ACQUAVIVA, Claudio
Nacque ad Atri il 14 sett. 1543 da Giovanni Antonio e da Isabella Spinelli. Rimasto giovanissimo, dopo la morte dei genitori, sotto la tutela del fratello maggiore Giovati Girolamo, compì gli studi giuridici a Perugia, avviandosi alla carriera ecclesiastica. A Roma, introdotto negli ambienti di Curia, ottenne un ufficio da Pio IV, che lo nominò anche suo cameriere segreto partecipante. Legatosi ai gesuiti della Casa professa del Gesù, entrò, con il consenso del pontefice, il 22 luglio 1567, nel noviziato di S. Andrea al Quirinale. Vice maestro dei novizi, promosso nel 1574 al sacerdozio, fu nominato professore di filosofia al Collegio Romano. Rettore del Collegio Massimo di Napoli nel 1575, professò i quattro voti e divenne preposito della provincia napoletana nel 1577. Da questa passò, nel 1579, a reggere la provincia romana. Ricaddero così sull'A., morto il generale E. Mercurian (1 ag. 1580), le incombenze per la nomina del vicario generale e per la preparazione della congregazione generale, che ne doveva eleggere il successore.
Nella congregazione, apertasi il 7 febbr. 1581, l'A. che già aveva assunto per il prestigio del nome, legato in tante occasioni alla vita della Chiesa, e per le doti di governo dimostrate una posizione di grande rilievo nella Compagnia, fu eletto (15 febbraio) quinto generale a primo scrutinio, superando F. Adorno, a favore del quale era intervenuto, con impegno, Carlo Borromeo.
Nell'ambito del contemporaneo processo di consolidamento dell'assolutismo monarchico nei paesi europei, e della sua decisa penetrazione nella compagine ecclesiastica statale, vanno soprattutto inquadrate le vicende del governo più che trentennale dell'Acquaviva. Ma anche all'interno stesso della Compagnia, particolarmente in Spagna, dove si tendeva in qualche settore a rivendicare l'antica preminenza dell'elemento spagnolo nell'Ordine, l'A. dovette fronteggiare presto critiche e richieste di riforme, sintetizzate, tra l'altro, nel Discursus de erroribus qui in forma gubernationis Soc. Iesu occurrunt del Mariana.
Indica la consapevolezza che l'A. ebbe dei problemi da affrontare un progetto di visita alle provincie europee dell'Ordine (1582), sollecitata dalle province spagnole, poi non attuata, sebbene l'A. avesse già eletto vicario generale, per la sua assenza da Roma, il p. L. Maggio.
Non appare ancora completamente chiaro nel suo significato, anche per lo stato degli studi, l'urto tra la Compagnia di Gesù e l'Inquisizione spagnola (1586-88), configuratosi inizialmente quale contrasto di competenze e di prestigio in un clima di accentramento politico e religioso. Alle riserve dell'Inquisizione contro i privilegi della Compagnia e contro la Ratio studiorum (v. oltre) e all'iniziativa del domenicano D. Chaves, confessore di Filippo II, che espresse in un memoriale al sovrano le animosità sparse nei diversi ambienti spagnoli, l'A. rispose, mirando ad eliminare o ad attenuare i più forti punti di attrito, con la richiesta a Sisto V (febbr. 1587) della sospensione del privilegio di assolvere dall' eresia. Non poté, però, bloccare un più vasto fermento contro l'organizzazione accentrata della Compagnia, contro la perpetuità della carica generalizia, contro alcune sue direttive di governo, per la nomina di un commissario o superiore nazionale, per la rivalutazione delle congregazioni provinciali - motivi, questi, già apparsi al tempo del Mercurian - per la convocazione della congregazione generale, richiesta, tra l'altro, dalla congregazione di Castiglia (aprile 1587).
L'Inquisizione, alti esponenti ecclesiastici spagnoli, elementi della Compagnia, mirarono molto probabilmente, a sostegno delle tendenze politiche di Filippo II, ad allineare l'Ordine con gli altri organismi religiosi e a renderlo più docile strumento della volontà spagnola, che si presentava in quegli anni interprete e garante in Europa della riscossa cattolica. L'ampiezza della polemica politico-ecclesiastica raggiunse lo stesso pontefice Sisto V, che si dichiarò per radicali riforme delle costituzioni della Compagnia e, in specie, per due modifiche sostanziali: la precisazione di un termine per la professione e la nomina dei superiori da parte delle comunità. Né gli interventi, a favore dell'A., del cardinale M. A. Colonna, dell'imperatore, del re di Polonia, del duca di Baviera, indussero Sisto V ad accogliere le obiezioni dell'A. alle decisioni di una commissione ristretta, incaricata dallo stesso papa di esaminare i punti di riforma. L'accentuarsi del contrasto tra Sisto V e la Compagnia per le complicazioni politiche della guerra della Lega (era il momento di massima tensione tra Roma ed Enrico di Navarra), la necessità per Roma di appoggiarsi alla Spagna, l'urto tra il papa e il Bellarmino per la tesi sul potere indiretto pontificio in temporalibus avanzata nel De Romano Pontifice impedirono ogni soluzione di compromesso. L'A. stesso, poiché le riforme dovevano apparire direttamente volute dal generale, fu incaricato di preparare la minuta del decreto, che non divenne esecutivo per la morte del papa (27 ag. 1590).
Con il breve pontificato di Gregorio XIV l'A. ottenne, in una momentanea distensione del contrasto e nel miglioramento dei rapporti con la S. Sede, due importanti riconoscimenti: nel maggio 1591 l'attribuzione ad personam della nomina dei visitatori nella Compagnia, di contro alle richieste di Filippo II per l'invio di visitatori esterni; e nel giugno successivo, a conferma dell'istituto, la bolla Ecclesiae Catholicae, in tutto rispondente alla tradizione organizzativa e disciplinare dell' Ordine.
Lo sbocco della crisi si ebbe quando la corte spagnola e gli ambienti politico-ecclesiastici fautori della riforma "nazionale" riuscirono a guadagnare un altro alleato all'interno della Compagnia, il p. J. Acosta, già provinciale del Perù. Questi, inviato a Roma da Filippo II, seppe affiancare abilmente l'azione dell'ambasciatore duca di Sessa e del gesuita Toledo, influente in Curia, e premere su Clemente VIII, in un momento particolarmente favorevole alla Spagna, perdurando incerta e difficile in Francia la situazione politica nella crisi precedente la conversione di Enrico di Navarra e la riunione degli Stati generali del 1593. Il pontefice ordinò allora all'A. (15 dic. 1592) la convocazione della congregazione.
