MONTEVERDI, Claudio Gian Antonio
MONTEVERDI (Monteverde), Claudio Gian Antonio. – Nacque a Cremona nel 1567 e fu battezzato il 15 maggio nella chiesa dei Ss. Nazaro e Celso. Era il primo figlio di Baldassarre (speziale, cerusico e medico) e di Maddalena Zignani, sposatisi a inizio 1566. A lui seguiranno Maria Domitilla (battezzata il 16 maggio 1571) e Giulio Cesare (battezzato il 31 gennaio 1573).
Morta la madre verso il 1576, il padre sposò Giovanna Gadio (fra il 1576 o 1577), dalla quale ebbe: Clara Massimilia (battezzata l’8 gennaio 1579), Luca (battezzato il 7 febbraio 1581), Filippo (battezzato nel gennaio 1583). Morta anche Giovanna Gadio, dopo il 1583 Baldassarre Monteverdi sposò Francesca Como.
Nei frontespizi delle prime opere a stampa pubblicate tra il 1582 e il 1590 il giovane compositore si definì allievo di Marcantonio Ingegneri (1535/36-1592), maestro di cappella del duomo di Cremona. È dunque presumibile che il suo avviamento alla carriera musicale sia avvenuto nell’ambito di questa istituzione. Certo, i suoi esordi pubblici risultano assai precoci. Il 1° agosto 1582 il quindicenne «Claudinus Monsviridus» dedicò al canonico don Stefano Canini Valcarenghi le Sacrae cantiunculae tribus vocibus (Venezia, A. Gardano, 1582), collezione di piccoli mottetti su testi biblici o liturgici. L’anno dopo seguì una più impegnativa raccolta di Madrigali spirituali a quattro voci (Brescia, V. Sabbio, 1583: pervenutaci incompleta) su testi presi dalle Rime spirituali di Fulvio Rorario (Venezia, Guerra, 1581). Nato nell’ambito delle iniziative editoriali del libraio cremonese Pietro Bozzola (e offerto ad Alessandro Fraganesco, esponente di una nobile e importante famiglia locale: Monteverdi firmò la dedica il 31 luglio 1583), il volume s’inseriva nella voga della poesia devozionale musicata, generata dal clima post-tridentino. Proprio in area lombarda operavano alcuni dei più zelanti promotori: il cardinale Carlo Borromeo vescovo di Milano, quello di Cremona Nicolò Sfondrato, creato cardinale nel 1583 e poi eletto papa (Gregorio XIV: 1590-91). Terzo tassello di questo articolato esordio editoriale giovanile, le Canzonette a tre voci ... Libro primo (Venezia, G. Vincenzi e R. Amadino, 1584) che il 31 ottobre 1584 Monteverdi dedicò a Pietro Ambrosini, membro di una famiglia stabilitasi da tempo a Cremona.
Le notizie su questa fase della biografia di Monteverdi continuano a essere affidate solo a quanto si ricava dai suoi titoli a stampa. Le due raccolte successive lasciano intuire non più il mettersi in mostra dell’esordiente, ma il giovane in cerca d’impiego e i suoi primi contatti. Il 27 gennaio 1587, dedicando al conte veronese Marco Verità i Madrigali a cinque voci ... Libro primo (Venezia, A. Gardano, 1587), Monteverdi fece cenno alle «tante cortesie », al suo «obligo» e ai «favori» ricevuti (la raccolta si apre con un trasparente omaggio a Camilla Verità). A indirizzarlo verso quell’ambiente, così ricco di attività musicali e di dilettantismo filarmonico, era stato forse il suo maestro Ingegneri, che di Verona era nativo. Il secondo libro de madrigali a cinque voci (Venezia, A. Raverii, 1590) lascia intuire sondaggi in altra direzione. Dalla dedicatoria a Giacomo Ricardi «presidente dell’eccellentissimo Senato et del Consiglio della Maestà Catolica in Milano» (datata 1 gennaio 1590) sappiamo che Monteverdi fu ricevuto da lui a Milano (verosimilmente, nel 1589) e che gli si propose come violista ma anche come compositore (gli aveva esibito il precedente libro già pubblicato).
Con questi due titoli, Monteverdi esordì nel genere profano maggiore dando veste sonora a testi di preferenza lirici di vari poeti contemporanei (Libro primo), nel solco degli sviluppi patetici del madrigale di fine secolo. Nelle scelte poetiche del Secondo preponderano Torquato Tasso e un tipo di lirica smagliante, ricca d’immagini che suggerirono al compositore effetti di vivida pittura sonora.
Alla fine, riuscì a farsi assumere proprio come violista tra i musicisti al servizio della corte dei Gonzaga a Mantova, di cui era allora duca Vincenzo I. Il suo nome figura infatti per la prima volta in una lista di salariati del 1592 (Parisi, 1994, p. 191). In ogni caso, il 27 giugno 1592, proprio da Mantova Monteverdi firmò la dedicatoria del suo Terzo libro de madrigali a cinque voci (Venezia, R. Amadino, 1592), offerto al duca. Vi esibì il nuovo rapporto di dipendenza, menzionando il «nobilissimo esercitio della vivuola che m’aperse la fortunata porta del suo servitio». Anni dopo, in lettere della fine del 1608 sia Monteverdi (2 dicembre) sia suo padre (27 novembre) parleranno di un servizio ininterrotto di 19 anni (Lettere, 1994). Più tardi, in altra lettera (6 novembre 1615: nel luglio-agosto 1612 Monteverdi aveva già lasciato Mantova) il compositore disse di aver trascorso a corte un «corso de 21 anni», che diventarono uno «spatio di anni vintidui continui » nella dedicatoria della Selva morale e spirituale (1640 o 1641). L’epoca di assunzione a Mantova deve dunque collocarsi agli inizi del 1590, o al massimo nel 1591.
