedrich Gulda, e conobbe la pianista Martha Argerich, con cui avrebbe in seguito collaborato in numerosi concerti e registrazioni discografiche. Nel giugno 1956 sposò a Lenno, presso Como, il soprano Giovanna Cavazzoni; frequentò poi il corso di direzione tenuto da Carlo Zecchi all’Accademia Chigiana di Siena, concluso il 26 agosto dal concerto degli allievi, in cui diresse il primo movimento della Suite per orchestra in Re maggiore di Johann Sebastian Bach (probabilmente la BWV 1068); ottenuta una borsa di studio, si recò successivamente a Vienna insieme alla moglie, per seguire le lezioni di Hans Swarowsky alla Akademie für Musik und darstellende Kunst. Durante il soggiorno, per poter assistere alle prove dei Wiener Philharmoniker, precluse al pubblico, riuscì a farsi ammettere insieme all’amico e compagno di studi Zubin Mehta come basso nel coro della Gesellschaft der Musikfreunde, e poté così studiare da vicino l’approccio di Bruno Walter al Requiem di Mozart e di Herbert von Karajan alla Missa solemnis beethoveniana e al Requiem tedesco di Brahms. Nell’estate 1958, spinto da Eleazar de Carvalho, che di passaggio a Milano lo aveva ascoltato suonare al Conservatorio un concerto di Mozart diretto dal padre, si recò negli Stati Uniti per seguire il corso tenuto dal direttore brasiliano a Tanglewood, residenza estiva della Boston Symphony Orchestra, e partecipare al concorso Koussevitzky. Vinse il primo premio, ma nell’immediato non vi furono conseguenze di rilievo: rifiutò un contratto con un’orchestra americana, sia perché riluttante ad accettare impegni che gli parevano improduttivi, sia perché ancora incerto circa il sentiero da imboccare – se come compositore, pianista o direttore d’orchestra –, pur consapevole che non avrebbe potuto mantenere a lungo i piedi in tre staffe. Il 29 ottobre 1959 diresse il suo primo concerto sinfonico, a Gorizia, nella sala della locale Unione Ginnastica: accompagnò il pianista Joaquín Achúcarro nel Concerto di Schumann e presentò tra l’altro l’ouverture-fantasia Romeo e Giulietta di Čajkovskij, uno dei brani con cui si era distinto a Tanglewood. Il programma venne replicato l’indomani a Trieste, nell’Auditorium di via Torbandena (un concerto spesso indicato erroneamente quale debutto assoluto); e nel teatro Verdi della stessa città affrontò la prima opera, una novità di Giorgio Federico Ghedini, Maria d’Alessandria, il 19 novembre 1960. Cinque giorni dopo diresse per la prima volta a Milano, alla Piccola Scala, un concerto organizzato per commemorare il tricentenario della nascita di Alessandro Scarlatti. Ma l’esigenza di dedicarsi ancora allo studio, oltre alla necessità di lavorare in modo non saltuario dopo la nascita dei figli Daniele (1958) e Alessandra (1959), lo spinse anche all’insegnamento nel triennio 1961-63, come docente di musica da camera al Conservatorio Arrigo Boito di Parma: un’esperienza che avrebbe lasciato un segno tangibile nella sua concezione del suono orchestrale. Intanto la carriera, sia pure lentamente, procedeva: diresse a Firenze, Reggio nell’Emilia, Bolzano; a Trieste tornò nel 1962 per L’amore delle tre melarance di Prokof’ev, e accettò anche scritture che non molti anni dopo nessuna istituzione musicale si sarebbe sognata di proporgli, come i due programmi mozartiani diretti su invito della Wiener Mozartgemeinde nella primavera del 1961 e del 1962 con un’orchestra blasonata, i Wiener Symphoniker, ma all’aperto, nel vasto cortile barocco dello Heiligerkreuzerhof.