Fallito un tentativo di trattative dirette tra l'A. e Filippo II con la missione in Spagna del p. A. Sanchez, si delinearono favorevoli all'A, le votazioni delle congregazioni provinciali (tra i rappresentanti da inviare a Roma non vennero eletti, ad esempio, il Mariana e il Gagliardi, questi già sottoposto ad inchiesta per i suoi rapporti spirituali con Isabella Berinzaga). Ma l'A. incontrò due insuccessi a Roma di fronte alle concordi volontà del papa e di Filippo II: la concessione all'Acosta del voto deliberativo nella congregazione e l'elevazione al cardinalato (17 sett. 1593) del p. Toledo, che l'A. fino all'ultimo contrastò presso il pontefice in nome della tradizione ignaziana. La diplomazia spagnola guadagnava così un appoggio decisivo per la funzione di tramite che il Toledo, nella nuova dignità, poté esercitare tra l'Acosta, gli altri oppositori dell'A., e Clemente VIII.
Nella V congregazione generale (3 nov. 1593-18 genn. 1594), ribadita da una commissione "ad detrimenta cognoscenda" la linea di governo dell'A. e confermate le costituzioni riguardo all'espulsione di membri indegni e ai poteri delle congregazioni provinciali, furono accolte le proposte di Filippo II in materia beneficiaria e nella questione dei rapporti con l'Inquisizione; ma vennero respinte due richieste del Sessa, miranti a stabilire la periodicità delle congregazioni generali e un termine per la professione e gli ultimi voti (3 e 10 dicembre). Riprovate le compromissioni politiche degli appartenenti all'Ordine (21 dicembre), fu proibita, dopo lunga discussione, l'ammissione nella Compagnia di ebrei convertiti. Contraria alla tradizione dell'Ordine, quest'ultima disposizione apparve ispirata da un problema spagnolo, che aveva provocato perplessità già al tempo del generalato del Borgia e pressioni sull'A., nel 1587 e nel 1592, perché si adeguasse a quanto vigeva in Spagna negli altri Ordini.
Dopo la convalida dei punti sostanziali dell'istituto e l'invito rivolto dalla congregazione agli oppositori per l'accettazione dei deliberati, si verificò, anche per l'azione del Toledo, che aveva fatte proprie le direttive della corte spagnola, l'intervento personale di Clemente VIII. Il discorso papale in congregazione del 4 genn. 1594 spostò il difficile equilibrio tra concessioni e conferme fino allora raggiunto: la congregazione approvò, in obbedienza al pontefice, la triennalità dell'ufficio per i provinciali e i rettori (revocata in seguito) e il rendiconto di governo da parte dei superiori, e cedette sul mutamento degli assistenti, e la periodicità delle congregazioni generali.
La soddisfazione degli ambienti spagnoli dà la misura del successo, almeno parziale, conseguito: ma certo, i decreti sia dottrinali sia disciplinari della congregazione e le visite in Spagna, decise dall'A. per la loro applicazione, portarono presto, nel superamento del conflitto più vivo e nel chiarimento della situazione, ad un riassestamento nell'organizzazione della Compagnia, che poté concludersi più tardi, in atmosfera mutata, con le deliberazioni della VI congregazione generale (1608), secondo il programma enunciatovi dall'Acquaviva.
L'opposizione verso l'A. riprese consistenza poco dopo, quando il Toledo, alla morte dell'arcivescovo di Napoli Annibale di Capua (settembre 1595)patrocinò l'elezione dell'A. a quella sede. Clemente VIII intravide nella proposta la possibilità di troncare definitivamente ogni polemica. Lo stesso Toledo, tuttavia, convinse il papa a non procedere nelle trattative già avviate con la corte spagnola, temendo, per la probabile creazione cardinalizia dell'A., la presenza di un forte avversario nel Sacro Collegio.
La crisi spagnola si riaprì, in altra direzione, negli ultimi anni del secolo intorno a quel momento fondamentale della elaborazione teologica postridentina che fu la discussione dottrinale de auxiliis.
Di fronte alla Concordia liberi arbitrii cum gratiae donis..., Olyssipone 1588, di Luis de Molina, su cui si scontrarono le opposte tendenze dei gesuiti e dei domenicani, l'A. non prese inizialmente posizione, pur avendogli il Bellarmino sottoposto un gruppo di proposizioni da correggere (cfr.Le Bachelet, Bellarmin avant son cardinalat, pp. 292 ss.). Avocata a Roma la disputa, che aveva subito travalicato l'ambito della discussione fra scuole teologiche, ed emanate, nel corso del 1598, due condanne dell'opera dalla congregazione che fu detta de auxiliis,Clemente VIII dispose (1 genn. 1599) che l'A. e il generale dei domenicani chiarissero i punti dottrinali divergenti. Mentre i domenicani richiesero ancora la condanna del Molina, l'A. distinse due ordini di problemi (e tale criterio, che poneva le due parti su un piano di parità nella discussione, fu seguito dai teologi gesuiti sino alla fine delle congregazioni): la questione particolare dell'opera del Molina, che la Compagnia considerava opinione di un privato dottore, e la questione più generale tra i due Ordini, originata dal diverso modo di intendere l'azione della grazia sulla volontà umana. La distinzione indicata dall'A, portò ad una oscillazione continua, secondo i momenti, tra esame particolare e dibattito più ampio e in questo, mancando ancora talvolta omogenee formulazioni dottrinali, alla constatazione della presenza di tali difficoltà da rendere sempre più lontana e improbabile la soluzione dell'ardua controversia teologica. Tale misura e prudenza da parte dell'A., tuttavia, per l'urto tra Clemente VIII e il Bellarmino e le pressioni spagnole a favore dei domenicani, mentre l'impegno francese verso i gesuiti contribuiva a politicizzare il dibattito, non poté impedire, particolarmente nell'ultima fase delle congregazioni (1602-05), tenute alla presenza dello stesso pontefice, che si accentuasse lo sfavore papale verso i gesuiti e la persona dell'A., che partecipò alle sedute soltanto fino al dicembre 1602.
Con Paolo V, tra il 1605-07, il conflitto, che la morte di Clemente VIII aveva lasciato irrisolto, ebbe un diverso orientamento: gli avvenimenti connessi all'interdetto veneziano, l'espulsione dei gesuiti dal territorio della Repubblica e l'urgenza dei problemi politici del momento influirono sulla rapida conclusione dei lavori della congregazione. Il pontefice, che già con la Quantum religio (4 sett. 1606) aveva confermato la propria fiducia alla Compagnia, troncò il dibattito e si riservò (28 ag. 1607) la risposta definitiva, imponendo silenzio alle parti (in tal senso l'A. il 18 settembre scriveva ai provinciali della Compagnia).
Chiarisce notevolmente l'atteggiamento e l'orientamento dell'A. nelle discussioni de auxiliis quel decreto sulla questione della grazia, De observanda Ratione Studiorum deque doctrina Sancti Thomae tenenda, che, nelle sue preoccupazioni di governo, l'A. emanò, col consiglio del Bellarmino, del Suarez e del Cobos, il 14 dic. 1613.
