ACHILLINI, Claudio
Nacque a Bologna il 18 sett. 1574 da Clearco e da Polissena de' Buoi. Come suo primo maestro è ricordato Angelo Pagnoni. Studiò medicina e filosofia sotto la guida di D. Pandari e di F. Della Volpe; giurisprudenza con E. Gualandi, A. Marescotti, G. Boccadifuoco. Indirizzatosi più decisamente verso la giurisprudenza, si laureò il 16 dic. 1594. Ma, poco dopo, si trasferì a Padova per seguire i corsi di filosofia di C. Cremonini, il quale, come pare, entrato ben presto in amicizia con lui, lo incitò a dedicarsi con maggiore impegno alla poesia.
Nel 1598 iniziò l'insegnamento universitario, leggendo a Bologna istituzioni di diritto civile fino al 1602, anno in cui si recò a Roma al servizio del concittadino monsignor S. O. Razzali, ripromettendosi di ottenere benefici sicuri e tranquilli dalla Curia romana; forse in questo primo soggiorno romano cominciò a vestire da prete, abitudine che conservò poi tutta la vita o per qualche beneficio minore ricevuto, o per zelo eccessivo di acquistarsi meriti agli occhi dei prelati romani.
Rientrato in patria, riprese l'insegnamento, passando nel 1616 dalla cattedra di istituzioni a quella di pandette, con uno stipendio, altissimo per quei tempi, di 300 scudi. Questo trattamento preferenziale provocò il risentimento dei dottori forestieri dello Studio bolognese, che presentarono un ricorso alla Rota, contestando la regolarità dell'elezione. L'A. si difese vivacemente, stampando anche un opuscolo (Pro partito C. A ...., Mutinae 1606), e riuscì ad averla vinta. Ma per altri contrasti insorti più tardi, a causa, molto probabilmente, di una nuova cattedra e di un aumento di stipendio, che gli venivano negati, passò allo Studio di Ferrara, dietro invito rivoltogli il 19 giugno 1609, a insegnare come "primario" lettore di diritto civile. Riuscì a conservare tuttavia, nonostante il suo allontanamento, una parte del ricco stipendio bolognese; ciò che si sarebbe verificato anche più tardi, durante l'insegnamento nell'università di Parma, per intercessione diretta del suo protettore, il duca Odoardo Farnese.
Ma neanche a Ferrara egli si fermò stabilmente: pur senza lasciare la cattedra, egli espletò durante questo periodo due importanti missioni diplomatiche, prima (1613) come segretario del vicelegato pontificio a Torino, I. Massimi; poi, negli anni successivi, come auditore del nunzio apostolico a Torino e Milano A. Ludovisi, arcivescovo di Bologna, incaricato dal papa Paolo V di cercare una via di conciliazione nella guerra in corso fra Carlo Emanuele I di Savoia e Filippo III di Spagna.
Al termine della legazione, conclusa con successo, il Ludovisi ricevette il cardinalato, mentre l'A., forse deluso di aver ricevuto premi inferiori al suo impegno (se a questo episodio della sua vita si riferisce il malinconico sonetto, "Io corsi, o bella Dora, ogni tua riva"),r itornò all'insegnamento in Ferrara. Ma quando, il 9 febbr. 1621, il cardinale Ludovisi fu eletto papa col nome di Gregorio XV, l'A. si recò a Roma, dove peraltro trovò accoglienze cortesi, ma fredde; poté tuttavia gloriarsi di essere stato invitato a far parte dell'Accademia dei Lincei, cosa che avvenne nel 1622, a dimostrazione di una fama che doveva essere anche in Roma grandissima.
Nel 1624, venuto a mancare l'anno precedente Gregorio XV, l'A. rientrò a Bologna, dove però non restò a lungo, poiché il giovanissimo duca Odoardo Farnese lo volle presso di sé a Parma, come consigliere di stato, letterato ufficiale di corte e insegnante di diritto civile in una cattedra di quello Studio, che in suo onore fu detta "sopraeminente", con lo stipendio di 1500 scudi. L'A. vi restò dieci anni (dal 1626 al 1636): inserito in un ambiente fastoso, che compiaceva naturalmente i suoi gusti e le sue ambizioni, onorato nella misura che egli riteneva più adeguata al proprio valore, egli poté allora dare alla luce la parte più interessante e significativa della sua opera.