Come si è detto, Monteverdi entrò a far parte del complesso di strumentisti (7 o 8) che affiancavano i cantori della cappella ducale (una dozzina), allora guidata da Giaches de Wert (1535-1596). Oltre che come violista, viene citato anche come «cantore» (1594: Davari, 1884-1885, p. 81): nel frattempo aveva avuto modo di farsi apprezzare anche come compositore col citato Terzo libro uscito nel 1592 e dedicato appunto al duca suo signore.
L’asse letterario di tale raccolta s’incentra su poeti d’ambiente ferrarese quali Torquato Tasso e Battista Guarini (le relazioni tra Mantova e Ferrara, tra i Gonzaga e gli Este, erano strettissime) e va sotto il segno del madrigale patetico. Non per nulla il rilievo maggiore lo assumono i due cicli di madrigali su episodi della Gerusalemme liberata – l’invettiva di Armida abbandonata da Rinaldo, il lamento di Tancredi sul cadavere dell’amata Clorinda – e sopra un sonetto di Angelo Grillo che dal primo episodio prende spunto.
Queste molteplici doti (di violista, cantore e compositore) propiziarono certo la scelta di porre Monteverdi alla guida della ridotta cappella (4 cantori) che, fra il giugno e il novembre 1595, accompagnò il duca Vincenzo in Ungheria (via Trento, Innsbruck, Linz, Praga e Vienna) al seguito delle truppe mantovane inviate a rinforzo dell’esercito imperiale impegnato contro il Turco (il rientro avvenne attraverso Stiria, Carinzia e Friuli).
Pochi mesi dopo (23 maggio 1596) a Mantova morì Wert: ne prese il posto Benedetto Pallavicino (1551-1601). Intanto la crescente notorietà di Monteverdi è testimoniata dalle ristampe del Terzo libro (1594, 1600), dalla sua partecipazione con 4 brani a Il primo libro di canzonette a tre voci del cremonese Antonio Morsolino (Venezia, R. Amadino, 1594) e soprattutto dall’inclusione di 6 suoi madrigali – uno dei quali forse inedito – tra i Fiori del giardino di diversi ecellentissimi autori (Kaufmann, Norimberga 1597).
Anche la vita privata di Monteverdi conobbe una svolta. Il 20 maggio 1599 sposò la cantante di corte Claudia Cattaneo, figlia del collega violista Giacomo Cattaneo. Di lì a pochissimo dovette seguire il duca in un nuovo viaggio europeo, stavolta ai bagni di Spa. Il 7 giugno 1599 il convoglio partì per Trento, Innsbruck, Basilea, Nancy, giungendo in luglio nelle Fiandre: nel ritorno toccò Liegi, Anversa, Bruxelles, con rientro a Mantova il 15 ottobre 1599. In quell’occasione Monteverdi fece esperienza del «canto alla francese». Il 27 agosto 1601 fu battezzato il primo figlio, Francesco Baldassarre.
A questo periodo risalgono anche i rapporti di Monteverdi con l’ambiente ferrarese. A fine 1594 quattro canzonette del compositore furono inviate a Margherita Gonzaga (sorella di Vincenzo) terza moglie del duca Alfonso II d’Este: e a quest’ultimo Monteverdi avrebbe voluto dedicare la sua successiva raccolta profana (Il quarto libro de madrigali a cinque voci: lo si sa dalla dedicatoria), ma la morte del duca (1597) lo impedì. Il volume apparirà soltanto nel 1603 (Venezia, R. Amadino), ugualmente offerto a musicofili d’ambiente estense, gli Accademici Intrepidi (la dedica è datata 1° marzo 1603).
Sempre a Ferrara, all’epoca dei festeggiamenti (12-18 novembre 1598) per le nozze tra Margherita d’Austria e Filippo III di Spagna (celebrate per procura da Clemente VIII, in città per prenderne possesso dopo la morte di Alfonso II), il 16 novembre 1598 erano avvenute in casa di Antonio Goretti quelle esecuzioni di madrigali di Monteverdi che divennero il bersaglio polemico di padre Giovanni Maria Artusi. Già allievo di Gioseffo Zarlino a Venezia, e canonico di S. Salvatore a Bologna, questi prese spunto da quelle composizioni per una serie di riflessioni poi pubblicate nel trattato in forma dialogica L’Artusi overo Delle imperfettioni della moderna musica (Venezia, G. Vincenti, 1600). Senza fare il nome di Monteverdi, esaminando passi di madrigali ancora inediti (usciranno nel Quarto e Quinto libro: 1603 e 1605), Artusi censurò il trattamento delle dissonanze, la mescolanza di generi e modi che nasceva da un uso improprio delle alterazioni, l’impiego di andamenti declamatorii e di stilemi dell’improvvisazione vocale. In favore di Monteverdi, quando ancora quel trattato di Artusi non era apparso a stampa, intervenne già nel 1599 un non meglio identificato «Ottuso Accademico », le cui lettere si possono leggere nella Seconda parte dell’Artusi (Venezia, G. Vincenti, 1603). Verso il 1603 Monteverdi mediterà di replicare ad Artusi con un proprio trattato, che si sarebbe dovuto intitolare Seconda pratica, overo Perfettione della moderna musica (lo dice lui stesso nella dedicatoria del Quinto libro, 1605), ma il progetto non sembra sia mai giunto a compimento. A ridosso del 1607 intervenne in difesa di Artusi un non meglio identificato Antonio Braccino da Todi. Il suo contributo ci è però noto solo indirettamente, in quanto menzionato nella Dichiaratione della lettera stampata nel Quinto libro de suoi madregali posta in appendice agli Scherzi musicali di Monteverdi curati da suo fratello Giulio Cesare (1607). L’anno dopo uscì un’ulteriore confutazione del sedicente Braccino pro Artusi, il Discorso secondo musicale (Venezia, G. Vincenti, 1608).