Occasione prossima del decreto fu la pubblicazione (1610) di un'opera del Lessio, De gratia efficaci, de praedestinatione et reprobatione angelorum et hominum, che, riprendendo la tesi del Molina e del Vasquez riguardo alla "scienza media", si opponeva al "congruismo", sostenuto da altri teologi della Compagnia, tra cui il Suarez e il Bellarmino; e l'A., che, nei lavori preparatori per la Ratio Studiorum, aveva seguito tale tendenza nelle disposizioni sull'insegnamento teologico, come aveva avversato, col Bellarmino, le tesi "molinistiche" del p. J. Deckers (1590),nelle sue lettere al Lessio (1610-12) si fece interprete delle decisioni della V congregazione generale circa la scelta delle opinioni teologiche, delle preoccupazioni dell'ambiente romano, timoroso di una ripresa delle controversie de auxiliis, ed espresse il desiderio di mantenere compattezza ed unità dottrinale nell'Ordine. Proibito anche il De gratia congrua, in cui il Lessio aveva ribadito il proprio orientamento, il decreto mirò a definire, dopo la sottomissione dell'autore, il punto di vista ufficiale della Compagnia, distinguendo, in senso congruista, tra grazia sufficiente e grazia efficace. Documento di grande importanza dottrinale e disciplinare, in vigore per tutto il sec. XVII, l'A. vi dichiarò più rigidamente l'adesione all'insegnamento tomistico: per qualche discordanza di interpretazione fu chiarito dal successore dell'A., M. Vitelleschi (14 dic. 1616).
Contemporanei agli avvenimenti spagnoli, quelli francesi impegnarono lungamente la responsabilità e le doti di governo dell'Acquaviva. Le difficoltà nascevano dalle preoccupazioni antispagnole di Enrico III, che non mancò di premere in varie occasioni, ma senza risultato, sull'A. perché fossero esclusi dalle cariche della Compagnia in Francia elementi stranieri. L'intenzione, più volte espressa dall'A. ai provinciali, di tenere l'Ordine lontano da compromissioni politiche, fu resa vana dal precipitare degli avvenimenti, quando, rimasto Enrico senza eredi diretti (1584) e dichiarato da Sisto V Enrico di Navarra inabile alla successione, i gesuiti francesi si trovarono inevitabilmente divisi tra i sostenitori del re e quelli della Lega. Inviando con abile compromesso (febbraio 1587), quale visitatore, l'assistente d'Italia, L. Maggio, l'A. poté, con la personale azione di questi presso il sovrano e le ordinanze alle provincie, moderare la situazione sino all'assassinio del duca e del cardinale di Guisa (23 dic. 1588). Nell'esplosione della Francia cattolica contro il re ed Enrico di Navarra e nella difficile situazione politica del momento, dovette, però, affidare alla discrezione dei superiori locali la scelta della linea da seguire (v. istruzione del 1590 e raccomandazioni al Bellarmino, al seguito del cardinal legato Caetani, del 6 luglio dello stesso anno). Coinvolta nelle vicende della Lega particolarmente a Lione e a Digione, nell'assedio di Parigi, la Compagnia non poté rimanere estranea alla generale crisi di quegli anni.
L'A. si sforzò ancora dì non legare a una contingente situazione politica le sorti della Compagnia: raccomandando ai provinciali, al momento della conversione di Enrico di Navarra (1594), riserva ed attesa per le decisioni papali e biasimando di lì a poco i gesuiti parigini per il giuramento di fedeltà prestato al nuovo sovrano alla sua entrata nella capitale. Nel rapidissimo rifluire dell'opinione pubblica francese, stanca di lotte e di guerre civili, intorno alla monarchia e alla persona del re, che appariva garante della tanto attesa pacificazione religiosa e politica, l'atteggiamento dei gesuiti e dell'A. sembrò coperta ostilità e sfavore al nuovo clima realizzatosi in Francia. La coscienza di tale frattura, quando il paese sentiva fortemente l'unità riconquistata, il rinvigorimento di posizioni gallicane, che la politica dei Guisa aveva attutito, antiche ostilità spiegano perché la reazione legittimista contro la Lega abbia coinvolto con violenza i gesuiti: dapprima, col clamoroso processo della Sorbona (maggio-settembre 1594) dinanzi al Parlamento contro l'insegnamento dei collegi gesuitici; poi, con l'episodio dell'attentato del Chastel ad Enrico IV.
Dopo il decreto parlamentare di espulsione dei gesuiti (29 dic. 1594) - che non ebbe, però, applicazione a Bordeaux e a Tolosa e in alcuni altri centri, dove ancora era debole l'autorità della monarchia - l'A. provvide a ridistribuire gli espulsi nelle provincie italiane e straniere, esclusa la Spagna, e a tentare un accordo con la missione in Francia, nel marzo 1595, del p. A. Possevino. Inserito il problema in quello più ampio dell'assoluzione di Enrico IV, i negoziati, nella loro ultima fase (estate 1595), condotti dal Possevino e dal Toledo, esclusero deliberatamente il punto riguardante i gesuiti, col consenso dell'A., che, per facilitare l'accordo, accettò di rinviare ad altra occasione trattative dirette con il re. L'A., perdurando la rottura, mirò a regolare con una lettera ai provinciali (23 sett. 1595) l'esistenza clandestina dell'Ordine, ed affiancò l'opera del cardinale legato A. de' Medici, inviato in Francia per la restaurazione del cattolicesimo: passi destinati a non modificare lo stato di fatto di fronte alle preoccupazioni politiche del re e alla ostilità dichiarata del Parlamento di Parigi, che, in risposta alle "missioni" già organizzate dall'A. (con istruzioni del 12 maggio 1590) e al ritorno dei gesuiti in alcune città, quali Limoges, Tulle, ecc., reclamò (1597) l'esecuzione assoluta del bando.
La improvvisa ripresa dei rapporti, qualche anno dopo, e le buone disposizioni di Enrico IV indussero l'A. ad inviare in Francia il p. Maggio, che già tanto accorta azione diplomatica aveva condotto con Enrico III. Ma la nuova missione del Maggio non mutò l'atteggiamento di Enrico, favorevole a soluzioni parziali e all'inserimento dei gesuiti nei propri piani di rafforzamento dell'autorità regia e di pacificazione religiosa.
Tramite il pontefice, l'A. venne a conoscenza, nel gennaio 1601, delle condizioni per la riammissione della Compagnia: pur cedendo su alcuni punti riguardanti il beneplacito regio per la fondazione di nuove Case e collegi della Compagnia e la giurisdizione vescovile per la cura d'anime affidata a membri dell'Ordine, respinse la vecchia richiesta di escludere gli stranieri dall'Ordine in Francia e due nuove condizioni, l'una di un giuramento di fedeltà, che suonava sanatoria di passati sospetti, e l'altra di rinuncia a qualsiasi donazione o acquisto, fatto senza il beneplacito del re. Il p. Armand, provinciale di Francia, e il p. Coton, muniti di altre istruzioni dell'A. (maggio 1603), riuscirono a superare il punto morto cui erano giunti i negoziati e ad apportare alle clausole generiche mitigazioni. Le restrizioni ancora pesanti, però, neppure compensate dal pieno riacquisto dei beni posseduti e dalle promesse del re, contenute nell'editto di Rouen del 1 sett. 1603, sembrarono all'A. superare le condizioni possibili per la libera attività dell'Ordine in Francia, tanto da spingerlo a richiedere il differimento del ritorno dei gesuiti nella speranza di condizioni migliori.