Nella primavera del 1963, sollecitato ancora da Carvalho, tornò negli Stati Uniti per concorrere al premio Mitropoulos istituito dalla New York Philharmonic Orchestra, e vi si impose. Nel concerto di gala del 7 aprile, in cui sul podio della stessa Filarmonica si avvicendarono i tre vincitori ex aequo (gli altri erano Zdeněk Košler e Pedro Ignacio Calderón), Abbado diresse la suite da L’oiseau de feu di Stravinskij e strappò a un critico arcigno come Harold C. Schonberg parole di ammirazione: «Con tutta probabilità diventerà un tipo elettrizzante di direttore virtuoso» (New York Times, 8 aprile 1963). La vittoria gli consentì di stabilire una stretta collaborazione, come assistente, con il direttore principale della New York Philharmonic, Leonard Bernstein, e gli fruttò inviti da parte delle maggiori istituzioni concertistiche. Nell’ottobre 1963 diresse a Berlino la Radio-Symphonie Orchester – con Maurizio Pollini, anch’egli al suo debutto berlinese, solista nel Terzo Concerto di Beethoven (fu l’inizio di un sodalizio durato tutta la vita); e vi tornò il 18 agosto successivo, stavolta nell’ambito del ciclo RIAS stellt vor, nato per valorizzare giovani talenti. Questo secondo concerto, comprendente tra l’altro brani dall’Offerta musicale di Bach e la Lulu-Suite di Berg, suscitò l’interesse di Herbert von Karajan, che gli propose di partecipare al Festival di Salisburgo l’anno seguente con una messa di Cherubini e non batté ciglio di fronte alla temeraria controproposta di dirigere invece la monumentale Seconda Sinfonia di Mahler, allora raramente eseguita. Il debutto ebbe luogo il 14 agosto 1965, con i Wiener Philharmoniker, e con tale successo che da allora, salvo rare interruzioni, Abbado fu ospite regolare del festival per il resto della sua vita. Intanto si intensificavano gli impegni alla Scala, dove in luglio aveva presentato la sinfonia mahleriana; ma già in marzo era tornato alla Piccola Scala per dirigere la prima mondiale di Atomtod di Giacomo Manzoni. Insieme al concerto scarlattiano del 1960, quest’unica altra sua presenza nella sala minore (poi demolita) del teatro milanese fissa idealmente l’alfa e l’omega di un repertorio che spaziando dal Seicento al presente può a buon diritto essere considerato tra i più vasti mai affrontati da un direttore d’orchestra, e che col passare del tempo si sarebbe affinato nel versante barocco sia attraverso lo studio delle fonti e della prassi esecutiva, sia col maturare di una sempre più sottile capacità di differenziazione stilistica.
Già allora, oltre alla tecnica scaltrita, che gli consentiva di affrontare con pari sicurezza sia il genere sinfonico sia il melodramma, si imponevano nelle sue interpretazioni la saldissima visione formale e la chiarezza dell’ordito, coniugate con una non comune capacità analitica – forgiata nel contatto abituale con le complessità della musica nuova – grazie alla quale le stesse partiture operistiche apparivano rigenerate nella componente orchestrale; profondo ammiratore del massimo esponente della tradizione germanica, Wilhelm Furtwängler, soprattutto per l’arte di ricreare le opere in statu nascendi, perseguiva d’altro canto un ideale di rigore che aveva il suo modello in Arturo Toscanini e lo avvicinava a direttori di stampo toscaniniano come Guido Cantelli o Georg Szell, ideale che potrebb’essere riassunto parafrasando un’espressione del filosofo Ernst Bloch: «ardente esattezza». Anche nel prediletto Mahler, distanziandosi dalle allucinazioni espressioniste evocate da interpreti come Jascha Horenstein e Klaus Tennstedt, o dalla passionalità esuberante di Bernstein, mirava a restituire tutta la modernità delle sue partiture, sottolineandone le premonizioni del futuro in una sintesi prospettica precocemente arricchita, come già ebbe a notare Michael Marcus recensendo la Seconda salisburghese (The Guardian, 27 agosto 1965), da una rara sensibilità per gli elementi grotteschi della musica mahleriana e da un’acuta percezione dei contrasti dinamici e delle sfumature timbriche. Sin dai primi anni di carriera rivolse particolare attenzione ai russi (Čajkovskij, Prokof’ev, Skrjabin, Rachmaninov), poi ai francesi (Berlioz, Bizet, Ravel, Debussy), ad autori del Novecento storico (Hindemith, Bartók, la Scuola di Vienna, soprattutto Berg), oltre ai contemporanei (György Ligeti, Franco Donatoni, Luigi Nono, Giacomo Manzoni); abbastanza limitata, per contro, fu agli inizi la sua frequentazione dei classici e romantici tedeschi – con l’eccezione di Brahms –, frequentazione inaugurata poi su vasta scala negli anni Ottanta con le integrali sinfoniche di Mendelssohn, Beethoven e Schubert, anche registrate rispettivamente con la London Symphony, i Wiener Philharmoniker e la Chamber Orchestra of Europe.
