DE MARINI (Marini), Claudio
Nacque verso il 1574 "fuori di matrimonio nel paese della Borgogna" (Della Torre).
Il padre, Cosmo di Giuliano, appartenente alla nobiltà "vecchia" genovese, dovette morire poco dopo il dicembre 1592: fu il D. infatti a figurare nell'elenco dei nobili tassati nel 1593, con l'imponibile ragguardevole di 112.500 lire genovesi. Oltre al fedecommesso sul palazzo acquistato dal padre nel 1589 nella piazza dei Salvaghi, il D. aveva una rendita mensile di circa 200 lire. Questa "superfluità di beni di fortuna" (Della Torre) non gli impedì di indebitarsi: nel marzo 1595 il cardinale Domenico Pinelli, fratello della suocera del D., Vittoria Spinola Pinelli, ottenne dal Senato di Genova che la rendita del giovane venisse dimezzata per provvedere al pagamento dei creditori. A quella data il D. aveva già sposato Porzia, figlia di Napoleone Spinola della Rocca, uno dei numerosi Spinola titolari di feudi sui confini della Repubblica; ma fuori del matrimonio (che fu apparentemente senza prole) nacquero i figli del D.: Bianca (o Bianca Maria), menzionata nel testamento paterno del 1607, e Cosimo, legittimato nel 1621.
Partecipe delle pratiche rissose della gioventù nobile, nel 1595 il D. ricevette dal Senato l'intimazione "de non offendendo" un certo Giacomo De Ferrari. Alla fine del 1606 e nel gennaio 1607 venpe ancora coinvolto in procedimenti giudiziari, nel secondo dei quali la sua casa fu perquisita in cerca d'armi ed egli stesso arrestato. Liberato, nel febbraio venne esiliato a Roma, a norma della "legge dei biglietti" appena introdotta, che puniva con due anni di confino i nobili giudicati perturbatori della quiete pubblica. Ottenne la grazia dal Senato il 3 settembre dello stesso anno. La scelta del D., assieme a due nobili rei di violenze, per inaugurare la "legge dei biglietti" non dipese forse soltanto dalla sua turbolenza: egli era infatti già noto come filofrancese ed informatore di ministri stranieri. All'inizio del luglio 1605 il D. aveva ospitato Charles de Neufville, marchese d'Alincourt, figlio del marchese di Villeroi, segretario di Stato agli Esteri di Enrico IV, e nuovo ambasciatore francese a Roma. Casuale l'"amicizia assai stretta" (Della Torre) nata tra il D. e d'Alincourt; ma non troppo, se il D. (dopotutto di madre presumibilmente francese) era il solo "vestito alla francese" in una città ispanofila. Nell'agosto 1605 un certo Gio. Andrea Roeto o Roveto (il quale dichiarava di sé: "io attendo a belle lettere"), trovato in possesso di lettere clandestine, denunciò il D. come corrispondente dei cavalier Guidi, segretario dei granduca di Toscana. Pur negando di essere un "novellaro", il D. ammise di essere stato richiesto dal Guidi di organizzare una squadra di sei galee per conto della Francia: "una occasione", scriveva il toscano, "di farvi un altro Marchese Spinola in mare", secondo un paragone in quel momento attuale anche se meno calzante dell'altro paragone possibile con i Doria asientistas de galeras per la Spagna. Il D., oltre a non poter anticipar denari, temeva rappresaglie sui suoi investimenti, collocati, come era normale per i nobili genovesi dell'epoca ma paradossale per un filofrancese, "in stadi di Spagna". La conoscenza del Guidi risaliva ad un soggiorno fiorentino di sei-sette anni prima; la corrispondenza, che aveva riguardato anche i fatti della politica interna genovese, fu interrotta dall'arresto dell'intermediario, il processo del quale si concluse tuttavia senza danni per il De Marini.
Ammiraglio mancato, entrò comunque al servizio della Francia: divenne cameriere - "ciambellano" - e consigliere di Stato di Luigi XIII, e dal 1610 residente francese a Genova, posizione ufficiosa perché la Repubblica non ammetteva altro ambasciatore ordinario che quello spagnolo. Il Della Torre riteneva il D. creatura del duca di Guisa; i contatti toscani e con i Villeroi contribuivano a introdurlo favorevolmente negli ambienti di governo della reggenza di Maria de' Medici.
