MELDOLESI, Claudio
Nacque a Roma il 30 maggio 1942, quarto figlio di Gastone, medico radiologo e docente universitario di origine veneta, e di Anna Marocco, senese, pittrice e cantante lirica dilettante. Nel 1955 si trasferì con la famiglia a Catania, ma dopo la maturità classica tornò a Roma per iscriversi alla Facoltà di Lettere e filosofia e all’Accademia nazionale d’arte drammatica "Silvio d'Amico".
Nel 1963 si diplomò come attore e fondò con Carlo Cecchi, Gian Maria Volonté e altri il Teatro Scelta, attivo a Roma e in centro Italia fino al 1968. Per questo gruppo fu organizzatore (Piperno 2014), curò nel 1964 con Cecchi la regia de I fucili di Madre Carrar di Bertolt Brecht e scrisse con Cecchi e Franco Prattico Storia di Sesto e Quaderno n. 1: Resistenza. Come attore partecipò anche a due film d’arte di Luca Maria Patella (Terra animata e Chi mi pettina?, entrambi del 1967).
Nel 1966 si laureò in storia del teatro con il francesista Giovanni Macchia.
I documenti raccolti per la tesi lo portarono ad attribuire Garrick ou les acteurs anglais (trattato sulla recitazione noto per aver ispirato il Paradoxe sur le comédien di Denis Diderot), ritenuto di Antonio Sticotti, a suo fratello Michel, dimostrando la scarsa attendibilità di una tradizione critica che aveva confuso le biografie di un’intera famiglia di attori. Scrisse allora che era necessario «superare le approssimazioni che comporta [...] una visione corale e macroscopica» imparando a dare fiducia agli attori studiati (Comici italiani nei teatri d’Europa del Settecento. La Famiglia Sticotti, Università degli Studi di Roma, Facoltà di Lettere e filosofia, a.a. 1964/1965, p. 1); nel libro in cui pochi anni dopo rielaborò questo studio spiegò inoltre che «rinunciando alle coordinate dei manuali» e osservando gli avvenimenti centrali del Settecento teatrale francese («la definizione del pensiero teatrale illuminista», «l’esaurimento dell’antica scuola italiana» e la nascita dei teatri nazionali) dalla prospettiva di una periferica famiglia di comici e della «funzione sociale» del loro teatro si poteva tornare a vederli nella loro natura di «frutto di battaglie culturali e politiche» (Gli Sticotti. Comici italiani nei teatri d’Europa del Settecento (Roma 1969, p. 8).
Questa ricerca rappresentò l'inizio di un percorso di storico che sempre di più si sarebbe orientato alla creazione di una «filosofia del teatro» indipendente dagli altri campi del sapere (Guarino, 2010, p. 59); un approccio che, coniugandosi con l’intervento di pochi altri intellettuali del settore, avrebbe comportato una svolta radicale negli studi teatrali italiani.
Nel 1969 sposò Laura Mariani, da cui ebbe due figlie, Anna e Alessandra. Una prima figlia, Miriam, era nata nel 1965 da Cristina Gigante, sua compagna d’Accademia.
Dopo aver preso parte al movimento romano del ’68, fino al 1975 Meldolesi svolse un lungo periodo di attivismo con un gruppo marxista-leninista soprattutto a Milano, dove entrò in contatto con l’ambiente della comune teatrale di Dario Fo, Franca Rame e Pietro Sciotto. In questi anni lavorò alla redazione del settimanale Vento Rosso e realizzò ‘incursioni teatrali’ con Renato Carpentieri e cantastoriate sulla vita di Gramsci con Ciccio Busacca. Fu poi tra i fondatori a Spoleto del Comitato d’inchiesta sulla morte di Antonio Martinelli nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino. In questo periodo scrisse Profilo di Gustavo Modena. Teatro e rivoluzione democratica (Roma 1971), Spettacolo feudale in Sicilia (Palermo 1973) e Rapporto con la Lip. 82 operai raccontano (Milano 1974), ricostruzione a caldo dell’esperienza di autogestione operaia di una fabbrica di orologi francese.