Dopo il debutto salisburghese la carriera di Abbado non conobbe soste: nel 1966 diresse ancora l’orchestra della radio berlinese, i Wiener Symphoniker e i Wiener Philharmoniker (con i quali pose la prima pietra della sua vasta discografia registrando per la Decca la Settima di Beethoven), il Concertgebouworkest, la Hallé Orchestra di Manchester e la London Symphony Orchestra, e chiuse l’anno debuttando in dicembre sul podio dei Berliner Philharmoniker; nel resto del decennio fu ospite di altri importanti festival europei, con l’Orchestra Filarmonica Ceca e l’Orchestre de Paris, la Israel Philharmonic Orchestra e le londinesi Philharmonia e London Symphony. Intanto proseguiva l’attività oltreoceano, infittendo gli impegni con le maggiori orchestre del Nordamerica: tornò più volte alla New York Philharmonic, nell’ottobre 1968 fu a Filadelfia (un debutto che seguiva di pochi giorni quello operistico al Metropolitan con Don Carlos), due anni più tardi a Boston e Cleveland. Nel 1971 diresse per la prima volta la Chicago Symphony Orchestra – ne sarebbe stato principale direttore ospite dal 1982 al 1986 – e fu nominato principale direttore ospite dei Wiener Philharmoniker e della London Symphony (di quest’ultima, succedendo ad André Previn, divenne nel 1979 chief conductor sino al 1988).
Alla Scala, dopo varie presenze nella stagione sinfonica, aveva diretto nel 1966 I Capuleti e i Montecchi con Luciano Pavarotti, Giacomo Aragall e Renata Scotto (portati anche in tournée al Festival di Edimburgo) e la ripresa dell’Aida per la regìa di Zeffirelli con la Gencer e la Cossotto; dopodiché gli furono affidate le serate inaugurali della stagione scaligera nel 1967 (Lucia di Lammermoor) e 1968 (Don Carlos). Era il preludio alla nomina, appena trentacinquenne, a direttore musicale dell’orchestra, seguita nel 1972 dalla nomina a direttore musicale del teatro, incarico che mantenne sino al 1986.
I diciotto anni dell’‘era Abbado’, in cui il direttore fu affiancato da due sovrintendenti dalle grandi capacità organizzative come Paolo Grassi e Carlo Maria Badini, cambiarono profondamente il volto del teatro. Con la nuova gestione la produttività conobbe un significativo incremento, sfiorando le trecento recite all’anno; spazio crescente venne dato ad opere del Novecento raramente rappresentate alla Scala (come il Wozzeck, riproposto nel 1971 a vent’anni dalla prima milanese) e alla musica contemporanea (con prime assolute, tra l’altro, di Como una ola de fuerza y luz e Al gran sole carico d’amore di Nono, 1972 e 1975, Berceuse variata di Salvatore Sciarrino, 1977, Blaubart di Camillo Togni, 1978, e La vera storia di Berio, 1982). Nel 1972 nacque la serie dei concerti per operai e studenti, con particolari agevolazioni, allo scopo di diffondere la musica d’arte, classica e contemporanea, e far conoscere l’attività del teatro presso strati sociali per tradizione esclusi o emarginati; sull’onda di questa ‘rivoluzione copernicana’ venne riesumata la prassi, interrotta dopo la Turandot nel 1926, di commissionare e allestire importanti opere nuove: tra cui Samstag aus Licht di Karlheinz Stockhausen (1984). Ma anche i titoli più popolari del repertorio beneficiarono di esecuzioni alla cui freschezza e trasparenza si aggiungeva il rigore filologico, grazie all’attenta revisione delle partiture sulla base degli originali e l’adozione delle più recenti edizioni critiche (a partire da quella, pionieristica, del Barbiere di Siviglia di Rossini approntata da Alberto Zedda per Ricordi, uscita nel 1969). Frutti di questo rinnovamento furono memorabili allestimenti rossiniani in collaborazione col regista Jean-Pierre Ponnelle, dal Barbiere (1969) alla Cenerentola (1973) all’Italiana in Algeri (1973), nonché il Simon Boccanegra con la regìa di Giorgio Strehler (1971), ricondotto alla miglior lezione grazie allo scavo di ogni minimo dettaglio e alla splendida compagnia di canto (Piero Cappuccilli, Mirella Freni, Gianni Raimondi e Nicolai Ghiaurov), allestimento che segnò la definitiva affermazione di un’opera sino a quel momento negletta, e ora finalmente riscoperta come uno dei maggiori capolavori verdiani.