L'esordio del D. nella politica italiana avvenne nella primavera-estate del 1612, durante la prima guerra di successione dei Monferrato, quando offrì al nuovo duca, il cardinale Ferdinando Gonzaga, e ai ministri mantovani Chieppio e Iberti l'aiuto francese contro Carlo Emanuele I di Savoia. Al cardinale il D. prometteva anche interessamento per negoziare prestiti a buone condizioni sulla piazza di Genova. Per il momento il D. era antisabaudo; il seguito della vicenda monferrina lo portò, come rappresentante della Francia, a sostenere Carlo Emanuele I. Assistette l'ambasciatore marchese di Rambouillet nelle trattative per la tregua d'Asti, insistendo con il governatore di Milano, J. Hurtado de Mendoza, marchese della Hinoyosa, per la sua attuazione (1615); ma ricevette una ripulsa (con un'allusione ai suoi natali illegittimi) dal successore don Pedro de Toledo (1616). L'ambasciatore spagnolo a Genova, Juan Vivas, temeva che il D. costituisse una fazione filofrancese tra i giovani nobili; e dopo un primo intervento (settembre 1616) del segretario di Stato Arostegui presso l'ambasciatore genovese a Madrid, nell'aprile 1617 il Vivas chiese al doge che la Repubblica procedesse contro il D., reo di aver cercato di corrompere Juan Gamarra, segretario del governatore di Milano, per rivelare la cifra dei dispacci spagnoli al duca di Savoia, e di "andar communicando un libro ... ripieno di concetti perniciosissimi a gli interessi comuni della Republica e del Cattolico". La casa del D. fu perquisita; ma egli era già fuggito da Genova (non dal carcere, come scrisse il nunzio G. Bentivoglio), riparando in Francia. Nel settembre -ottobre 1617 il Guisa, il presidente del Parlamento di Provenza e lo stesso Luigi XIII scrissero alla Repubblica protestando per l'oltraggio fatto a un rappresentante del Cristianissimo. Di fronte alla minaccia, alimentata interessatamente dalla Spagna, di una crisi internazionale, e fraintendendo le richieste francesi, nell'aprile 1618 la Repubblica inviò in Francia l'ambasciatore straordinario Gian Luca Chiavari, trattenuto per alcuni mesi a Lione quasi in ostaggio. Nel luglio la crisi fu infine risolta, grazie alla mediazione del Bentivoglio, venuto meno l'interesse della Spagna a gettare olio sul fuoco e acconsentendo la Repubblica a dare "intera soddisfazione al Re in rimettere le cose di Claudio Marini nello stato di prima".
Gli Spagnoli erano riusciti ad allontanare da Genova il D., che nel 1617 divenne ambasciatore di Francia a Torino. Qui intervenne nella conclusione del matrimonio tra Vittorio Amedeo di Savoia e Cristina di Francia; in riconoscimento di ciò Carlo Emanuele I nel 1623 lo creò marchese di Borgofranco, presso Ivrea. Nel 1619 il D. si fece latore presso Carlo Emanuele della falsa notizia propalata dal conte di Châteauvilain che il viceré di Napoli duca di Osuña stava per ribellarsi al Cattolico. Nel novembre 1622 partecipò alle trattative, seguite al colloquio di Avignone tra duca di Savoia e re di Francia, per concordare iniziative antiasburgiche. Queste presero corpo, grazie anche al D., nel trattato di Susa (20-22 ott. 1624), che volgeva l'alleanza tra Savoia e Francia contro la Repubblica di Genova, col pretesto delle rivendicazioni sabaude sul marchesato di Zuccarello da poco acquistato dai Genovesi. A Genova il D. era in contatto con diversi nobili (certamente Geronimo e Tommaso Sauli, forse Cristoforo Invrea, Gio.Batta Lercaro "et altri"); e stipendiava dal 1622-23 almeno il lontano parente Vincenzo De Marini mastro delle Poste della Repubblica, perché aprisse e gli rivelasse la corrispondenza con l'aiuto dei preti Agostino Filippi, parroco di S. Donato, e Gio. Antonio Anfosso. Nel settembre-ottobre 1624 ebbe contatti segreti con il senatore in carica Ambrogio Lomellino (fratello dello scomparso monsignor Gioffredo Lomellino, filofrancese dichiarato, e di Marc'Aurelio Lomellino, portavoce della nobiltà povera), il quale avrebbe cercato all'insaputa del governo di indurre il D. a mediare la controversia su Zuccarello. Tramite dei contatti fu l'oscuro patrizio Paolo Geronimo Mambilla, secondo il quale il D. avrebbe negato i suoi buoni uffici per mero calcolo ("se io aggiusto li genovesi con S. S. sua Altezza con il tempo potrà haverlo a male, e se io non li aggiusto li Ss.ri genovesi si crederanno che sia mancato per me di non aggiustarli"). In realtà in quei giorni il D. stava progettando insieme col duca e i francesi, il conestabile di Francia duca di Lesdiguières, Ch. de Bullion e Ch. de Créqui l'attacco a Genova. Con gli stessi partecipò alle ostilità, iniziate il 9 marzo 1625, e assistette alla presa di Gavi. Contemporaneamente Vincenzo De Marini veniva scoperto, arrestato e dopo breve processo decapitato; il 13 agosto anche il D. era processato in contumacia per lesa maestà e tradimento e il 30 agosto era condannato a morte e alla confisca dei beni. Il 16 settembre fu proposto, e il Minor Consiglio approvò subito, che la sua casa di piazza dei Salvaghi fosse rasa al suolo: al suo posto sorse la chiesa di S. Bernardo.
