DELLA VALLE, Claudio
Sono assai scarse le notizie sul suo conto, eccezion fatta per gli anni 1796-99. Romano, nato probabilmente fra il 1755 e il 1765, di condizione abbastanza agiata - ma non apparteneva alla casata dei marchesi Della Valle, come affermò l'abate Benedetti nel suo diario (Silvagni, I, pp. 484 s.) - era figlio dello scultore Filippo. La paternità, fin qui solo supposta dai biografi, è ora accertabile dal testamento di Filippo, pubblicato dal Minor. Risulta anche che fu ordinato prete e che era beneficiato del capitolo lateranense; ebbe pure una cappellania e riuscì a godere di benefici e pensioni per un discreto ammontare annuo. Secondo il De Felice, il D., che fu pure per qualche tempo segretario di un cardinale, studiò teologia e diritto ed insegnò, con l'incarico di lettore, all'università della Sapienza: tuttavia quest'ultima notizia non trova conferma nei documenti universitari dell'epoca (Di Simone, p. 232). Nel gennaio del 1789 fu arrestato e rinchiuso, forse per breve tempo, nelle carceri del S. Offizio; un secondo arresto avvenne probabilmente nella primaveraestate del 1794, forse in connessione con la scoperta del gruppo filofrancese di L. Angelucci e P. Corona: privato di tutti i benefici ecclesiastici, sottoposto a censura dalla Sapienza, il D. rimase nelle carceri dell'Inquisizione per quasi due anni. Fu liberato alla fine del giugno 1796 in base alla clausola dell'armistizio di Bologna che stabiliva la liberazione dei prigionieri politici da parte del governo papale. Probabilmente sorvegliato e comunque nell'impossibilità di svolgere ogni attività (non poté stampare una prima redazione del Pollajo)verso l'ottobre dello stesso anno egli fuggì a Milano. Qui partecipò attivamente alla vita politica frequentando i gruppi giacobini di Carlo Salvador, Matteo Galdi, Francesco Saverio Salfi e Giuseppe Poggi, e, probabilmente, gli altri esuli romani, come Giuseppe Lattanzi e Enrico Michele L'Aurora, tutti unitari come lui. Egli si legò soprattutto al Poggi, di cui divenne stretto collaboratore, e scrisse per il Termometro politico della Lombardia e per il Giornale de' patrioti d'Italia, per i giornali, cioè, dei gruppi democratici radicali e unitari.
Gli articoli attribuibili al D. (come la Protesta di un cristiano al S. Padre, in Termometro politico della Lombardia, n. 33, 24 vendemmiale a. V [ 15 ott. 1796], pp. 61 -63, e Processo contro il governo di Roma e Manifesto d'indipendenza alla Repubblica Italiana, ibid., n. 103, 10 messidoro a. V [28 giugno 1797], pp. 477-482) fondevano l'ideale democratico con una violenta passione anticlericale, mostrando la non subordinazione del problema religioso a quello politico, e delineavano la posizione religiosa che sarà successivamente da lui sviluppata. elementi portanti ne erano fin da allora l'odio per il "dispotismo ecclesiastico", l'antitemporalismo, l'istanza di un ritorno al Vangelo e alla "vera religione di Gesù Cristo", e, infine, il nesso stretto fra rigenerazione politico-sociale e riforma religiosa, tanto frequentemente postulato da molti giacobini italiani.