Nel 1973 sposò in seconde nozze Gabriella Cantaluppi (si era separato dalla prima moglie nel 1968); dal matrimonio nacque nel 1974 Sebastian. Al 1974 risale anche il suo primo Mozart operistico, Le nozze di Figaro, al 1981 il primo titolo wagneriano, Lohengrin, con cui inaugurò la stagione; la stampa ne sottolineò l’«espressività continua» e l’«emotività ricca di un’enorme carica melodica» (Duilio Courir, Il Corriere della sera, 8 dicembre 1981). Nel 1984 aprì con Carmen, dirigendo un cast in cui si alternavano Plácido Domingo e José Carreras, Shirley Verrett e Agnes Baltsa nelle parti principali; l’anno seguente, dopo averla presentata a Pesaro, firmò la prima esecuzione scaligera – e l’avvio della fortuna – di un’altra opera dimenticata, il rossiniano Viaggio a Reims, ricostruito da Philip Gossett, per la regìa di Luca Ronconi. Ma Simon Boccanegra sarebbe rimasta l’opera prediletta, accompagnando la sua carriera per oltre trent’anni, attraverso riprese e nuovi allestimenti, sino alle recite fiorentine al Maggio Musicale nel 2002. Sul versante sinfonico, accanto alla promozione dei contemporanei, sin dalla metà degli anni Sessanta Abbado si era adoperato per far conoscere opere e autori raramente eseguiti in Italia, come i capolavori della Scuola di Vienna, Anton Bruckner e in particolare Gustav Mahler, delle cui sinfonie e Lieder con orchestra programmò nel teatro scaligero, a partire dal 1968, il primo ciclo italiano. Culmine di questo impegno per il sinfonista boemo sarebbe stato nel 1985 – centenario della nascita di Alban Berg – il festival ‘Mahler, Vienna and the Twentieth Century’, nel Barbican Hall, sede della London Symphony, nell’intento d’illustrare l’influsso del compositore sulla Scuola di Vienna e sui contemporanei: la più importante iniziativa a lui dedicata dopo lo storico 'Mahler-Fest' organizzato da Willem Mengelberg ad Amsterdam nel 1920.
Negli anni trascorsi alla Scala le serie di concerti tematici, incentrati su opere di spicco della storia della musica moderna ma non frequentemente eseguite, divennero un tratto ricorrente nella programmazione: accanto al ciclo mahleriano vi furono i festival dedicati a Berg, con cui Abbado avviò una collaborazione con l’Opéra di Parigi (chiamò a Milano Pierre Boulez a dirigere Lulu nel 1979), e a Musorgskij, col memorabile Boris Godunov del 1979, nella pressoché sconosciuta orchestrazione autentica e in russo, per la regìa di Jurij Ljubimov. (Quattro anni più tardi l’avrebbe riproposto al Covent Garden, avvalendosi della regìa onirica e visionaria di Andrej Tarkovskij, in quella che è considerata una delle migliori realizzazioni in assoluto del capolavoro.) Vennero inoltre organizzate numerose tournées dei complessi scaligeri, a Washington, Mosca, Tōkyō, Parigi, Londra e Monaco di Baviera. La trasformazione, in un quindicennio di attività, dell’orchestra milanese da compagine eminentemente operistica in complesso sinfonico di livello internazionale ebbe un ideale sigillo con la fondazione dell’Associazione Orchestra Filarmonica della Scala (concerto inaugurale il 25 gennaio 1982, con la Terza di Mahler), un organismo costituito sul modello dei Wiener Philharmoniker, formato da membri dell’orchestra del teatro e da solisti e prime parti di altre orchestre italiane, ma con attività autonoma, sancita da apposita convenzione, nell’ambito della programmazione sinfonica.