Pubblicò poi Su un comico in rivolta. Dario Fo il bufalo il bambino (Roma 1978), dove mostrò la complessità dell’arte di un attore in grado di inventare un «teatro in sintonia con i grandi problemi che vivono nelle persone degli spettatori» (ivi, p. 187). Nel 1980 realizzò a Genova con Alessandro d’Amico la mostra Immagini del Teatro italiano 1945-1955. 300 fotografie di Gastone Bosio.
Per Claudio Meldolesi la tensione etico-politica degli anni Settanta fu un costante riferimento. Attenzione alla pluralità delle esperienze sceniche e ribaltamento delle gerarchie dei saperi, interesse per gli sconfinamenti, i momenti liminari e di passaggio restarono alla base di una storiografia capace di ridiscutere i suoi stessi risultati senza fossilizzarsi sulle posizioni acquisite. Un atteggiamento riconducibile all’insegnamento di Ludovico Zorzi (cfr. Il primo Zorzi e la “nuova storia” del teatro, in Quaderni di teatro, VII (1985), 27, pp. 41-48, qui pp. 46-47), e incentrato sulla considerazione che «Il pensiero del teatro è per sua natura ideologico, e, pertanto, ha bisogno di ampi movimenti di idee, di continue riformulazioni: correnti d'aria che impediscano all'ambiente di bloccarsi nella perfezione della camera chiusa, dove gli oggetti sono a posto ma il tempo ha cancellato le tracce della vita» (Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano, Roma 1987, pp. 139-140). Contro la tendenza a omettere la complessità del reale per comodità di sistematizzazioni Meldolesi fu in grado di costruire «terminologie che mutavano il modo di vedere gli argomenti trattati» (Molinari, 2010, p. 51), «nozioni che non si proponevano di ordinare, ma, all’opposto, rendevano dicibili il disordine, l’imprevedibilità» come sostenuto da Guccini (cit. in ibid.). Per evidenziare l’autonomo spazio d’invenzione dei grandi attori parlò di sfasatura tra recitazione e testo drammatico e convenzioni teatrali (Profilo di Gustavo Modena, cit., p. 179); per indicare ogni attore-creatore di vita scenica estese il senso della categoria di attore-artista usata da Mario Apollonio per Eleonora Duse (cfr. Questo strano teatro creato dagli attori artisti nel tempo della regia, che ha rigenerato l’avanguardia storica insieme al popolare. Come un editoriale, in Teatro e Storia, 1996, 18, pp. 9-23). Per descrivere la perdita di consapevolezza di mestiere negli interpreti italiani del dopoguerra scrisse di attori funzionali alla pratica registica e di antilingua recitativa, mutuando il secondo termine dalle riflessioni di Italo Calvino su «l’insieme dei linguaggi simulati con cui è amministrata la nostra società e da cui le parole e le azioni concrete son messe al bando per sospetta turpitudine» (Gesti parole e cose dialettali. Su Eduardo Cecchi e il teatro della differenza, in Quaderni di Teatro, 1981, 12, pp. 132-146, ora in Pensare l’attore, a cura di L. Mariani - M. Schino - F. Taviani, Roma 2013, pp. 189-203, qui p. 189). Parlando di invenzioni sprecate mostrò l’importanza delle potenzialità teatrali rimaste inespresse, visibili a patto di ricostruire la storia nel suo farsi, e non dalla prospettiva delle «certezze vincenti». Sostenne infatti che «a teatro le periferie autentiche sono il vero centro» (Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Firenze 1984, pp. 374 n., 446), e per questo rivalutò esperienze come il percorso intellettuale e registico di Vito Pandolfi o il teatro di massa di Marcello Sartarelli. Di quest’ultimo, teatro di giovani, ex partigiani e lavoratori, scrisse che poteva essere considerato «una delle meraviglie del Novecento che si sono perse», una realizzazione di quell’«utopia concreta» di Ernst Bloch (Luciano Leonesi. Maestro di Teatro a Bologna, con Piero Ferrarini, Roma 2008, p. 12) che spesso indicò come orizzonte della creazione teatrale.