Durante il soggiorno a Milano il D. pubblicò anche cinque opuscoli politici, tutti anonimi. I primi tre, brevissimi, erano: Vera idea del rivoluzionario ossia Dialogo tra Egofilo e Filantropo, Milano a. I della Cisalpina, violenta requisitoria contro l'opportunismo dei falsi patrioti; Il diavolo fuggito dalla Lombardia, dialogo fra un lombardo e il diavolo, Milano s. a., attacco contro lo sfruttamento dell'ignoranza da parte del clero per controllare e sottomettere il popolo, ed esaltazione della libertà di stampa come mezzo per illuminarlo; Disinganno al pubblico d'Italia, s. l. s. a., ristampato in seguito a Roma a. VI (1798). Più argomentati e articolati erano gli altri due opuscoli: il primo, intitolato Traduzione dal francese dell'Analisi e confutazione succinta della bolla del S. Padre Papa Pio VIspedita in Francia ai vescovi e clero di quella nazione riguardo alla nuova di lei Costituzione civile del clero, Pavia 1796 (seconda edizione: Roma a. VI), era un violento attacco contro l'ipocrisia religiosa promossa dal cattolicesimo romano, contro la "fede popolare, fede cieca e brutale, fedespuria, ed inoperosa che si osserva comunemente in quegli uomini, che più per abitudine che per ragione s'addimandano cristiani". A questo tipo di religione, contrario alla razionalità del cristianesimo, egli contrapponeva il "sole delle verità Evangeliche, e dei diritti dell'uomo civile, e cristiano", diritti connaturali e inalienabili, primo fra i quali quello alla libertà religiosa (pp. 13-17). Contrario, perciò, ad ogni affermazione giuridico-costituzionale di un culto dominante, e critico nei confronti della temporalizzazione e degenerazione della Chiesa che era stata all'origine di tale idea, il D. auspicava una riforma ecclesiastica chiaramente ispiratagli dal modello costituzionale francese, basata, cioè, sul ritorno - secondo una mitologia assai diffusa in questo periodo negli ambienti del riformismo anticuriale - all'antica struttura, a carattere popolare e democratico, della Chiesa primitiva; sul ripudio della ricchezza e della mondanizzázione ecclesiastica; sulla condanna del celibato; sul rifiuto, infine, di una primazia papale sugli altri vescovi che non fosse soltanto d'onore ma anche di giurisdizione. L'operetta, che fu definita a torto dal Giornale ecclesiastico di Roma (12 e 19 ag. 1797) frutto della scuola giansenistica pavese del Tamburini, rifletteva invece l'avvenuta maturazione di idee che fanno del D., secondo il De Felice (1965, p. 195) "un tipico rappresentante dell'evangelismo giacobino", inteso come un cristianesimo purificato e contrapposto alla degenerazione del cattolicesimo romano, il quale, ridotto però a pura legge morale-naturale, spogliato della rivelazione, violentemente anticlericale e con spunti illuministici per lo più di derivazione rousseauiana, era destinato a sfociare in posizioni deistiche.
Il secondo opuscolo, Specchio del governo e popolo di Roma ed esame della condotta tenuta da quella Corte nella sua neutralità, armistizio, e pace colla Repubblica Francese, s. l. s. a., conteneva duri attacchi contro il potere temporale, ritenuto di usurpazione, e contro il trattato di Tolentino con cui i Francesi avevano mantenuto sul trono "il tiranno del Campidoglio", lasciando "intatto il nido della impostura e della superstizione ... e la ruina della Francia e dell'Italia" (p. 45). Il D. sollecitava francamente i Francesi - come pure facevano gli altri giacobini romani - a porre fine allo Stato della Chiesa di cui analizzava la precaria situazione economica e le cause della crisi, giungendo alla conclusione che la capitale, ridotta alla fame, fosse pronta ad accogliere i Francesi. Suggeriva anche, al fine di legare i contadini al futuro nuovo governo repubblicano, la ripartizione delle terre dell'Agro romano.
Alla fine del 1797 il D. lasciò la Repubblica Cisalpina per trasferirsi nella neocostituita Repubblica Anconitana, dove cercò di organizzare i democratici e gli esuli romani: ancora a Milano aveva scritto, infatti, un appello apparso nel Giornale de' patrioti d'Italia (n. 94, 2 fruttidoro a. V [19 ag. 1797]: Ai patrioti romani emigrati per la persecuzione sacerdotale un loro confratello), in cui invitava i democratici romani a concentrarsi ad Ancona. Il D. vi giunse come militare cisalpino, chiamato da Pietro Panazzi che aveva conosciuto a Milano insieme con altri patrioti anconetani, e vi ottenne l'incarico di segretario della Municipalità democratica. Inoltre fondò e redasse il giornale Redattore anconitano di indirizzo democratico radicale.