Che tanto fervore innovativo suscitasse polemiche e tensioni era forse inevitabile: non tutti guardavano con favore a iniziative come i concerti per operai e studenti, o alla abbondante presenza di musica contemporanea nei programmi, né mancarono attriti e incomprensioni all’interno del teatro. Il distacco dalla Scala maturò nel tempo; nel 1977, all’inizio del biennio che lo vide direttore artistico, cominciò a intensificare gli impegni con i Wiener Philharmoniker, che portò anche in tournée in varie città europee, e con la Staatsoper, dove tornò nel 1984, dopo una lunga assenza, con Simon Boccanegra. Due anni dopo lasciò la Scala per assumere la veste di direttore musicale del massimo teatro austriaco e nel maggio-giugno 1986 si congedò dal pubblico milanese con un omaggio a Debussy (Pelléas et Mélisande e un concerto sinfonico comprendente anche i tre Nocturnes, oltre a un convegno di studi). «Una scelta proustiana» (a detta di Giuseppe Barigazzi, 2014, p. 408), che idealmente chiudeva il circolo apertosi quarantacinque anni prima con la rivelazione della partitura debussiana e il sogno di poterla un giorno dirigere. Indubbiamente i contrasti con la direzione del teatro ebbero un peso nella separazione; ma vi era anche una ragione più profonda, legata al desiderio di aprire nuovi cicli, di rinnovarsi. Nelle parole dello stesso Abbado, «di tanto in tanto questi cambiamenti sono necessari per noi tutti, per permetterci nuovi punti di vista per la realizzazione del nostro lavoro» (lettera del 7 giugno 1991, cit. in ibid., p. 410). Non diversa sarebbe stata, nel 2002, la scelta di non rinnovare il contratto con i Berliner Philharmoniker, dopo tredici anni di collaborazione.
Per l’esordio alla Staatsoper come Musikdirektor scelse Un ballo in maschera, protagonisti Pavarotti, Cappuccilli e Margaret Price, e subito dopo Simon Boccanegra, riproposto nell’allestimento di Strehler, con Renato Bruson, Mara Zampieri e Ruggero Raimondi. L’anno seguente fu nominato Generalmusikdirektor della città di Vienna, carica che prevedendo la supervisione di tutte le attività musicali della capitale gli consentì un’inedita libertà d’azione: il primo frutto significativo fu nel 1988 la fondazione di un festival tuttora attivo, Wien Modern, dedicato alla musica contemporanea ed esteso in seguito anche a iniziative in altri ambiti artistici, con mostre e spettacoli teatrali che videro il coinvolgimento degli istituti di cultura, delle gallerie e dei musei. Ripropose Un ballo in maschera, Il barbiere, L’italiana, Il viaggio a Reims, un memorabile Wozzeck anche fissato in disco dal vivo (Deutsche Grammophon), Pelléas et Mélisande, Carmen e Lohengrin; avviò cicli beethoveniani (tutte le Sinfonie e, con Pollini, i Concerti per pianoforte, portati in tournée in Europa e negli Stati Uniti) e mahleriani. Nel 1989 mise in scena Chovanščina di Musorgskij ed Elektra; quest’ultima doveva rimanere l’unico titolo operistico straussiano nel suo repertorio, che del compositore bavarese avrebbe alla fine compreso anche tre poemi sinfonici, peraltro registrati più volte, la Burleske e pochi brani vocali, tra cui i Vier letzte Lieder. Infine, nel 1991 diresse Le nozze di Figaro e Don Giovanni, e ricreò l’allestimento del Boris Godunov realizzato da Tarkovskij a Londra otto anni prima, offrendo al pubblico viennese la prima esecuzione della stesura originale del 1874. Nello stesso 1991 nacque Misha, da una relazione con la violinista Viktoria Mullova iniziata a Vienna alla fine degli anni Ottanta.