Lui stesso notò che era stata l’esperienza delle avanguardie degli anni Settanta ad affinare il suo sguardo, mostrando la possibilità di un «politeismo» teatrale al di fuori dello sterile «monolitismo» della norma italiana, insegnando a vedere in maniera diversa anche il passato, a riconoscere che «il teatro è la compresenza di vari tipi di teatri, ognuno dei quali tipi poggia su una mentalità diversa» (Unificazione e politeismo, in Le forze in campo. Per una nuova cartografia del teatro, Atti del convegno Modena 24-25 maggio 1986, Modena 1987, pp. 33-40, ora in Teatro e Storia, 2011, 3, pp. 156-164, qui pp. 159-162).
Nel decennio Ottanta Meldolesi continuò a rivendicare l'importanza e centralità della figura dell’attore, attraverso un'adozione critica e originale delle prospettive della nuova storiografia e delle scienze umane. In L’attore, le sue fonti e i suoi orizzonti (in Teatro e Storia, 1989, 7, pp. 199-214, ora in Pensare l’attore, cit., pp. 79-90) propose di considerare la storia dell’attore come una disciplina in via di fondazione, in contraddizione di fatto con le passate ricostruzioni. Queste, condotte «dall’esterno e dall’alto», avevano «mutilato la vicenda attorica» incorniciandola in «valutazioni etico-artistiche estranee» alla sua cultura specifica (ivi, pp. 80-82). L’attore era stato giudicato secondo il punto di vista del testo e della società degli spettatori: bisognava invece riconoscerlo come «un artista a sé stante», in rapporto con «l’arte degli attori che lo [avevano] preceduto». Per questo, rinunciando alle vaste distese ordinatrici, sarebbe stato necessario ripartire «da detriti e frammenti» (come lo storico generale), da una base materiale ampia e disorganica da riscoprire al di là della precedente «selezione storiografica» (ivi, pp. 82-83). La nuova storia dell’attore doveva fondarsi sul «rispetto» per il proprio oggetto di studio, e poteva avvalersi di «un interesse sperimentale nei confronti degli attori viventi», custodi della «memoria delle memorie» di un’arte che vive nel ripetersi di precisi condizionamenti (ivi, pp. 87, 85).
L’indifferenza della storia agli attori da un lato, e l’esigenza di un confronto degli studi teatrali con i metodi d’analisi della storia generale dall’altro, furono al centro di uno dei suoi saggi più noti: La microsocietà degli attori. Una storia di tre secoli e più (in Inchiesta, n. 63-64, gennaio-giugno 1984, pp. 102-111, poi in Teatro e Storia, 2010, 31, pp. 85-109 e in Pensare l’attore, cit., pp. 57-77). Qui, dichiarando il proprio debito con la scuola francese delle Annales, e in particolare con Fernand Braudel per aver rinnovato il metodo d’indagine attraverso una storia intesa come «somma delle storie particolari», ne individuava i limiti nell’aver escluso l’attore dal catalogo delle sue fonti, e nella tendenza a parlare del teatro dalla prospettiva dei consumatori, guardando al solo prodotto-spettacolo (ivi, pp. 58, 63). Occorreva invece considerare l’esistenza della «microsocietà degli attori» (categoria indicata agli studi da Ferdinando Taviani) e delle sue regole interne, e imparare a osservare, oltre al tempo breve dello spettacolo, le singole biografie e il tempo lungo della cultura attorica.
Nel 1974 iniziò a insegnare Storia del teatro all’Università di Pescara, ma è nell’ateneo di Bologna, dove fu docente dal 1980 e dal 1984 professore ordinario di Drammaturgia e poi di Storia dell’attore, che si svolse la parte fondamentale della sua carriera accademica.