Ai primi di marzo del 1798, in seguito alla proclamazione della Repubblica Romana, il D., lasciata la città, giunse a Roma dove il gen. L.-A. Berthier, comandante dell'armata francese, lo aveva già nominato dapprima membro della Municipalità provvisoria e, successivamente, presidente del dipartimento de' prefetti dell'Ecclesiastico (o Commissione ecclesiastica). In questo periodo la sua posizione politico-ideologica era ben definita: nel Ristretto ragionato degli atti emanati dalla Municipalità d'Ancona dal suo installamento alla incorporazione nella Romana Repubblica, Roma a. VII, esporrà la sua concezione democratica, ma non estremista, basata su un sistema rappresentativo, sui principi della proprietà privata e sulla partecipazione popolare alla vita pubblica. Sosteneva inoltre l'esproprio e la vendita dei beni ecclesiastici e confermava la propria convinzione unitaria. Dal punto di vista religioso, però, la posizione del D. era venuta sempre più radicalizzandosi, evolvendo dal cristianesimo evangelico a una forma religiosa francamente deistica incompatibile con qualsiasi organizzazione e disciplina ecclesiastica: egli affermava che l'unico vero culto era quello della religione del cuore e della natura, fondato semplicemente sull'amore di un Ente supremo e dei nostri simili, e che tutte le religioni esteriori erano contrarie alla legge naturale, false, intolleranti e quindi dannose alla pubblica tranquillità (Ristretto, pp.143 s.). Il governo democratico, indifferente nei confronti dei culti, doveva però favorire la riforma di quello cristiano in direzione di un ritorno alla purezza evangelica, in modo da rendere possibile una sua utilizzazione politica come strumento di governo.
Nella prospettiva, appunto, di una riforma della Chiesa che ne provocasse l'allineamento con il nuovo regime, il D. progettò una costituzione civile del clero che fece precedere da un provvedimento, datato 13 apr. 1798, con cui sottraeva la nomina dei parroci alla giurisdizione ecclesiastica e attribuiva il diritto d'elezione dei parroci al popolo e quindi ai suoi rappresentanti. Il provvedimento suscitò vasta eco e vivaci opposizioni: il Tribunato si oppose subito ad esso e accusò il D. di eccesso di autorità, chiamandolo a discolparsi. Egli, nella seduta del 7 fiorile a. VI (26 apr. 1798), si difese sostenendo che il suo provvedimento non usurpava i poteri del Tribunato, non essendo una nuova legge ma il semplice ripristino di antichi diritti popolari e degli usi del cristianesimo dei primi secoli. Alla fine di aprile, dopo una lunga discussione, il Tribunato annullò la disposizione del D., il quale era stato denunciato come "reo d'usurpata autorità e di lesa nazione" (Assemblee, I, p. 160), mentre, contemporaneamente, le autorità francesi bloccarono anche il progetto di costituzione civile del clero. Intanto il D. era stato costretto a lasciare la sua carica e, qualche mese dopo, pubblicò nel Monitore di Roma del 13 messifero a. VI (10 luglio 1798), una nota molto aspra nei confronti del governo repubblicano moderato, definito "governo spurio".
Poco prima dello sfortunato tentativo di porre le basi per una riforma ecclesiastica in senso evangelico tramite l'elezione popolare dei parroci, il D., secondo De Felice, sarebbe stato l'anima di un tentativo - molto discusso dagli storici - di giungere all'elezione di un vescovo di Roma le cui attribuzioni fossero eguali a quelle degli altri vescovi. Durante l'assenza e malattia di Pio VI, sarebbe stata prospettata a mons. Emanuele De Gregorio, luogotenente del cardinale-vicario, la possibilità di una sua elezione, a opera del clero e del popolo romano, a nuovo vescovo di Roma, una volta ottenuta l'abdicazione del papa. Il De Gregorio però fuggì spaventato e il progetto fallì. Il radicalismo religioso di pochi patrioti - la cui influenza politica e consistenza numerica De Felice tende a sopravvalutare - fu facilmente sconfitto dall'indirizzo moderato della classe di governo.
Deluso e risentito, il D., una volta estromesso dalla attività politica, si volse a quella pubblicistica: in pochi mesi uscirono la ristampa romana dell'Analisie confutazione succinta della Bolla di Pio VI (maggio 1798), e il Ristretto ragionato degli atti emanati dalla Municipalità d'Ancona (settembre 1798). Nello stesso anno VII, probabilmente nel febbraio 1799, uscì a Roma anche il poemetto Il pollajo, iniziato già sotto il governo papale, in cui il D. proponeva la distribuzione agli indigenti di mille rubbia delle terre incolte dell'Agro romano, da destinare alla pollicoltura e all'istituzione di duemila pollai che avrebbero dato lavoro a diecimila persone e assicurato l'approvvigionamento di Roma. Sembra anche che egli avesse intenzione di pubblicare un Catechismo evangelico-repubblicano e una Raccolta di opuscoli dedicati al popolo romano;queste opere però non videro mai la luce. Collaborava anche al Monitore di Roma, diretto da U. Lampredi, con una serie di note polemiche caratterizzate, specialmente dopo l'estromissione dal governo, da un sempre maggiore pessimismo moralistico, da risentite polemiche personali, e da proposte radicali in materia religiosa, come il Progetto di incendiare il corpo del Gius Canonico (a ripetizione dell'analogo gesto pubblicamente da lui compiuto al tempo della permanenza a Milano), esposto in un articolo del 26 messifero a. VI (14 luglio 1798), pp. 377 s.; gesto dimostrativo di protesta "con solenne atto popolare contro quelle dottrine anti-evangeliche, e liberticide, dalle quali a preferenza d'ogni altro popolo della Terra fummo fino ad ora malmenati e distrutti".