L’8 ottobre 1989, un mese e un giorno prima del crollo del Muro, Abbado venne nominato direttore principale dei Berliner Philharmoniker: primo non austro-tedesco scelto ufficialmente dall’orchestra che Karajan, scomparso in luglio, aveva guidato per trentacinque anni (se si eccettua l’interinato del rumeno Sergiu Celibidache, chiamato alla direzione dei Berliner nel 1945 dalle forze di occupazione alleate, con nomina poi ratificata dagli orchestrali, prima del ritorno di Wilhelm Furtwängler). Divenuto timoniere dell’ammiraglia delle sale da concerto europee, coerente con i propri principii avviò anche nella capitale tedesca un vasto programma di rinnovamento. Non si trattava solo di sostituire i numerosi membri anziani con strumentisti più giovani, di estendere il repertorio – da Karajan limitato ai capolavori del sinfonismo dalla fine del Settecento al tardo romanticismo, con sporadiche incursioni nel Novecento – e di riprendere le tournées, diradatesi negli anni precedenti, ma anche di accettare la sfida di riproporre le opere dei classici tedeschi, da sempre asse portante della programmazione dei Berliner, in una prospettiva diversa, fuori dal cono d’ombra dell’incombente tradizione esecutiva lasciata dal predecessore. Karajan aveva infatti introdotto nella ‘Klangkultur’ dei Berliner ereditata da Furtwängler – quella capacità di sviluppare una sonorità densa e brunita, concepita verticalmente a partire dal fondamento armonico dei bassi – una ricchezza timbrica e un’eufonia divenute un marchio inconfondibile delle sue esecuzioni, e tali da imporsi come fattore estetico autonomo qualsiasi cosa dirigesse, da Bach a Stravinskij. Abbado, proseguendo il lavoro di approfondimento filologico delle partiture avviato negli anni milanesi, mirava invece a ottenere sonorità differenziate, adeguate alle varie epoche stilistiche, e a mettere in discussione abitudini d’ascolto consolidate: mentre da un lato veniva inserendo nei programmi sempre più spesso autori contemporanei – Ligeti, Nono, Manzoni, Wolfgang Rihm –, dall’altro, nell’affrontare le opere del primo barocco (Monteverdi), cominciò a seguire con discrezione i principii della prassi esecutiva, snellendo gli organici e utilizzando strumenti originali. Col passare del tempo il suono dell’orchestra si fece «più chiaro, più leggero, flessibile, a volte anche più tagliente, verso un agire musicale ancora più variegato sul piano della dinamica» (così Gerhard R. Koch, cit. in Eckhardt, 2003, p. 27).
Ridotti progressivamente gli impegni col teatro di Vienna, nel 1992 Abbado inaugurò una serie di festival polarizzati su temi specifici, all’insegna di una visione schiettamente umanistica della musica, mai disgiunta dai suoi profondi interessi culturali. Il primo si incentrò sul mito di Prometeo, i successivi furono dedicati a Hölderlin, ai miti di Faust e della Grecia antica, a Shakespeare, al binomio Berg/Büchner, seguiti dal Wanderer-Zyklus (1997-98, sul tema squisitamente romantico del viandante), Tristano e Isotta (1998-99), Das Lächeln der Euterpe (2000-01, incentrato sulla dimensione giocosa e umoristica della musica), infine Parsifal. Ogni soggetto, come già a Vienna, venne affrontato non solo con concerti e allestimenti operistici, ma anche con rappresentazioni teatrali, proiezioni cinematografiche, lezioni, conferenze e mostre: una rete di rapporti tra i diversi ambiti artistici vòlta ad illustrare la continuità nelle trasformazioni e rielaborazioni di temi e valori emblematici della cultura europea nel volgere dei secoli. In questa cornice affrontò tra l’altro Tristan und Isolde – un progetto accarezzato sin dai primi anni Settanta – e Parsifal, che insieme al Lohengrin costituiscono il suo solitario e alto contributo alla storia dell’interpretazione wagneriana (non diresse mai a Bayreuth). Nella sua veste di direttore principale dei Philharmoniker, nel 1994 divenne anche direttore artistico del Festival di Pasqua fondato nel 1967 da Karajan a Salisburgo, in cui da sempre l’orchestra berlinese era protagonista con concerti e nuovi allestimenti operistici.