Enrico IV convinse l'A. a cedere: la tattica del re era dettata anche dai difficili rapporti col Parlamento di Parigi, che, dopo una rimostranza al sovrano e accuse d'intonazione gallicana all'A. perché superiore "straniero", registrò l'editto (2 genn. 1604). L'atto sanciva quel riconoscimento ufficiale che la Compagnia non aveva sino ad allora goduto in Francia.
Mentre il favore del re prese a dispiegarsi concretamente nelle concessioni per la fondazione di nuovi collegi, fra i quali quello divenuto presto celebre di La Flèche, l'A., di fronte alle innumerevoli richieste da parte di città, magistrature locali, vescovi, si riservò la prerogativa di disporre fondazioni, dotazioni, ecc., per controllare le non mai risolte difficoltà finanziarie di quegli anni. Per l'attenuazione delle clausole restrittive dell'editto di Rouen, la missione di un altro uomo di fiducia dell'A., il p. G. Barisone, e l'accoglimento da parte dell'A. di alcune richieste del sovrano, quali la nomina dell'assistente per la Francia e la formazione della nuova provincia di Tolosa, nel corso della VI congregazione generale (febbraio-marzo 1608), portarono alla soluzione delle questioni ancora pendenti: sulla Compagnia, come peso fiscale, gravò solo l'obbligo del pagamento delle normali decime ecclesiastiche, mentre, per altro, decadeva l'esclusiva a danno dei gesuiti stranieri e veniva praticamente annullata la clausola del giuramento. Il favore del re fu confermato ancora dalla nomina del p. Coton (1608) a confessore reale, con pieno gradimento dell'A.; dall'appoggio alla missione gesuitica di Costantinopoli, che rinnovò, nonostante l'ostilità veneziana, quei rapporti con le Chiese orientali, già allacciati al tempo di Gregorio XIII; dal tentativo, poi non realizzato sotto Enrico, di una missione in Canadà (1604 e 1607), per cui l'A. affidò la scelta dei missionari al p. Coton. L'assassinio di Enrico IV aprì una nuova fase di rapporti. Nel processo al Ravaillac il Parlamento di Parigi sollevò la questione dottrinale del tirannicidio: fu allora che improvvisa risonanza polemica assunse il De rege et regis institutione (Toleti 1599) del Mariana, già al suo apparire in un delicato momento politico per la Francia denunziato dai gesuiti francesi all'A., che ne aveva ordinato la correzione, e nel 1606 ufficialmente disapprovato dalle congregazioni provinciali di Parigi e di Lione. Condannata dalla facoltà di teologia di Parigi la dottrina del regicidio e al rogo, dal Parlamento, la opera del Mariana (8 giugno 1610) e rinnovatesi intorno all'avvenimento contro la Compagnia le non sopite ostilità politiche e religiose, parlamentari e universitarie, l'A. emanò quel decreto de tyrannicidio (6 luglio 1610), col quale, segnando implicitamente la sconfessione del Mariana, proibì di sostenere comunque nella Compagnia la teoria del regicidio.
Con tale disposizione, che andrebbe analizzata nei suoi motivi ispiratori, ma che fu, nelle sue conseguenze, atto di grande importanza politica, l'A. impedì che la Compagnia, bandita qualche anno prima dall'Inghilterra e da Venezia, si trovasse nuovamente avversata e isolata anche nel mondo culturale e politico francese; liquidò rapidamente, senza pericolo per l'Ordine, la difficile polemica; ed evitò, soprattutto, che, nel consolidato assolutismo monarchico, si potesse ritenere la Compagnia legata in toto ad un definito orientamento politico antiassolutistico. Storicamente, il decreto dell'A. segnò, al principio del '600, il completo accordo con la monarchia e il rilancio delle fortune dell'Ordine in terra di Francia.
Un seguito della vicenda si ebbe con le condanne del Bellarmino, per il De potestate Pontificis, e del Suarez ad opera, ancora una volta, del Parlamento di Parigi. Intervenendo nella controversia anglicana, cioè sul giuramento richiesto da Giacomo I ai sudditi cattolici, il Suarez aveva pubblicato una Defensio fidei...(1613), che ribadiva i noti concetti di supremazia pontificia e riproponeva formulazioni riferibili alla teoria del tirannicidio. L'opera, ottenuti i permessi di stampa spagnolo e portoghese e l'autorizzazione di Paolo V, non era stata sottoposta all'A., nonostante il decreto de tyrannicidio (non promulgato, riguardando la Francia, nelle terre spagnole).
L'A. limitò l'episodio alle persone e alle opere del Bellarmino e del Suarez, riconfermando con il decreto de potestate Pontificis et tyrannicidio (23 ag. 1614) il decreto precedente e richiamando altresì all'osservanza delle norme in materia di stampa (per l'irrigidimento della censura sotto l'A., che tenne conto anche della situazione francese, v. Poncelet, II, pp. 481-482).
Durante gli ultimi anni di governo, non mancò l'A. di cedere, sia pure a malincuore, di fronte a situazioni di fatto, come quando, per l'urto della provincia di Francia con l'università e il Parlamento di Parigi (1610-12) a motivo della riapertura del collegio di Clermont e per il processo che ne seguì, i gesuiti parigini accettarono di uniformarsi nell'insegnamento alle dottrine di intonazione gallicano-regalista della Sorbona.
Nei Paesi Bassi il governo dell'A. conseguì, mediante la visita del p. Manare (1584) e i negoziati per un nuovo stato giuridico della Compagnia, il riconoscimento ufficiale dell'Ordine. E, per altro, l'opera dell'A, non si discostò molto dalle linee già accennate: nella misura circa la fondazione di nuovi collegi; nella moderazione con cui regolò i rapporti con l'università di Lovanio, tanto da chiudere il collegio gesuitico della città (1596) e successivamente (1613) quello di Liegi di fronte alla reazione dell'università, gelosa dei propri privilegi; nell'attenuazione ed eliminazione di tendenze "nazionali", soprattutto dopo la divisione della provincia belgica secondo le frontiere linguistiche (1609).