Nel dipartimento di Musica e spettacolo svolse un ruolo centrale: nel 1983 creò e diresse il primo Dottorato di ricerca, nel 1988 il Centro di promozione teatrale La Soffitta, tra il 2002 e il 2006 il Premio DAMS; diresse inoltre l’IMET (Istituto di Studi Musicali e Teatrali, poi CIMES, Centro di musica e spettacolo) e il corso di laurea. Nello stesso tempo collaborò con numerosi artisti. Nel 1983 promosse con Carpentieri una ricerca sperimentale sulla recitazione dei grandi attori ottocenteschi: un laboratorio che coinvolse storici e attori e che si concluse con lo spettacolo Negli spazi oltre la luna. Stramberie di Gustavo Modena (riconoscimento speciale Premi IDI-Saint Vincent 1983). Molti anni prima Meldolesi aveva descritto Modena come «il padre della riforma teatrale dell’Ottocento» per la sua azione «sul piano del significato» dell’arte recitativa, mettendo l’accento sul rapporto da lui creato tra la scena e la rivoluzione negli anni delle lotte risorgimentali (Profilo di Gustavo Modena, cit., pp. 13-14 e 46). L’esperienza compiuta lo spinse ora a riformulare le sue tesi storiografiche «in termini empirici, dal basso», e a cercare il senso dell’opera di Modena nel teatro prima che nella politica, nel suo uso dello «spettacolo [in sé] come forza di resistenza» (Modena rivisto, in Quaderni di Teatro, 1983, 21-22, pp. 16-27, ora in Id., Pensare l’attore, cit., pp. 105-117, qui pp. 112-113, 116).
Nel 1984 pubblicò Fondamenti del teatro italiano (cit.), dove sulla base di una vasta indagine documentaria, alternando sintesi teoriche e primi piani biografici, ricostruì i percorsi personali e di generazione che tra la fine del fascismo e il dopoguerra avevano portato al consolidarsi del sistema teatrale nazionale. Dimostrò così la complessità e pluralità di esperienze che aveva preceduto l’affermarsi di un’idea di regia e recitazione univoca, che aveva condizionato anche il modo in cui gli storici della scena avevano guardato al passato.
Meldolesi lavorò con impegno militante per il riconoscimento dell'autonomia metodologica e del valore interpretativo degli studi teatrali. Nel 1986 con Fabrizio Cruciani, Franco Ruffini, Ferdinando Taviani e altri promosse la creazione di Teatro e Storia, rivista che nel primo editoriale si presentò come «un laboratorio di […] ricerche storiografiche e grimaldelli teorici per fare esistere il teatro e il suo studio, non in riferimento alle culture, ma quale parte integrante e necessaria di esse» (Casini Ropa 2004, p. 46). Meldolesi vi pubblicò un saggio che a partire da specifiche esperienze di sociologi e teatranti rifletteva sulla «vocazione del teatro all’altro da sé, […] ai rapporti liminari» (Ai confini del teatro e della sociologia, in Teatro e Storia, 1986, 1, pp. 77-151, qui p. 78), rivendicando la necessità di un suo confronto alla pari con le altre scienze umane.
Nel 1987 uscì Fra Totò e Gadda (cit.), prosecuzione della riflessione dei Fondamenti tramite saggi dedicati a chi in ambiti diversi – Mario Apollonio per la storia dell’attore, Carlo Emilio Gadda per la letteratura, Giorgio Strehler per la regia, Totò per la recitazione, Pirandello per il dramma ed Eduardo De Filippo per la scrittura e l’uso del dialetto – aveva proposto teorie e pratiche teatrali in contraddizione con la «metafisica dei valori» (Meldolesi, 1987, p. 77) del sistema culturale affermatosi negli anni Cinquanta, e che per questo erano state scoraggiate o erano rimaste inosservate. Se nei Fondamenti si raccontava il movimento creativo e multiforme precedente la fase in cui le «regolamentazioni statali» erano diventate più importanti della «logica del lavoro di scena», qui si mostrò l’esistenza negata di altri teatri possibili (come quello che sarebbe potuto nascere dalla «rigenerazione attorica e dialettale del teatro nazionale» indicata da De Filippo, ibid., pp. 11, 69), che a volte erano rimasti nascosti anche sotto la superficie di pratiche al centro della norma. Era il caso del teatro d’avanguardia del giovane Strehler, da lui stesso rinnegato, ma che a uno sguardo attento sarebbe apparso non del tutto riassorbito nei suoi spettacoli «maturi»: parlandone Meldolesi chiarì la propria esigenza di procedere attraverso studi angolati, che ripartendo dalla concretezza dei documenti illuminassero aspetti lasciati in ombra dalle immagini divenute canoniche (ibid., p. 140).