Un capitolo a parte, che conduce al cuore dei suoi ultimi anni, riguarda l’infaticabile attività come costruttore di orchestre, soprattutto giovanili; cosa che non sorprende in uno che amava definirsi «maestro-giardiniere» (Rovera, 2014, p. 16) e aveva piantato personalmente novemila tra alberi e piante nel tratto di costa antistante la sua casa di Alghero. Nel 1976 cooperò con Joy e Lionel Bryer alla fondazione della European Community Youth Orchestra (dopo il trattato di Maastricht rinominata European Union Youth Orchestra), di cui fu founding music director sino al 1994. Nel 1986, a Vienna, nacque su sua iniziativa la Gustav Mahler Jugendorchester: l’intento, in origine, era quello di offrire a giovani strumentisti austriaci la possibilità di suonare con colleghi dell’allora Repubblica Socialista Cecoslovacca e dell’Ungheria, grazie ad audizioni tenute regolarmente nei paesi dell’Est. Successivamente, nel mutato clima politico, vi vennero accolti strumentisti di ogni parte del mondo, mentre quelli che col passare degli anni avevano superato i limiti di età confluirono rispettivamente in due nuovi organismi, la Chamber Orchestra of Europe (1981) e la Mahler Chamber Orchestra (1997). In questo contesto si pone la fondazione, nel 1989, di Ferrara Musica, una stagione d’eccellenza comprendente concerti e allestimenti operistici, ideata per offrire residenza stabile nel teatro Comunale della città prima all’uno e dal 1998 anche all’altro complesso, oltre a ospitare importanti orchestre internazionali e illustri solisti. Altri segni del profondo e costante interesse per i giovani furono l’organizzazione, nella stagione 1992-93, della prima edizione delle Berliner Begegnungen, con l’intento di promuovere nella capitale tedesca incontri tra giovani talenti e musicisti affermati; e, nel nuovo secolo, l’attenzione con cui Abbado seguì e sostenne ‘El Sistema’, il modello di educazione musicale pubblica e diffusa fondato in Venezuela nel 1975 da José Antonio Abreu allo scopo di strappare i bambini e fanciulli poveri alla violenza e allo sfruttamento offrendo loro un futuro professionale.
Nell’estate 2000 dovette essere operato d’urgenza per un tumore allo stomaco, e fu costretto a interrompere ogni attività. Ma in novembre, contro il parere dei medici, tornò sul podio dei Berliner, li portò in tournée in Giappone; e all’inizio del 2001, con un gesto in cui si può cogliere un profondo valore simbolico dopo la dura lotta che lo aveva fatto risorgere dalla malattia, presentò a Berlino, Vienna e Roma il nuovo ciclo beethoveniano già registrato su disco tra dicembre 1999 e maggio 2000. Basato sulla recente edizione critica delle partiture, ispirato ai criteri della prassi esecutiva degli interpreti-filologi, ma su un piano ben superiore per quanto riguarda i valori musicali, rimane l’esito più impressionante delle capacità metamorfiche da lui sviluppate nell’orchestra, e si pone come una pietra miliare nella storia esecutiva delle nove sinfonie: rispetto alla precedente integrale incisa con i Wiener Philharmoniker è questo un Beethoven più teso e veemente, caratterizzato da tempi vitalissimi e sonorità affilate, di trasparenza cameristica, concepito come rivoluzionario erede della tradizione settecentesca piuttosto che come visionario anticipatore dell’universo wagneriano.
Nel 2002, con decisione annunciata già quattro anni prima, non rinnovò il contratto con l’orchestra di Berlino. Continuò a dirigerla regolarmente, in uno spirito di collaborazione se possibile ancor più cordiale, ma aveva da tempo avvertito, come in passato, la necessità di cambiare, di cercare nuovi inizi; diede così vita ai complessi cui sono legate nell’ultimo decennio di attività alcune tra le vette più alte della sua carriera di interprete: la Lucerne Festival Orchestra, da lui ricostruita nel 2003 a Lucerna in Svizzera, e l’anno seguente, a Bologna, l’Orchestra Mozart. La prima era formata da solisti e musicisti provenienti da gruppi da camera, tra cui la violoncellista Natalia Gutman e i membri dei quartetti Hagen e Berg, in aggiunta alla Mahler che ne costituiva l’organico base, mentre l’Orchestra Mozart affiancava a talenti giovani e giovanissimi provenienti da ogni parte del mondo alcuni grandi solisti e prime parti delle maggiori orchestre che Abbado aveva diretto o fondato. Le due compagini divennero lo strumento ideale per raggiungere lo scopo da lui perseguito per tutta la vita: da un lato poter disporre di orchestre perfettamente adeguate a musiche di epoche diverse – monumentale nelle dimensioni quella elvetica, per le grandi opere del tardo Ottocento, dall’organico cameristico la Mozart, per il classicismo viennese e il primo romanticismo –, dall’altro un far musica assieme che scaturisse dall’ascolto reciproco, portando nell’esecuzione orchestrale lo spirito dei piccoli gruppi strumentali che sin dall’inizio aveva accompagnato la sua formazione, prima in famiglia e poi come docente di musica da camera. Al suo gesto, fattosi essenziale e lieve, corrisposero esecuzioni di trasparenza e intensità straordinarie, tali da far apparire in nuova luce partiture già dirette innumerevoli volte; indimenticabili le serate mozartiane a Bologna, e a Lucerna le ultime interpretazioni di Bruckner, ma soprattutto di Mahler: la cui Nona Sinfonia (agosto 2010) fu seguita, allo spegnersi dell’ultimo accordo, da un lunghissimo, emozionato silenzio prima degli applausi. E tra gli esiti maggiori in ambito operistico si debbono menzionare almeno Il flauto magico dato a Reggio nell’Emilia nel 2005, con la Mahler (e sua prima collaborazione col figlio Daniele, regista), e successivamente a Ferrara, Baden Baden, Modena e al Festival di Edimburgo; e nel 2008 Fidelio, realizzato anch’esso a Reggio per la regìa di Chris Kraus e portato poi a Madrid, Baden Baden, Ferrara e Modena.