Il 26 novembre 1601 morì Pallavicino, mentre il duca era di nuovo in Ungheria. Monteverdi gli scrisse chiedendo di subentrargli, e ottenne l’incarico: nel frontespizio del Quarto libro (1603) si fregerà per la prima volta del titolo di «maestro della musica del ser.mo sig.r duca di Mantova» (incassare il relativo stipendio sarà però spesso un problema, a causa delle inadempienze del tesoriere Ottavio Benintendi). Di lì a poco (10 aprile 1602) ottenne la cittadinanza mantovana e traslocò nei pressi del Palazzo Ducale. Intanto la sua famiglia s’ingrandiva: il 20 febbraio 1603 veniva battezzata Leonora Camilla e il 10 maggio 1604 Massimiliano Giacomo.
Nonostante i molti impegni a corte, specie nel campo festivo e spettacolare (tornei, balletti, intermezzi di commedie, concertazioni vocali e strumentali), in questi anni Monteverdi portò alla pubblicazione altre due raccolte: il citato Quarto libro de madrigali a cinque voci offerto agli Intrepidi ferraresi e Il quinto libro de madrigali a cinque voci (Venezia, R. Amadino, 1605) che il 30 luglio 1605 dedicò al duca Vincenzo. Quanto a scelte poetiche, essi si fondavano sul Tasso della Conquistata e soprattutto sul Guarini del Pastor fido, del quale Monteverdi pose in musica episodi in cui poteva dispiegarsi il patetismo della sua scrittura. In particolare, nel Quinto libro fece la sua comparsa il basso continuo, obbligatorio per gli ultimi 6 brani.
Il nome di Monteverdi è anche legato al debutto a Mantova del teatro tutto cantato. Il 24 febbraio 1607 in una sala di Palazzo Ducale andò in scena L’Orfeo, «favola » pastorale con versi di Alessandro Striggio jr., promosso dall’Accademia degli Invaghiti, replicato il 1° marzo (la partitura sarà stampata nel 1609: R. Amadino, Venezia).
Ricreazioni di corte meno fastose sono evocate dagli Scherzi musicali a tre voci (Venezia, R. Amadino, 1607). Su testi anacreontici perlopiù di Gabriello Chiabrera, la loro pubblicazione fu curata da Giulio Cesare Monteverdi, che il 21 luglio 1607 li dedicò al principe Francesco Gonzaga. Il 10 agosto 1607 Monteverdi fu ammesso nell’Accademia degli Animosi di Cremona e subito dopo si recò a Milano, forse per seguire una ristampa di suoi madrigali cui erano stati applicati nuovi testi spirituali (Musica tolta dai madrigali di Claudio Monteverdi, Milano, A. Tradate, 1607).
Iniziò allora un periodo molto travagliato. Il 10 novembre 1607 morì la moglie, ma il compositore dovette immediatamente immergersi nei preparativi per le grandi feste che fra maggio e giugno del 1608 avrebbero accompagnato le nozze di Francesco Gonzaga con Margherita di Savoia. Fu infatti richiesto di impegnative musiche teatrali e della loro complessa concertazione. Nacquero così la «tragedia» cantata L’Arianna (28 maggio 1608: è sopravvissuto il solo Lamento, pubblicato a Venezia, Gardano-Magni, 1623) e Il ballo delle Ingrate (4 giugno: pubblicato nel Libro ottavo, 1638) entrambi su testi di Ottavio Rinuccini, ma anche il prologo in musica (testo di Chiabrera) per la commedia di Guarini L’idropica (2 giugno; musica perduta). Tra l’altro, durante le prove dell’Arianna morì (9 marzo 1609) la protagonista designata, la giovane romana Caterina Martinelli detta la Romanina, poi efficacemente sostituita dall’attrice-cantante Virginia Ramponi Andreini (in arte Florinda).
Terminati questi grandiosi impegni, Monteverdi – assai provato – trascorse le ferie estive a Cremona. Il lavoro intensissimo, unito certo alle luttuose vicende domestiche, alle scarse soddisfazioni economiche e all’irregolarità dei pagamenti delle sue spettanze, spinsero il compositore a far scrivere al padre suppliche ai duchi (9 e 27 novembre 1608) per chiedere il permesso di licenziarsi, o quanto meno una riduzione dei suoi impegni. Non ottenne né l’uno né l’altra: richiamato a Mantova, ebbe solo la soddisfazione di vedersi riconosciuto dal duca un vitalizio (19 gennaio 1609), che però avrà costantemente difficoltà a farsi liquidare.