Nel 1628, in occasione dei festeggiamenti per il matrimonio di Odoardo Farnese con Margherita de' Medici, l'A. compose e mise in scena due opere teatrali: la prima, Teti e Flora (Parma 1628), prologo e intermezzi accompagnanti la rappresentazione dell'Aminta del Tasso; la seconda, il gran torneo regale di Mercurio e Marte (Parma 1628), musicata da C. Monteverdi. Teti e Flora ebbe addirittura un successo maggiore dell'Aminta, a cui doveva servire da semplice commento e introduzione (con numerosi riferimenti encomiastici allo sposalizio che si celebrava); Mercurio e Marte, realizzata con grande sfarzo di procedimenti scenici e di espedienti tecnici, è tuttavia più libera e fantasticamente felice.
Nel quadro della politica farnesiana di quegli anni, di partecipazione a quelle tendenze filofrancesi che da più parti in Italia miravano a bilanciare il pesante giogo spagnolo, si comprende anche la produzione encomiastica dell'A. nei confronti della Francia. È del 1629 una lettera di ampollosa esaltazione a Luigi XIII, re di Francia; è dello stesso anno il famoso sonetto Sudate, o fochi, a preparar metalli, per la conquista della Rochelle e di Casale da parte dello stesso re (sonetto ricordato argutamente dal Manzoni nel cap. XVIII dei Promessi sposi ,insieme con l'altro di esortazione a liberare la Terra Santa, indirizzato allo stesso sovrano). Del 1638 è la canzone per la nascita del delfino di Francia (il futuro Luigi XIV), che gli valse dal cardinale Richeileu il dono di una collana d'oro. E ancora è da ricordare il sonetto elogiativo del Richelieu, che inizia: "Te, sceso dal cielo in fra i mortali".
Al periodo parmense risale anche la pubblicazione della sua prima raccolta poetica: Poesie di C. A., dedicate al grande Odoardo Farnese, Duca di Parma e Piacenza, Bologna 1632.
Nel 1636, dovendosi chiudere l'ateneo parmense a causa delle guerre imperversanti in territorio italiano, minacciato dall'anno prima, per la costituzione da parte della Francia di una lega antiasburgica, cui partecipava anche il ducato di Parma, l'A. chiese e ottenne dal duca Odoardo di lasciare la città e rientrare in Bologna, dove riprese senza più contrasti l'insegnamento. Poco prima di morire, gli fu offerto di insegnare a Padova, ripetendosi un invito che già gli era stato fatto nel 1622: ma egli rifiutò cortesemente, adducendo vecchiezza e acciacchi.
Ritiratosi nella sua villa "Il Sasso", non molto lontano da Bologna, vi morì il 1 ott. 1640. La sua salma venne trasportata a Bologna e seppellita in S. Martino Maggiore.
Aveva fatto parte, oltre che dell'Accademia dei Lincei, di quelle degli Innominati di Parma, degli Intrepidi di Ferrara, dei Fantastici di Roma, degli Incogniti di Venezia, della Notte di Bologna.
All'editio princeps delle sue poesie (1632) seguirono quelle, tutte di Venezia, del 1633, 1650, 1651,1656,1662 (quest'ultima accresciuta anche di un gruppo numeroso di prose), 1673, 1677 e 1680.
Tutto ciò testimonia di una sua fama grandissima in vita e nei primi decenni dopo la morte. I contemporanei lo giudicarono il più degno seguace del Marino: tra i due, del resto, vi erano stati sempre rapporti di stima e di ammirazione reciproca. Nel 1627, durante il soggiorno parmense, l'A. aveva ispirato fra l'altro a G. Aleandro una vigorosa difesa dell'Adone, contro T. Stigliani, che nell'Occhiale (Venezia 1627) aveva osato criticare aspramente quell'opera.