In quello che veniva considerato il contrafforte del cattolicesimo verso ipaesi riformati, l'A. mirò all'incremento delle congregazioni mariane e delle missioni (nel 1593 fu creata quella d'Olanda), al potenziamento degli studi ecclesiastici, realizzando, tra il 1612-14, come parte di un programma più vasto per la preparazione dei controversisti, la fondazione dell'Accademia di Anversa, di cui elaborò il programma e l'ordinamento. Verso un esperimento caratteristico, quello dei cappellani gesuiti al seguito delle truppe di A. Farnese (1588), l'A. fu, in principio, diffidente. Ne comprese poi l'importanza (che risulterà evidente durante la guerra dei Trent'anni), approvando le Ordinationes pro missione castrensi del p. provinciale Coster e le successive istruzioni (1591 e 1598) del successore p. Manare. Procurò di estenderle anche alla Germania, dove esisteva una tradizione sin dai tempi ignaziani, emanando personalmente (1591) una particolareggiata istruzione (cfr. Duhr, I, pp. 518-520).
Per le provincie di lingua tedesca il governo dell'A. fu contrassegnato dalle visite del Manare e dell'Hoffaeus (rispettivamente 1581-83 e 1594-97) le cui relazioni al generale costituiscono una preziosa fonte di informazione sullo stato delle Case e dei collegi e sui rapporti con le confessioni riformate, con le università e con i principi. Importante, a questo proposito, per la restaurazione cattolica, fu l'amicizia personale che legò l'A. al duca di Baviera.
Grande cura dedicò l'A., in quegli anni di ripresa e di penetrazione del cattolicesimo in zone protestanti, alle "missioni", alla fondazione dei collegi (si ricorda quello di Graz e il suo sviluppo dopo il 1598,col ritorno della città al cattolicesimo) e all'organizzazione dell'insegnamento. Regolò, con disposizioni particolari due problemi vivacemente sentiti nelle terre tedesche, il canto e la musica ecclesiastica e il teatro nei collegi: per la musica confermando (1582) le limitazioni del Mercurian e proibendo l'uso di vari strumenti e dell'organo, nonostante le pressioni delle province che intendevano, soprattutto nelle grandi festività, differenziarsi così dal culto luterano (1589,per la provincia del Reno; 1591, per la provincia germanica, ecc.); per il teatro ribadendo l'uso tradizionale del latino di contro all'esigenza delle lingue nazionali. Analoga rigidezza mostrò riguardo ad altri aspetti di devozione e di pietà tipici del primo barocco tedesco, nell'eliminare l'abuso delle messe in case e oratori privati e nell'escludere le donne dalla pratica degli esercizi spirituali e dalle congregazioni mariane (1584, 1595, 1598, per la provincia germanica; 1591, per quella austriaca). Nel regolare, infine, le funzioni e le responsabilità dei confessori di corte (istruzione del 1602), riprese i concetti ispiratori dell'istruzione diretta nel 1588 ai confessori dei duchi di Savoia e di Mantova.
La disparità nella misura di governo portò ad un urto tra l'A. e l'assistente di Germania (dal 1581) p. Hoffaeus, conclusosi, dopo ripetute ammonizioni da parte dell'A., con la deposizione dell'Hoffaeus (1591).
In Polonia, nonostante l'opposizione di vari settori politici, l'espansione della provincia gesuitica progredì tanto, dal 1575, anno della istituzione, che, nel 1608, l'A. provvide a distaccarne la provincia lituana. La Dieta nel 1607-09-11 confermò piena libertà di azione alla Compagnia.
Per l'Inghilterra, l'A. si trovò di fronte, negli ultimi anni di regno di Elisabetta, ad un peggioramento della situazione: il contrasto tra i gesuiti e il clero secolare, divenuto più acuto per il diverso modo di concepire i rapporti con la Corona, con la quale i cattolici inglesi erano inclini, in genere, alla collaborazione, fu sanzionato dall'editto contro i cattolici del 1603, in cui Elisabetta bandì i gesuiti dal regno, riservando invece misure più sfumate e compromissorie per i sacerdoti cattolici. Né l'A. riuscì subito ad impedire, riguardo al problema della successione al trono, l'opera e l'attività diplomatica di alcuni esponenti della Compagnia, tra cui l'autorevole p. Persons, a favore delle pretese spagnole. Con Giacomo I, della cui politica ambigua avverti il pericolo - ne sono prova le sue raccomandazioni, nel 1605, al provinciale Garnet e al p. Blackwell - l'A. dovette assistere al rapido precipitare degli avvenimenti: dalla "congiura delle polveri" alla condanna a morte del Garnet per i suoi rapporti con uno dei promotori, il Catesby, alle persecuzioni contro i gesuiti e i cattolici con le leggi del maggio 1606, mentre si accendeva la controversia anglicana sui rapporti tra il sovrano e i sudditi cattolici.
Al tempo stesso l'urto tra Paolo V e Venezia pose l'A. di fronte ad una situazione, in cui furono possibili soltanto pressioni marginali, destinate comunque all'insuccesso. Dopo il monitorio papale contro la Repubblica (17 apr. 1606) l'A. ordinò il 29 aprile ai membri della Compagnia residenti nello stato la piena osservanza delle disposizioni papali per l'interdetto. Il Senato deliberò in risposta l'espulsione dei gesuiti (10 maggio e 14 giugno 1606). Importante fu allora, per i rapporti tra la S. Sede e la Francia, l'opera svolta dall'A., insieme col p. Coton, nel guadagnare l'appoggio di Enrico IV, che si era mostrato da principio estremamente riservato, e nel provocare il suo intervento e la sua offerta di mediazione. Il rifiuto veneziano di riammettere la Compagnia bloccò temporaneamente l'azione diplomatica del cardinale de Joyeuse e le trattative per l'accordo (marzo 1607); ma l'impegno del cardinale e le pressioni spagnole, anche da parte dell'inviato straordinario a Venezia, Francisco de Castro, mantenendosi per altro sempre rigido l'atteggiamento della Repubblica, indussero, nell'aprile, il pontefice a cedere sul punto in discussione. L'A. stesso, in una lettera a Paolo V del 30 marzo 1607, aveva volentieri ceduto riguardo all'immediato ritorno della Compagnia nello stato veneziano, preoccupato di far cadere l'ultimo ostacolo alla composizione del conflitto.
Un giudizio complessivo sul governo dell'A. potrà darsi perciò tenendo presenti, nei diversi momenti, le esigenze della Chiesa cattolica e il suo più generale orientamento nelle questioni religioso-politiche dell'età della Controriforma, i rapporti di forza delle grandi monarchie cattoliche, le difficoltà e i limiti di situazioni (v., per es., gli avvenimenti inglesi e veneziani) nel quadro politico italiano ed europeo, le caratteristiche di quel processo di consolidamento dottrinale e disciplinare, che si andava svolgendo, non senza scosse, all'interno del cattolicesimo, dall'epoca tridentina. Così, se all'A. fu possibile superare in gran parte, con fermezza e flessibilità, i momenti più gravi di crisi, toccò spesso di cedere e di venire a compromessi o a concessioni di fronte alla realtà di nuove situazioni politiche "nazionali": alle quali dovette aderire con la rinunzia, dove più dove meno accentuata, a quei caratteri di internazionalità sino ad allora serbati dalla Compagnia. Alle soglie del '600 insomma, tra la prima e la seconda fase delle guerre di religione, il processo di ridimensionamento e di inserimento dell'Ordine nei singoli stati si compì, come si è visto, attraverso urti e condizionamenti; ma le resistenze e le mediazioni equilibratrici dell'A. fecero sì che esso avvenisse senza mutare sostanzialmente la configurazione tradizionale della Compagnia.