Le concrete testimonianze del servizio mantovano di Monteverdi erano state fin lì quasi esclusivamente in campo profano. L’estate 1610 lo vide invece cimentarsi nella composizione di un’impegnativa messa ad imitationem del mottetto di Nicolas Gombert In illo tempore, che costituisce la prima parte della raccolta Sanctissimae Virgini Missa senis vocibus ... ac Vespere pluribus decantandae (Venezia, apud R. Amadinum, 1610), dedicata il 1° ottobre 1610 a papa Paolo V. Può darsi che Monteverdi, il quale andò personalmente a Roma per fare omaggio al pontefice di quella stampa, sperasse di favorire sue nuove prospettive professionali; è però certo che cercasse di ottenere per suo figlio Francesco un posto gratuito nel Seminario Romano. Non centrò nessuno dei due obiettivi. A Roma Monteverdi entrò in contatto col circolo del musicofilo cardinal Montalto e poté ascoltare cantatrici quali Ippolita Recupito e Francesca Caccini, da lui confrontate con la celeberrima Adriana Basile che era a Mantova dal giugno 1610, protagonista dei concerti che il venerdì sera si tenevano nella Sala degli Specchi della reggia gonzaghesca.
Il 18 febbraio 1612 morì il duca Vincenzo (rimasto vedovo l’8 dicembre 1611). Gli succedeva il figlio Francesco, già dedicatario degli Scherzi musicali e dell’edizione dell’Orfeo. Nel quadro di una politica di liberalizzazione economica, ma anche di contenimento delle spese di corte, molto personale fu licenziato, e tra esso anche Monteverdi e suo fratello Giulio Cesare (domenica 29 luglio 1612).
Il duca regnò poco. Il 22 dicembre 1612 morì di vaiolo per un’epidemia che aveva poco prima ucciso anche il principe ereditario, di soli 2 anni. Assunse così la reggenza il cardinale Ferdinando Gonzaga, che coltivava personalmente poesia e musica. Intanto Monteverdi, ritornato a Cremona, aveva avuto contatti con l’ambiente milanese (settembre 1612). Quasi un anno dopo venne sollecitato dai procuratori di S. Marco a Venezia a concorrere al posto di maestro di cappella in quella basilica, rimasto vacante in seguito alla morte di Giulio Cesare Martinengo. A metà agosto 1613 Monteverdi andò a sostenere la prova, consistente nel concertare una messa in S. Marco (19 agosto). Dopo l’esecuzione, giudicata unanimemente positiva, si procedette all’assunzione. Da Cremona, dov’era rientrato, ai primi di ottobre 1613 Monteverdi si trasferì definitivamente a Venezia col figlio Francesco e la serva. La carrozza postale da Mantova ad Este, su cui viaggiavano, fu assalita da tre briganti poco fuori Sanguinetto, nei pressi di Verona: Monteverdi fu derubato di denari e di effetti personali.
Posto a capo degli apparati musicali della Serenissima (la basilica di S. Marco era la chiesa annessa al palazzo del doge, non il duomo cittadino), Monteverdi ebbe le solite incombenze che toccavano a un maestro di cappella, enfatizzate però dal rango dell’istituzione. Suoi compiti erano mantenere l’efficienza e la qualità degli organici (una trentina di cantori, una mezza dozzina di strumentisti: in particolari solennità venivano ingaggiati musicisti ulteriori), sovrintendere a nuove assunzioni, provvedere al repertorio sia con acquisizioni bibliografiche sia fornendo in prima persona nuova musica, preparare e dirigere le esibizioni pubbliche. In circostanze particolari (visite di Stato, o comunque occasioni ufficiali) i suoi servizi erano richiesti anche al di fuori della basilica, e non necessariamente in ambito sacro. Quanto gli amministratori apprezzassero il lavoro del nuovo assunto lo dimostrano le elargizioni straordinarie (20 aprile 1615) e l’aumento di stipendio concessogli (24 agosto 1616).
In parallelo Monteverdi proseguì la pubblicazione di opere sue, portando anzitutto alla stampa una raccolta che era in preparazione fin dagli ultimi anni mantovani: Il sesto libro de madrigali a cinque voci (Venezia, R. Amadino, 1614), nel cui frontespizio per la prima volta appariva come «maestro di cappella della Sereniss. Sig. di Venetia in S. Marco». Uscito eccezionalmente senza dedicatario alcuno, il volume segna anche l’attenzione di Monteverdi per la lirica di Giovan Battista Marino. Al suo interno spiccano due grandi cicli patetici: la versione polifonizzata del Lamento d’Arianna, e la Sestina di Scipione Agnelli in compianto della Romanina, che ad Arianna avrebbe dovuto dar voce nel 1608.
Oltre a tutto ciò, Monteverdi poté svolgere anche un’intensa attività professionale grazie ai rapporti intrattenuti con corti straniere e con istituzioni e privati cittadini di Venezia.