Il 30 agosto 2013 il presidente Giorgio Napolitano nominò Abbado senatore a vita della Repubblica: l’ultimo di una lunga serie di riconoscimenti, tra cui spiccano l’Ordine al merito della Repubblica Italiana, il Bundesverdienstkreuz, massima onorificenza della Repubblica Federale Tedesca, la Légion d’honneur, la Medaglia Mahler, e le lauree honoris causa conferitegli dalle università di Cambridge, Ferrara, Aberdeen, della Basilicata e dell’Avana.
Abbado si è spento a Bologna la mattina del 20 gennaio 2014.
Si ringrazia la Fondazione Claudio Abbado per le informazioni fornite; cfr. inoltre: F. d’Amico, C’e` modo e modo, in Nuova Rivista musicale italiana, I (1967), pp. 136-142; A., C., in Current biography yearbook 1973, a cura di Ch. Moritz et al., New York 1974, pp. 1-3; C. A., intervista a cura di P. Majno, in Musica, 1980, n. 18, pp. 242-253; Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, I, Torino 1985, pp. 2 s.; Musica, maestri! Il direttore d’orchestra tra mito e mestiere: conversazioni con C. A., a cura di F. Rosti, Milano 1985; C. Abbado, Unter Karajan gesungen, in Karajan oder die kontrollierte Ekstase, a cura di P. Csobádi, Wien 1988, pp. 184 s.; H. Hoyer, Chronik der Wiener Staatsoper 1945-1995, Wien-München 1995, ad ind.; P. Valentino, C. A. il ragazzo di Berlino, in Corriere della sera, 12 dicembre 1995; Die Musik in Geschichte und Gegenwart. Personenteil, I, Kassel 1999, coll. 14 s.; C. Abbado, Musica sopra Berlino, conversazione con L. Bramani, nuova ed., Milano 2000; D. Rosenberg, The Cleveland Orchestra story: “Second to None”, Cleveland 2000, pp. 408, 415, 477; C. Abbado - M. Cacciari, Il cittadino e le note, in La primavera di Micromega, 2001, n. 2, pp. 10-16; C. Försch, C. A. Die Magie des Zusammenklangs, Berlin 2001; The new Grove dictionary of music and musicians, I, London-New York 2001, pp. 5 s.; C. Moreni, C. A. ‘Simon Boccanegra’ di Giuseppe Verdi, Milano 2003; C. A. Dirigent, a cura di U. Eckhardt, Berlin 2003, con CD allegato (trad. it. Milano 2003); A. Kleinert, Berliner Philharmoniker. Von Karajan bis Rattle, Berlin 2005, pp. 37-49; T. Service, The Maestro, in The Guardian, 22 agosto 2007; Id., Music as alchemy: journeys with great conductors and their orchestras, London 2012, pp. 229-273; M.V. Arpaia, C. A.: l’impegno sociale e l’attività culturale, tesi di laurea, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Roma La Sapienza, a.a. 2013-14 (con riproduzione di rari documenti); G. Barigazzi, La Scala racconta, nuova ed. riveduta e ampliata a cura di S. Barigazzi, Milano 2014, ad ind.; C. Gherbitz, Addio a C. A., in Il Piccolo, 21 gennaio 2014; A. Pessotto, A Gorizia il debutto di C. A., in Il Piccolo, 22 gennaio 2014; M. Rovera, Rami e radici, in Amadeus, giugno 2014, n. 295, pp. 16-19; G. Manin, Nel giardino della musica. C. A.: la vita, l’arte, l’impegno, Parma 2015; A. Zignani, C. A. Le opere e i giorni, Varese 2015 (con discografia).