Dopo la breve parentesi dell'occupazione napoletana di Roma del novembredicembre 1798, e con l'immissione nella amministrazione repubblicana dei patrioti giacobini, il nuovo ministro degli Interni, A. Franceschi, chiamò il D. a dirigere la divisione per l'Istruzione pubblica e i Culti.
Nel nuovo clima politico egli poté intraprendere un'azione dura nei confronti del clero e della questione religiosa: il 6 piovoso a. VII (25 genn. 1799) pubblicò un avviso coi quale ribadiva l'obbligo di rispettare la formula del giuramento civico di odio alla monarchia e di fedeltà alla Repubblica per tutti i pubblici funzionari. Opera sua fu pure, secondo il De Felice, una circolare inviata qualche giorno dopo dal ministero degli Interni alle municipalità per invitare le autorità locali ad assumere un atteggiamento intransigente nelle questioni riguardanti i religiosi e a esercitare un rigido controllo sulla scelta dei parroci.
Dalla caduta della Repubblica Romana in poi scarsissime sono le notizie sul suo conto. Da una lettera, del 5 luglio del 1800, indirizzata a F. Reina da Marsiglia, si può dedurre che doveva esservisi rifugiato al seguito delle truppe francesi che avevano lasciato Roma. In essa raccomandava all'amico il fratello Agostino; annunciava il suo prossimo arrivo a Milano e dando per certo che a Roma vi fossero ben tremila persone in carcere in seguito alla fine della Repubblica, dichiarava che m se Roma infelice torna sotto le zanne del lupo mitrato o d'altro carnivoro animale, 10 la ricuso per mia patria" (Parigi, Bibl. nat., Fonds Ital. 1565, f. 68v). Nel novembre 1801 era a Bologna, da dove chiedeva al Reina una lettera di raccomandazione per ottenere un impiego nella città. Nel 1811, comunque, e di nuovo in veste di sacerdote, era ancora a Roma, dove, il 15 agosto, dal pulpito di S. Pietro fu l'unico sacerdote romano che predicasse l'obbedienza alle leggi dell'Impero ed esaltasse Napoleone il giorno del suo genetliaco, in un Discorso anniversario sul ristabilimento della religione in Francia effettuato da Napoleone il Grande..., Roma 1812. Delle circostanze e dei modi dei suo ritorno al cattolicesimo e all'abito ecclesiastico - vicenda abbastanza comune in quegli anni - nulla sappiamo, così come non conosciamo né le vicende degli ultimi anni della sua vita né la data della morte. Forse è da identificare con lui il canonico regolare lateranense, Valle, che nel 1845 in S. Pietro in Vincoli donò a nome della sua congregazione allo zar Nicola 1 un quadro attribuito al Guercino (Moroni, L, p. 38).
Secondo il De Felice, con il D. va identificato lo scrittore romano che con lo pseudonimo di Nicio Eritreo pubblicò, fra la primavera e l'estate del '98, due interessantì trattatelli: Grammatica repubblicana, s. l.s. a. [ma Roma 1798], dedicata al generale in capo dell'armata di Roma, Gouvion de Saint-Cyr, e Dell'uomo: sue qualità, imperfezioni, e doveri, [Roma] a. VI. Le due operette espongono idee di chiara derivazione rousseauiana e pongono in maniera decisa il nesso fra utopismo sociale e problema di riforma religiosa, fra religione e Stato, con una radicalizzazione maggiore rispetto alle altre opere sicuramente attribuibili al D. e in chiave di un deciso dirigismo statale.