Con Mantova sono documentati contatti dalla fine del 1615. Nel gennaio 1616 Ferdinando Gonzaga, lasciata la porpora cardinalizia, divenne ufficialmente duca di Mantova: nella prospettiva dei festeggiamenti connessi, Monteverdi fu richiesto di musica (inviò il ballo Tirsi e Clori, poi edito nel Concerto del 1619). Ciò si ripeté l’anno dopo in vista delle feste per le nozze del nuovo duca con Caterina de’ Medici (marzo 1617): Monteverdi contribuì col prologo cantato per la sacra rappresentazione La Maddalena di Giovan Battista Andreini. Nel carnevale 1620 alla corte mantovana furono allestiti La favola di Andromeda del conte Ercole Marliani (o Marigliani), musicata da Monteverdi (e altri? musica perduta), e un balletto tutto di Monteverdi (versi di Striggio) sugli amori di Apollo (perduto anch’esso).
Nel frattempo, il 13 dicembre 1619 Monteverdi dedicò alla duchessa Caterina de’ Medici il Concerto. Settimo libro de madrigali a 1-4 e 6 voci con altri generi de canti (Venezia, Gardano-Magni, 1619), ricevendone una collana.
Il volume è assai eterogeneo, con molti madrigali concertati (specie a 2 voci e continuo), ma anche arie, canzonette, composizioni «in stile rappresentativo» e il citato ballo Tirsi e Clori. Vi figurano principalmente testi di Marino, Chiabrera, Claudio Achillini, ma anche Bernardo Tasso.
Tutti questi contatti con Mantova si tradussero a un certo punto nella proposta di un ritorno di Monteverdi, essendo morto nel giugno 1619 il maestro di corte Sante Orlandi. Le voci insospettirono i procuratori di S. Marco, e Monteverdi ritenne opportuno annullare un progettato viaggio a Mantova, declinando nel contempo l’offerta (13 marzo 1620).
Sul versante privato, il 10 novembre 1617 a Cremona era morto suo padre. Nel febbraio 1619 aveva accompagnato il figlio Francesco a Bologna, dove avrebbe continuato gli studi giuridici iniziati a Padova (e lì da lui trascurati causa frequentazioni musicali). La presenza del fratello Massimiliano al Seminario di Bologna in questi anni e il suo successivo avviamento ai corsi di medicina sono documentati nell’epistolario (nel 1622, grazie alla raccomandazione della duchessa di Mantova, entrerà al Collegio Montalto di Bologna: Lettere, cit.). Nell’estate 1620 Francesco lasciò però gli studi ed entrò nell’ordine dei Carmelitani Scalzi (nel luglio 1623 sarà poi assunto come tenore nella cappella marciana). Monteverdi dovette tornare perciò a Bologna: la locale Accademia dei Floridi colse l’occasione per onorarlo in una propria seduta (13 giugno 1620). In settembre 1620 Monteverdi fu personalmente a Mantova: tra l’altro, a Goito fu ricevuto dal duca, cui chiese d’intervenire per l’erogazione della pensione.
Quanto all’attività libero-professionale a Venezia, extra S. Marco, sappiamo di servizi musicali per un Bembo (carnevale 1620), per il primicerio marciano Marc’Antonio Corner (quaresima 1620), per la comunità lombarda (4 novembre 1620: per s. Carlo, forse ai Frari), per quella fiorentina (25 maggio 1621: in Ss. Giovanni e Paolo messa in suffragio del defunto granduca Cosimo II de’ Medici), per la Scuola di S. Rocco (per esempio, il 15-16 agosto 1623). Una festa privata a palazzo Mocenigo nel carnevale 1624 vide nascere il Combattimento di Tancredi e Clorinda «in genere rappresentativo», che conosciamo nella versione uscita a stampa nel 1638 (nel Libro ottavo).
Proseguivano poi i rapporti di Monteverdi con le corti estere. A Mantova mandò nel carnevale 1621 musiche per una mascherata, e poi quelle per gli intermezzi (perduti) della commedia Le tre costanti di Marliani, rappresentata il 18 gennaio 1622 per le nozze di Eleonora Gonzaga (sorella del duca) con l’imperatore Ferdinando II. Da Modena, nuova capitale del ducato estense dal 1598, Cesare d’Este gli commissionò madrigali e canzonette (1623 e 1624): insistenti problemi di salute, manifestatisi nell’inverno 1622-1623, impedirono però a Monteverdi di far fronte per intero a tali richieste.
Nell’estate 1624 il compositore fu chiamato in giudizio a Mantova (15 luglio) per una questione concernente l’eredità del suocero, morto il 24 aprile 1624. La causa si risolse a suo sfavore a fine 1625.
Nel marzo 1625 Monteverdi servì di musica il principe ereditario di Polonia Ladislao Sigismondo, di passaggio a Venezia: in seguito (tra il 1625 e il 1638) gli verrà addirittura proposto di passare al suo servizio, ma Monteverdi rifiutò adducendo motivi d’età. Il 15 giugno 1626 fu incaricato degli apparati sonori del banchetto ufficiale che il doge tradizionalmente offriva al Senato e agli ambasciatori stranieri.
Al 1625-26 risalgono lettere che documentano competenze e pratiche alchemiche di Monteverdi. In quest’epoca il compositore fu onorato dell’aggregazione alla bolognese Accademia dei Filomusi.