L'ampiezza dei fermenti che l'opera dell'A. si trovò ad affrontare fa da sfondo a quel grande sforzo organizzativo interno compiuto dall'A. durante e dopo i contrasti esterni, sintesi di esperienze approfondite nella vita dell'Ordine o elaborazione di nuovi problemi posti da concrete esigenze di tempi e di luoghi.
È possibile, sia pure con le dovute sfumature, delineare due fasi di quella "renovatio spiritus" della Compagnia, che porta l'impronta della personalità dell'A.: la prima, dal 1585 circa agli ultimi anni del secolo, in cui l'opera dell'A, riflette più vivamente i contrasti politici e dottrinali del momento e si mostra ancora frammentaria; la seconda, che si può far iniziare dal 1599, in cui porta a conclusione, con vigore costruttivo più definito, l'opera spesso interrotta o ritardata negli anni precedenti (lettere dell'A. di questi anni; congregazione generale del 1608, che confermò numerose istruzioni dell'A.; decreti disciplinari dell'A., ecc.). Nelle sue grandi linee l'organizzazione disciplinare e culturale della Compagnia, fissata al tempo dell'A., a parte quegli elementi definitivamente rimasti nella vita dell'Ordine, giunse sino all'epoca della soppressione (1773): si pensi, per es., alle polemiche settecentesche contro certi aspetti del metodo missionario gesuitico (riti cinesi, ecc.), elaborati durante il governo dell'A., e contro l'ordinamento degli studi, basato sulla Ratio (importanza del latino, ecc.). Discorso più complesso andrebbe fatto per gli orientamenti teologici puntualizzati dall'A., per i quali, dopo l'interrotta ma non risolta controversia de auxiliis, l'elaborazione dottrinale ricevette nuovo impulso, dalla seconda metà del sec. XVII, nel corso della grande polemica giansenistica.
Fra le disposizioni emanate dall'A, si ricordano la soluzione dei problemi riguardanti il biennio di probazione, il decreto del 1589 che decise dell'ora quotidiana di meditazione per i superiori e trasformò in legge la pratica introdotta dal Borgia nel 1565 il decreto sul ritiro spirituale annuale.
Legata particolarmente al nome dell'A. è la Ratio Studiorum, di cui la IV congregazione generale (1581) aveva incaricato il nuovo generale nell'intento di offrire, dopo le diverse ordinanze del Mercurian, unità di metodo all'insegnamento dei collegi della Compagnia.
Una commissione di sei padri, rappresentanti i paesi europei dell'Ordine, nominata e attentamente seguita dall'A., presentò nell'agosto 1585il risultato del proprio lavoro in un breve trattato, il De opinionum delectu in Theologica Facultate, seguito da un commentario ai programmi per le tre facoltà di teologia, filosofia e lettere umane (de scholarum administratione). Stampato come manoscritto in pochissimi esemplari, esso venne inviato, nel 1586, ai superiori delle province per osservazioni e consigli. Sequestrato durante l'urto con l'Inquisizione spagnola, provocò, nel preannunzio del contrasto de auxiliis, l'accusa ai gesuiti di essersi discostati dalla dottrina di S. Tommaso. L'A., nell'intento di sopire la polemica, non permise perciò, per la parte teologica, la pubblicazione, nel De opinionum delectu, di una duplice lista di proposizioni, le une definitae, le altre liberae,utili, a suo avviso, dopo le sei regole provvisorie emanate nel 1582, al rafforzamento dell'unità dottrinale dell'Ordine; e consentì che, nel testo rifuso del 1591 e nella ristampa del 1599, apparisse solo una serie di disposizioni generali. Tuttavia la lista fu inviata alle province sotto forma di ordinanza nel 1592; e la V congregazione generale del 1593, in una nuova discussione sulla scelta delle opinioni teologiche, riaffermò i principi ispiratori del testo del 1586, dichiarando s. Tommaso "doctor proprius" della Compagnia, e però concedendo in casi particolari una certa libertà nella discussione. Del carattere del decreto De observanda Ratione Studiorum (1613) si è parlato precedentemente. Ma il documento, soprattutto nel suo significato culturale, per l'elaborazione dell'eredità umanistica, ha rilievo nella storia della pedagogia moderna.
Con le sue lettere alla Compagnia (v. Epistolae Praepositorum Generalium ad Patres et Fratres Soc. Iesu, Antverpiae 1635, ma anche edizioni successive) l'A., insieme con le direttive di governo, precisò metodi e principi, che improntarono fortemente e talora caratterizzarono la spiritualità gesuitica.
Con la De Societatis felici progressu (28 giugno 1581) pose particolarmente in rilievo la responsabilità dei superiori nel perfezionamento interiore dei loro dipendenti: insistendo, con la De renovatione spiritus (29 sett. 1583) e con la De studio perfectionis et cantate fraterna (19 maggio 1586), sul tema dell'affinamento spirituale nella pratica delle virtù cristiane.
Ispirata da motivi pratici, la lettera De mediis ad conservandam Societatem (28 marzo 1587) suggerisce, invece, i temi di concordia e unione nella Compagnia. All'esortazione per lo zelo missionario concorrono la De fine... missionis Indicae (12 genn. 1590) e la De iubilaeo et missionibus (12 maggio 1590), questa in occasione della penetrazione missionaria nella Cina. La De fervore et zelo missionum (1 ag. 1594) e la De modo instituendarum missionum (12 maggio 1599) si riferiscono all'attività delle "missioni" in Europa e soprattutto all'opera di riconquista cattolica della Francia.
Nella fondamentale lettera Quis sit orationis et paenitentiarum usus in Societate iuxta nostrum Institutum (8 maggio 1599) l'A. definì, dopo le deliberazioni del Mercurian, il delicato problema della contemplazione. Su questo punto, che vedeva ancora divisi i superiori della Compagnia, distinse tra le diverse forme di contemplazione e si pronunziò, richiamandosi allo spirito delle costituzioni, per la preghiera e la meditazione armonicamente inserita nei doveri di apostolato e di sacerdozio (cfr. A. Coemans, La lettre du p. C. A. sur l'oraison, in Rev. d'ascétique et de mystique, XVII (1936), pp. 313-321). La tendenza per la contemplazione attiva (cfr. Dudon) è avvertibile sia in questa sia nella successiva lettera dedicata all'argomento, De renovatione spiritus et correspondentia cum Deo (24 giugno 1604), dove l'A. indicò come oggetto della meditazione le perfezioni e i benefici divini.