Chi aveva visto il D. a Gavi lo descrisse come il più accanito sostenitore dell'attacco a fondo contro Genova: versione raccolta da Giulio Pallavicino, che attribuì alla prudenza del conestabile Lesdiguières la mancata discesa dei collegati verso il mare. Con lo stesso conestabile, ritenuto venale, la Repubblica cercò tuttavia di prendere contatto attraverso il D. per staccarlo dall'alleanza col duca; ma il latore della proposta, Stefano Spinola cognato del D., fu catturato dai collegati nella rotta genovese di Voltaggio e liberato dopo alcuni mesi per intervento del D., solo per essere incarcerato, appena tornato a Genova, dal sospettoso governo.
Alla condanna del D. il re di Francia rispose mettendo a sua volta al bando il doge e la Signoria di Genova, e il duca di Savoia sequestrando a risarcimento del D. i beni dei Genovesi nei suoi Stati. E quando, rovesciate le sorti della guerra per l'intervento spagnolo e concluso tra le due Corone il trattato di Monton, venne stabilita una tregua d'armi tra Genova e Savoia, la condanna del D. fu revocata (23-27 luglio 1626), lasciando lo strascico del risarcimento per il palazzo raso al suolo. Il duca aveva tentato invano di imporre il D. come arbitro della tregua d'armi: condizione provocatoria, inaccettabile dai Genovesi. Ma dopo Monçon il D. segnalò prontamente. a Richelieu la possibilità che Carlo Emanuele ("prencipe interessatissimo, che ha consumato li suoi stati et impegnato quanto ha per questa guerra sopra la quale ha fatto dissegni d'ingrandiri") cambiasse bruscamente fronte, come accadde non appena riaperta nel 1627 la successione del Monferrato. Personalmente non molto favorevole (secondo gli osservatori veneziani) al candidato francese duca di Nevers, egli rimase a Torino metà ambasciatore metà ostaggio in attesa del ritorno dell'inviato piemontese a Parigi. Nell'interesse del re di Francia cercò di staccare il duca dall'alleanza spagnola. Favorì l'accordo del giugno 1628 che prevedeva la consegna transitoria di Casale alla duchessa di Maritova; e, come osservarono i contemporanei e riprese già il Capriata (Historia, p. 636), si sforzò di mediare un accomodamento tra il duca e la Francia. Collaborava col Créqui, assieme al quale nell'ottobre 1629 svelò a Richelieu le trattative segrete del Nevers col governatore di Milano Ambrogio Spinola.
Il D. morì a Torino appena un mese dopo, il 20 nov. 1629.
Giulio Pallavicino commentò la scomparsa del D. ("la quale se bene è stata naturale, è però stata accompagnata da quell'infame nome di traditore della patria sua") pronosticandogli la dannazione eterna. Ma il D. era stato fedele, non diversamente dai Doria o dagli Spinola al servizio della Spagna, al padrone che si era scelto: una fedeltà simboleggiata ostentatamente nell'abbigliamento, poiché nell'unica descrizione che resta di lui appare "un homaccioso pieno di vita con barba nera grossa alla francese aguzza, e lui ancora vestito alla francese, et haveva un capello basso alla francese, e mi parve vestito di colore, con guarnitione d'oro". La sua discendenza si radicò in Piemonte: dal figlio Cosimo al nipote Claudio al pronipote Cosimo il marchesato di Borgofranco rimase ai De Marini sino al 1720.
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