Intanto suo figlio Massimilano, laureato in medicina a Bologna nel 1626, aveva iniziato l’attività professionale a Mantova. Nel 1627 incappò in problemi con l’Inquisizione per aver letto un libro proibito: incarcerato per alcuni mesi, fu rilasciato dietro cauzione fornita dal padre, che si era procurato la somma necessaria vendendo la collana donatagli dall’imperatrice.
La morte del duca Ferdinando Gonzaga (29 ottobre 1626) aveva portato sul trono mantovano il fratello Vincenzo II, per il cui insediamento venne commissionata a Monteverdi La finta pazza Licori, favola pastorale di Giulio Strozzi, incompiuta (testo e musica perduti). In seguito, anzi, gli fu proposto ancora una volta di tornare al servizio dei Gonzaga, ma il 10 novembre 1627 tramite Striggio il compositore declinò l’offerta, chiedendo però contestualmente al duca di appoggiare presso la sorella imperatrice una sua richiesta volta a ottenere un canonicato a Cremona.
Sappiamo che il 15 luglio 1627 Monteverdi fu impegnato dapprima nella residenza dell’ambasciatore inglese a Venezia (di cui era ospite il principe di Neuburg), e poi al Carmine per i primi vespri della Madonna del Carmelo: nel settembre del 1627 era a Chioggia per servire il podestà Foscarini.
Ben più impegnative commissioni gli erano frattanto giunte da Parma, dove si progettavano le feste per il matrimonio di Odoardo Farnese e Margherita de’ Medici. Monteverdi, che soggiornò più volte a Parma (da ottobre a inizio dicembre 1627, gennaio-febbraio e prima metà di dicembre 1628) avendo a collaboratore Antonio Goretti, ebbe il compito di musicare gli intermezzi stesi da Claudio Achillini e Ascanio Pio di Savoia per L’Aminta del Tasso (13 dicembre 1628: uno dei quali rappresentato anche nel carnevale 1628 come mascherata), e il torneo Mercurio e Marte di Achillini (21 dicembre 1628) che inaugurò il nuovo teatro ducale (composizioni tutte perdute). In ambito veneziano, fu commissionata a Monteverdi la musica (perduta) per I cinque fratelli, sonetti di Giulio Strozzi eseguiti all’Arsenale di Venezia durante un banchetto (8 maggio 1628) in onore del granduca Ferdinando II e del principe Giovanni Carlo de’ Medici. Nel febbraio 1630 lo troviamo impegnato presso le monache di S. Lorenzo, e in aprile la sua Proserpina rapita (testo di Strozzi) fu rappresentata a palazzo Mocenigo per le nozze fra Giustiniana Mocenigo e Lorenzo Giustiniani (rimane un solo brano, incluso nel postum Libro nono).
L’estate 1630 vide dapprima Mantova saccheggiata dai lanzichenecchi imperiali (18-21 luglio), poi il divampare della peste a Venezia, che fece circa 50.000 morti. In quelle luttuose circostanze Monteverdi fece voto di andare in pellegrinaggio a Loreto, se si fosse salvato. Non siamo sicuri che la promessa sia stata mantenuta: certo è, invece, che fu di Monteverdi la musica per la messa di ringraziamento per la fine dell’epidemia (21 novembre 1631).
Il 9 marzo 1631, a ogni buon conto, il compositore prese gli ordini minori, e il 16 aprile 1632 fu ordinato sacerdote. L’anno successivo ottenne finalmente l’agognato beneficio cremonese, grazie all’imperatore Ferdinando II cui aveva mandato musica: nell’incertezza della pensione mantovana a suo tempo decretatagli, quel vitalizio dava ben altra sicurezza.
Il suo nuovo stato non fece però cessare la consueta attività ‘libero-professionale’. Il 3-4 aprile 1635 diresse ai Frari le musiche per S. Carlo, per conto della comunità lombarda, mentre probabilmente nel 1636 mandò alla corte imperiale di Vienna Il combattimento e un ballo, entrambi poi pubblicati nel Libro ottavo. Per analoghe occasioni profane, anche se meno prestigiose, proseguirono anche le commissioni locali. Nel 1637-38 Monteverdi forniva musica all’Accademia degli Unisoni, fondata e animata da Strozzi (con sua figlia adottiva Barbara, cantante e compositrice).
Quanto all’attività editoriale, era dal 1619 che non appariva alle stampe un corposo e articolato titolo monteverdiano. Negli anni Venti e Trenta c’era stato, sì, uno stillicidio quasi costante di contributi a miscellanee altrui, punteggiato al massimo da qualche piccola antologia specializzata (le monodie del 1623) o da sillogi di generi minori: come gli Scherzi musicali curati da Bartolomeo Magni e il 20 giugno 1632 da lui dedicati a Pietro Capello (Venezia, Gardano- Magni, 1632). Su di un panorama così sguarnito svettano ancor più le due monumentali raccolte degli anni seguenti, veri e propri testamenti di Monteverdi nei campi della musica profana e sacra.
Il 1° settembre 1638 il compositore firmò la dedica all’imperatore Ferdinando III dei Madrigali guerrieri et amorosi ... Libro ottavo (Venezia, A. Vincenti, 1638).
Distribuiti nelle due sezioni individuate dal titolo, vi figurano madrigali per grandi e piccoli organici, concertati con strumenti anche acuti, e brani «in genere rappresentativo»: in pratica, una summa delle esperienze più o meno recenti in questo ambito. Il volume aveva una prefazione in cui Monteverdi dava un saggio delle ambizioni teoriche e intellettuali destinate al trattato cui attendeva dal 1605 (e che forse mai compì).