In modo simile Brecht regista. Memorie dal Berliner Ensemble (Bologna 1989, con Laura Olivi) intese «rifarsi ai tratti più incoerenti dell’ultimo Brecht, e non ai punti luce della conoscenza acquisita». Meldolesi mostrò che «mentre il successo internazionale tendeva a fare di lui un simulacro» Brecht superava le sue stesse teorizzazioni attraverso l’esperienza della pratica teatrale, e valorizzò il suo ruolo rispetto al «continuum della regia» ponendo al centro un aspetto del suo lavoro generalmente sottovalutato perché «studiato all’ombra del teorico e del drammaturgo» (ibid., pp. 7-8, 19-20).
Nel 1991 pubblicò con Ferdinando Taviani Teatro e spettacolo nel primo Ottocento (Roma-Bari, vincitore nel 1993 del Premio Pirandello - Palermo), dove valutò gli eventi tradizionalmente posti a vertice della cultura scenica dell’Ottocento – il diffondersi dei teatri all’italiana e l’arte delle compagnie sovvenzionate dai governi – considerando il loro effettivo peso rispetto alla vita teatrale e all’arte dei singoli interpreti del tempo (Meldolesi, 1991, pp. 102-108, 184-191), e osservò come il venir meno dell’iniziativa dei Principi – generalmente ritenuto fattore di regresso – avesse contribuito alla nuova consapevolezza di mestiere alla base dell’arte grande attorica (ibid., pp. 231, 242). Nell’ultimo capitolo spiegò che dinamiche simili avevano favorito in Sicilia la nascita di un importante teatro anomalo come l’Opera dei pupi (ibid., p. 306).
Dedicò molta attenzione a pratiche abitualmente trascurate dalla storiografia. In Immaginazione contro emarginazione. L’esperienza italiana del teatro in carcere (in Teatro e Storia, 1994, 16, pp. 41-68) rivendicò l’importanza della «scena reclusa» invitando a considerarla un teatro di genere specifico, caratterizzato dalla particolarità dei suoi interpreti. Rapportando la loro condizione allo stato di «costringimento» che il regista e pedagogo Jacques Copeau aveva mostrato come necessario alla creazione teatrale, aprì poi la possibilità di dare la stessa considerazione analitica del professionismo a ogni realtà scenica in grado di favorire l’espressione di chi normalmente è «sottratto alla vista» perché portatore di handicap, malato, detenuto o immigrato (Un teatro del «costringimento», in Catarsi. Teatri delle diversità, 1996, 1, pp. 1-2, ora in Teatro e Storia, 2012, 33, pp. 357-359, qui pp. 358-359), esperienze per cui coniò il termine di «teatro di interazioni sociali» (Valenti, 2014, p. 29).
L’esigenza di avvicinare gli studi teatrali alla riflessione sulle diverse forme del teatro contemporaneo motivò nel 1995 la fondazione con Gerardo Guccini della rivista Prove di drammaturgia (Guccini, 2014, p. 3). In quello stesso anno venne nominato socio dell’Accademia dei Lincei nell’ambito della Critica dell’arte e della poesia, classe di Scienze morali, storiche e filologiche. Era la prima volta che uno storico del teatro veniva ammesso alla prestigiosa istituzione, segno del percorso da lui stesso compiuto per il riconoscimento del valore culturale della propria disciplina.
Meldolesi aveva saputo derivare più ampie prospettive d’analisi per gli studi teatrali dal confronto con sociologia, psicologia, letteratura e arte visiva, riconoscendo nello stesso tempo al teatro il diritto di analizzare ambiti di discipline che ne avevano spesso attraversato i confini. In Per una storia del teatro nel romanzo in Europa. Gli apici del ‘Pasticciaccio’ e del ‘Castello’ (in La letteratura in scena. Gadda e il teatro, a cura di A. Andreini - R. Tessari, Roma 2001, pp. 11-60, ora in Pensare l’attore, cit., pp. 151-187, qui p. 178) mostrò ad esempio la possibilità di strutturare complesse analisi testuali secondo il «senno della scena», minando alla base il pregiudizio della sua subalternità nei confronti della letteratura. Un approccio ermeneutico legato tanto al magistero di Giovanni Macchia quanto all’esperienza pratica dell’antropologia teatrale di Eugenio Barba, che portò a guardare al teatro come autonoma «arte conoscitiva» (Con e dopo Beckett: sulla forma sospesa del dramma, la filosofia teatrale e gli attori autori italiani, in Teatro e Storia 2006, 27, pp. 269-291, qui p. 290), e da cui Meldolesi derivò l’idea che la storiografia teatrale, per poter «spaziare teoricamente», deve nascere «a contatto diretto delle esperienze sceniche» (Ai confini del teatro e delle sociologia, cit., p. 131).