Fonti e Bibl.: Roma, Bibl. nazionale, Fondo Vittorio Emanuele, ms. 44-45: Memorie dell'avv. A. Galimberti dell'occupaz. francese in Roma dal 1798 alla fine del 1802 (sotto la data del 27 apr. 1798); Parigi, Bibl. nationale, Fondo Custodi, Fonds Italiens 1565, ff. 66-70 (due lettere del D. a Francesco Reina datate, la prima, da Marsiglia, 16 messidoro a. VIII, la seconda, da Bologna, 5 frimale a. X); G.A. Sala, Diario romano degli anni 1798-1799, a cura di G. Cugnoni, Roma 1882, I, pp. 97, 106, 149 s., 164, 175, 11, p. 256; Giornale eccles. di Roma, 12 ag. 1797, pp. 121 s.; 19 ag. 1797, pp. 125 s.; Assemblee della Repubblica Romana (1798-1799), a cura di V. E. Giuntella, I, Bologna 1954, pp. LXXXIII s., 160, 163, 169, 175 ss., 180 s. Lo studio più completo sul D. rimane quello di R. De Felice, L'evangelismo giacobino e l'abate C. D., in Riv. stor. ital., LXIX (1957), pp. 196-249, 378-410, ripubblicato in Italia giacobina, Napoli 1965, pp. 169-287. Si vedano anche: D. Silvagni, La corte e la società romana nei secc. XVIII e XIX, Firenze 1881, I, pp. 484 s.; A. Dufourcq, Le règime jacobin en Italie. Etude sur la Rèpublique Romaine, Paris 1900, pp. 190, 222; L. Rava, Il cittadino romano C. D. Le sue idee econom. e il suo poemetto sul Pollaio (1798), in Nuova Antologia, 1° genn. 1917, pp. 74-86; D. Cantimori, Utopisti e riformatori italiani. 1794-1847, Firenze 1943, pp. 54 s., 74 s.; V. E. Giuntella, La giacobina Repubblica Romana, Roma 1953, pp. 17, 79, 140; Id., Di un progetto di eleggere a Roma un antipapa durantel'esilio di Pio VI, in Rass. stor. del Risorg., XLII (1955), pp. 69-71; Giacobini ital., a cura di D. Cantimori, I, Bari 1956, pp. 44, 423 (pp. 423-427, 449 per Nicio Eritreo, di cui è riportato un estratto della Grammatica repubblicana alle pp. 99-154); V. E. Giuntella, Bibliografia della Repubblica Romana del 1798-1799, Roma 1957, pp. XVI, XXXIII, 45, 68, 85, 150 s.; W. Angelini, P. Panazzi e C. D. ad Ancona e terza allocuzione di Panazzi al popolo, in L'apporto delle Marche al Risorg. nazionale. Atti del Congresso di storia, 29-30 sett-2 ott. 1960, Ancona 1961, pp. 51- 59; S. Rota Ghibaudi, La fortuna di Rousseau in Italia (1750-1815), Torino 1961, pp. 225, 257, 259, 343; I giornali giacobini ital., a cura di R. De Felice, Milano 1962, pp. XXXIX, 49 n., 134 n., 205 s., 209-212 (qui sono riportati i due articoli del D. pubblicati dal Termometro polit. Della Lombardia del 24 vendemmiale a. V e del 10 messidoro a. V); W. Angelini, La Municipalità di Ancona e il suo tentativod'annessione alla Cisalpina, Urbino 1963, pp. 129-132 e ad Indicem; Id., Giornali anconitani del 1798, in Atti e mem. della Deput. di st. patria per le Marche, s. 8, IV (1964-65), pp. 87, 88, 91, 97; F. Diaz, La questione del giacobinismo ital., in Critica storica, III (1964), pp. 588, 594 s.; A. Cretoni, Roma giacobina. Storia della Repubblica Romana del 1798-99, Roma 1971, ad Indicem; C. Capra, Il giornalismo nell'età rivoluz. e napoleonica, in La stampa italiana dal Cinquecento all'Ottocento, a cura di V. Castronovo-N. Tranfaglia, Bari 1976, pp. 428, 461 s.; V. Minor, Della Valle and G. B. Grossi revisited, in Antologia di belle arti, II (1978), pp. 233-47; M.R. Di Simone, La "Sapienza" romana nel Settecento. Organizzazione universitaria e insegnamento del diritto, Roma 1980, pp. 185, 225, 232 s.; Cattolicesimo e lumi nel Settecento ital., a cura di M. Rosa, Roma 1981, pp. 46, 164; G. Moroni, Diz. di erudiz. stor. -ecclesiastica, L, p. 38.