Il 1° maggio 1641 fu la volta dell’imperatrice Eleonora Gonzaga – consorte di Ferdinando III – dedicataria della Selva morale e spirituale (Venezia, B. Magni 1640: forse more veneto, per 1641). Si trattava di una collezione soprattutto di musica liturgica (messa e vespri), completata da qualche composizione spirituale (anche su rime del Petrarca), che implicitamente compendiava ed esemplificava la pluridecennale attività di Monteverdi maestro di una cappella ecclesiastica.
Nel frattempo il compositore era stato di nuovo coinvolto nell’esperienza del teatro per musica: fenomeno recente per Venezia (ma non per lui), ove si radicò dal 1637 con regolarità e immediato successo. Quel tipo di spettacolo s’inserì proficuamente entro il ben collaudato sistema cittadino di sale aperte a un pubblico pagante. Una di queste, il S. Moisè, nel carnevale 1640 si convertì all’opera in musica proprio con un allestimento della vecchia Arianna di Monteverdi. Il compositore fu poi ingaggiato dal teatro Ss. Giovanni e Paolo per creare ex novo titoli da mettere in cartellone: in quello stesso carnevale 1640 Il ritorno di Ulisse in patria di Giacomo Badoer, in quello successivo (1641) Le nozze d’Enea in Lavinia, recentemente attribuita a Michelangelo Torcigliani (musica perduta), nel 1643 La coronatione di Poppea di Gian Francesco Busenello (l’attribuzione a Monteverdi è da taluno considerata incerta: è comunque probabile che le due partiture giunteci, entrambe successive al 1643, contengano anche musica altrui).
Nel frattempo era stato eseguito a Piacenza (7 febbraio 1641) il balletto Vittoria d’Amore, su versi di Bernardo Morando (perduto).
Dalla primavera 1643 Monteverdi si allontanò da Venezia per un periodo di sei mesi durante il quale fu in Lombardia e a Mantova, ancora una volta per la questione della pensione. Ritornato in Laguna, il 29 novembre 1643 morì dopo 9 giorni di malattia, e venne sepolto ai Frari nella cappella dei lombardi dedicata a s. Ambrogio.
L’effigie di Monteverdi ci è nota grazie al ritratto (a Vienna: una replica, ridotta, a Innsbruck) di Bernardo Strozzi databile tra il 1632 e il 1643. Da qui fu tratta l’incisione che apre il volume commemorativo a cura di Giovan Battista Marinoni, Fiori poetici (Venezia, F. Miloco 1644).
Negli anni seguenti uscirono postume due raccolte di Monteverdi curate e stampate da Alessandro Vincenti: la Messa ... et salmi (Venezia, 1650) dedicati a padre Odoardo Baranardi; i Madrigali e canzonette ... Libro nono (Venezia, 1651) offerti a Gerolamo Orologio. In quello stesso 1651 La coronatione di Poppea veniva posta nuovamente in scena a Napoli, dai Febiarmonici (si ha vaga notizia di un allestimento anche a Parigi, nel 1647).
Monteverdi, per quanto in origine violista, non ha lasciato musica strumentale che non fosse legata al canto: anzi, si può dire che non scrisse quasi nota che non fosse associata alla parola, e che ne fu efficacemente – oltre che lucidamente – consapevole al punto da suggerire il celebre motto «l’oratione sia padrona de l’armonia non serva». Ciò si tradusse anzitutto in una mirabile collana di raccolte madrigalistiche, ancora ai suoi tempi il genere profano per eccellenza. I libri dal I al IV prevedono unicamente le 5 voci e le scelte stilistiche tipiche del madrigale tardo-cinquecentesco; il V e il VI, a quel complesso sottopongono un fondamento strumentale (basso continuo) che consente di sperimentare assottigliamenti dell’organico vocale in direzione solistica; il VII e l’VIII presentano interi madrigali a 1 e 2 voci su basso continuo, nonché con strumenti di tessitura acuta intercalati alle voci o uniti ad esse.
Analogamente, anche i generi contenuti in tali libri risentono delle evoluzioni in atto. Fino al VI essi esibiscono del tutto omogeneamente sempre e solo madrigali. In seguito, li affiancano anche «altri generi de canti», per usare la dizione che compare nel VII: arie e canzonette, brani in stile rappresentativo, balletti.
La stessa scelta dei poeti da musicare rimanda in generale a demarcazioni simili. Se nei libri centrali si mette via via più a fuoco la lirica amorosa intensamente patetica di Tasso e soprattutto di Guarini (magari di provenienza anche teatrale, come nel caso dei molti estratti dalla tragicommedia Il pastor fido), già dal VI si mescoleranno la tendenza a una certa qual severità di tono (il ritorno a Petrarca, o al Tasso epico) con lo stile brillante, le sperimentazioni metrico-formali e i recuperi classicheggianti degli esponenti delle tendenze contemporanee (Rinuccini, Marino, Achillini, Chiabrera, Fulvio Testi, Strozzi).