Con la De usu Exercitiorum spiritualium (14 ag. 1599) l'A., che aveva insistito, con successive disposizioni, sulla pratica degli Esercizi e ne aveva fissato l'obbligatorietà per i superiori all'atto della nomina (1595), dopo la convalida del loro carattere generale ad opera della V congregazione, presentò il Directorium quale commento e interpretazione degli Esercizi ignaziani. Quasi contemporaneamente all'apparizione della Ratio Studiorum - e ancora per impegno diretto dell'A. - si sintetizzava così un altro aspetto della tradizione della Compagnia.
Dopo i tentativi del tempo del Lainez, del Borgia e del Mercurian, l'A. aveva affidato il vasto materiale ai padri più anziani, dando direttive nella scelta e indicando, nel corso dei lavori, gli elementi da tenere in particolare considerazione. Il Directorium,per il quale si prese come base quello del Polanco (ma per il cap. 21 sulle "tre vie" è evidente l'intervento dell'A.), apparve nel 1591, e dopo l'esame da parte di una commissione durante la V congregazione generale, in edizione definitiva nel 1599. Nel 1608 l'A., ottenendo dalla VI congregazione l'approvazione di un decreto sull'obbligo annuale degli Esercizi, concluse tutta una linea di governo, che non aveva mancato di favorire nell'Ordine la fioritura della letteratura spirituale, riassumibile nei nomi dell'Arias, del Rodriguez, del Rossignoli, del Realino.
La De recursu ad Deum in tribulationibus et persecutionibus (29 luglio 1602) e la De sollicitudine et vigilantia Superiorum erga subditos (20 ag. 1604) riflettono di nuovo anni di contrasto e preoccupazioni di governo.
Con la De Officii divini recitatione ac celebratione missae (24 nov. 1612) l'A. chiarì il carattere della preghiera liturgica nella vita della Compagnia, il significato della recitazione individuale dell'Ufficio, mancando la pratica della recitazione corale, e il suo rapporto con la Messa.
Alla formazione dei predicatori sono dirette la De formandis ac bene instituendis nostris concionatoribus (14 ag. 1599) e la più ampia Epistola... monita complectens formandis concionatonibus accommoda (28 maggio 1613).
Altre lettere sono edite nelle Epistolae selectae Praepositorum Generalium ad Superiores Societatis, Romae 1911. Di edizioni singole, di raccolte, traduzioni dà notizia il Sommervogel.
Si ricordano, tra gli scritti dell'A.: le Industriae pro Superionibus... ad curandos animae morbos (18 apr. 1600), Florentiae 1600, Romae 1606, Venetiis 1611, ecc., di ampia ispirazione patristica, introdotta per la sua importanza nel corpo ufficiale della Compagnia; le postume e incompiute Meditationes in Psalm. 44 et 118, Romae 1616 e Coloniae Ubiorum [1616], dettate dall'A. durante la sua ultima malattia, opera di bella pietà individuale; e gli Esercizi spirituali (Acireale 1908, a cura del Fiuti), che, secondo il Sacchini, l'A. avrebbe composto nel 1571, ancora novizio.
Particolari cure l'A. dedicò allo sviluppo delle Congregazioni mariane, assicurando ad esse una organizzazione centralizzata. Ottenuta da Gregorio XIII la bolla Omnipotentis Dei (5 dic. 1584), che erigeva canonicamente la congregazione del Collegio Romano, con facoltà di aggregarne altre simili con le stesse regole e gli stessi privilegi, ad essa, con altre due bolle di Sisto V (Superna dispositione, 5 genn. 1587, e Romanum decet pontificem, 29 sett. 1587), l'A. affiliò tutte le congregazioni maschili secolari, dando nello stesso anno regole comuni, salvo qualche modifica locale, alla vasta organizzazione.
Risalgono anche all'A. l'inizio della storiografia dell'Ordine, non proseguita, però, con lo stesso impegno dai successori, affidata a N. Orlandini e F. Sacchini, e, dopo i vari tentativi compiuti al tempo del Mercurian, la realizzazione della storiografia missionaria, con la Historia delle missioni nelle Indie Orientali del Valignano. Così, per ordine dell'A, fu redatta, intorno al 1602, per ciascun collegio la Historia domus e, durante il governo dell'A., presero a stamparsi le Litterae annuae Societatis Iesu, relazioni delle diverse Case e sedi della Compagnia, che, in una lettera ai provinciali (26 sett. 1598), egli mirò a innalzare ad un livello di informazione storica, ma che spesso ubbidirono a scopi pratici di edificazione.
Il governo dell'A. segna inoltre una grande epoca nella storia delle missioni gesuitiche nei paesi extra-europei: tanto per il potenziamento dell'attività in zone già aperte alla conquista missionaria, quanto per lo slancio, dovuto in gran parte ad A. Valignano e a M. Ricci, in Estremo Oriente, con la penetrazione in Giappone e in Cina, e per l'adeguamento dei metodi missionari compiuto nell'incontro con antiche forme di civiltà. Dalle lettere dell'A. ai due missionari, particolarmente dal carteggio col Valignano, risaltano una partecipazione attenta alle diverse questioni via via sollevate e un orientamento improntato a equilibrio e moderazione.
L'A. morì il 31 genn. 1615.