Oltre che a esperienze ritenute minoritarie, come le avanguardie degli anni Settanta, fu attento a riscoprire l’importanza di fasi tradizionalmente considerate di crisi e di passaggio rispetto a epoche di più compiuta realizzazione (come nei suoi studi sul teatro italo-francese del Settecento, secolo di decadenza della Commedia dell’arte, da lui ridefinito insieme all’Ottocento «età delle invenzioni» - cfr. Nota bibliografica, in Pensare l’attore, cit., pp. 205-208, qui p. 206), e a descrivere gli aspetti meno visibili della vita teatrale. Con Renata M. Molinari ne Il lavoro del dramaturg. Nel teatro dei testi con le ruote (Milano 2007) analizzò una pratica sottile e di difficile definizione come quella della dramaturgie, riprendendo il termine dal tedesco per indicare ogni esperienza di scrittura finalizzata a «riattivare» un testo (Meldolesi-Molinari, 2007, p. 24) a contatto della sperimentazione scenica di attori e registi. Nelle conclusioni del volume, esito di quindici anni di riflessione su una «fenomenologia che a occhio nudo rimane invisibile negli spettacoli, quasi sempre», raccomandò agli studenti di «non sottovalutare le prassi intermediarie dell’arte scenica» e nello stesso tempo di leggere il libro «problematicamente», mettendosi in grado «di arricchirlo di proseguimenti personali, magari suffragati da esperienze dirette» (ivi, pp. 12, 161). Un segno dell’attitudine pedagogica di Meldolesi, che al di fuori delle sue pagine agì anche come suscitatore di esperienze sceniche e di consapevolezza di mestiere (cfr. Molinari, 2010, pp. 52-53).
Il rapporto con le pratiche teatrali presenti, utile per avvicinare alla comprensione del passato, fu coltivato da Meldolesi lungo tutto l’arco del proprio percorso di storico. Spesso indicò come guida al suo pensiero il lavoro di Leo de Berardinis (cfr. I nostri attori ottocenteschi come persone simili a persone. In particolare su rapporti fra quelli «romantici negativi», «grandi» e «artisti», in Teatro e Storia, 2005, 26, pp. 427-437) e promosse lauree honoris causa per lui, per Eugenio Barba e per Jerzy Grotowski. La sua attenzione al valore conoscitivo della pratica scenica fu tale che un’opera come Fondamenti del teatro italiano, enorme corpus di dati e sforzo interpretativo sulle origini e i percorsi della regia italiana, poté chiudersi con una verifica delle ultime ipotesi dello studioso alla luce del parere di mestiere di Carlo Cecchi, ex compagno d’Accademia e attore-artista del presente.
Negli ultimi anni raccolse dati per uno studio complessivo sugli attori e curò due libri su teatri a lui vicini: Luciano Leonesi (cit., con Piero Ferrarini) e Tragedia e fiaba. Il teatro delle Laminarie 1996-2008 (con Bruna Gambarelli, Corazzano, Pisa, 2008).
Morì a Bologna il 12 settembre del 2009, per una malattia che dal 1990 lo aveva costretto a numerose debilitanti operazioni.
Nel 2010 uscì La terza vita di Leo. Gli ultimi vent’anni del teatro di Leo de Berardinis a Bologna (Corrazzano, Pisa), curato da Meldolesi ma concluso da Angela Malfitano e Laura Mariani.