Nella prima fase della sua carriera di madrigalista, Monteverdi perseguì appunto un ideale espressivo che si era via via venuto delineando nel secondo Cinquecento in autori come Adrian Willaert, Cipriano de Rore, Giaches de Wert, Marcantonio Ingegneri, Luca Marenzio, Carlo Gesualdo. Esso si rivelava nella preferenza accordata a testi poetici con forte carica patetica ed erotica, cui corrispondeva una veste musicale di pari intensità, ottenuta accentuando quanto il tradizionale linguaggio polifonico poteva consentire: dissonanze, profili melodici e ritmici particolari, sovrapposizioni testuali, combinazioni vocali significative, contrasti, stravaganze modali. Tali componenti si erano però fin lì mantenute all’interno delle procedure regolarmente consolidate, stabilendo con esse nuovi equilibri. Forzandoli assai più sensibilmente, in molti madrigali dei libri IV e V Monteverdi spinse tali sorvegliate trasgressioni ben al di là dei margini consueti, facendo gridare all’arbitrio e all’ignoranza delle regole. Nel corso della querelle sulla «moderna musica» con Artusi, Monteverdi delineò un’efficace chiave interpretativa delle vicende musicali del secolo appena trascorso: dapprima una fase («prima pratica ») in cui «l’armonia», cioè la musica, era stata «signora del orazione», cioè del testo poetico, e un’altra («seconda pratica») in cui il rapporto si era ribaltato, ponendo «per signora del armonia [...] l’orazione». In realtà dietro tali formulazioni si palesavano orientamenti culturali e di gusto assai diversi. Da un lato stava Monteverdi, che componeva madrigali per ambienti di corte – quella gonzaghesca di Mantova – raffinati, esclusivi, e di ostentato snobismo; dall’altro Artusi, religioso di un convento bolognese, incarnazione di uno standard contrappuntistico medio, sensibile alle esigenze espressive ma non alle stravaganze che contraddicevano le buone regole praticate dai grandi compositori del passato.
Dal VII libro contenuti e scrittura tradizionali deflagrano definitivamente, lasciando spazio a una molteplicità che, nell’VIII, si coniuga con la monumentalità e con la consapevolezza di una proposta anche teorica: far rinascere atteggiamenti «etici» che già erano stati propri della musica nell’antichità classica, mirando a riproporne l’efficacia espressiva. Che proprio alla soglia degli anni Quaranta, e dunque in un’epoca di pieno declino di un genere ormai considerato troppo artificioso e difficile, Monteverdi desse alle stampe la sua più impegnativa e voluminosa raccolta di madrigali, per di più dedicata a un patrono dell’importanza dell’imperatore Ferdinando III d’Asburgo, testimonia in quale considerazione il compositore ancora tenesse tale genere, e soprattutto ciò che esso ai suoi occhi significava: l’autentico connubio, al più alto livello inventivo, di parola poetica e di musica.
La produzione liturgica di Monteverdi è contenuta fra i due variegati pilastri della raccolta del 1610 e della Selva (1640 o 1641). Accanto alla piena e inventiva padronanza delle tecniche tradizionali della scrittura a cappella e dell’elaborazione di materiali prius facti (la messa del 1610), nei Vespri Monteverdi fa sfoggio di tutte le più lussureggianti risorse del moderno stile concertato: uso del basso continuo, varie combinazioni di voci e strumenti, tutti gli stili del canto solistico, contrapposizioni soli-tutti, figurazioni melodico-ritmiche non tradizionali, senza tuttavia escludere l’impiego del cantus firmus (per es. nei due Magnificat). Nella più tarda Selva, gli elementi propri dello stile moderno non sono più limitati alla sola liturgia vespertina, ma appaiono trasferiti anche nel canone della messa, in un fecondo connubio con la polifonia tradizionale, e addirittura con soluzioni tecniche e stilistiche proprie dei generi profani.
Avventurandosi da pioniere nel nuovo campo del teatro tutto cantato, Monteverdi adottò lo stile di canto recitativo messo a punto dai fiorentini: declamatorio per le sezioni in versi sciolti prevalenti nel testo letterario, a mo’ di aria per quelle diversamente strutturate dal punto di vista metrico (a parte stavano i cori, che mantenevano la scrittura polifonica). Con quanta maggior efficacia tutto ciò fosse da lui realizzato, lo dice la multiforme varietà e intensità comunicativa della partitura dell’Orfeo, insieme con l’immediato successo dell’unica pagina dell’Arianna finora nota, vale a dire il lamento della protagonista abbandonata dall’amato Teseo. Esso non solo commosse fino alle lacrime gli astanti, ma conobbe una grande diffusione sia a stampa sia manoscritta, divenendo simbolo della forza espressiva del teatro musicale ai suoi albori.
Rispetto ai soggetti solo pastorali o mitologici delle prime opere in musica, il teatro d’opera veneziano attinse i propri eroi dalla letteratura (i poemi epici di Omero e Virgilio) ed eccezionalmente dalla storiografia (Tacito). La maggiore disinvoltura nella scelta dei soggetti e nel loro trattamento, quanto a stile e organizzazione metrica, fornì a Monteverdi l’occasione di realizzare una teatralità ben più vivace: più dialogata e agìta in scena, con personaggi e scenette comiche, arie meno limitate, stile recitativo movimentato da soluzioni che frequentemente volgevano il declamato in arioso. Nell’attenzione alle singole potenzialità della parola (ora in versione scenica), si palesava la costante milizia del madrigalista che aveva proclamato l’orazione signora dell’armonia.
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