Anche l'attività giuridica procurò all'A. onori e fama: nel 1638, lui ancor vivo, l'Università degli scolari di Bologna gli fece erigere nelle pubbliche scuole una lapide con l'iscrizione: "Claudio Achillino loci genio...". Difficile è giudicare la consistenza di tale fama, poiché ci restano di lui in questo campo solo alcune orazioni manoscritte (Biblioteca universitaria di Bologna, ms. 2349) di carattere occasionale, che però mostrano come si sia sforzato di avvicinarsi ai metodi e alla sistematica giuridica della scuola "culta", cercando fra l'altro di applicare il procedimento filosofico a scopi di dimostrazione giuridica. Particolarmente interessanti in questo senso: una memoria letta nel 1619 nell'Accademia degli Intrepidi di Ferrara sopra la ragione "perché tornando l'uccisore sopra il corpo dell'ucciso, le piaghe rinnovino l'effusione del sangue" e una lettera che l'A. scrisse in risposta ad una di A. Mascardi sopra le cause della peste allora imperversante in Italia (Due lettere, l'una di Ag. Mascardi, l'altra di C. A. al Mascardi. Sopra le presenti calamità, Bologna 1630), nella quale egli svolse un'argomentazione aridamente scolastica, che il Manzoni poi ricalcò fedelmente per metterla in bocca al suo don Ferrante nel cap. XXXVII dei Promessi sposi.
Bibl.: Per la biografia dell'A, si vedano: Le glorie degli Incogniti (Venezia 1647), che si trova unita a molte edizioni delle Rime e prose a partire da quella del 1662; G. M. Pannini, Vita di C. A., in Cartelli per le giostre di C. A., Bologna 1660; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, I, 1, Brescia 1753, pp. 105-108; G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, I, Bologna 1781, pp. 52-62, e per i rapporti con il Marino in particolare Marino e altri secentisti. Epistolario, a cura di A. Bozzelli e F. Nicolini, II, Bari 1921, pp. 113-250. La biografia migliore e più informata è tuttavia quella di L. Pescetti, C. A., in Atti d. Soc. Colombaria fiorentina, XIII (1965), pp. 145-173, fondata sulle notizie fornite dal Mazzuchelli e dal Fantuzzi, rivedute e ampliate. Per quanto riguarda l'attività giuridica e universitaria dell'A. si vedano: E. Costa, La cattedra di Pandette nello Studio di Bologna nei secc. XVII e XVIII, in Studi e Memorie per la storia dell'Università di Bologna, I, Bologna 1909, pp. 186-188, e C. Calcaterra, Alma Mater Studiorum, l'Università di Bologna nella storia della cultura e della civiltà, Bologna 1948, pp. 210-212, 223. Per il soggiorno parmense, l'informatissimo saggio di F. Rizzi, C. A. e il suo soggiorno parmense, in Aurea Parma, XXXVI, 1 (1952), pp. 4-13. La critica, dopo gli encomi tributatigli durante il corso del Seicento, fu aspramente negativa nel confronto dell'A. Così, G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VIII, 2, Venezia 1796, pp. 423-425; B. Morsolin, Il Seicento, Milano 1880, pp. 48-49; A. Belloni, Il Seicento, Milano 1929, pp. 69-71. Unica eccezione l'opuscolo di B. Malatesta, C. A., Modena 1884, acriticamente elogiativo. Con B.Croce (Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929, pp. 193-194, 321-322 e passim; Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari 1948, pp. 307-308, 373, 388 e passim) s'inizia un giudizio più equilibrato dell'Achillini. Dai saggi del Croce deriva l'impostazione degli scritti di L. Pescetti, cit., e di E. Zanette, Umanità e spiritualità dell'A., in Convivium, n. s., I (1947), pp. 586-598. Su questioni particolari dell'opera dell'A., cfr. L. d'Isengard, Pagine vissute e cose letterarie, Città di Castello 1907, pp. 217-229, a proposito del rapporto intercorrente fra la lettera dell'A. ad A. Mascardi e il don Ferrante manzoniano; P. Legouis, Deux thèmes de la poésie lyrique au XVIIe siècle: la plainte escrite de sang et la belle gueuse, in Rev. de littérature comparée, V (1925), pp. 139-152, in cui si esamina la fortuna di due dei più famosi sonetti dell'A., Poiché, Lidio, non curi i miei tormenti e Sciolta il crin, rotta i panni e nuda il piede, presso poeti del Seicento francese e inglese, in particolare Philippe Ayres e François Tristan l'Hermite. Si vedano infine le antologie di Lirici marinisti, a cura di B. Croce, Bari 1910, pp. 47-54,528, e di G. Getto, Torino 1954, pp. 75,97-114, 167-173.