Una bibliografia degli scritti di Claudio Meldolesi editi fino al 2013, curata da Laura Mariani, si trova sul sito di Teatro e Storia alla pagina http://www.teatroestoria.it/materiali/materiali-bibl-Meldolesi.pdf (20 giugno 2018). Ai testi lì indicati si devono aggiungere il libro d’arte Usa e Getta, con disegni di Francesco Mariani, Bologna 1997; Dilatazioni e anse teatrali nell’opera di Giovanni Macchia, in Atti accademici. Rendiconti Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, s. IX, vol. XIII, Roma 2002, pp. 309-313 e Riflessioni sul Teatro politico e il lavoro di Eugenio Barba, materiali dall’archivio privato Claudio Meldolesi pubblicati in Teatro e Storia, 2014, 35, pp. 228-233. Una bibliografia ragionata conclude infine Pensare l’attore, cit., pp. 205-208.
Materiali relativi a Claudio Meldolesi si trovano a Bologna nel suo Archivio privato e a Roma negli archivi dell’Accademia d’arte drammatica "Silvio d'Amico" (Centro studi Casa Macchia) e dell’Accademia nazionale dei Lincei.
Al suo percorso intellettuale e umano è dedicato un numero di Prove di drammaturgia, XIX (2014), 1-2, monografico: Per Claudio Meldolesi, a cura di L. Mariani e G. Guccini, con numerosi contributi di studiosi e artisti tra cui i citati: C. Valenti, «Teatri di interazione sociale»: fondamenti di una definizione euristica, pp. 29-32; E. Casini Ropa, «Teatro e Storia», pp. 45-47; G. Piperno, Come nasce Teatro Scelta, pp. 39-40.
Su di lui si vedano inoltre: G. Calligaro, Dams di Bologna: lo scandalo del “fare”. Incontro con C. M., in Hystrio, 2005, 2, pp. 18-20; G. Scabia, Dedicato a C. M., in E. Pozzi - V. Minoia, Recito, dunque so(g)no. Teatro e carcere 2009, Urbino 2009, p. 15; F. Lupetti, C. M. un ragazzo che tentò l’assalto al cielo, in La Repubblica, ed. di Bologna, 16 settembre 2009; P. Giacché, C. M., in Lo Straniero, 2009, 113, pp. 135-136; F. Taviani, Attor fino. 11 appunti in prima persona sul futuro di un’arte in via d’estinzione, in Teatro e Storia, XXIV (2010), 2, pp. 61-83, in partic. Il «sintomo Meldolesi», pp. 64-67; G. Guccini, Maestro non solo di teatro, in Ordine dei giornalisti Emilia-Romagna, XXIV (2010), 76, pp. 59-60; R. Guarino, L’isola di C. M.. Sulla «microsocietà» e una storia a parte che diventa necessaria, in Teatro e Storia, 2010, 2, pp. 43-60; R. M. Molinari, Oltre il dramma. L’attore nello spazio del dramaturg, in Prove di drammaturgia, XVI (2010), 1, pp. 51-57; L. Mariani, «Andare contro per strappare il bello». Studi di C.M. su Gustavo Modena, in Ripensare Gustavo Modena. Attore e capocomico, riformatore del teatro fra arte e politica, a cura di A. Petrini, Roma 2012, pp. 239-256; S. Casi, I «teatri veri» d’interazioni sociali. Postfazione agli scritti di Meldolesi, in Teatro e Storia, 2012, 33, pp. 375-378; R. Ferraresi, Unificazione e politeismo dei teatri. Con C. M., in Doppiozero, 20 marzo 2013; F. Taviani, Il gesto del riguardo, in Pensare l’attore, cit., pp. XI-XXII; Dante a Dakar. C. M. legge il Canto XXVI dell’Inferno, 2015, http://www.ateatro.it/webzine/2015/05/24/dante-a-dakar/, (20 giugno 2018); C. Schepis, Ipotesi inedite di Claudio Meldolesi intorno alla pre-regia dell’attore-artista, in Mantichora, 2016, n. 6, http://ww2.unime.it/mantichora/wp-content/uploads/2017/03/Ipotesi-inedite-di-Claudio-Meldolesi-intorno-alla-pre-regia-dellattore-artista.pdf (20 giugno 2018).