Fonti e Bibl.: Mancando una monografia sull'A., è necessario rifarsi aidati biografici e alle indicazioni bibliografiche che appaiono in opere a carattere generale: J. De Guibert, La spiritualité de la Compagnie de Jésus, Roma 1953, pp. 219-270, ricorda in particolare la biografia dell'A., opera del Sacchini, in Arch. Rom. Soc. Jesu, Vitae 144, I, che va collegata a quanto lo stesso Sacchini scrisse sul governo dell'A. nella sua Historiae Societatis Iesu pars V sive Claudius, I, Romae 1661 (ma v. anche J. Juvency, Historiae... pars V, Tomus posterior, Romae 1710); in riferimento alla storia della Chiesa, cfr. L. v. Pastor, Storia dei Papi, X-XII, Roma 1928-30, passim; e il capitolo che il Ranke, Die römischen Päpste, ihre Kirche und ihr Staat, II, Berlin 1839, pp. 282-307, dedica interamente al conflitto tra la Compagnia e Filippo IX, agli avvenimenti francesi, alla controversia de auxiliis; ampio materiale archivistico utilizzano A. Astrain, Historia de la Compañia de Jesús en la Asistencia de España, III-IV, Madrid 1909-13; H. Fouqueray, Histoire de la Compagnie de Jésus en France, II-III, Paris 1913-22; A. Poncelet, Histoire de la Compagnie de Jésus dans les anciens Pays-Bas, I-II, Bruxelles 1927-28; B. Duhr, Geschichte der Jesuiten in den Ländem deutscher Zunge, I, Freiburg i.B. 1907, che considerano l'opera dell'A, nel contesto degli avvenimenti narrati (per il particolare problema, per l'assistenza di Germania, del contrasto tra l'A. e l'Hoffaeus, v. B. Schneider, Der Konflikt zwischen C. A. und Paul Hoffaeus, in Archivum hist. Soc. Iesu, XXVI [1957], pp. 3-56). Questioni particolari: per la posizione dell'A. durante la controversia de auxiliis si v. la voce Molinisme, in Dict. de Théol Cath., X, 2, specialmente coll. 2156 s.; parziale, ma utile per ricchezza d'informazione, la nota opera del domenicano J. H. Serry, Historia congregationum de auxiliis divinae gratiae, Antverpiae 1709, coll. 116-117, 172, 629-630; per un orientamento nella letteratura polemica, le discussioni sulla Ratio e nel corso delle congregazioni, con riferimento all'A. v. C. G. van Riel, Beitrag zur Geschichte der Congregationes de Auxiliis, Konstanz 1921; per i rapporti col Bellarmino: v. Y. M. Le Bachelet, Bellarmin avant son cardinalat 1542-1598. Correspondance et documents, Paris 1911, pp. 493-499; Id., Prédestination et grâce efficace. Controverses dans la Compagnie de Jésus au temps d'Acqua-viva (1610-1613), voll. 2, Louvain 1931 (con docc.), sull'episodio del Lessio e la genesi del decreto de gratia; per il problema del tirannicidio, ancora da studiare con precisione i rapporti col Mariana; un breve cenno sul decreto de tyrannicidio in E. Michael, Die Jesuiten und die Tyrannenmord, in Zeitschrift für katholische Theologie, XVI (1892), pp. 556-567 e, nel quadro del pensiero politico europeo, in P. Mesnard, L'essor de la philosophie politique au XVIe siècle, Paris 1952, pp. 641, 642, 643 e n. 2; per la questione, maggiore attenzione è stata dedicata ai rapporti tra l'A. e il Suarez da R. de Scorraille, François Suarez a-t-il été blamé par ses Supérieurs?, in Etudes religieuses, philosoph. hist. et littéraires, CXXXI (1912), pp. 654-656, 658, 666, e, più ampiamente, dallo stesso in François Suarez de la Compagnie de Jésus, voll. 2, Paris 1913; da O. Lewy, A secret papal brief on tyrannicide during the Counterreformation, in Church History, XXVI (1957), pp. 319-324 (con bibl.), che non menziona però i due decreti dell'A., si può ricavare come essi abbiano di poco preceduto una condanna generale del tirannicidio emanata da Paolo V (24 genn. 1615) mediante un breve inviato alla corte francese, ma non reso pubblico; per i rapporti tra l'A. e il Gagliardi, v. P. Pirri, Il p. Achille Gagliardi, La Dama milanese, la riforma dello spirito e il movimento degli zelatori, in Archivum hist. Soc. Iesu, XIV (1945), pp. 1-57 e 57-72 (docc.); per l'interesse dell'A, per la missione a Costantinopoli e le relazioni col mondo ottomano, v. P. Pirri, Sultan Yahya e il p. A., in Archivum hist. Soc. Iesu, XIII (1944), pp. 62-71 e 71-76 (docc.); per i rapporti col mondo inglese, col Persons, con l'Allen, v. Ph. Hughes, The Reformation in England, III, London 1954, pp. 288 n., 297, 305 n., 306 n., 320 ecc.; per la posizione dell'A. al momento dell'interdetto veneziano, v. P. Pirri, L'interdetto di Venezia del 1606 e i gesuiti, Roma 1959 (con docc.); per l'opera e l'intervento dell'A, nell'elaborazione della Ratio Studiorum, v. l'importante raccolta di G. M. Pachtler, Ratio Studiorum et Institutiones scholasticae Soc. Iesu per Germaniam olim vigentes, I (1541-1599), Berlin 1887, soprattutto le pp. 77-86, 263-284, 285-325,ecc.; II (Ratio Studiorum ann. 1586, 1599, 1832), Berlin 1887; III, Berlin 1890 (dove sono pubblicati anche i tre decreti de gratia efficaci, 1613, de tyrannicidio, de potestate pontificis et tyrannicidio, 1614); la recensione al Pachtler di B. Gaudeau, Histoire du "Ratio studiorum" de la Compagnie de Jésus d'après des documents récemment publiés,in Etudes, cit., XLVI (1889), pp. 87-109; un'accurata ricostruzione della storia esterna, del carattere della Ratio, della posizione dell'A. è data da I. v. Döllinger-Fr. H. Reusch, Geschichte der Moralstreitigkeiten in der römisch-katholischen Kirche... mit Beiträgen zur Geschichte und Charakteristik des Jesuitenordens, I, Nördlingen 1889, pp. 479-511; II pp. 225-244 e passim (docc.); per la pratica degli esercizi spirituali, l'elaborazione del Direttorio, v. J. Iparraguirre, Historia de los ejercicios de San Ignacio, II, Bilbao-Roma 1955, passim, in particolare le pp. 286-287, 314-315, 415 55, 432 55, 531-533; cfr. anche Directoria Exercitiorum spiritualium (1540-1599), a cura di J. Iparraguirre, in Monumenta Hist. Soc. Iesu, LXXVI (Monumenta Ignatiana series secunda),1955, partic. il cap. II, pp. 17-26 e docc. alle parti 4a e 5a; per l'importanza dell'A. nella storia della spiritualità gesuitica v. il De Guibert, cit., e P. Dudon, in Dict. de spiritualité, I, coll. 829-834, sub voce; per gli scritti dell'A., C. Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, I, Bruxelles-Paris 1890, coll. 480-490; VIII, ibid. 1898, coll. 1669-1670; per l'organizzazione delle Congregazioni mariane ad opera dell'A., v. E. Villaret, Les congregations mariales, I, Des origines à la suppression de la Comp. de Jésus, Paris 1947, passim; per le missioni sotto il governo dell'A., cfr.A. Valignano, Historia del principio y progresso de la Compañia de Jesús en las Indias Orientales (1542-1564), a cura di J. Wicki, Roma 1944, pp. 35, 41,49, 58-59, 80, 86, 93 ss., 99-100 dell'Introduzione (per la storiografia missionaria e i rapporti tra l'A. e il Valignano si v. anche partic., A. Valignano, Il Cerimoniale per i missionari del Giappone, a cura di G. F. Schutte, Roma 1946, passim, soprattutto le pp. 37-55,74 ss., 93 ss.); M. Ricci, Storia dell'introduzione del cristianesimo in Cina, voll. 3, ediz. naz. a cura di P. D'Elia, Roma 1942-49, cfr. indice dei nomi, per i rapporti e il carteggio dell'A, con i missionari, per cui v. anche J. Bettray, Die Akkommodationsmethode des P. Matteo Ricci S. J. in China, Romae 1955, passim; F. J. Alegre, Historia de la provincia de la Compañia de Jesús de Nueva España, a cura di E. J. Burrus e F. Zubillaga, Roma 1956,pp. 253, 331 367 n. 3, 368 n. 8 e 569, 570, 574 (docc.); sub voce in diversi repertori, Dizionari ed Enciclopedie: Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., Encicl. Cattolica, ecc.